sabato 28 febbraio 2015

Mr. Ciak: Cake, Una folle passione, Noi e la Giulia, Big Bad Wolves, Men Women and Children, Love is strange

Claire ha i nervi a pezzi e un corpo che l'ha tradita. Non sa che fare delle sue gambe piene di ferri; non sa che fare della sua vita, adesso che nella sua casa c'è una porta chiusa e tutti sono fuggiti via. Claire sogna tutte le notti di uccidersi e quando si sveglia vuole che accanto a lei ci sia un'altra persona: un amante occasionale, un'anima solitaria. A volte c'è il giardiniere, altre il fantasma di una trentenne che si è buttata da un cavalcavia. Tra sonno e veglia, Cake è una torta di compleanno per esprimere l'ultimo desiderio. Una commedia drammatica che mostra un cinema del dolore sempre più evoluto. La tragedia della protagonista è risaputa, ma coinvolge, grazie ai toni adorabilmente arcigni, alle visioni e ai lunghi viaggi oltre la dogana, a un personaggio bisbetico che sembra sbucato dalla sit-com Mom a cui vuoi bene proprio perché vorrebbe farsi detestare. Quello di Barz è un film che nel suo desiderio di tranquillità scorre e funziona, pur non restando a lungo in testa, se non fosse per le singole prove attoriali. Lo spiritello malinconico della lanciatissima Anna Kendrick; il vedovo di un Sam Worthington che nella lingua madre, risulta più convincente del solito; soprattutto, la quarantenne graffiante di una Jennifer Aniston sorprendente. Forse non da Oscar come molti hanno giurato, ma abile nel ricordarci che la stella di Friends, quand'è lontana dalla commedia, ha tanto da mostrare. E non aspettatevela stravolta, imbruttita: struccata, con qualche chilo in più, è radiosa come sempre, grazie a uno script un po' blando, ma che non indugia nel patetismo; grazie a una macchina da presa che di rado ci mostra gli sfregi della sua musa. Un altruistico percorso di guarigione in cui si mettono al vaglio tutti i modi possibile per farla finita, prima di accorgersi che intanto stiamo già meglio. Ma il treno ha fischiato. Le gambe ci sosterranno per il tratto più importante, quando vorremo allontanarci dal nostro scomodo letto tra le rotaie? (6,5)

Jennifer Lawrence e Bradley Cooper, stavolta strizzati in abiti demodè, hanno girato tre film insieme. Sono bravi; si portano fortuna. Ma le loro storie non filano sempre liscie, come nel caso di Leo e Kate, ma guai a paragonarmeli: in Una folle passione non si sa bene cosa capiti loro, ma comunque non se la passano benissimo. Lui le ha promesso fedeltà eterna; ma cosa succede però quando una donna perde ciò che la rende donna e sulla coppia cala la gelosia? I critici già mi avevano messo in guarda, e non posso che concordare coi loro giudizi su questo melodrammone evitabile, scolastico, che non ha un vero perché. Guardarlo non è una sofferenza, ma dove lo colloco? Non di certo nella filmografia di Susanne Bier, che lascia la sua Danimarca per un'avventura che non soddisfa. Dal suo nuovo viaggio a Hollywood ci manda una suggestiva cartolina, con un pensierino elementare scritto dietro. Una trama con svolte quasi illogiche, una storia di pazzia che lascia indifferenti. La Lawrence, eroina tragica, è intensa, ma ricicla qualche scenata della Tiffany che le valse un'immeritata statuetta e con il caschetto biondo perde fascino. La macchina da presa la adora e i primi piani dei suoi occhi disperati ipnotizzano. Bradley Cooper è credibile, ma lontano dal suo meglio. Pensavo di guardare l'ultimo film della Bier e mi sono imbattuto in un incrocio discutibile tra Il segreto e una fiction Rai. Ho sentito per tutto il tempo la mancanza di Beppe Fiorello e di Vittoria Puccini: dove stanno quando servono? (4,5)

Non mi è mai capitato di essere in attesa di un film italiano. Però con Noi e la Giulia è stato diverso. Avevo letto il romanzo e sapevo che la storia di Bartolomei meritava: l'avventura dei quattro perdenti che sfidavano la camorra sarebbe diventata una semplice barzelletta? Il sospetto che potessero semplificare tutto, in una trasposizione frettolosa e godereccia, in realtà non lo nutrivo: mi fidavo di Leo e sapevo che, sveglio, non avrebbe toppato. Ho notato che la sua regia si è affinata e che circondato da un manipolo nutrito di attori – sempre i soliti, ma sono convincenti: accontentiamoci – fa bene. Mette a punto qualche modifica, guida l'intera squadra con polso fermo e interpreta il coatto Fausto. A volte, sono vere e proprie migliorie quelle che apporta: il personaggio di Elisa, interpretato da Anna Foglieta, mi è piaciuto di più. Perché la Foglietta ha portato il suo pancione sul set e ha caratterizzato a modo suo un comprimario irrisolto; misterioso, forse, come sono le donne. Divertenti Fresi e Amendola; magnifico Buccirosso; buon padrone di casa un Luca Argentero mai impreparato. Il mio punto di vista, quindi, è quello del lettore che ha trovato una prima parte fedelissima e una seconda alleggerita dei temi che mi avevano scosso: eppure si riempiono così due ore, senza annoiare, ma senza esplorare gli aspetti più necessari. Qualcosa di importante manca, ma non avrei saputo come farle spazio, senza appesantire una produzione che risente di qualche dilungaggine. Si ride con leggerezza, ma è onnipresente il retrogusto amaro; e si pensa, soprattutto, in quell'epilogo emozionante e aperto, che è esattamente come lo avevo immaginato. Insomma: la mia preoccupazione è che questa commedia come tante e come nessuna – il "canovaccio" esisteva ben prima dei più spigliati Smetto quando voglio e Song'e Napule - in realtà, possa risultare più ricca e raffinata del previsto: la ciccia al fuoco è tanta, e sarà carne, pesce o nessuna delle due? (6,5)

Nonostante il sangue non mi turbi, cresciuto da un papà che ama Fulci, Argento e gli horror vintage, la visione di Big Bad Wolves l'avevo rimanda più volte. Mi fidavo di Tarantino, ma piuttosto non mi fidavo dei miei nervi. Se da una parte l'idea della vendetta non mi rovina il sonno, dall'altra il tema della pedofilia sì che dà gli incubi. Brutto pensarci, brutto assistervi, soprattutto se quel crimine contro l'umanità è mostrato nella maniera più cruda: certe cose non andrebbero indagate a fondo, tanto mostruose sono. Conoscendo la trama, temevo che quello che avrei visto mi avrebbe roso il fegato. Un genitore e un poliziotto che, in un sottoscala, in piena campagna, torturano un maestro di scuola. Un sospettato omicida di bambine. La partentesi delle torture occupa in realtà solo l'ultima mezz'ora. Per il resto, è una sorpresa. A parte che l'inizio, memorabile, ha del miracoloso, ma poi – tra il ritrovamento del cadavere straziato e il rapimento del presunto killer – si snoda un'indagine sui generis, grottesca e arguta, che ha l'umorismo assurdo degli horror importati dalla sperduta Nuova Zelanda o da quella Spagna famosa giusto per la sangria, unito al ritmo ballerino dei polizieschi d'oltralpe. Tutt'altro che oscuro e ermetico, Big Bad Wolves ha una fotografia precisa e scenette indecorosamente comiche, insieme a una violenza copiosa ma intelligente e a una resa che fa invidia agli americani. Internazionale ma con un'impronta solo sua, la commedia istraeliana nero petrolio che ha conquistato anche Hollywood si sottrae alle definizioni nette, coinvolge e sconvolge, sapendo saggiamente quando fermarsi, per lasciare che i tagli del montaggio glissino sull'abuso e per far sì che una fantasia assassina galoppi per conto proprio, nei terreni dell'anarchia, fantasticando su delitti e castighi. Spietato, cattivo, spassoso, è una punizione perfetta che lascia lo spettatore soddisfatto e gli aguzzini della pellicola in preda al dubbio. (7,5)

Jason Reitman ci aveva abituati a commedie col dente avvelenato, ma già col malinconico Labor Day sembra volere indagare nuove tematiche. Ha una bella sensibilità, davvero. Perciò mi fa strano sapere che il suo Men Women & Children, non totalmente riuscito, ma notevole, arriverà da noi in homevideo. Passando inosservato. Dura due ore che scorrono senza mai pesarti addosso e l'abilità di coinvolgerti con storie che si incontrano senza mai incastrarsi. Il poster originale rende bene l'idea. Un marito e una moglie che colmano con amanti occasionali la loro infelicità; un adolescente che, abituato agli standard del porno, non riesce ad eccitarsi con una ragazza vera; la quindicenne che non mangia, quella che mangia gli uomini, la mamma che è andata via e quella che mette online le foto sexy della figlia. Poi, al centro, nell'indifferenza della folla, due ragazzini che si abbracciano: un rapporto finalmente sano che l'anonimato di internet tenterà di corrompere. Sono gli adulti che sbagliano e i ragazzi a darci lezioni di vita; quelle con il famoso istinto materno ad abbandonarti e i giochi di ruolo ad alienarti. Riflessioni sparse, dunque: le solite ma necessarie al solito; un'ottima squadra di protagonisti, tra i quali spiccanno un serio Adam Sandler; Judy Greer e Jennifer Garner, nei panni di due donne agli antipodi ma spregevoli ugualmente; l'intenso Ansel Elgort di Colpa delle stelle, che vi avevo detto nel mio "classificone" di fine anno fosse da tenere d'occhio e così è. I personaggi non riescono ad andare oltre il proprio naso o al di là dello schermo dei loro cellulari: chiusi in una solitudine che gela, camminano nello spazio di mondo che riescono ad illuminare – non con i lanternini di Pirandello, ma con le applicazioni per iPhone – inconsapevoli che, accanto, ci sia l'altro: alle prese con la stessa ricerca, a un passo da loro. Se non piace del tutto, forse è perché qualche tematica risulta superflua e perché qualcosa di assai simile ci era stato raccontato in Disconnect, ma colori più accesi e vicende comuni giovano, insieme a un cast ricco e a una voce narrante aliena che ci parla dallo spazio di noi, delle nostre mancanze, delle nostre dipendenze irrinunciabili d'affetto. (7)

Ben e George vivono insieme da quarant'anni e si amano come due ragazzini. Anziani, decidono di convolare a nozze. Ricorderanno quello come uno dei giorni più felici: i parenti, il fiore all'occhiello, un candore che stringe il cuore, soprattutto in un Paese – il nostro – che va allo sfascio, ma il pensiero continua a ruotare intorno al superfluo. Ci si domanda a voce alta cosa rende una famiglia normale e cosa no, quando invece la risposta è semplice. Al contario di ciò che dice il titolo, l'amore tra questi uomini in là con gli anni è tante cose, ma strano mai. Uno è un artista, l'altro è insegnante di musica in una scuola cattolica: la religione si mette in mezzo e anche se tutti, alunni e docenti, conoscono da sempre il legame tra Ben e George, quel matrimonio sfacciato appare troppo. Licenziato su due piedi, a sessant'anni si deve reinventare dal niente; rinunciare alla casa condivisa col marito e andare in cerca di un piano b. Nel frattempo, ospiti chi da un nipote e chi da una giovane coppia, i due vivono con malinconia e sofferenza i giorni della loro lontananza. Ira Sachs crea una perla che diverte e intenerisce; mai superflua. Una metropoli dai tratti alleniani, coi taxi gialli e la vita sbirciata da un tetto, fa da pulsante sfondo a una luna di miele mancata, in cui il miracolo dell'accettazione dell'altro si unisce a una scrittura dalla grazia emozionante che mette sul piatto della bilancia una famiglia tradizionale e una un po' meno, per vedere che quei cuori e quelle storie hanno lo stesso peso specifico. Il pianoforte ci accompagna per tutto il tempo, insieme all'idea che una coppia omosessuale che convive con la crisi economica, i cuori fragili e i corpi cascanti, raramente – mi viene in mente giusto Vicious – ci è stata mostrata, come se costanza e fedeltà non fossero contemplate in un rapporto forse diverso, ma profondissimo. Applausi per John Lithgow e Alfred Molina, familiari come due nonnini; puliti e dolci come Neil Patrick Harris e consorte che, sul Red Carpet, si sistemavano il papillon a vicenda. E l'amore è pure questo. E per fortuna ci viene mostrato come si deve, con garbo, leggerezza e un finale un po' poetico. (7)

mercoledì 25 febbraio 2015

Recensione a basso costo: Nessuno si salva da solo, di Margaret Mazzantini

Piove a dirotto, domani ho l'esame; dovrei ripassare ma non mi va. Così, nonostante la mia reclusione forzata, mi sono connesso cinque minuti e ho deciso di parlarvi dell'ultimo romanzo che ho letto. Ho bisogno di un vostro in bocca al lupo, ché è quasi fatta, dai. Buon mercoledì, o quel che ne resta.
E questo era stato il vero sbaglio. Chiudersi in un solo amore e chiedergli tutto. Semplicemente perché di tutto hai bisogno

Titolo: Nessuno si salva da solo
Autrice: Margaret Mazzantini
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 188
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Delia e Gaetano erano una coppia. Ora non lo sono più, e stasera devono imparare a non esserlo. Si ritrovano a cena, in un ristorante all'aperto, poco tempo dopo aver rotto quella che fu una famiglia. Lui si è trasferito in un residence, lei è rimasta nella casa con i piccoli Cosmo e Nico. La passione dell'inizio e la rabbia della fine sono ancora pericolosamente vicine. Delia e Gaetano sono ancora giovani, più di trenta, meno di quaranta, un'età in cui si può ricominciare. Sognano la pace ma sono tentati dall'altro e dall'altrove. Ma dove hanno sbagliato? Non lo sanno. Tre anni dopo "Venuto al mondo", Margaret Mazzantini torna con un romanzo che è l'autobiografia sentimentale di una generazione. La storia di cenere e fiamme di una coppia contemporanea con le sue trasgressioni ordinarie, con la sua quotidianità avventurosa. Una coppia come tante, come noi. Contemporaneamente a noi.
                                              La recensione
Lo scorso anno ho scoperto che Margaret Mazzantini è la sola che può rattristarmi quando e come dice lei. Glielo consento. Quando cerco una storia aspra, una narrazione che se ne infischia delle censure e dei limiti, uno stile che resta appiccicato addosso, è lei che leggo. Mi sfrego il pollice sul palmo, contro le dita, e la Mazzantini è esattamente lì che sta. Così la spiego a chi non la conosce. Lei la leggi, la sfiori e, anche quando il romanzo finisce, volente o nolente, non ti abbandona. Come una traccia di farina, dopo aver impastato il pane; come colla sotto le unghie, che si annerisce col tempo e va via quando vuole; quando ormai ti eri scordato che – sgradevole e appiccicosa – era lì, magari, dal pomeriggio prima. E la Mazzantini sgradevole può risultarlo spesso, è vero, qui come poche volte in precedenza, ma per quel che vale incolla: te alle pagine, i suoi personaggi alle due estremità di un tavolino, gli occhi nel profondo dell'anima... ed è una morsa che ti strapazza e ti lascia confuso. L'ho conosciuta un'estate, all'epoca del ginnasio, con Non ti muovere e non l'avevo capita. Ero troppo piccolo io. Ma, in realtà, con questo Nessuno si salva da solo è accaduto qualcosa di simile, e adesso sono grande, quindi che scusa ho? Non ho vissuto abbastanza, immagino. I pensieri sconci di Timoteo mi turberebbero ancora, ho realizzato, come adesso mi hanno turbato le confessioni maleducate di due vecchi sposi in un ristorante del centro. Lui con le maniche della camicia arrotolate, lei con un tubino nero. L'estate che si avvicina, i bambini lasciati dalla nonna, ritrovarsi soli dopo tanto. A quattr'occhi, dopo una separazione voluta da entrambi, ma tremenda; sofferta. Tragico dire al mondo di non avercela fatta, di aver perso. Ci vuole coraggio, ci vuole l'orgoglio calciato da un lato per sventolare bandiera bianca e ammettere a denti stretti che l'amore è perduto, insieme alla gioventù. E si pensa ai bambini, che avranno una mamma e un papà che non dormono più nello stesso letto e che non si lavano più i denti allo stesso lavandino, guardandosi nello specchio di sempre; si pensa agli errori grandi e a quelli minuscoli, alle tavolette lasciate abbassate e a un piatto non lavato, a un'amante passeggera e a un lavoro di cui portavamo a casa la noia e lo stress, il peggio. Si ripensa però anche agli inizi. All'amore, quando era così forte, così vorace e presente, che non li faceva dormire, se non l'uno addosso all'altra. Appiccicati e bagnati. Cosa mi hai fatto? Cosa ci siamo fatti? In poche pagine, ma poche pagine con un peso che si avverte e affonda, l'autrice rievoca gli inizi, la fine e quello che c'è nel mezzo, in una specie di strano dialogo fatto di poche battute e ricordi profondi che vincono, alla fine, sul chiacchiericcio. Seziona i baci, esplora i giochi delle lingue sui denti corrosi dai succhi maligni dell'anoressia e ne riporta l'umidità, la saliva, l'odore. Smantella le armature, i filtri e va al nocciolo più segreto e velenoso: i pensieri di una cattiva madre, la felicità spiata alle altre famiglie, le tentazioni di un padre che cova un risentimento che potrebbe massacrarli. Delia e Gaetano sono le coppie testarde e in frantumi che escono dai tribunali, dagli studi degli avvocati, insoddisfatte del verdetto finale. Vogliono avere ragioni entrambi, vogliono lottare, vogliono volersi. Ogni occasione è buona per bruciarsi a un gioco che non diverte più, perché non si può confidare nemmeno nei benefici del sesso riparatore, ma la fiamma è viva, scalda ancora, e calorosi e sanguigni chissà che non possano ritornare sui loro passi, solo per litigare a sangue e fare di nuovo pace. 
In una storia tutt'altro che facile – e quando mai sono facili, le sue storie? - la Mazzantini a modo suo, con la poesia e il turpiloquio, con le metafore audaci e i “cazzi” disegnati nei bagni e nei metrò, mostra quant'è banale una storia d'amore che fallisce e quant'è facile, invece, come cantava Samuele Bersani, dirsi in faccia “sei solo la copia di mille riassunti”. Ci ha fatto commuovere con la guerra e con la forza delle madri, ci ha spezzati con un amore omosessuale lungo una vita intera e, adesso, abile nel rendere difficile ciò che sembra tanto immediato, ma “troppo cerebrale per capire che si può stare bene anche senza complicare il pane”, gira intorno, come un cane affamato, a un matrimonio messo in tiro per una sera sola, che puzza come una carogna sotto il sole. Altrove ho parecchio apprezzato i giri di parole, i voli pindarici, i capelli spaccati in quattro o in cento parti, ma questa volta non del tutto, non abbastanza. Mi sono distratto un po'. E a capire li ho capiti i personaggi, ma mi hanno messo angoscia, lì dove gli altri avevano lasciato altro, il meglio di sé, al loro passaggio. Più romanzati, più costruittivi, più buoni. Qui ci sono le macerie e la forza di metterle insieme non sapevo sinceramente dove trovarla. Salvarli, e a me chi mi salva? Con Gillian Flynn l'amore era bugiardo, ma qui è fin troppo vero, sconvolge per quello, e tra Gae e Delia non ci sono parole trattenute, taciute, anche se per il bene comune e per il cuore – che non vede, e perciò non sta male – quattro bugie a cena hanno il potere miracoloso del conforto. Una Mazzantini in pillole – ma niente imbrogli, sono pillole grosse e amare che vanno giù senza un sorso d'acqua – per lettori con il pelo sullo stomaco, più maturi di me, che comunque mi ostino ancora a vederci il buono nei cuori della gente e i lieto fine nell'ultima riga di un matrimonio al capolinea. Per chi sa certe cose e certe scrittrici. Per tutti gli altri, direttamente il film di prossima uscita, frutto di una coppia consolidata e invidiata che per fortuna non scoppia. Sento che, perso nelle immagini, potrei metabolizzarlo meglio e inquadrarlo in una cornice fatta con le mani, con gli indici e i pollici; afferrarlo, per dire di averlo posseduto, anche se non è del tutto vero, ma vabbè.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – Giudizi Universali 


Leggera leggera si bagna la fiamma, rimane la cera.
E non ci sei più.”

lunedì 23 febbraio 2015

Recensione: In silenzio nel tuo cuore, di Alice Ranucci

Buon lunedì, amici! Oggi vi parlo di un libro che ho letto nel weekend e che, da pochissimo, è uscito in libreria, facendo parlare di sé soprattutto per la giovane età dell'autrice. Purtroppo mi tocca dirvi che non mi è piaciuto, e il purtroppo è esclusivamente per la brava Alice, che un giudizio così “severo” non lo meritava. Spero di essere stato delicato il giusto, perciò, ma soprattutto onesto. Ciò che segue è quello che vi avrei detto se non avessi saputo nulla dell'identità della Ranucci e dei suoi diciassette anni. Con sincerità.
Le stelle si intravedono appena, sperdute tra le luci abbaglianti della città. Ecco io assomiglio a loro. A quelle stelle. Confuse, smarrite, irrintracciabili in un cielo occupato da luci taroccate. Come me.

Titolo: In silenzio nel tuo cuore
Autrice: Alice Ranucci
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 166
Prezzo: € 13,90
Sinossi: Claudia ha sedici anni e ha imparato che il liceo è una giungla in cui vince il più forte, in cui non c'è spazio per la sua timidezza e insicurezza. Un po' di trucco, uno sguardo sfrontato e in un attimo fai parte del gruppo dei ragazzi che contano: superiori e vincenti. Ed è proprio lì che Claudia vuole arrivare. Perché essere diversi non porta da nessuna parte, se non a sentirsi sempre più soli. Perché quello è il mondo a cui appartiene Rodrigo, irraggiungibile che non si lascia scalfire dai sentimenti: il più ammirato della scuola, il più temuto, il più prepotente. Lui così diverso dal ragazzo che Claudia avrebbe immaginato accanto a sé. Eppure vorrebbe solo perdersi nei suoi occhi blu cobalto. E quando Rodrigo le chiede di uscire, Claudia non riesce a credere che sia vero. Non c'è altro da desiderare, tutto sembra perfetto. Ma all'improvviso la vita la mette davanti alla prova più difficile, e niente può essere come prima. La sua realtà si infrange in mille pezzi, come le sue emozioni a cui non sa dare un nome. Ogni cosa intorno ora appare falsa e inutile. Ogni persona è diversa da come la immaginava. Anche quelli che pensava fossero amici. Anche Rodrigo. Persino lei stessa. Senza più nessuna certezza, Claudia scopre che crescere vuol dire guardarsi dentro per davvero, senza falsi alibi. Vuol dire decidere chi si vuole diventare e tracciare il proprio percorso. Sicuri che c'è sempre la possibilità di sbagliare, di scegliere, di fermarsi e ripartire..
                                              La recensione
Esordire nel mondo dell'editoria a diciassette anni con una grande casa editrice non è all'ordine del giorno. E il fatto che la cosa capiti tanto raramente contribuisce ad attirare attenzione. Come in questo caso, ad esempio. Io non avrei letto In silenzio nel tuo cuore, se non mi fosse giunta alle orecchie la peculiarità di questo esordio tutto italiano. Un'autrice adolescente, la Garzanti a dargli fiducia e visibilità. Quella Garzanti che con le sue copertine tutte simili – i volti in primo piano, il font sobrio, i colori tenui – mi rassicura sempre un po'. Non saprei bene perché. I loro libri, nel bene e nel male, li riconosci. Sai che non vanno troppo appresso alle mode e che, in catalogo, non ci sono urban fantasy e young adult, se non in via eccezionale. Vanno bene quando vuoi darti alla narrativa – nazionale o internazionale – che vende e si piazza alta in classifica. Il romanzo di Alice Ranucci, a tutti gli effetti, è da inserire nella categoria dei titoli per ragazzi, e se mi fosse stato presentato così, posto in un'altra collana e con una copertina più colorata, non avrei voluto recuperarlo e forse non avrei corso il rischio mi deludesse e mi spingesse a non parlarne bene. Ci sono stati altri casi, certo. Ricordo Melissa P, provocatoria e senza peli sulla lingua; Dorotea De Spirito, alla moda e delicata; Gaia Coltorti, saccente e fastidiosamente sicura di sé. Ragazze, poi donne, che si sono fermate lì o hanno continuato, sull'onda del successo e delle chiacchiere. In punta di piedi, adesso arriva la Ranucci e, a lettura ultimata, posso affermare con sincerità che non ha attirato a sufficienza la mia attenzione. Da una parte, ho avuto l'impressione che il suo primo romanzo mancasse di freschezza: toni convenzionali per una storia fragile. Dall'altra, l'ho trovato invece il perfetto frutto dei suoi diciassette anni: non stupisce per guizzi, né per maturità. L'autrice è piccola, acerba, e si nota. Non si può urlare al miracolo. Non si può dire che scriva male. Ma non si può neppure negare che, altrove, ci saranno senz'altro coetanee con idee più nuove. Aspettandomi poco dall'intreccio, compensavo riponendo nutrite speranze nello stile. Lei ci racconta le generazioni di Instangram e i giovani stupidi di Moccia. La Roma da bere e da fumare, i licei come covi di vipere, i figli irriconoscenti e i genitori distanti. Ma la storia va avanti a furia di cicchetti e canne, niente di sconvolgente, e la metamorfosi interiore ed esteriore della protagonista – eterna bruttina trasformatasi all'improvviso in una ragazza cattiva e popolare, invitata dalla madre a rendersi utilile in un centro profughi – non l'ho sentita mia. 
Non mi ci sono riconosciuto in quel contesto, come quando guardo i film americani e penso che le biondine snob che vanno in rehab, i bad boy e i servizi socialmente utili siano cose da cinema o d'altro mondo. Alice ci racconta la sua generazione, ma vuoi la narrazione in prima persona, vuoi la coincidenza d'età tra lei e il personaggio, non c'è il distacco necessario. Il suo flusso di pensieri poteva essere più ragionato e solo l'ultima pagina, un espediente – ammetto – intelligente, ti fa capire come mai non si sia affidata alla terza persona, evitando di correre il rischio di stare spesso sullo stomaco, insieme alla protagonista, inizialmente schiava del culto delle apparenze, e ai suoi banalissimi amici. Ci sono state cose che mi sono piaciute e cose che non mi sono piaciute, facendo oscillare il mio giudizio fino alla fine. L'uso smodato di puntini di sospensione, i punti esclamativi e interrogativi in rapida successione, i periodi brachilogici che non vanno più, il fatto che non fosse raccontato niente di nuovo, ma che ci fosse d'altra parte un certo coraggio nel mettersi in ballo, con una voce secca e una narratrice inedita poiché antipatica. C'è stata una parte centrale molto intensa, in cui il dolore per un lutto improvviso ti tocca, e un epilogo a tinte gialle che avevo intutito, sì, ma che comunque funziona. Un'altra invece, la più importante, in cui la protagonista dovrebbe portarti via con sé, fuori dal tunnel, fa storcere il naso per l'educazione affettata del tutto. Senza rivelare troppo, posso dire che il percorso di Claudia la porta dalle braccia dell'iracondo Rodrigo all'assocazione a cui l'aveva indirizza sua madre e che sentire rievocate le storie vere, costruttive (e piagnucolose) di sfortunati immigrati e di mendicanti ha sulla protagonista un effetto benefico, su di me molto meno: è stato come guardare C'è posta per te. Le sentenze, i giudizi universali, la morale facile lasciamola a Alessandro D'Avenia, che può permettersi la retorica perché insegnante di filosofia al liceo e persona adulta, fatta e finita. Da una ragazza piena di vita, invece, mi aspetterei più verità. Urlato come un dramma di Muccino degli anni duemila, piacerà più alle mamme che ai figli, in quanto dirà loro ciò che vogliono sentirsi dire. Che i grandi hanno ragione, che la gioventù è marcia dentro, che non ci sono più il dialogo e le mezze stagioni. Un romanzo generazionale educativo e sensibile, fin troppo, con una firma da bambina che, nonostante i premi e i traguardi già raggiunti, deve affinarsi ed affinarsi. Ci vogliono il tempo, la vita, una storia più accattivante. In silenzio nel tuo cuore, in attesa di qualcosa che sia maggiormente all'altezza della situazione, nel cuore silenziosamente ci entra e silenziosamente va via.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Francesca Michielin – Sola

venerdì 20 febbraio 2015

Recensione: Il nostro anno infinito, di Matthew Crow

Ho bisogno che tu guarisca perché io sto guarendo, e il problema è che non mi ricordo quello che facevo prima di conoscerti. Prima che ci fosse un noiIl mondo sarà un posto più interessante se ci sarai pure tu.

Titolo: Il nostro anno infinito
Autore: Matthew Crow
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 286
Prezzo: € 15,90
Sinossi: Amber e Francis sono come il sole e la luna: lei ribelle e impertinente, lui romantico e imbranato. Chissà se nel "mondo fuori" sarebbero stati insieme, chissà se lei lo avrebbe mai degnato di uno sguardo. A farli incontrare è una malattia crudele, in una corsia d'ospedale in cui i due ragazzi condividono canzoni, vecchi film, piccoli istanti preziosi in cui il male concede una tregua ed è più facile sognare il futuro, immaginarsi fuori di lì, insieme. Perché, se hai quindici anni, è impossibile non sperare di avere tutta la vita davanti. E quando il destino mostrerà il suo volto più duro, quando tutto sembrerà ingiusto e sbagliato, sarà l'amore a dare un senso a quell'anno così breve, così indimenticabile. "Il nostro anno infinito" è una storia capace di commuovere e al tempo stesso di far sorridere e trasmettere una grande gioia di vivere. Grazie alla voce tenera e buffa di Francis, che la racconta, e a quella decisa e sfacciata di Amber, che gli fa eco. Grazie al coraggio di due famiglie imperfette e un po' bizzarre ma pronte a tutto pur di proteggere i loro ragazzi dagli schiaffi della vita. Grazie all'intensità di un primo amore capace di essere infinito nonostante i giorni contati. Perché è il cuore, e non il tempo, a decidere che cosa è per sempre.
                                              La recensione
Se ho letto Il nostro anno infinito è giusto per curiosità. Una curiosità negativa, di quelle cattive. In realtà, partivamo già male. La fascetta promozionale che mi citava Colpa delle stelle e Braccialetti rossi, il titolo che richiamava Noi siamo infinito, la copertina similissima a quella della trasposizione cinematografica di Green – che poi se sono i ragazzini moribondi a stendersi nei prati in fiore o se sono i prati in fiore, segretamente infetti, a rendere i ragazzini moribondi non lo capirò mai: chiedete agli oncologi o, più semplicemente, ai grafici italiani. Quella fascetta lì – io le butto, perché mi danno un fastidio assurdo – però mi diceva anche che non era la storia che immaginavo, e aveva un po' ragione. Il nostro anno infinito, nonostante il tema, si legge in un paio di giorni, come accade coi romanzi lievi, scritti bene, coinvolgenti. Perfetto non lo è di certo, neppure memorabile, ma ci racconta una vicenda che è l'esatto contrario di cupa e straziante: vi dirò, infatti, che sprizza vita e sole da tutti i pori, che non ci sono scene particolarmente piagnucolose e che la classica sinossi si concentra solo sul più classico degli amori impossibili quando c'è quello, sì, ma anche e soprattutto altro. Questo romanzo young adult della Sperling & Kupfer, apparentemente da inserire dritto dritto in quel piccolo filone letterario che ha fatto di stelle, giardini e leucemia i nuovi vampiri, è inaspettato e bellino. Il tema è quello, non ci girerò intorno, ma non è così sbandierato e scontato come appare. Non conosciamo il procedere esatto della malattia, non sappiamo quale parte del corpo di Francis e Amber stia lentamente divorando, non sappiamo quanto veloce passi il tempo e quanto tempo, quindi, i due abbiano ancora: fanno dentro e fuori dall'ospedale, coi capelli rasati a zero che quando crescono è sempre un buon segno, e non ci ricordano costantemente – quando si abbracciano, quando litigano, quando provano a spacciare marijuana medica in metro per racimolare qualche soldo per Natale – che la vita è corta e che la loro lo è di più. Quindicenni che non si piangono addosso e che ci fanno buona compagnia, senza volerci instillare il pianto a forza. Senza chiamare mai per nome ciò che li rende deboli, diversi, o solo speciali. 
I protagonisti pensati dal giovane Matthew Crow – una voce riconoscibile che subito mi è andata a genio, dosi massicce di umorismo britannico, stile vivace e a tratti davvero davvero buffo – sono dolci, stralunati, stramboidi, un po' come Eleanor e Park: ragionano per metafore, filosofeggiano sui cult degli anni ottanta e sono figure altamente adorabili da inserire in una galleria di comprimari altrettanto curiosi e affascinati. Consuocere lontane come il giorno e la notte (una ex modella, l'altra amante dei tarocchi e della natura), ma che un bicchierino e una serata brava al karaoke mettono d'amore e d'accordo; fratelli maggiori gay, simpaticissimi e disordinati, che non sanno cucinarsi un uovo fritto, figurati se sono esperti di sentimenti e prime volte; nonne brusche e misantrope che ti vogliono bene, ti comprendono e tutto, ma guai se la chemioterapia ti fa vomitare, poi, mentre danno una puntata della loro telenovela argentina preferita. Che tu abbia il buon cuore di aspettare che in tivù passi la pubblicità. E' più il tempo passato in casa che quello in corsia. La malattia è una ottima scusa, per il narratore, per indossare a tempo indeterminato il pigiama e per farsi accudire come un bimbo, ma è meno assente che altrove. Fa da cornice e si manifesta, inevitabile, in un finale che è il reale punto debole: sarà che si immagina, sarà che non vorresti che l'intelligente leggerezza del tutto ti rendesse insensibile nei loro confronti. Discrezione o non curanza, dunque? Un'educazione alla vita, alla morte e all'amore estremamente gradevole; frizzante. Non certamente incisiva, ma non imperdonabilmente blanda. Carinissima: quello sicuramente. E non desideravo altro, e non mi aspettavo di più. Un romanzo imperfetto, ma scritto a modo suo, che non è la brutta copia di altro. Il lutto incontra il buonumore e, anche se la love story di Francis e Amber non è abbastanza romantica e tortuosa per diventerare futuro metro di paragone, ha un disegno che cogli e un senso chiaro, che non sfugge.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Band Perry – If I Die Young 


"If I die young, bury me in satin. Lay me down on a bed of roses...
Send me away with the words of a love song"

lunedì 16 febbraio 2015

Mr. Ciak: Cinquanta sfumature di grigio, Scrivimi ancora, Open Windows, Amore cucina e curry

Buongiorno, amici! Come avrete letto, mi sono liberato di Letteratura Latina a colpo sicuro. Ma il problema è che, in dieci giorni, dovrei preparare qualcos'altro. E non so cosa. Mentre le letture vanno a rilento, vi parlo di alcuni film, in un post che – se avessi avuto il tempo necessario – magari vi avrei proposto a San Valentino. Anche se soltanto Scrivimi Ancora e l'ultimo, che contiene “amore” nel titolo, sarebbero stati i più in tema della puntata. Sapete, perfino il film con Sasha Grey – l'autoerotismo è sempre una forma d'amore, no? - è più delicato delle chiacchierate Cinquanta sfumature di grigio, che ovviamente, come quando i brutti film fanno parlare troppo di loro, ho visto. Aggratis. Nel post non c'è niente di indispensabile, ma mi serviva un pretesto per aggiornare il blog. Quindi, a presto. E, se possibile, buon lunedì a voi!

Lo sanno pure le pietre di che parla. Magari, in questo momento, sul Kindle – benedizione quando si vogliono leggere libri imbarazzanti – lo sta leggendo proprio il vostro vicino di posto, in circolare. Cinquanta sfumature l'ho iniziato, ma non l'ho mai finito: li ho venduti tutti e tre su Ebay, in caso a fine visione mi fosse venuta voglia di ritornare sui miei passi. Leggendo i primi capitoli, avevo trovato che la cosa più scandalosa fosse la prosa dell'autrice: quello stile inesistente, i richiami spudorati a Twilight, quei milioni guadagnati senza possedere talento. E' pur vero che poi c'è l'elemento sesso: il sesso vende e fa parlare, ma lì era descritto male – da una, probabilmente, che non fa sesso da mai – e il bondage era uno specchietto per le allodole. Se avessi avuto compagnia, io alla festa degli innamorati sarei andato a vedere l'ennesimo Romeo e Giulietta, non di certo questa roba, ma ognuno ha la sua idea di romanticismo. Quella altrui mi sfugge. Mi aspettavo un filmaccio, ma mi aspettavo, almeno, un filmaccio che avesse qualche pregio, venuto meno lo stile (stile?) della James e potendo parlare le immagini al posto di aride descrizioni. Speranza lecita, ma mal riposta. Il difetto di Cinquanta sfumature è la sua incondizionata fedeltà al romanzo di partenza, e la fedeltà – in una trasposizione cinematografica – è negativa solo se si parla di una storia così. Si vociferava che Bret Easton Ellis si fosse proposto come sceneggiatore e che Joe Wright ne avrebbe curato  la regia, ma no: meglio rinunciarci, meglio trarre da un libro inutile un film inutile. Sam Taylor Johnson – altra sporcacciona che si è maritata con "Kick Ass", vent'anni più giovane e mille volte più figo - collabora a stretto contatto con l'autrice di tale capolavoro e, saggiamente, ci tiene a salvare i dialoghi e gli attimi più improbabili. Anche al cinema, emerge la pochezza della scrittura e il cattivo gusto dell'autrice: il suo sogno erotico prende vita, ma resta un sogno che non sta né in cielo né in terra: irrealistico, pallido, assurdo. Non ha credibilità: per fortuna, persone così non esistono. E non dico perverse; ma piatte, superficiali. Alcuni dei personaggi peggio caratterizzati degli ultimi anni, la cui presenza sarebbe perdonabile solo all'interno di un'infima soap, popolano un film patinato, che confonde l'eleganza con il pacchiano, e che con una fotografia laccata e chic tenta di velare una volgarità che in realtà non c'è. Qualsiasi serie HBO ha più sesso; il sadomaso è un pretesto per accoppiamenti noiosi e nella norma; il nudo è più ostentato che in un film medio, ma i protagonisti sono belli, proporzionati e non hanno una fisicità prorompente. Volgari sono i dialoghi, che vorrebbero stuzzicare ma riescono solo a fare scendere un gelo artico e l'imbarazzo. Lei che gli domanda cosa sia un dilatatore anale; lui che dice di non fare l'amore, ma di scopare forte (tra “scopare” e “forte”, prego, metteteci una pausa, ché fa scena). Ma sono solo parole: non vengono tirati fuori giocattoli sessuali e lo scopare forte oscilla dalla posizione del missionario, a lui che le dà due colpi sul sedere, a un trastullo potenzialmente sexy con ghiaccio e champagne. I protagonisti fanno quello che possono: non è colpa di nessuno se lei risulta un'ochetta con un'incancellabile espressione di estasi mistica, o se lui cammina come se avesse un palo su per il culo – magari ha provato per gioco, chessò, e non è riuscito più a liberarsene? - e non conosce espressioni al di là del sorriso sghembo e dello sguardo corrucciato. Dakota Johnson è una bella sorpresa: il personaggio è quello che è, ma lei, espressiva e impacciata, è disposta a coprirsi d'imbarazzo e a scoprirsi al momento opportuno. Si chiama come una salsiccia, la nonna ha recitato negli Uccelli... unite i puntini. Sta meglio nuda che vestita, i suoi capezzoli hanno più scene dei comprimari e, dotata di un fisico acerbo ma grazioso, potrebbe girare perennemente senza veli senza solleticare troppo la malizia. Il look non la valorizza, lo script è atroce, ma la cosa buona è che il film potrebbe essere un trampolino di lancio. Jamie Dornan è un bellissimo ragazzo, ha due occhi d'acciaio inox che manco le batterie di pentole di Giorgio Mastrota, ma – rigido e austero per copione – sfoggia una serie di ghigni che mostrano solo il suo sentirsi fuori luogo. I complimenti perché riesce a pronunciare battute irrisorie senza scoppiare a ridere. E capisco che il pubblico femminile andrà in cerca di folgoranti primi piani e di un potenziale nudo, ma, fanciulle, concede alla macchina da presa soltanto la vista veloce del lato b. Volete vederlo bello, carismatico, talentuoso e dannato? Recuperate The Fall. Si entra più in sintonia con il suo assassino spietato che con il suo edulcorato seduttore e lo valorizzano un personaggio intrigante, il suo naturale accento irlandese, la barba incolta. L'inizio non è male: fresco, potrebbe avere i toni di una commedia sofisticata. Se avesse posseduto autoironia e maggiore ritmo, come il pimpante e canonico incipit con I put a spell on you lasciava intuire, avrebbe divertito con consapevolezza. Il difetto sono i sospiri, gli sguardi languidi, la pretesa di serietà. Non risulta nemmeno una storia d'amore scritta da un Nicholas Sparks brillo e drogato di viagra, invece, perché manca l'elemento base: il sentimento. Cinquanta sfumature è un algido preliminare lungo due ore, con una colonna sonora pop e un erotismo impalpabile che vive soltanto della seducente Crazy in love di Beyoncé. Innocuo e superfluo, bruttino, non ha neppure i requisiti per diventare un gustoso, segreto guilty pleasure. (4)

Alex e Rosie si amano da tutta la vita, ma c'è un ma. Un'amicizia profonda e lunga che con un salto più lungo della gamba potrebbe complicarsi troppo. Così, vivono distanti e spesso infelici, concedendosi un briciolo di pace solo quando sono insieme. Sognavano di volare in America, un tempo, ma un preservativo che si rompe e lei resta indietro, con una bambina che è un dono prezioso, anche se le ha rovinato la gioventù, e un compagno che tardi è tornato per assumersi le proprie responsabilità. Lui fa stragi di cuori e si afferma nel mondo del lavoro; lei fa la mamma, la cameriera e si immagina proprietaria di un alberghetto sul mare, mentre la vita va avanti – a volte ingrata, altre miracolosa – e ora il lutto, ora un invito per nozze imminenti, li fanno incontrare a periodi alterni. Scrivimi ancora è stato il mio tentativo, a San Valentino, di essere a tema. La commedia romantica di Christian Ditter, accolta perlopiù calorosamente, mi ha fatto pensare che avrei potuto scegliere qualcosa di meglio, in quel moto momentaneo di dolcezza incondizionata. Nonostante altri ne abbiano parlato piuttosto bene, la trasposizione del romanzo di Cecilia Ahern – trasposizione che immagino liberissima – non mi ha convinto granché. I pregi: ironia, recitazione buona, comprimari strampalati che fanno il verso al cinema di Richard Curtis. I difetti: una colonna sonora simpatica e onnipresente che, veloce e condensato com'è, rende il film un videoclip; nonostante i pezzi siano tutte hit da cantare, o forse proprio a causa di quello. British, ma non troppo. Sdolcinato, ma non troppo. Per nulla indipendente, ma non mero mainstream. Le risate non mancano e la Collins e Claflin, alle prese con romanticismo, friendzone e sketch piccanti, sono belli e convincenti; meno convincente, invece, una sceneggiatura frettolosa che taglia, cuce e confonde. Dieci anni in un'ora e trenta: troppe ripetizioni, troppi tira e molla, troppe cose che cambiano mentre i protagonisti – vampiri? - non invecchiano mai. Ha difetti, una trama già sentita, ma toni sopra le righe che, a volte, hanno dell'irresistibile. Non è il novello One day – e la modesta Ahern non è Nicholls – ma, con un tocco di malizia aggiunto e diffusa spigliatezza, non è il classico melò. Una produzione senza infamia e senza lode, dunque, con due giovani stelle che, in futuro, sapranno farsi ricordare. Di certo noi non li terremo a mente come l'Alex e la Rosie di Scrivimi ancora; coppia scoppiata piuttosto graziosa, ma che nemmeno alla lontana mira a ricordi duraturi e ad inserirsi all'istante tra storici amanti del cinema rosa. (6)

Un appuntamento da sogno con la nostra attrice preferita. Una cena a tu per tu con Jill Goddard: diva capricciosa e popolare, con un'agenda piena di ingaggi e il pettegolezzo di un presunto video hard che fa chiacchierare. Quando ti ricapita, se sei un nerd smanettone che non ha niente di meglio da fare, se non gestire la fan page della stella più brillante? Ma succede che Jill cambia idea. E che, mentre stai per entrare in crisi mistica, ti contatta un hacker misterioso per farti entrare di nascosto nella vita di lei, attraverso lo schermo di un computer. Spiarla, parlarle: farle paura. Open Windows, ultimo thriller dell'acclamato Nacho Vigalondo, è in realtà il primo film che recupero del regista spagnolo. Perché la trama, che promette una Finestra sul cortile ai tempi di internet, prende? Perché la resa è originalissima? Ma no, perché nel cast c'erano due miei idoli assoluti: Frodo e Sasha Grey. Due creature mitologiche nello stesso film, che per di più ha pure spunti fighi: visione imprescindibile, dunque. Elijah Wood, bollato a vita come quello del Signore degli anelli, ci prova a cambiare. Questo, Il ricatto, Maniac: thriller a volte interessanti e a volte no, in cui lui una discreta figura la fa. Sasha Grey, furba e autoironica, bollata invece con altri lusinghieri epiteti che non sto qui a dirvi, fa lo spogliarello in webcam, ammicca e piange e, pregiudizi a parte, ammetti che come scream queen se la cava. D'altronde, era tipo la Meryl Streep del mondo a luci rosse, prima di chiudere bottega (e non solo) e di aprire – come anticipa il titolo del film – finestre multimediali (e non solo): bella e intraprendente, inoltre, ha un mistero inspiegabile. Anche se ti ha mostrato, in passato, pure i risultati intimi della sua colonscopia, ha fascino. Tralasciando questi aspetti, che potranno risultare troppo tecnici agli sfortunati profani (ma fatevi una cultura!), la struttura del film è profondamente accattivante e il colpo di scena finale, eclatante, complesso e, a onor del vero, alquanto improbabile, diverte un mondo. Vuole stupire e ci riesce, anche se la credibilità traballa. Ma chissene. Un thriller con due creature del mito, un hobbit e un raro esemplare di Sasha Grey coi vestiti addosso, poteva forse non avere la giusta dose di fantasia ed epicità? Giammai. (6,5)

Le esigenze di universitario fuori sede mi hanno reso bravo nell'arte di arrangiarmi: non dico che sia diventato uno chef provetto, ma mangio cose quantomeno commestibili. E non ricordo da quanto tempo non guardo qualcosa in televisione, poi, ma all'ora di pranzo, ogni tanto, su Cielo e La 7D, lascio che mi facciano compagnia – quando la casa è silenziosa e il vuoto rimbomba – i programmi di cucina. Non perché sia convinto, in questo modo, di imparare qualcosa. Ma perché mi piace vedere all'opera qualcuno che eccelle in qualcosa che io ignoro del tutto. E mi piace mangiare, ma a chi non piace? Quindi, vi dirò che lo sapevo. Che anche se da The Hundred-Foot Journey era misteriosamente diventato Amore, cucina e curry, da noi, sarebbe stato un film bellino, molto. Perché il romanzo, in Italia, è edito dalla Neri Pozza, che notoriamente non pubblica libri immeritevoli, e perché Lasse Hallstrom – regista tanto strapazzato, ma che zitto zitto vanta due candidature agli Oscar – ha un tocco speciale quando deve maneggiare cuori e primi piatti. La storia di integrazione e rivalsa tra due ristoranti, due culture, due pensieri non piacerà certamente ai grandi critici – sarà che i personaggi del film vanno in cerca di una seconda stella Michelin, non di universale approvazione – ma io quella volta che l'ho visto avevo gli esami alle porte, ero giù di corda e pur partito decisamente prevenuto, perché le due ore complessive mi sembravano troppe, mi sono trovato in ottima compagnia: tranquillo, soddisfatto, divertito. Tanto si perde con il doppiaggio italiano – gli accenti diversi, la musicale mescolanza di inglese e francese, attori che sperimentano una cadenza non loro – ma tanto resta. Come quella grande Helen Mirren, mattatrice eccelsa, che quando, risentita e altera, fa la francese snob ci piace quasi più del solito. Una solare Francia da cartolina, scorci di luoghi che visiteresti e di pietanze che assaggeresti, personaggi vari e numerosi che non conoscono, alla fine, cosa sia il male. E quanto è bello, ogni tanto, vedere una commedia specchio di un mondo suggestivo e un filino irrealistico, in cui la cattiveria, anche se esiste, è disposta a svanire dopo quattro chiacchiere tra gente civile? (7)

giovedì 12 febbraio 2015

Recensione: Una lunga estate crudele, di Alessia Gazzola

Allora apprenda questa lezione da chi dottoressa non è: il mal d'amore esiste, e uccide.

Titolo: Una lunga estate crudele
Autrice: Alessia Gazzola
Editore: Longanesi
Numero di pagine: 313
Prezzo: € 16,40
Sinossi: Alice Allevi, giovane specializzanda in medicina legale, ha ormai imparato a resistere a tutto. O quasi a tutto. Da brava allieva, resiste alle pressioni dei superiori, che le hanno affidato la supervisione di una specializzanda... proprio a lei, che fatica a supervisionare se stessa! E lo dimostra anche la sua tortuosa vita sentimentale. Alice, infatti, soffre ancora della sindrome da cuore in sospeso che la tiene in bilico tra due uomini tanto affascinanti quanto agli opposti: Arthur, diventato "l'innominabile" dopo troppe sofferenze, e Claudio, il medico legale più rampante dell'istituto, bello e incorreggibile, autentico diavolo tentatore. E infine, Alice resiste, o ci prova, all'istinto di lanciarsi in fantasiose teorie investigative ogni volta che, in segreto, collabora alle indagini del commissario Calligaris. Il quale invece dimostra di nutrire in lei più fiducia di quanta ne abbia Alice stessa. Ma è difficile far fronte a tutto questo insieme quando, nell'estate più rovente da quando vive a Roma, Alice incappa in un caso che minaccia di coinvolgerla fin troppo. Il ritrovamento dello scheletro di un giovane attore teatrale, che si credeva fosse scomparso anni prima e che invece è stato ucciso, è solo il primo atto di un'indagine intricata e complessa. Alice dovrà fare così i conti con una galleria di personaggi che, all'apparenza limpidi e sinceri, dietro le quinte nascondono segreti inconfessabili.
                                   La recensione
Quando non ci aspettiamo nulla, quando su qualcosa non scommetteremmo un centesimo, è proprio quello il momento in cui accadono cose prorompenti.”
Toc toc. E così bussano. E così, come ogni anno, me le porta il postino. Alessia Gazzola, Alice Allevi: compagne fisse, ormai, dei miei freddi freddissimi inverni. Si dice che la puntualità non sia donna e che queste due, di donne, autrice e personaggio, mamma e figlia, forse sorelle gemelle, non siano poi la famosa, spasimata eccezione alla regola. Anzi. Non so Alessia com'è, in verità, ma se c'è un po' di Alice in lei – come io, da anni, ormai sospetto – scommetto che qualche fidanzato avrà dovuto aspettare al freddo e al gelo che scendesse di casa, con la frangia ben pettinata, le scarpe alte, un cappotto scelto con cura maniacale, tenendo a mente i colori in voga, gli abbinamenti e anche gli aggiornamenti variabili delle previsioni meteo. Logico, poi, che si becchino solo un'occhiataccia, un commento sgarbato sui proverbiali ritardi del gentil sesso e complimenti manco a pagare milioni. Ma quando sono dovuti sono dovuti. Alessia, io ti dico brava. Perché ai tuoi lettori riservi un trattamento speciale e loro un gennaio senza te non l'hanno mai passato. Perché fai bene e, se hai fretta non lo so, sei sempre in tiro: non un ricciolo, non una virgola, non un personaggio fuori posto. Quando sai che verrà a farti visita è come se arrivasse l'incarnazione del Natale o, chessò, una cugina fighissima. Ti fai trovare ben vestito e attento, le mani protese verso le cartoline di luoghi lontani e le orecchie rizzate, in attesa di una nuova storia delle sue. Cosa avrà combinato in un anno di silenzio? Nuovo caso, solita città. Quella bella, ma che fa troppo rumore. Quella viva, ma che offre suggestivi spunti di morte. Per fortuna che è vicino alla tranquilla Sacrofano, un'oasi a un passo di treno, in cui ci si deve preoccupare solo di fratelli con piccoli problemi coniugali, nonne che imbrogliano giocando a carte, rimpatriate da organizzare, essere figlie modello – non esattamente cosa da poco, considerando un'inspiegabile attrazione verso il macabro e la scarsa probabilità di scodellare nipotini a breve, con la crisi economica e gli uomini che non cambiano, come cantava la Martini. E per fortuna che ci sono tante cose che non cambiano. Claudio Coltorti: bello, dannato, con una strana poetica sentimentale e lo sguardo indecifrabile. Arthur Malcomess, gran bravo ragazzo, ma pessimo compagno di vita, che forse si godrà per un po' le gioie di stare fermo, senza aerei da prendere e gente da salvare. Insieme a loro la frizzante Cordelia; la mitica Nonna Amalia – il mio sogno? 
Una serie di romanzi dedicati a lei, con tanto di copertine Harmony che farebbero la gioia dell'arzilla ava; il fedele Calligaris – ormai sfugge se lui sia Holmes o Watson, perché la sua allieva è sempre più abile. E poi c'è Alice, che è l'unica certezza che ci resta. Cuore e testa tra le nuvole, due terzi intuito e un terzo indecisione, una voce che ti entra in testa e ci resta, un nuovo spasimante a cui guardare con ritrosia. Perché Sergio Einardi, quieto antropologo, sembra perfetto, ma alle donne si sa che quelli mogi mogi non piacciono granchè, e poi anche lui potrebbe avere un oscuro segreto a forma di ex moglie. Alice... Ricordo di averla trovata più sciupata e malinconica, trecentosessantacinque giorni fa. Non voleva lo zuccherò nel caffè. Un'indagine più difficile delle solite l'aveva messa a dura prova, infatti, e aveva poca voglia di parlare. Una collega scomparsa nel nulla, una vittima sepolta a cui dare voce. In Le ossa della principessa c'era forse meno di lei – per via di una sapiente struttura a più strati che alternava la sua voce a quella di un'amante infelice – ma più giallo, ai margini della tavolozza, in cui immergere la punta del pennello per disegnare nuove scene del crimine, altri moventi, continui misteri. Nonostante l'inverno sia sbocciato in ritardo e neppure febbraio, tra nevicate a bassa quota e geloni sulle mani, ci voglia fare il generoso regalo di un raggio di sole, con Alessia Gazzola arriva l'estate in anticipo. Una lunga estate crudele incede allegro e spedito, vestito di leggerezza e tintarella omogenea. Crudele giusto un po', estivo parecchio, è un toccasana contro il Blue Monday – fosse catastrofico, almeno, solo quel lunedì lì – e la Sessione Invernale. La verve di Alice regna incontrastata, questa volta, e la commedia romantica convola a nozze con il poliziesco, ma con un pelino di convinzione in meno che in passato, secondo me. Tanto infatti nel capitolo precedente il giallo era solido, tanto qui l'indagine è tra le più classiche, prevedibile ma non troppo, e messa in scena in un mondo che conosciamo da lontano, lasciandoci ingannare dalle luci fatue dei riflettori che brillano e dal fascino indiscreto del tendone rosso. Tanto nel capitolo precedente la nostra narratrice preferita era matura e pensierosa, tanto qui – a indicare che non si smette mai di crescere e che l'adolescenza è per sempre – sembra vivere e rivivere un'eterna gioventù, con cotte da quindicenni, viaggi post esame di maturità in Sicilia ma fatti sulla soglia dei trenta, amicizie resistenti e felina curiosità. Ma, vi dirò, davvero è un problema, per chi ormai è affezionato perso ad Alice, aver beccato quello giusto, di indizio, tra un mare di depistaggi e testimonianze spapagliate con intelligenza? Direi di no. Fino a quando ci sarà lei, fino a quando a modo suo – strampalata, estrosa e cronicamente indecisa, al solito – mi racconterà l'arcobaleno e il delizioso pasticcio che viene fuori mescolando con le dita il giallo e rosa, anche lo scoprire che l'assassino è il notorio maggiordomo, giuro, saprà strapparmi un sorriso di quelli ampi, bianchi e stupiti. 
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli - Amore di plastica



"Volevo essere più forte di ogni tua perplessità.
Ma io non posso accontentarmi, se tutto quello che sai darmi 
è un amore di plastica."

giovedì 5 febbraio 2015

Recensione a basso costo: Giulia 1300 e altri miracoli, di Fabio Bartolomei

Ieri, tra le due e le tre del pomeriggio, scrivevo questo. E, nelle ore successive, sono stato così bravo da rivedere quattrocento versi. E da prendermi un febbrone di quelli potenti. Un abbraccio a voi. M. 
Nasciamo con le mani piene. Per questo da neonati stringiamo i pugni, perche' abbiamo i doni piu' meravigliosi che si possano desiderare: l'innocenza, la curiosita', la voglia di vivere.

Titolo: Giulia 1300 e altri miracoli
Autore: Fabio Bartolomei
Editore: E/O
Numero di pagine: 281
Prezzo: € 9,50; € 16,00
Sinossi: A Diego, quarantenne traumatizzato da un lutto familiare, con un lavoro anonimo e un talento unico per le balle, accade di imbarcarsi in un'impresa al di sopra delle sue capacità, l'apertura di un agriturismo; accade che decida di farlo in società con due individui visti solo una volta e che in comune con lui hanno esclusivamente la mediocrità; accade anche che a scongiurare il fallimento immediato sia l'intervento di un comunista nostalgico e che la banale fuga in campagna si trasformi in un atto di resistenza quando nell'agriturismo si presenta un camorrista per chiedere il pizzo.
                         La recensione
Guardo l'orologio e penso che non ho tempo. Sul serio, questa volta è peggio del solito. So che sono paranoico e che ogni esame mi toglie un mese o due di vita, ma questa volta la situazione è tragica. Quando lo dicevo le altre volte, non avreste dovuto darmi ascolto. Il ripasso di Letteratura Latina è missione impossibile. Qualche giorno appena per rivedere mille e ottocento versi dell'Eneide, che ho già tradotto con cura, tra dicembre e gennaio, e con altrettanta cura ho rimosso. Zero. Nero. Blackout, proprio. Ma ho letto, nei ritagli scarsi di tempo, e anche se c'ho messo una settimana intera per portare a termine un libricino piccolo ma che fa una compagnia immensa, mi sono preso una pausa, a metà tra il mio caffè senza zucchero e il ritorno a Virgilio, e mi sono ripromesso che, senza troppi preamboli, dovevo dirvelo. Che, dopo Lezioni in paradiso e altri “leggilo, leggilo” da parte delle solite Sonia e Federica, ormai comparse fisse nel blog e impiegate a tempo indeterminato nella non abbastanza nutrita schiera delle fangirl della narrativa italiana, ho comprato l'edizione tascabile dell'esordio del buon Fabio e, prima che la versione cinematografica venisse a tentarmi, ho scoperto i segreti e i prodigi di una storia di prati musicali, quarantenni con sogni e amori precari, camorristi col pallino dei concerti brandeburghesi e bijoux d'auto d'epoca.
Dirvi, poi, che sono famoso per non avere post arretrati – i miei arretrati si limitano alle lingue morte, e già – e che, ora come ora, non vorrei rovinarmi da me la fama di blogger stacanovista, prolifico e altamente logorroico, ma leggendo Giulia 1300 e altri miracoli non ho preso in verità manco uno stralcio di appunto. Però non è un altro buco nero, un'altra lampadina saltata, la corrente che – insieme alle buone intenzioni – va via in un pufff. Più che altro, mi fa strano che sia già finito. Ho realizzato la cosa dopo qualche giorno. Non è un libro particolarmente originale o accattivante, né uno di quelli che ti tengono svegli nel cuore della notte, almeno che tu non soffra di insonnia cronica di tuo. Mi ci è voluto un po' per arrivare a leggere lo splendido messaggio contenuto nell'ultimo rigo, ma non ho avuto fretta, durante il viaggio. Finché è durata, è stata pura pace averlo a portata di mano e sapere che, anche con la lettura di un capitoletto al giorno, era una finestra su un più gradevole altrove. Dirvi, ancora, che spesso diverte, senza ricercare la risata facile, e che altrettanto spesso, forse involontariamente, rattrista, con toni agrodolci e bicchieri che, a volte, sono solo mezzi vuoti, comunque tu li voglia vedere. Li conoscerete tutti leggendo, ma li conoscete già. Come li conosco io. Un Diego che si è avvicinato al padre, quando era tardi; un Claudio un po' mammone che ha perso moglie, capelli, impresa di famiglia, ricevendo in cambio solo nuove e continue manie; un Fausto arricchito a sbafo, volgare e pacchiano, ma con un cuore grande così; un Sergio che si infiamma per un nulla, ma che non crede più a destra o a sinistra e che quindi, sinceramente, adesso non sa dove svoltare. Nella vostra vita, quanti esemplari simili ci sono?
Autentici italiani medi, una televisione che manda porno a tutte le ore, una donna che porta tanta allegria, un rapimento impossibile che non sai come andrà a finire. Un paradiso privato che confina con una discarica abusiva. E sembrerà una barzelletta, raccontata da me – “la sapete quella del venditore di macchine, del presentatore televisivo di serie b, del commerciante fallito? Ma sì, quella in cui tutti insieme sfidano la camorra e i pregiudizi, capito quale?” - e se (poveri voi!) non conoscete le chicche che regala l'irresistibile dialetto napoletano (io sono madre-e-padre-lingua, modestamente), ogni tanto vi ci vorrà qualche sottotitolo o un ripasso veloce, ma guardando l'ultima puntata di Gomorra, qui camorristi simili ma più sorridenti, o il magnifico Song'e Napule, e con i Manetti Bros sì che ci avviciniamo di più allo stile spigliato, intelligente e rilassato di Bartolomei, sarete a bordo. Un posto sulla Giulia non si nega a nessuno. Perché la vicenda di quattro disadattati con le spalle al muro ma con la testa sempre alta, che prendono in ostaggio una manciata di spietati camorristi, è assurda ma non è che non stia né in cielo né in terra. La storia rocambolesca di Giulia 1300 e altri miracoli non è fuori dal mondo: al contrario. E' dentrissimo. Contemporanea; nostrana come un piatto fresco fresco pomodoro, mozzarella e basilico; di cuore. Una parabola, per una volta, sul sogno italiano. Quello americano, noi che tanto amiamo Hollywood, va a finire che lo conosciamo meglio del nostro. In un'Italia che è quella che è, un sogno sotto sotto c'è – ma che brutta questa frase, sembra un pezzo della sigla dei Puffi, ma ricordatevi che non ho tempo, quindi non la cambio, no. Il sogno italiano, dicevo: fare inversione di marcia e non scappare più. Prendere in gestione un agriturismo per sentirti padrone di qualcosa, tu che non hai avuto mai niente. Smettere di andare appresso alle ragazzine, anche se universitari e quarantenni è un binomio schifosamente alla moda, e capire che si può amare una che ha la tua età, le rughe e i suoi pensieri scontrosi, anche senza la prova di un primo bacio. L'amore non è mica come il melone d'estate, che devi farci la prova. Insomma, quando si legge un bel romanzo italiano, scatta il paragone con l'estero. Sempre. E' internazionale, ormai, è la frase all'ordine del giorno. Ma che poi, mi chiedo, è un complimento? I romanzi di Fabio Bartolomei sono invece da leggere perchè di quel che è moda se ne infischiano coraggiosamente e, al tanto inflazionato internazionale, contrappongono due spaghetti al sugo; un fiasco di vino rosso, che fa pure buon sangue; la magia del casereccio.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Pino Daniele – Yes I Know My Way

martedì 3 febbraio 2015

Mr. Ciak: Like Crazy, Gemma Bovery, I nostri ragazzi, Breathe In

Ciao a tutti, amici. Come state? Oggi, per riempire un vuoto lungo quasi una settimana, causa studio ed esami tragicamente imminenti, ho deciso di proporvi una puntata della rubrica Mr. Ciak – che ormai, quando le mie letture vanno a rilento e il blog è in stato comatoso, è un po' il mio jolly. In realtà, non guardo un film da tipo una settimana – e no, la mia maratona di How to get away with murder non vale: le puntate sono corte! - quindi vi parlo di cosa ho visto di recente. Avrei voluto aspettare, parlarvi di altro, perché tutti quei sette e tutti quei film già noti creano solo monotonia, ma boh. E poi se fino a quando non mi libero dalla sessione invernale non riesco a guardare più niente di niente? Quindi, se vi va, sorbitevi le mie chiacchiere sui drammi indie di Felicity Jones, sugli italiani che portano (bene) al cinema un romanzo straniero molto acclamato, sulla commedia francese che – con la bellissima Gemma Arterton e con l'intramontabile Flaubert – fa al solito faville. Un abbraccio, M.

Dopo la scoperta che una Felicity Jones al giorno toglie il medico di torno, ho dedicato una sera a Breathe In e quella direttamente successiva a Like Crazy. Invertendoli, guardandoli al contrario. Due visioni con la firma dello stesso Drake Doremus, con protagonista la stessa inglesina dagli occhi verdi verso cui a vent'anni ho sviluppato una cotta mostruosa, che manco alle scuole medie. Per i motivi sbagliati – ma la bellezza della Jones è poi un motivo sbagliato? - sono andato a ripescare molti dei suoi film che, non so nemmeno io il motivo, mi erano sfuggiti. Lei mi piace perché è lei e perché fa un genere vagamente di nicchia che ha sempre saputo toccare le mie corde segrete. E, a proposito di segreti, quando mi chiedevano “Ma Felicity Jones chi?”, io rispondevo “Quella di Like Crazy”, anche se Like Crazy non l'avevo mica visto. Tutti pensavano il contrario; io non davo smentite. Adesso però me lo chiedo. A cosa diamine pensassi, dove diavolo fossi, quando quattro anni fa al Sundance presentavano un film che anche allora mi sarebbe piaciuto. Riassunta, condensata, ma mai compressa a forza – violata – ci viene raccontata una storia d'amore nella sua interezza. Anna e Jacob si piacciono un mondo, ma lui è americano, lei è una studentessa inglese con un visto in scadenza. Imbrogliano per qualche tempo, lei parte, quando ritorna non può ritornare davvero. Problemi con la dogana. Problemi con chi la aspetta a casa. Odorarsi, conoscersi, poi perdersi mai del tutto. C'è parecchio in un'ora e trenta. La spensieratezza degli anni d'oro, il disincanto dell'età adulta sperimentato anche da chi continua ad avere il volto d'adolescente. La fiamma che si raffredda ma non si spegne. Anton Yelchin e Felicity, insieme a una Jennifer Lawrence di passaggio, sono i teneri e convincenti testimoni di un amore di quelli veri, mentale e fisico, che ha bisogno di un tocco, d'un promemoria, per farsi ricordare. O lo si scorda, con il silenzio e la lontananza. Maturi ed immaturi, zelanti e pigri, sono la pioggia, e il sole, e i check in in aeroporto, e le promesse (non) fatte tanto per. Un Doremus più acerbo e introverso, ma già bravo, li inchioda con i primi piani e le spalle al muro, mentre una fotografia opaca e nuda ce li racconta alle prese con il rimpianto. Lui cattura il significato più profondo dell'assenza, il nocciolo dell'attesa, l'eroico tentativo di imbrogliare il tempo e, con una quiete solo apparente, stupisce con trovate brillanti e un montaggio che mi ha regalato spunti di una bellezza impensata – la serie di istantanee di loro a letto, i campi e contro campi che alternano il corpo della Jones a un posto vuoto sul bus, sei mesi di pratiche e ripensamenti sbrigati buttatando avanti veloce. Il pane quotidiano per chi ama le storie d'amore indie, con dialoghi lunghissimi che sarebbero il sogno di ogni giovane attore, momenti di una maturità che strappano il cuore e ti fanno invecchiare con un singolo passaggio di macchina, svolte impreviste per capire davvero le quali devi essere semplicemente un po'... come loro. Un po' così. Così, senza definizioni. Così, come chi quando guarda uno squarcio di storia d'amore pensa già a come andrà a finire. (7,5)

Nella lontana estate del quarto ginnasio, adolescente brufoloso dato in pasto a una prof di letteratura indicibilmente maligna, leggevo in spiaggia tutta una serie di romanzi minori che lo stesso Verga aveva scordato di aver scritto e un grande classico, Madame Bovary. Verga, mio acerrimo nemico, l'ho odiato senza troppo sforzo; Flaubert no. Mentre, perciò, qui aspettavano Dio solo sa cosa, io già avevo intercettato Gemma Bovery tra le uscite straniere e avevo avuto fiducia nei distributori italiani, che mi vogliono bene e le buone commedie d'oltralpe non se le fanno scappare. Chi mi legge, sa: che penso che il cinema francese abbia una marcia in più, che non c'è posto più affascinante della campagna normanna e che se ci sono toni irresistibili e una protagonista bellissima, allora il gioco è fatto. L'ultimo film di Anne Fontaine è una deliziosa produzione con suggestioni british e carte in regola perfette. Echi letterari, un epilogo tragicomico eppure divertentissimo, garbo, Gemma Arterton. E lo so che ho appena giurato amore eterno a Felicity Jones, ma tanto mica capisce l'italiano lei, no? Gemma Arteron, mai così bella, quasi da combustione spontanea, ha lo stesso nome del suo personaggio e il destino apparente dell'eroina di Flaubert. O almeno di questo è convinto il suo vicino di casa, un fornaio ficcanaso che legge troppo e vive troppo poco. Quanto può fare un romanzo? Tanto, questo è certo, ma conoscere il finale in anticipo forse potrà cambiare il destino di quella conturbante giovane venuta dall'Inghilterra, con marito americano e una flotta di ammiratori segreti che minacciano la sua serenità? Ispirato a una graphic novel, Gemma Bovery è una riscrittura in chiave moderna di un polveroso capolavoro: operazione rischiosa, ma salvata da quei francesi coltissimi, autoironici, nostalgici, che fanno sembrare cosa da niente qualcosa da maneggiare, invece, con cura. Saranno antipatici, o almeno così dice la leggenda, ma hanno una leggerezza inimitabile. Inutile dire che non ci si annoia mai e che quel loro sguardo malizioso, anche in mezzo a presagi e giochi del destino, diverte. Fattura impeccabile; una barriera linguistica impossibile da comprendere non guardano il film in lingua originale, ma discretamente suggerita dal nostro doppiaggio. Fabrice Luchini, con l'ormone non ancora in pensione, una fantasia che fa guai e sogni erotici in costumi ottocenteschi, è ottimo. Gemma Arteron, con un ruolo cucito addosso su quel suo corpo burroso e cosparso di lentiggini, è erotica e ingenua: impastare il pane è la cosa più sexy del mondo. Per non parlare di quando, in una scena con il fortunato biondino già visto il Les Amours Imaginaires, si sfila l'impermeabile... Mi ha ricordato la Malena di Tornatore, muta e raccontata dagli altri - vicini invidiosi che le guardavano nella scollatura e nel buco della serratura; ma anche una creatura inconsapevole, studiata e manipolata come nell'imperdibile Nella casa, con lo stesso Luchini nel cast, un regista più grande, riflessioni in rima – tra sarcasmo e seduzione – sulla realtà che imita il falso e viceversa. (7)

Gli italiani che riadattano un altro romanzo scritto fuori dai nostri confini. Un romanzo che chi ha letto definisce, spesso, un Carnage, in cui quattro adulti si riuniscono per parlare di un misfatto più grande di una scaramuccia tra bambini. In attesa di vedere I nostri ragazzi – che ha cambiato titolo, ambientazione e forse anche qualcos'altro – avrei voluto recuperare il libro, per dirvi come siamo noi quando diamo un'impronta altra a qualcosa che non ci appartiene. I protagonisti sono due fratelli che non potrebbero essere più diversi. Uno crede nell'onestà, l'altro nel potere dei soldi. Mettono da parte i litigi e le divergente una volta all'anno, durante una cena che è un trionfo di maschere, ipocrisie, chiacchiere stantie. Ma quando si insinua il sospetto di un fatto terribile, quando un interrogativo fa capolino attraverso la tivù che annuncia l'ultimo caso di cronaca, allora tutto si ribalta e l'affetto seppellisce la ragione. Prima distanti, poi quasi complici, i quattro si domandano cosa fare, alla notizia che i loro figli perfetti hanno la coscienza sporca. Con una direzione tutt'altro che pedestre, il regista colpisce per la qualità della scrittura e per diverse scelte formali: i dialoghi densi e i patinati luoghi chiusi si alternano a scene in cui il chiasso, attraverso un uso capace della colonna sonora, è messo a tacere e in cui quelle case futuriste, con le linee dritte e i colori freddi, ricordano prigioni. Tra i quattro protagonisti, decisamente convincenti, menzione per una Giovanna Mezzogiorno invecchiata, ma sempre a fuoco, che è un piacere rivedere: il ruolo sgradevole di una madre disposta a chiudere gli occhi davanti all'evidenza, i vestiti castigati contrapposti a quelli provocanti dell'affascinante Bobulova. Calato nel ruolo quell'Alessandro Gassman che spesso, altrove, stona; padrone, sottile, complicato un Luigi Lo Cascio che con i personaggi impegnativi va a nozze. Scomodo, curato, preoccupantemente vicino, sa come non cadere nel facile moralismo: sarà che una morale non c'è e che quel finale tronco, agghiacciante e inaspettato, ribalta yin e yang. Un quartetto di intriganti personaggi calati in una situazione pericolosa, riflessioni e colpe già mostrate ma che incatenano, un epilogo tragico e farsesco, di un nero che soffoca. Notevole, tutto. E tu, persona corretta e generosa, proprio tu: cosa faresti se i tuoi figli fossero gli assassini di cui hai sentito parlare in televisione? (7)

La famiglia perfetta che apre le porte di casa a una studentessa straniera. Una ragazza timida, pacata: una lettrice e una musicista. Una con gli occhi sterminati, che parla la loro stessa lingua, ma con un accento diverso. Quello britannico, che rende tutto più elegante e formale. Sono in tre, in una villa di campagna lontana dalle luci della città, ma quell'estranea, un posto aggiunto a tavola, un'altra bocca da sfamare, un'altra testa pensante, metterà alla prova i loro equilibri. E nulla è dato per certo, quando ci si mettono di mezzo l'attrazione fisica e qualcosa che, forse, somiglia all'amore che tutti sognano. Le tazze da collezione della mamma cadono a terra in mille pezzi; le vecchie amicizie della figlia sembrano avere occhi solo per la nuova arrivata; i desideri autentici del padre, uomo di mezza età che insegna in un liceo ma insegue la grande musica, fanno prepotentemente capolino, mentre il signor Reynolds si scopre innamorato della dolce Sophie. Breathe In è un dramma indipendente di qualche anno fa, che ho recuperato per la voglia di conoscere meglio e più da vicino quella giovane attrice che in La teoria del tutto mi aveva incantato. Ma quant'è bella Felicity Jones? E quanto è delicato questo film? E quante scarse sono le probabilità di vederlo anche da noi? Sarebbe strano vederlo distribuito. Doppiato. Contro natura, quasi, strappare la Jones da quelle atmosfere tenui a cui appartiene e rendere in italiano i dialoghi intimi che costruiscono questo storia d'amore, che poi è una lezione di respirazione. In inglese, come saprete meglio di me, non c'è differenza tra il tu e il voi. You è pronome di seconda persona singola e plurale, e sono le situazioni a farci capire se, formali, ci si dà del lei, oppure se si è passati, con la conoscenza reciproca, a un rapporto più confidenziale. Mi sono chiesto per tutto il tempo quando i due protagonisti avessero oltrepassato la soglia delle buone maniere per scoprirsi confidenti. Ma, in verità, impossibile dire se la loro relazione vada mai oltre qualcosa. Nascosta, trattenuta, platonica. Breathe in parla di un uomo sposato che intraprende una relazione clandestina con la ragazza che ospita per un semestre, ma non esiste malizia. E poi, ai paesaggi bucolici e ai primissimi piani su quei volti acqua e sapone, si aggiunge la musica classica; la professione del musicista. Bravissimi e naturali la Jones e Guy Pearce, in una prima parte in perfetto equilibrio, pure un po' magica, che quando si scopre terrena, dotata di un peso suo, perde qualcosa. Il film di Drake Doremus è l'equivalente di un sussurrare, di uno sfiorarsi, di un non dirsi, di un camminare in punta di piedi. Un mezzo gesto, perlopiù nascosto, che è significativo proprio perché destinato a non completarsi: a non diventare un dialogo, una carezza, un confronto, una fuga. (7)