Visualizzazione post con etichetta Relazioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Relazioni. Mostra tutti i post

lunedì 27 giugno 2022

Le serie TV per il Pride Month: Le fate ignoranti | Euphoria S02 | Heartstopper | Conversations with Friends

Vent’anni fa Ferzan Ozpetek apriva il cinema italiano al mondo queer: era un’iniziazione. È da vent’anni, salvo rare variazioni, che il regista italo-turco sembra riproporre però lo stesso lungometraggio: dovrebbe sorprenderci, dunque, l’idea di un reboot del suo primo successo? Godibilissima ma tutt’altro che necessaria, paradossalmente ben più conservatrice del film originale, la serie di Le fate ignoranti esplora meglio le tensioni del triangolo e le esistenze dei personaggi secondari. Questa, infatti, non è soltanto la storia di una giovane vedova che conosce l’amante – uomo – del marito defunto. Ma anche quella di un ritorno alla vita che passa attraverso la conoscenza di personaggi troppo orgogliosi, troppo solari, per accontentarsi di appartenere a una minoranza. Nel cast poco da segnalare a parte la grazia principesca di Cristiana Capotondi, il fascino animalesco di un sempre bravissimo Eduardo Scarpetta (di gran lunga superiore a Stefano Accorsi), i sorrisi per le macchiettistiche Paola Minaccioni e Ambra Angiolini. Appaiono un po’ svogliati i cenni all’attualità – unioni civili, omofobia e transfobia quanto basta – e, nel sonnacchioso epilogo, il viaggio in Turchia della protagonista restituisce sì un passato al personaggio dell’attrice feticcio Serra Yilmaz, ma finisce per annullare il desiderio di emancipazione della Antonia delle origini. Restano le case splendide e i figuranti attraenti, le terrazze affollate, il fiabesco senso d’armonia, i balli improvvisati. In quel condominio romano, infatti, mi prenoto volentieri per passarci il prossimo Ferragosto. (7)

È stata la rivoluzione televisiva della sua annata. Un'esperienza lirica, appassionata, vertiginosa: in una sola parola, euforica. Tornata dopo una lunga gestazione sul piccolo schermo, la serie TV sulla generazione Z meritava grandi aspettative. Sarebbe stata nuovamente all'altezza? Sì e no. Pur confermandosi ineguagliabile per messa in scena, recitazione e scrittura, questa volta alza perfino di più l'asticella e propone un ciclo di episodi in cui, soprattutto in prima battuta, si fatica a trovare un filo conduttore coi precedenti. Le canoniche storyline devono sottostare a uno show nello show. Spesso antinarattiva, senz'altro tronfia ed eccessiva con i suoi barocchismi, a detta di alcuni un po' vuota, Euphoria sceglie il cammino dell'arte per l'arte. Come dimenticare gli sbarellamenti da Emmy di una sempre incredibile Zendaya, che per un'ora intera fugge – come in una canzone di Amy Winehouse – dai familiari che vogliono spedirla in rehab? Come non perdonare la rivelazione Sydney Sweeney, che a furia di pianti isterici e vestiti scollatissimi ci lascia dimenticare quei tanti comprimari mancanti di un'autentica evoluzione? Chi preferire, ancora, tra quest'ultima e la sorella minore Lexi, che si innamora di uno spacciatore e, a sorpresa, ruba la scena a tutti svelandosi a teatro? C'è chi, come quell'Eric Dane al centro di uno straziante coming out, sa imporsi comunque in questa fiumana densissima. E chi, come Hunter Schafer, regala rari palpiti accanto alla sua sofferta Rue: quelli lasciamoli ai triangoli amorosi che si sporcano d'ossessione; ai flashback su un'omosessualità taciuta per perbenismo. E ai voli pindarici di una terza stagione da tornare a commentare sui social, in futuro, puntata dopo puntata: da amare e odiare. (8)

Lui, goffo e timidissimo, mingherlino, è l’unico studente dichiaratamente omosessuale di una scuola maschile; l’altro, popolare e muscoloso, è già una promessa dello sport. All’apparenza lontani anni luce, i due adolescenti si scoprono compagni di banco e, presto o tardi, molto più che buoni amici. Può un amore nascente sfidare convenzioni sociali ormai scolpite nella pietra? Ispirata ai graphic novel della fortunatissima Alice Oseman e già confermata per altre due stagioni, Heartstopper è una serie da seguire con gli occhi a cuoricino. La piccola ma grande storia d’amore tra una vittima di bullismo e la stella della squadra di rugby, schierati – insieme agli amici più stretti – contro i luoghi comuni. L’originalità non è di casa, soprattutto considerato il target adolescenziale e progressista di Netflix. Ma gli attori tenerissimi, l’aplomb da commedia inglese, i colorati sprazzi fumettistici e il cameo di mamma Olivia Colman, sempre splendida, fanno davvero la differenza. No, non ho più l’età e qui e lì ho senz’altro percepito il divario generazionale. Ma quanta delicatezza e quanta dolcezza in questi episodi, tanto carini da apparire disarmanti: con i tempi che corrono, pregi di questi non bastano mai. (7)

Lei è una poetessa dall’aria malinconica, afflitta da una famiglia disfunzionale e da un passato da cui non riesce a liberarsi. L’altra, storica ex nonché migliore amica, è una musa scostante dall’accento americano. Gli altri, invece, più adulti di loro, sono una scrittrice di successo e il marito attore: infelici a modo loro, inseguono le emozioni della giovinezza perduta. Il quartetto dell’esordio di Sally Rooney arriva sul piccolo schermo ma non conquista. Per quanto fedele al romanzo, la serie vorrebbe essere più una riproposizione – impossibile – di Normal People che l’adattamento di Parlarne tra amici. Durante la lettura mi ero fatto un’idea diversa del romanzo: lo immaginavo sexy, verboso, dotato della leggerezza intelligenze delle commedie di Allen. Avrei voluto viverci. Qui, invece, è tutto più indie, intimista e inutilmente impegnato. Tutti appaiono perennemente tristi e pensierosi, nonostante i flirt continui e le vacanze gratuite in Croazia. Il cast, guidato dall’intensa e sconosciuta Alison Oliver (anche se l’elemento più memorabile è la voce di Joe Alwyn), è ben assortito ma manca di chimica. La regia di Lenny Abrahmson è un sogno da film Sundance. Ma questa volta sono i toni a sembrare fuori fuoco. Possibile che questa chiacchierata lunga dodici episodi coinvolga più quando si parla di endometriosi – argomento mai affrontato in precedenza sul piccolo schermo – che di poligamia? Provaci ancora, Sally: hai un altro romanzo – il tuo più bello – da trasporre. (6,5)

giovedì 24 marzo 2022

Recensione: Fedeltà, di Marco Missiroli

| Fedeltà, di Marco Missiroli. Einaudi, € 12, pp. 232 |

Lo avevo in libreria dai tempi dello Strega, incastonato fra gli altri Supercoralli dello scaffale. Amato da alcuni, odiato da altri, Fedeltà divideva come soltanto i romanzi sulla bocca di tutti sanno fare. L'ho recuperato anni dopo, con l'adattamento televisivo appena sbarcato su Netflix. Mi figuravo un Missiroli dissacrante, sfrontato, provocatorio – il suo romanzo precedente aveva pur sempre un culo in copertina, no? Sottile e stratificato al tempo stesso, talmente elegante da risultare un po' freddo, il romanzo racconta molto più e molto meno di un tradimento coniugale. Costellato di bugie e non detti, di atti mancati trasformati in rimpianti dall'incidere del tempo, analizza la diffusione di un contagio di proporzioni collettive: il sospetto. La coppia non è un fragile nido, bensì un microcosmo scosso da un sisma: i protagonisti lo chiamano il malinteso. Carlo – trentacinque anni ben portati, professore di scrittura creativa, impiegato presso una piccola casa editrice: nessun romanzo all'attivo – viene visto nei bagni dell'università in atteggiamenti compromettenti. Perché stringeva tra le braccia Sofia, una studentessa romagnola coperta di deliziose lentiggini e dalla cappa angosciante della tragedia? Travolta dai dubbi, Margherita – moglie di Carlo, agente immobiliare – si rilassa più del dovuto sotto le mani del nuovo massaggiatore. Ma quali pulsioni nasconde Andrea, che una volta abbandonato il centro di fisioterapia si immerge in un controverso sottobosco di violenza per sfuggire a sé stesso?

Che parola sbagliata, amante. Che parola sbagliata, tradimento.

Sullo sfondo, contrapposta nella seconda parte a una Rimini felliniana, c'è una Milano prismatica, multiculturale e pulsante, destinata spesso a rubare la scena ai protagonisti stessi. Il pensiero di acquistare un appartamento diventa per Carlo e Margherita un'illusoria distrazione: lì saranno finalmente felici? Anna, la mamma della protagonista, lo domanda perfino a una cartomante: paga per conoscere il futuro dei propri cari, ma è il presente, intanto, a essere un'incognita. All'apparenza povero di avvenimenti eclatanti, il romanzo mi ha ricordato Sally Rooney. I protagonisti fanno cose e vedono gente; pensano troppo. Perfino il sesso, descritto raramente – anche se ricorderò con intensità un incontro intimo con il film Una giornata in particolare in sottofondo –, riguarda più le teste che i corpi: è cerebrale, immaginato, addomesticato. La fedeltà secondo Missiroli è un concetto ampio, che a differenza del banale adattamento televisivo va oltre le corna e le fantasie peccaminose. Riguarda, infatti, anche quei comprimari appartenenti a generazioni differenti: ognuno con le proprie eredità (Sofia alle prese con l'attività del padre, Andrea con l'edicola di famiglia), ognuno con i propri segreti (Anna, vedova, sa che il marito ha amato un'altra donna), ognuno con un legame peculiare con la coppia protagonista (una corrispondenza a colpi di libri bellissimi, una corsa in ospedale con una mano insanguinata, un fumetto di Tex sul comodino).

Non era “ancora”. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Sui pedali, alzandosi come a pochi metri dal traguardo, si era sentito invadere dalla gioia dietro lo sterno. Aveva percorso la discesa con la certezza che quello fosse il culmine e l’addio di una stagione, e che sarebbe entrato di lì a poco nella sua nuova vita da uomo. Si addormento’ con la stessa malinconia, o forse avrebbe potuto dire che era contentezza.

La seconda parte, ambientata nove anni dopo, spariglia le carte in tavola: lascia spazio a personaggi mutati, a cambiamenti imprevedibili e ospita un ulteriore terzo incomodo – il karma. Carlo e Margherita hanno prurito, ma non si grattano. Hanno tanto da, ma non dicono. Hanno occasioni per concedersi, ma non si concedono. Contenutissimo, sofisticato, mai esplicito, Fedeltà è l'esatto opposto del fuoco della passione. Dimenticate i vestiti che cadono sul pavimento, le porte chiuse a chiave, i letti che cigolano. È Closer, non The Affair. I protagonisti sono legati secondo il principio dei vasi comunicanti e, mostrati nudi e in controluce, confessano al lettore – non ai rispettivi partner – la tentazione irrinunciabile di essere altro da sé. Si può elaborare ciò che è stato. Come relazionarsi, invece, con ciò che non è stato mai? Si può perdonare un'avventura extraconiugale – o, venuta meno la fiducia, in alternativa, si può porre fine alla relazione. Ma come perdonare a noi stessi, invece, la negazione di un ultimo slancio vitale prima di diventare adulti?

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Arisa – Verosimile

giovedì 1 aprile 2021

Recensione: Ballo di famiglia, di David Leavitt

 
| Ballo di famiglia, di David Leavitt. Sem, € 17, pp. 230 |

I racconti non mi piacciono. Iniziava così, il mese scorso, il post dedicato a una lettura insoddisfacente. Una raccolta con il demerito di aver riacceso gli antichi dissapori tra me e le storie brevi: troppo slegate – scrivevo allora –, troppo indolori per lasciarsi amare. La scoperta folgorante di David Leavitt, all'improvviso, mi costringe a contraddirmi. Considerato un maestro della narrativa americana, l'autore – classe 1961 – incanta con la ristampa di Ballo di famiglia, tornato di recente in libreria con l'illuminante traduzione di Fabio Cremonesi. Il volume comprende dieci racconti, vari per punti di vista e lunghezza, ma accomunati da tematiche che spaziano dalla malattia all'abbandono, dalle relazioni alla sessualità. Leggerissimi, delicati, emozionanti, catturano a regola d'arte quelle famiglie infelici a modo loro – il patriarcato, infatti, è già in crisi – a cui tanto sono affezionato.

Non fidarti mai della pulizia. Tutte le cose brutte – le cose davvero brutte – succedono nelle case pulite, dove tutto è ordinato e tutti si dicono buongiorno e nient'altro.

I Campbell ospitano il fidanzato del primogenito: benché progressisti, si scoprono a disagio all'idea di condividere lo stesso tetto. La signora Harrington, neodivorziata con tre figli a carico, si proietta al giorno in cui comincerà la chemioterapia. I Dempson, freschi di separazione, passano due settimane nel cottage di sempre tra riti, tradizioni e illusioni di riconciliazione. Una donna, reduce da un incidente stradale che ha ridotto il marito a un vegetale, si scopre fuori posto per via dell'incomunicabilità crescente: la figlia in piena pubertà, il figlio nerd e la madre, ossessionata dai primi cordless, le appaiono alieni. Danny, piccolo ma già inquieto, viene affidato alle cure degli zii: dal padre omosessuale e dalla mamma depressa ha ereditato un'irreversibile inadeguatezza. Suzanne, con la scusa del diploma del figlio, organizza una festa: la presenza di una pecora nera creerà scompiglio. Stanca di mostrarsi coraggiosa, una donna in fin di vita chiede il sostegno della prole. Tre sorelle, mai state unite, si riuniscono per un funerale. Celia, migliore amica di una coppia gay, riflette sul suo destino di eterna non protagonista mentre fa da custode agli equilibri malsicuri dei due. Tra sogno e realtà, infine, un uomo passeggia sul Golden Gate e ripensa a chi non c'è più.

E se il destino delle madri era non aspettarsi niente in cambio, il destino dei figli era non dare niente in cambio?

Perfettamente distinguibili ma legati dalla coerenza di un unico fil rouge, i racconti ci invitano a sbirciare dal buco della serratura le esistenze sonnacchiose della media-borghesia californiana. Il livello è altissimo. Con una scrittura superba, semplice all'apparenza ma in realtà frutto di aggiustamenti certosini, Leavitt presta ascolto alle donne in lacrime, agli uomini assenti e agli adolescenti ribelli, studiando il perbenismo imperante sotto il vetrino del telescopio. Apparentemente sembra andare tutto a gonfie vele. Si tratta sempre di storie senza accadimenti eclatanti, giocate sul divario generazionale e su piccole rivalità quotidiane; i protagonisti non fanno baldoria e raramente alzano la voce. Sfoggiano sorrisi tirati, invece, e talora usano l'arma a doppio taglio dell'ironia. Animati da un astio sottile, si camuffano dietro la cortina della buona educazione. E nascondono la sporcizia sotto il tappeto per quieto vivere, benché abbiano una colf profumatamente pagata. Correvano gli anni Ottanta. L'autore, esordiente, aveva ventitré anni. Premonitore in maniera sconcertante, più contemporaneo di Sally Rooney, Ballo di famiglia è ambientato ieri ma parla dell'oggi in maniera sorprendente e, attraverso i suoi raffinati non detti, lascia trapelare il disagio. È un party in piscina da affrontare con i superalcolici alla mano e la lingua tra i denti: di quelli che ispirano una vaga tristezza e infondono claustrofobia in quei balli a centro pista che sembrano un intrico mostruoso di braccia e gambe da cui vorresti fuggire. I racconti non mi piacciono? Non era ancora stato invitato a questa bellissima rimpatriata. 

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Platters - Smoke Gets In Your Eyes 

venerdì 12 febbraio 2021

Verso gli Oscar: Malcolm e Marie | Promising Young Woman | Pieces of a Woman

110 minuti, due soli attori, un film girato in pieno lockdown. Pochi mezzi ma grandissimi ambizioni, per un dramma da camera che vanta l'autore della serie TV Euphoria ma che nello stile – il bianco e nero, il sottofondo jazz, il montaggio concitato, il ricorso alla camera a mano – urla Nouvelle Vague in ogni sequenza. È l'una del mattino. Un regista e la sua musa tornano dalla prima di un film. In attesa di leggere le recensioni della critica bianca di turno, si scontrano: mentre lui è su di giri, euforico fino a sembrare molesto, lei appare al contrario amareggiata per via di una mancanza. Il compagno, novello Spike Lee, non l'ha ringraziata pubblicamente. Il film è più di chi lo gira o di chi lo ispira? Contano più la storia o lo stile? Perché, soprattutto, stare insieme a una venticinquenne con un passato dolorosissimo alle spalle: voglia di saccheggiarne il vissuto, oppure amore? Sexy e granitici, verbosi e in forma smagliante, John David Washington e Zendaya sono due terroristi emotivi che si braccano come pantere in una gabbia di vetro. Urlano recriminazioni da un capo all'altro della casa. Si rimpinzano di maccheroni al formaggio, ridono, piangono, si stuzzicano. Trasformano il tavolo della cucina o il talamo in un ring: a bordo si disputano sfuriate e tregue, amori e guerre, crudeltà e dolcezza. Mentre Washington fa l'istrione, grazie a un personaggio irrequieto ma ben più conformista del previsto, Zendaya ammalia recitando per sottrazione: l'ex ragazzina prodigio, ormai donna dalla bellezza statuaria, è una pantera nera che ha conosciuto la vita selvaggia e tutto il suo pericoloso degrado. Malcolm e Marie cercano ora confronti urlati, ora coccole spinte, ora segreti mai svelati, in una gara di bravura senza pari: soltanto alla fine decreteremo chi avrà l'ultima parola. Esperimento pretenzioso ma vincente – più a fuoco di Mank nel raccontare i meccanismi produttivi hollywoodiani –, il lungometraggio di Levinson divide critica e pubblico. Citando il suo protagonista, è l'esempio di un cinema estetizzante disinteressato a veicolare un messaggio morale, ma pieno di cuore ed energia. Il risultato è un manuale di critica cinematografica fuso ad arte con i referti di un'autopsia di coppia. (8)

Non fatevi ingannare dal dolce visino da cucciolo smarrito di una Carey Mulligan qui in stato di grazia, tutta vestiti confetto e rossetti vermigli: è una forza della natura. Non fatevi ingannare dalle etichette né dai sottogeneri: questo non è il solito rape and revenge. Un po' Lolita, un po' Lisbeth Salander, la giovane protagonista è una cacciatrice di predatori sessuali. Nemica giurata degli uomini che non rispettano le donne, è un'adescatrice amante dei travestimenti e dei colpi di teatro. Eccola in un bar, con le lunghe gambe messe in evidenza dalla gonna corta. Eccola a una festa di addio al celibato, agghindata come un'infermiera sexy. È strategicamente in attesa che qualcuno la abbordi. Ma le sue dita affusolate, dalle unghie sempre smaltate, sono tagliole pronte a serrarsi sui predatori notturni. Il suo diario contiene una lista chilometrica di nomi maschili, affiancata da croci rosse. Fredda e spietata, sta perdendo il contatto con la realtà: dentro le monta infatti un odio crescente, esagerato, incontrollabile. Come il titolo suggerisce, un tempo è stata una ragazza promettente. Poi cos'è successo? Perché il ritorno a casa dei genitori, la vita in pausa e le rinunce; perché i pensieri di vendetta, tossici tanto quanto le ingiustizie? Un nuovo amore – quello per un adorabile pediatra, ex compagno d'università – sarà forse più forte della vecchia sete di vendetta? Folgorante, l'esordio alla regia della rivoluzionaria Emerald Fennell – finora conosciuta come attrice, è stata Camilla nell'ultima stagione di The Crown – è una commedia nera fieramente pop – l'irresistibile colonna sonora oscilla da Britney Spears a Paris Hilton –, che prima intriga da morire, poi diverte e fa sospirare, infine sconvolge per via delle tinte più fataliste. Frullatore di toni, temi ed emozioni, Promising Young Woman è un grido femminista che ricorda le argomentazioni della migliore Diablo Cody e vanta le carte giuste per sollevare l'Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale. (8)

Una giovane coppia sceglie che il loro bambino nascerà in casa. In seguito a tragiche complicazioni, purtroppo, il neonato ha vita breve. La colpa di chi è? Di una madre alternativa e dunque irresponsabile? Dell'ostetrica? Credevo che avrei visto un piccolo film con una grandissima attrice protagonista. Invece, oltre a quel parto lungo un piano sequenza di cui tutti a giusta ragione parlano, c'è anche tanto altro. Una parabola sull'elaborazione del lutto e sul perdono, piena di pudore e decoro, con simbolismi innumerevoli – le mele, il ponte in costruzione, i negativi fotografici – che una volta sbrogliati mi hanno ridotto impunemente in una valle di lacrime. Viscerale nella prima parte, apparentemente distaccata nella seconda, la premiata Vanessa Kirby è la padrona perfetta della propria storia e del proprio dolore. Bellissima e composta, nell'incipit suda, geme, urla, piange, si contorce. Ma la sua sofferenza fisica, presto, lascia spazio a quella interiore. Destinata a tramutarsi in regina di ghiaccio, prende a guardare il mondo, le relazioni umane e gli altri bambini con una specie di indifferenza. Benché centro nevralgico del film, è sempre altrove: un fantasma inquieto che sembra trovare sfogo soltanto nella controversia, nel rifiuto, nello scontro con gli altri membri della famiglia. Egoista, orgogliosa, trincerata in una devastazione solo e soltanto sua, entra in rotta di collisione con la madre conservatrice – Ellen Burstyn, memorabile – e con il compagno – Shia LaBeouf, controparte tenera e animalesca destinata a scelte per me tutt'altro che contestabili. Nemmeno i primissimi piani possono catturare l'essenza del personaggio di Vanessa Kirby. Perfino nella scena più toccante, quella del processo, sorprende con un aplomb estraneo agli strepiti: è ai comprimari, infatti, che spetta la parte più emozionale del film. Un puzzle in cerca di una risoluzione, che fa però storcere il naso per il didascalismo un po' melenso della scena finale. Il resto è una bomba emotiva destinata a implodere in silenzio, ma anche a seminare schegge – e semi, sì – dappertutto. (7,5)

giovedì 5 novembre 2020

Recensione: Cose che succedono la notte, di Peter Cameron

| Cose che succedono la notte, di Peter Cameron. Adelphi, € 19, pp. 240 |

L'inizio di questo romanzo dobbiamo sbircialo attraverso un finestrino ricoperto di brina. Dall'altra parte, a bordo di un treno di cui sono gli unici passeggeri, siedono compostamente un uomo e una donna senza nome. Il mezzo di trasporto scorre tra tunnel e foreste, muovendosi senza posa in coni d'ombra che resteranno impenetrabili fino all'ultima pagina. Le temperature sono prossime allo zero. Il paesaggio, fuori, è quello di un imprecisato paese nordico situato sopra il sessantesimo parallelo. Da qualche parte, non troppo distante, si agita un mare ghiacciato. La coppia newyorchese si è spinta fino alla fine del mondo per adottare un bambino, una creaturina paffuta che chiameranno Simon. L'umore, nonostante tutto, non è dei migliori. Sposati da una decina d'anni ma minacciati dalla sterilità, l'uomo e la donna fronteggiano in silenzio un ulteriore dramma: la malattia di lei, giunta al punto di non ritorno. Mentre lui resta lucido, realista ma sempre affettuoso, lei si trincera invece nella rabbia cieca: preferirà confidare nelle magie miracolose dei ciarlatani, anziché nelle inutili premure del compagno.

Ricorda, tutti ci sentiamo così. Viviamo in un'epoca buia, nessuno riesce a trovare la propria strada. Procediamo a tentoni, come i ciechi. Somigliamo a quegli animaletti sotterranei che scavano la terra fredda e umida nella speranza di trovare una radice commestibile. Noi non siamo migliori. […] Ma ci sono cose peggiori dell'essere ciechi e del procedere al buio, cose molto peggiori.

Amandosi tra alti e bassi, a dispetto dell'incomunicabilità crescente, l'uomo e la donna trascorrono la prima di una lunga serie di notti di neve in un hotel dal nome impronunciabile: una struttura kitsch, tutta moquette a pelo lungo e arabeschi fuori moda, che sembra un incrocio tra la quarta stagione di American Horror Story e una commedia pastello di Wes Anderson. Coloro che affollano il bar e la hall, però, sono proprio usciti da un film esistenzialista del miglior Paolo Sorrentino. Ciarlieri, malinconici e solitari, gli altri ospiti sembrano mossi da un'euforia ingiustificata. Sconvolgono le simmetrie dei dipinti di Hopper e, amichevoli, pronunciano soliloqui teatrali e raccolgono confessioni intime. Mentre l'acquavite scorre a fiumi e le sigarette bruciano fino al filtro, l'uomo e la donna faranno in particolare la conoscenza della deliziosa Livia Pinheiro-Rima – un'anziana artista in là con gli anni, con un passato rocambolesco e una vistosa pelliccia d'orso – e di Henk, un panciuto uomo d'affari pronto a importunare il protagonista con continue avance sessuali. Il pensiero dell'adozione passerà improvvisamente in secondo piano quando la coppia verrà a sapere dell'esistenza di un guaritore, fratello Emmanuel: se esistesse una cura, il protagonista – destinato a diventare vedovo – non avrebbe più bisogno della “toppa” di un neonato? Il mio primo Peter Cameron, iniziato a Halloween, parte da spunti fortemente sinistri.

Non ha niente a che fare con l'amore. La gentilezza – che parola orrenda – la riserviamo a chi non amiamo, a chi non possiamo amare. Siamo gentili con quelli che non amiamo proprio perché non li amiamo. È lì che entra in gioco la gentilezza: quando non c'è amore.

La coppia spogliata di un'identità, gli scenari innevati e le stranezze diffuse, accanto alle riflessioni sul disamore e sull'elaborazione dei traumi, mi hanno ricordato moltissimo i fasti di Sto pensandodi finirla qui: l'ultimo capolavoro di Charlie Kaufman dove ogni stranezza si abbinava a un simbolo preciso e il mistero angosciante, nella poesia dell'epilogo, si trasformava a sorpresa in un musical. Forse non il romanzo più adatto per una conoscenza preliminare, soprattutto perché i dubbi del lettore sul reale significato della storia non verranno mai fugati del tutto, Cose che succedono la notte è una lettura atipica e suadente, personale e onirica. Una terapia di coppia raccontata in un eterno dormiveglia, in cui lo stile di Peter Cameron – rassicurante e caldo, con i suoi dettagli vitali, con i suoi dialoghi veritieri – aiuta le pupille ad abituarsi all'assenza di luce. Non tutto torna al proprio posto, anzi: a ben vedere manca un senso manifesto, una morale scritta all'ultimo rigo, ma il viaggio è stranamente confortevole. Me ne sono accorto verso la conclusione, afflitto dalla malinconia che solitamente accompagna la fine delle vacanze: in questo limbo ci avrei messo le tende. Lì dove avrebbe potuto prevalere l'irritazione, infatti, trionfa una curiosità irresistibile nei confronti di una psichedelia alla Becket. Cose che succedono la notte è un'elaborazione dell'inconscio e del quotidiano: più che a un incubo, spesso e volentieri somiglia a un sogno. Di quelli di cui al risveglio - sensazione frustrante ma bella – vorresti correre ad appuntare i dettagli su un foglio volante. Sceso dal letto, purtroppo, non li ricordi più.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Patti Smith – Because the Night

sabato 18 luglio 2020

L'amore, oggi in TV: Love, Victor | Love Life

Con il mese del pride da poco passato, più di qualche spettatore avrà ripensato con un sorriso a fior di labbra a una bella commedia adolescenziale di qualche anno fa: Love, Simon. Una storia di scoperta e sessualità, pensata eccezionalmente per il grande pubblico, con al centro una tematica fortunatamente non più tabù: l’omosessualità. Normalissimo benché accidentato, l’amore telematico descritto nel film di Greg Berlanti era raccontato dalla voce del promettente Nick Robinson. Trasposta sul piccolo schermo, in uno spin-off annunciato a sorpresa, la vicenda cambia ovviamente protagonista, ma non i toni ispirati: vi presento Victor allora, un liceale di origini ispaniche, reduce da un trasferimento e da un’epifania che spaventa. È attratto, infatti, dal suo stesso sesso. Su Instagram si confessa proprio al noto Simon, in un metaforico passaggio del testimone: il vecchio protagonista, che ormai vive a New York con il fidanzato storico, all’occorrenza gli farà da guida e supporter. Diviso tra un collega di lavoro con il sorriso da marpione e una bellissima coetanea, verso cui prova però soltanto un’innocua amicizia, Victor vive nell’incertezza. Come fare chiarezza? Come dirlo alla famiglia, se a differenza di quella di Simon è molto tradizionalista? Per quanto poco indispensabile, la serie Hulu – inizialmente pensata per Disney Plus – punta su tematiche universali, trattate sì con garbo ma senza grande originalità, e sulla caratterizzazione di protagonisti e comprimari. Semplicemente adorabili, si lasciano tutti seguire con empatia, anche quando la prevedibilità è dietro l’angolo. Per fortuna ci pensano le famiglie disfunzionali, al solito, a offrire pensieri e spunti di riflessione. Imperfetta, ospitale ma all’antica, quella di Victor è estranea al politicamente corretto: ama il suo secondogenito, ma fa fatica ad abituarsi alle effusioni tra uomini. Cambierà idea, se il coming out è nell’aria? Retta sul fascino da ragazzo della porta accanto del giovanissimo Michael Cimino – omonimo del regista –, Love, Victor mi ha ricordato il formato delle serie TV che andavano in onda su MTV. Vecchio stile, forse, ma non del tutto superata. (6,5)

Una serie TV sull’amore: l’ennesima, uno dice. Ma sorprende il fatto che a produrla sia HBO, disabituata a contenuti freschi e disimpegnati. Così come sorprende che, in tempo di quarantena, tanto era positivo il riscontro del grande pubblico, la serie sia stata resa disponibile per intero senza il bisogno di centellinare gli episodio. Qual è il segreto del suo successo? Difficile dirlo, nonostante io sia l’ennesimo a tesserne le lodi sul web. Love Life racconta, né più né meno, della vita sentimentale di Darby Carter: trentenne, gallerista, che nell’arco di dieci episodi insegue l’utopia di una relazione stabile. Sfortunata con gli uomini sin dal liceo, in una New York piena tanto di opportunità quanto di cantonate, la protagonista – interpretata da una bravissima Anna Kendrick, capace di impersonarla con grazia nelle diverse fasi della sua vita: forse è il ruolo migliore dell’attrice americana, candidata all’Oscar per Tra le nuvole – è sempre di corsa, e con la stessa foga rincorre il principe azzurro. Tra asiatici avventurosi, cuochi irascibili, storie di una notte e improvvisi ritorni di fiamma, qualche volte lascerà e qualche volta verrà lasciata. Carnefice e vittima, cronicamente insoddisfatta, Darby fa però spazio anche agli altri. E guarda alla madre, che fa ancora i salti mortali per compiacere i figli; oppure alla coinquilina, l'incostante Sara, troppo scapestrata per andare a vivere a casa dell’amatissimo Jim. Come spesso capita, il lieto fine – immancabile – avrà un volto inaspettato. No, non è un’altra stupida commedia americana, ma una delle poche sorprese dell’anno corrente. Consolerà gli orfani di Modern Love, attesa chissà quando per una seconda stagione, e piacerà ai fan di 500 giorni insieme, con una voce narrante che scandaglia i gesti della Kendrick come già accadeva con i tira e molla tra Tom e Sole. C’è la durata, ideale: trenta minuti. C’è una padrone di casa a proprio agio ma generosissima, se si tratta di far spazio ai personaggi secondari. C’è New York, un labirinto di scelte sbagliate. Infine la sceneggiatura, ironica con profondità. Insomma: se non è amore questo, allora cosa? (7,5)