lunedì 31 marzo 2014

Mr Ciak #32: Divergent - Il film

Ciao a tutti e buon inizio di settimana! Brevissimo appuntamento di Mr Ciak, oggi, con una recensione un tantino più lunga del solito, ma mi perdonerete. Quando parliamo di trasposizioni, i paragoni con il libro si sprecano. Eh, lo sapete anche voi. Vi parlo, infatti, dell'attesissimo Divergent, che ho visto ieri in lingua. Il 3 Aprile potrete vederlo tutti nei cinema italiani. Al momento, ho in lettura il terzo capitolo della saga e, in settimana, avrete la mia recensione. Che settimana “Veronica Roth” sia, dai! Ditemi qualcosa anche voi. Un saluto, M.



Ho Allegiant sul letto. L'ho acquistato l'altro giorno e il segnalibro è fermo a metà. In questi giorni, ho pensato spesso alla saga della Roth. A perché mi piaceva. Perché mi piaceva? In Insurgent ho perso di vista la domanda e, senza sbilanciarmi troppo, posso dire che nemmeno con il terzo capitolo è amore puro. C'era qualcosa, prima, che ora manca. Un entusiasmo che è andato scemando. Un anno fa, avrei piantonato i cinema della mia zona come solo un vero fan(atico) fa. Adesso è da un po' che i trailer e le pubblicità della trasposizione cinematografica di Divergent mi lasciano freddo. Ho visto il film in lingua, senza aspettare. Avevo l'impressione, tanto, che non ne sarebbe valsa la pena. Invece Divergent mi è piaciuto e mi ha ricordato perché Divergent mi era piaciuto. Una trasposizione rispettosa e con i tempi giusti, coinvolgente, scorrevole, fresca. Giovane. La Roth mi piaceva così, come Neil Burger mostra il suo mondo: impavida, ribelle, leggera come l'aria. Si capisce subito che non siamo al cospetto del nuovo Hunger Games: non c'è particolare struggimento, non c'è paura, non c'è quel nodo che ti lega stretto stretto ai personaggi. Ma dov'è scritto che un distopico debba darti il dormento a tutti i costi? Divergent mi ha lasciato addosso una sensazione incredibilmente positiva. Mi ha dato carica, energia, vigore. Ti contagiano i protagonisti - con la loro euforia, il loro entusiasmo, la loro giovinezza. Dà adrenalina, qualche brivido, fervore. Come un buon action movie. Come un salto nel vuoto. La storia l'ho rivalutata col tempo e così audace, effettivamente, non è. Ha un messaggio – almeno – che ancora devo cogliere. Le introduzioni apportate dal romanzo sono riproposte al grande pubblico, da regista e sceneggiatori, anche con una certa intelligenza. Non ti sommergono con effetti visivi senza utilità. E' fisico, immediato, senza trucchi. Ricrea quella Chicago avveniristica così come la immagini: i treni, il Covo, la ruota panoramica, il momento della Scelta. Scelta di un destino - di un futuro - che ha ricordato al Michele di oggi il Michele dell'anno scorso. In balia di grandi insicurezze, incerto: più del solito. Divergent è l'adolescenza che ti mette alla prova e ti chiede di diventare grande. Prendete quelle generazione intere di medici, ad esempio. Poi arriva un figlio che vuole fare il poeta. Generazioni di operai, e poi arriva un figlio che vuole studiare. Questa mi è sembrata la mia storia, e lo sembrerà ai lettori e agli spettatori che – prima o poi – conosceranno la famiglia Prior. Prove su prove, decisioni su decisioni: quello è crescere. Avevo scritto qualcosa di simile nella recensione del romanzo. Lo so. Be', mi ripeto. Il film mi ha fatto pensare alle stesse cose. Pensieri semplici, comuni, ma che mi erano “piaciuti” e che mi sono “piaciuti”, essenzialmente per questo motivo. Prima che la Roth rendesse le cose troppo adulte, troppo posticce, troppo seriose. I comprimari potrebbero risultare un tantino compressi, ma è un difetto che il film eredita direttamente dal romanzo. La Roth, per me, non ne ha mai creati di straordinari o memorabili. Ma la storia prende subito e il cast è all'altezza – nonostante i miei ragionevoli dubbi. Eppure adoro smentirmi; eppure ho detto più volte che detesto a pelle Shailene Woodley. Traumi da Vita segreta di una teenager americana, suppongo. Lei non è una bellezza, non è una maestra di carisma, ma è una Tris che convince. Si scopre più volitiva, forte, caparbia insieme al suo personaggio. Acquisisce un temperamento che cambia la luce nei suoi occhi e la rende stranamente bella, a tratti. Il suo Quattro è Theo James – volto televisivo, visto in Golden Boy e Bedlam. La differenza d'età tra i due non si percepisce e lui è il solito Quattro che conosciamo tutti: taciturno, scontroso, burbero. Il film non vuole essere la loro storia d'amore – mai – e non ci sono inutili dilungaggini, inutili abusi di zucchero e miele. L'intimità è in un gesto: lui che le sfiora la mano in treno, di nascosto, mentre tutti sono sotto simulazione. Ci sono gli allenamenti, i riuscitissimi scenari della paura, e la tanto mostrata scena dei tatuaggi – con la brava Ellie Goulding che canta in sottofondo – dura il giusto. Neil Burger limita le risatine, i commenti delle ragazzette giulive di turno, i tipici movimenti da fandom. Ashley Judd è bellissima come sempre, nonostante gli anni passino per tutti; Kate Winslet è una cattiva algida, carismatica, senza sbavature; Ansel Elgort – prossimamente con la Woodley in Colpa delle stelle – ha un ruolo piccolo, ma una naturalezza che non è da tutti. L'uso del travelling e l'interessante colonna sonora mettono l'accento sui momenti migliori e il finale, ovviamente aperto, è appagante come pochi. E' la fine di un film, quella che vedi, non del singolo episodio di un serial magari lunghissimo. Procede spedito, dunque, come un treno in corso. E non come uno di quelli della nostra Trenitalia. Non conosce cos'è la noia, nonostante la durata sfori di qualche minuto le due ore. Carica, soddisfa, convince. Non è una storia che farà storia, ma intrattiene ad hoc. Non ha poi tanta sostanza, ma grossomodo è quello che penso anche del romanzo, a cui il film si attiene in tutto e per tutto. Mi ha divertito, e questo è l'importante. Potrebbe anche mettere pace tra la Roth e i suoi lettori più invipetiti, chissà. Non dico che, per tornare a casa, la settimana prossima, salterà direttamente dal treno, ma – al posto dell'ascensore – sceglierò di farmi qualche rampa di scale a piedi. Ero un Intrepido, a fine visione, sì. E' l'effetto Divergent? (7-)

sabato 29 marzo 2014

Recensione: Un giorno, forse, di Lauren Graham

Ciao a tutti, amici. Come state? Io mi sono ufficialmente ripreso. Dopo il “picco” di giovedì sera, adesso zero febbre e soltanto un brutto mal di testa. Lunedì si ricomincia. Oggi, quindi, ho deciso di parlarvi della mia ultima lettura. Una novità molto attesa che ho avuto modo di leggere in anteprima, grazie alla Sperling. Scoprite le mie impressioni in questa breve recensione, se vi va. Un abbraccio e buon weekend, M.
E' soltanto un gesto scaramantico, ma osservare l'East River dal treno è un rito che mi ricorda quanto sono piccola: solo una delle migliaia – anzi, dei milioni – di persone che hanno guardato il fiume prima di me, che sono arrivate a New York con un sogno. Non importa se l'hanno realizzato o no. Mi dà speranza.

Titolo: Un giorno, forse
Autrice: Lauren Graham
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 360
Prezzo: € 17,90
Data di pubblicazione: 25 Marzo 2014
Sinossi: Quante volte Franny Banks, passeggiando sulla Quinta Avenue con gli anfibi e l'uniforme da cameriera, si è detta: Un giorno, forse, camminerò su questa strada con i tacchi alti e il portamento da vera diva. Quando è arrivata a New York, aspirante attrice e aspirante molte altre cose, Franny aveva un piano: sfondare nel cinema nel giro di tre anni. Ora ne sono passati due e mezzo, e le cose non stanno andando esattamente come sperato. La sola parte che ha ottenuto è stata in uno spot pubblicitario di imbarazzanti maglioni natalizi, e gli unici fan sono i suoi due coinquilini. Forse è il caso di trovarsi un piano B, come le consigliano tutti: Franny già si vede mentre torna a casa da suo padre, sposa l'ex fidanzato storico e "si sistema". Eppure, dentro di sé, sa che non è ancora pronta a tradire il suo sogno e non vuole rinunciare a seguire le orme dei suoi idoli: Diane Keaton e Meryl Streep. La svolta arriverà inaspettata, come in una battuta fuori copione: un giorno, durante lo spettacolo di fine corso alla scuola di recitazione, Franny cade rovinosamente sul palco. Sembra la fine della sua carriera mai decollata, e invece sarà il vero inizio. Tra esilaranti avventure sul set, incontri bizzarri, provini assurdi e un amore inatteso, Franny scoprirà che la vita può sorprenderti molto più di un film.
                                                  La recensione
New York. La Città che non dorme. La Grande Mela... Sarà abbastanza grande, questa mela, per contenere i sogni e le ambizioni di tutti i suoi abitanti? Milioni di vite, milioni di speranze. Tutti con il loro sogno segreto. S'incrociano ai semafori, in metro, nei pub. Camminano in masse infinite per quelle infinite vie. Chi in tuta, chi in jeans e T-Shirt, chi con tailleur e tacchi eleganti. Chi ciondolando tra i passanti, chi schivandoli per non far tardi a un qualche appuntamento, chi perdendosi con lo sguardo tra le luci sempre accese e i grattacieli mastodontici, come se quella fosse la prima volta in assoluto al centro di Time Square. Turisti per sempre – alla scoperta, a ogni passeggiata, di nuovi angoli, nuovi teatri all'avanguardia, nuove audizioni e opportunità impensate. Lo zoom su una ragazza che va di fretta – i capelli crespi e scuri, le scarpe comode e la gonna nera, perché il nero sfina e lei è condannata ad essere una taglia 44 in un mondo di taglie 40: questo è Un giorno, forse. La storia di Franny Banks, e di mille provini, e di corteggiatori a sorpresa, e di una città ricca di possibilità e di aspiranti attori. Una commedia brillante, carica d'ironia e d'amore, ispirazione per una serie TV di prossima uscita, scritta da un'autrice d'eccezione. Una scrittrice per un giorno. Questo è quello che mi ha spinto a leggere questo simpatico chick lit. Genere, quest'ultimo, che conosco poco, ma di cui non mi è impossibile riconoscere i vari pregi. Ne ho letti giusto un paio, in vita mia. O perché non avevo niente di meglio da leggere e, nei periodi di magra, erano quelli che offriva la libreria personale di mamma; o perché quegli chick lit in questione sarebbero diventati film con attori e registi particolarmente amati dal sottoscritto. Vedi Il diavolo veste Prada, vedi Anne Hathaway e Meryl Streep chiamate a recitare sullo stesso set. Il nome in copertina chissà se lo avete riconosciuto subito: Lauren Graham. Vi dice niente? Nella bozza non definitiva che ho letto io, non c'era una sua foto, ma proverò a descriverla io per voi. Occhi azzurri, capelli corvini, naso all'insù, un indimenticabile sorriso tutto fossette. E' così che la ricordo. Trasognata, imbarazzante, non sempre pronta a crescere. La dolce Alexis Bledel l'aveva avuta come mamma e amica per sette stagioni, come Mamma per amica. Erano i primi anni duemila e, a lungo, le Gilmore Girls ci hanno fatto compagnia. Troppo piccolo per seguire un telefilm con la costanza di adesso, accendevo la tivù, quando capitava, e, quando capitava, mi facevano compagnia loro. Di ritorno da scuola, nei pomeriggi privi di tempi morti di Italia Uno, o la mattina, spesso, in vecchie repliche trasmesse invece in giornate che più morte non si poteva, durante le sonnolente vacanze di Natale. Ricordo i colori autunnali della sigla, Carole King che cantava Where you lead, le loro voci e le loro risate nella mia cucina. La prima esperienza di Lauren nel mondo dell'editoria – pur non conquistando del tutto – mi ha divertito e intrattenuto piacevolmente. Sarà che per me tutto è nuovo. Sono nuovi i toni, il senso dell'umorismo, la grazia, le avventure e le disavventure che fanno di Un giorno, forse un romanzo in rosa, ma non un romanzo rosa. Una vetrina, a volte inedita, sul mondo delle aspiranti stelle e sulla fame insaziabile di notorietà. Non potrei dire una sola parola negativa sul suo conto, ma fatto sta che la memorabilità, qui, non è di casa. Questo è l'unico difetto di un romanzo estremamente carino, davvero, ma che potrebbe lasciare il tempo che trova. Purtroppo. Dico purtroppo, ma non penso sia poi un difetto imputabile all'autrice, qui al suo esordio letterario. Magari è tra i limiti del genere, magari no.
Sminuirei lo chick lit, se dicessi che – in fondo – è l'equivalente di carta e inchiostro delle commedie hollywoodiane in cui tutti sono “belli, ricchi e famosi”? Quelle che ti fanno ridere, arrossire, per poi farsi dimenticare, senza pensieri, al film successivo? Un po' prevedibili, confortevoli, confortanti. Le buffe gag della protagonista, quasi certamente, finirano per sbiadire tra qualche settimana e qualche libro, ma in questa storia nuovi e sporadici guizzi sono presenti. I protagonisti, al limite, possono definirsi “giovani, carini e disoccupati”, come nel piccolo cult movie di quegli stessi anni con Ben Stiller, e le loro vicende personali sono meno scontate e facili del previsto. Partono, all'inizio, accasati e con relazioni sentimentali solide e inattaccabili, poi destinate ad essere messe a soqquadro da Cupido e dalle insidie del Red Carpet; non per tutti, inoltre, in queste 360 pagine, arriva il famoso “giorno, forse” delle luci della ribalta. Vivono sotto lo stesso tetto, sopravvivono con lavoretti part-time e con i generosi prestiti di genitori ormai al verde, sbirciano la vita di un solitario vicino – dalle finestre – come se fosse un reality show dal vivo. Sono disordinati, sono perfettini, sono talora in armonia e talora in conflitto. 
Si ritrovano a parlare delle loro giornate senza gioia e delle loro sceneggiature più riuscite, dei loro volti presto nelle poco suggestive pubblicità di detersivi e delle tragedie della televisione, che sembra ingrassare gli attori di qualche chiletto. Franny che cerca di scoprire il mistero legato al suo nome e a sua madre in uno strano racconto di Sallinger, Dan che scrive di fantascienza notte e giorno e che filosofeggia guardando le sequenze conclusive dell'8½ del nostro Federico Fellini. La protagonista è New York. I protagonisti sono gli anni '90. Ambientazione epica, mitica, iconica che ci riporta alle salopette e alle camicie larghe di flanella, alle soap e alle maratone serali di Law & Order con gli amici, sul divano, tra unti cartoni di pizza e supposizioni a fantasia sul colpevole di turno. Gli anni in cui Friends era la sit-com per antonomasia e in cui il taglio di capelli di Rachel faceva tendenza. Un giorno, forse si rifà allo spirito di quel decennio, e questo è il bello, decisamente. Metterlo in scena in quegli anni lo rende nostalgico, riuscito, denso di rimandi a mode e band di passaggio che hanno fatto storia. Una guida simpatica e inedita sulle peripezie del diventare artista, al servizio di una struttura tutta particolare. Alla narrazione in prima persona della giovane protagonista, infatti, si alternano pagine e pagine di esilaranti sceneggiature; frammenti, scadenze e note affidate a una fedele agenda; messaggi imbranati lasciati in segreteria. Leggerissimo, ma non senza una certa ferocia. Vero. Non tutte le autrici di chick-lit sono Sophie Kinsella, ma la Graham ha stile, freschezza, elasticità. Non è una voce tutta sua quello che le manca. Come la sua protagonista, deve averla trovata dopo anni di gavetta. Ma l'ha trovata. In bici, sul ponte di Brooklyn, in una domenica mattina senza traffico: panchine vuote, auto addormentate nei garage di villette di periferia. “Magari non sei ancora riuscita a raggiungere i tuoi obiettivi, ma la tua agenda ti mostra che hai continuato a riempire le pagine. La quantità diventa qualità, come dice il racconto. Non devi credersi per forza, al tuo successo. Devi soltanto stringere i denti e non mollare mai; andare avanti giorno dopo giorno, e qualcosa succederà.”
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Natasha Bedingfield – Unwritten

giovedì 27 marzo 2014

Qui pro cover #2


Ciao, ragazzi. Come state? E' un buon giorno, il vostro? Io mi sono risvegliato, questa mattina, con la pioggia, fuori, e il corpo a pezzi. Credo che l'influenza abbia mietuto una nuova vittima. Oggi, avrei voluto parlarvi della mia ultima lettura, portata a termine ieri sera, ma le mie condizioni non me lo permettono. Mi sento un catorcio umano. E alle quattro ho anche lezione. Vediamo se sopravviverò o meno! Per non stare troppo lontano da voi, quindi, ho voluto proporvi un nuovo appuntamento con Qui pro cover. Una rubrica che nasce per mettere a confronto cover gemelle e cover imparentate alla lontana, ma senza nessunissimo intento polemico. Così, per fare due chiacchiere e due risate in compagnia. I gruppi di cover, come la volta scorsa, sono due. Il primo raccoglie le copertine di tre romanzi disponibili da noi: Gabriel's Inferno, Bianco Celibe e Vampiro, Cuore Nero. Due romanzi sui vampiri – quello della Giusti, tra l'altro, molto bello! - e il primo volume di una trilogia erotica che, a breve, avrà conclusione. Un finalmente lo posso aggiungere, vero? Schiene nude, mani ovunque, gente che si abbraccia appassionatamente. All'Orso Abbraccia Tutti di Colorato so che piacerebbero parecchio. La mia preferita è la prima: un tantino più elaborata del solito. Gli altri romanzi sono ben quattro! Intonate con me: Georgie che corre felice sul prato, dove un alano aveva appena cac... Dite che sto sbagliando il testo? Santa Cristina D'Avena, chiedo perdono. A partire da sinistra a destra, la cover uk di Se tu mi vedessi ora (letto una vita fa: niente di che), Il bosco dei biancospini, l'edizione Mondolibri di Ti vengo a cercare (letto e piaciuto!) e L'amico delle donne. Quattro Cappuccette Rosso – o galline - in fuga. Su queste non ho preferenze: quella della Ahern – che è la più originale – è, paradossalmente, quella che mi piace di meno. Paiono le gambe di Kate Moss, quelle. Voi che ne pensate? Quali preferite? Ditemi, ditemi. Un abbraccio “febbricitante”, M. Non dirò mai più che io non mi ammalo mai.

Un accorato appello, per concludere. Doniamo i nostri piedi nei prati alla Ricerca. Per nuove cover e un mondo più giusto! Ecco i miei. Quando sembrava essere venuta la primavera...

lunedì 24 marzo 2014

Mr Ciak #31: La mafia uccide solo d'estate, Veronica Mars, L'ultima ruota del carro, Giovani Ribelli

Ciao a tutti, amici, e buon lunedì. Si ricomincia. Oggi, vi parlo di alcuni film che ho visto di recente. Tutte valutazioni positive, tutti da vedere. Dall'originalità del prezioso La mafia uccide solo d'estate all'onesta di L'ultima ruota del carro, fino ad arrivare alla “riscoperta” Veronica Mars e al chiacchierato Giovani Ribelli. La più positiva delle note, questa volta, è per i film italiani. Notevolissimi, anche se ognuno a modo suo. Non abbiate pregiudizi (inutili) e recuperateli, se volete vedere qualcosa in cui riconoscervi e in cui riconoscere – per le cose belle e le cose brutte – la nostra Italia. Un abbraccio, M.

Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, nasce a Palermo il 4 Giugno 1972. Su Blogger, anch'io ho un nome d'arte. Un nick da cui questo posticino prende il nome. Io nasco sempre il giorno quattro, ma dell'aprile 1994. A Palermo, sempre. Siamo di due generazioni diverse, noi due. Lui, per età ed esperienza, potrebbe essere mio padre. Ma io un padre ce l'ho, e lui è andato in Sicilia, giovanissimo, nel lontano 1989. Una regione altra, sconosciuta, distante, in cui essere nelle forze dell'ordine non era facile. E papà è nei Carabinieri da quasi trent'anni. Molte delle cose che La mafia uccide solo d'estate mostra, almeno nella seconda parte, lui le ha vissute in prima persona. Quando Falcone e Borsellino erano in vita, lui c'era. C'era quando sono stati assassinati. Io ho vissuto lì per dieci anni. Tanti, a pensarci bene. Metà della mia vita. Palermo è un posto che conosco poco, ormai, ma non è solo un nome “comune” di città che ho sul libretto universitario. Sono nato a Palermo, ma ho perso l'accento. Ho vissuto lì, ma non ne ho mai fatto mie le tradizioni. Eppure, certe cose le sento. Credo sia naturale. E' nel mio dna. La mafia uccide solo d'estate mi ha emozionato, perché ho pensato ai miei genitori – sposati da qualche mese appena e finiti, poco più che ventenni, in un inferno segreto con le fattezze di una splendida cartolina. Ho pensato a mamma, che come la Penelope di un moderno Ulisse, guardava i notiziari da casa, chiedendosi se papà stesse bene. La mafia uccide solo d'estate mi ha stupido, perché è un film bello davvero. Un film per tutti e che parla a tutti, con i toni inediti della commedia e gli ingredienti del dramma storico. Fa fare tante risate, ma è uno scrigno grezzo di verità. Pif scrive, recita, dirige. Pif è formidabile. Ha una sensibilità fuori dal comune, uno sguardo sul mondo unico, una comicità mai scontata. Il suo, è un brevissimo romanzo di formazione, essenzialmente. La crescità di un uomo – prima bambino, poi papà – che, tra pasticcini, appuntamenti al cimitero e colpi di fulmine, si forma per le strade di una città piena di bellezza e piena di crudeltà. Piena di contraddizioni, in cui, ad ogni passo, è possibile incontrare un boss malavitoso alle prese con la nascita della sua amata primogenita o un giudice buono, coraggioso, sognatore che ti offre – al bar – un dolcetto, prima di morire. Questo film è quel dolcetto, sfornato in una famosa pasticceria del centro che avrebbe ospitato una famosa sparatoria. Qualcosa di delizioso, delicato, morbido, ma con i fori di proiettile. Noto per essere l'anima e la mente di Il testimone, su Mtv, il buon Pif abbandona la sua telecamera a mano per il cinema vero, questa volta. Il suo esordio è un piccolo gioiellino di scrittura e montaggio, in cui, in sequenze tratte dai notiziari del tempo, vengono perfettamente incastonati frammenti tutti nuovi. Complimento dei complimenti, mi ha ricordato il miglior Benigni. Quello più schietto, naif, imbranato, che – con naturalezza immensa - parlava di giochi e campi di concentramento nello stesso film.

Veronica Mars: chi non la conosce? E' un personaggio iconico ed è un nome che la biondissima Kristen Bell non si scollerà mai e poi mai di dosso. Anch'io, quando la vedo recitare o prestare la sua bella voce a un cartone animato, la identifico così: “Ma sì, la conosci: è lei, Veronica Mars!”. Piccolo segreto. Io Veronica Mars non l'ho mai visto. Era il 2004, avevo dieci anni e avevo occhi solo per il mio amato The OC: ero puro ed ingenuo, al tempo, e quella di seguire più serie contemporaneamente era un'arte che ancora, purtroppo, non possedevo. Sono passati dieci anni tondi, tondi da allora. La Bell ha ormai una carriera più che dignitosa e la serie, con la terza stagione, si è conclusa. Ma non definitivamente. Diretto da Rob Thomas, un nostalgico, lungo e nuovo episodio a forma di film. L'ho visto... perché sì! Ero curioso, avevo tempo libero e recuperare un centinaio di episodi in un giorno era troppo, anche per me. Da annunciato “non fan”. Qualche anno prima, la stessa cosa era successa con i due film di Sex & The City: mai dato un'occhiata di striscio alla serie HBO, ma per le trasposizioni cinematografiche avevo fatto uno strappo alla regola. Lo stesso è accaduto con Veronica Mars. Come l'ho trovato? All'oscuro dei dettagli più salienti della trama, conoscendo a grandi linee solo l'idea di base, mi sono seduto in poltrona e ho dedicato un'ora e mezza della mia vita a questo mix carinissimo di comicità, dramma, mistero. L'ho seguito alla perfezione e mi sono, a tratti, molto divertito. Non l'ho guardato con l'occhio immancabilmente lucido del fan che vive di ricordi, ma da spettatore aperto – di tanto in tanto - alle sorprese. Da lettore, anche. Se Veronica fosse il personaggio di un libro, posso dire con certezza che la adorerei, assolutamente. Mi è andata a genio con immensa facilità: cazzuta, svampita, ironica, acida nei momenti giusti, ma con una sottile vena romantica. La sua voce ti conduce nella Neptune che, un decennio prima, aveva abbandonato per l'università. E in un nuovo mistero, che ha, come protagonista, Logan - una vecchia fiamma che nemmeno il sospetto ha saputo spegnere. Più che un film in piena regola, questa è una rimpatriata tra amici. Un ritorno alle origini. Un episodio nato dall'intreccio di vari misteri e di varie e spontanee collaborazioni. Il giallo si regge bene, i personaggi appassionano, il ritmo non manca. Anche se invecchiati, la Bell e Jason Dohring sono sempre belli e scommetto che rivederli sullo schermo, insieme, sarà un'emozione immensa per coloro che hanno fortemente creduto in loro, facendo il tifo per quella coppia scoppiata che a volte si odiava, a volte si amava. Curiosità: le partecipazioni alla “reunion” di James Franco, Dex Shepard, Jamie Lee Curtis, Justin Long, Jerry O'Connell. E, sempre dal mondo del piccolo schermo, Max Greenfield (New Girl), Sam Huntington (Being Human US), Krysten Ritter (Non fidarti della Str****dell'interno 23). Per coloro che non l'hanno seguito, dunque, un piacevole e semplice passatempo. Per i fan, scommetto, un mondo. Io sono un nuovo fan, già: recuperare le passate stagioni è nella lista delle cose da fare. Veronica, arrivo... con dieci anni di ritardo, ma arrivo.

Una commedia sincera e sinceramente bella. Una saga familiare, lunga trent'anni e un'ora e mezza appena, su persone comunissime. I protagonisti di L'ultima ruota del carro sono le nostre famiglie in gran completo, che non hanno grandi storie da raccontare, ma che, felici o tristi che siano, - e me lo conceda il caro Tolstoj - sono tutte uniche a modo loro. Dall'assassinio di Aldo Moro al governo Berlusconi, il cast percorre fluidamente tre decenni d'Italia e diverte, emoziona, lascia qualche brivido. Eccelso e camaleontico come sempre Elio Germano, dolcissima e fresca Alessandra Mastronardi, ben delineati i comprimari: un Alessandro Haber impeccabile, un Sergio Rubino volutamente macchietta. Donne e uomini che non esistono più, valori comunissimi che non esistono più. Un discreto montaggio, una recitazione naturale e misurata, una regia pulita, un convincente lavoro di "trucco e parrucco" fanno il resto: i capelli si fanno grigi e radi, la società s'ammala, ma l'essenziale resta. Quello sì. La vita di un uomo qualunque. Una persona onesta, che ha sudato e lavorato tanto, messo al mondo un figlio e un nipotino e scoperto la più grande verità in una discarica piena di sacchetti blu e di mosche. Poetica e struggente l'ultima sequenza, con una meravigliosa Elisa che canta la sua Ecco che. L'epopea di una persona qualsiasi in una storia che, proprio per la sua universalità senza fine, riesce a fare di L'ultima ruota del carro non un film qualsiasi. Meritevole, davvero.

Giovani Ribelli: un film di cui si è parlato poco, male, per i motivi più sbagliati. Spacciato per controverso e scandaloso, in realtà, oscillando tra il romanzo di formazione e il noir, è una pellicola forte e dall'intensità grande. Lo scandalo è pari a zero, ma l'intensità c'è: quella non manca. Un montaggio ottimo, uno script molto curato, personaggi credibili e vivi, alla scoperta delle origini della mitica Beat Generation. La trama? La nascita di un circolo di giovani intellettuali, tra le mura di una tradizionalista e conservatrice università americana. Dove tutto è sbagliato, tutto è proibito, tutto ha regole inviolabili. La grande sfida di questi giovani ribelli è quelle di annientare, da dentro, il sistema, con atti di sfida e protesta, amicizie non destinate a formarsi, versi liberi contrapposti ai rigidi canoni classici. I padri della Beat vengono mostrati in vesti inedite: leggende, oggi, ma che hanno vissuto, come tutti, i turbamenti dell'adolescenza e il rigore delle istituzioni scolastiche. Si scoprono anime affini. Hanno famiglie da lasciarsi alle spalle, sogni di gloria, grandi speranze. I protagonisti sono il timido, confuso e geniale Allen Gisberg – personaggio impersonato da James Franco, tra l'altro, in Urlo – e i suoi nuovi amici: trasgressivi, coraggiosi, straordinariamente fuori dall'ordinario. Giovani Ribelli è la storia della scoperta del talento immenso di Jack Kerouac – interpretato con originalità e umanità dal bravo Jack Houston -, dell'omicidio a sangue freddo di David Kammerer – il convincente Michael C. Hall, alias Dexter - , ma soprattutto è la strana storia d'amore e d'amicizia tra Gisberg e il misterioso Lucien Carr. Un personaggio, quest'ultimo, che esercita verso il fragile Allen una strana attrazione intellettuale, psicologica, sessuale. Ipnotico, tragicamente poetico, con un fascino quasi diabolico, ha il volto dell'eccellente Dane DeHaan – presto in The Amazing Spiderman e nel biopic Life, dedicato a James Dean. Lui è bravissimo, davvero: impersona il suo controverso personaggio con una sicurezza e una naturalezza impressionanti; carismatico e pieno di ombre indecifrabili. Come tutti sapranno, il suo collega altri non è che l'ex Harry Potter, Daniel Radcliffe. Un ruolo difficile, impegnativo, diverso, adulto, che affronta in maniera più che discreta: in generale, convince; sa trasmettere confusione ed emozione, ma il look, purtroppo, non sempre lo aiuta. Anche se protagonista, scompare accanto al meno noto DeHaan: siamo su pianeti a parte. Rubargli la scena non è cosa impossibile, ma non l'ho trovato particolarmete fuori luogo. A volte ha espressioni troppo esagerate e si concede qualche smorfia di troppo, ma il suo lavoro ha anche lati positivi. Lati positivi che, però, non tutti hanno messo in evidenza. Tutti troppo impegnati a parlare della scena di sesso che vede protagonisti lui e Lucien: fisica, carnale, brevissima, ma abbinata – grazie a un lavoro di montaggio alternato, affasciante a dir poco – a immagini di violenza e a frammenti sparsi di poesie. Per nulla volgare. Giovani Ribelli è una storia vera forte e suggestiva, “scapigliata” e romantica. Piena d'ispirazione, fervore, tensione emotiva. Ben diretta, ben recitata, con immagini fluidissime e nervose abbinate a una colonna sonora varia, conturbante, trascinante. Riuscito in parte il tentativo di Racliffe di svestire i panni che l'hanno reso noto, sorprendente e da tenere decisamente d'occhio – invece - il suo giovane collega. 

sabato 22 marzo 2014

Recensione: L'estate del coniglio nero, di Kevin Brooks

Ciao a tutti, amici! Come state? Qui, tutto bene. Tornato a casa, ieri, mi sono messo all'opera. Eccomi qui, dunque, a parlarvi della mia ultima lettura. Una recensione più breve e disordinata del solito, ma non avevo molto da dire e non sapevo, francamente, come dirvelo. L'estate del coniglio nero è un libro semplice come pochi, nella struttura del mistero, ma mi ha profondamente affascinato. Non vi dico niente della trama. Vi parlo solo di un autore tanto, tanto bravo di nome Kevin Brooks. Un abbraccio e buon weekend, M.
Allora eravamo amici. C'erano legami tra noi. Ma allora le cose erano diverse. Noi eravamo diversi. Eravamo bambini. Poi a poco a poco tutto era cambiato. Il mondo diventa più grande, ci si perde di vista, gli amici d'infanzia diventano “gente che conoscevi”. Sì, li conosci ancora, li vedi a scuola tutti i giorni, li saluti ancora, ma non sono più quelli che erano.

Titolo: L'estate del coniglio nero
Autore: Kevin Brooks
Editore: Piemme “Freeway”
Numero di pagine: 423
Prezzo: € 15,00
Sinossi: È un'estate torrida e Pete ha già passato diverse settimane senza fare altro che ciondolare per casa. Fino a quando una telefonata gli cambia la vita per sempre. È Nicole, gli chiede di vedersi. Presto si separeranno, ognuno per la propria strada, il college, Parigi... Sarebbe bello incontrarsi per l'ultima volta con il gruppo dei vecchi amici, solo loro quattro: Pete, Nicole, Eric e Pauly. Pete le chiede di Raymond, anche lui è un vecchio amico, fa parte del gruppo. È vero, è un tipo strano, sembra vivere in un mondo tutto suo al cui centro c'è un coniglio nero; ma Pete gli è molto legato e vuole che sia con loro. Quella notte, però, quando si trovano al luna park, Raymond scompare. E anche Stella Ross, una ragazza del loro liceo diventata famosa. Tutti pensano che i due eventi siano collegati, che Raymond lo strano sia il colpevole. Pete vuole dimostrare a ogni costo che si sbagliano, ma quando segreti, rancori e vecchie gelosie mettono gli amici uno contro l'altro, anche le sue certezze cominciano a incrinarsi...
                                                  La recensione
Quando era iniziato tutto? Quattro giorni prima? Quattro anni prima? Quattro amici prima?” Kevin Brooks scrive il caldo, la noia, la pigrizia. Ricrea la fiacchezza fisica, la spossatezza mentale, l'indolenza dei sedici anni. Dà vita all'estate. Con una penna – dai tratti ora sottilissimi, ora marcati – che scava, suggerisce, crea. Che crea tre mesi di giorni tutti uguali. L'arrivo delle giostre in città, la partenza dei vicini per luoghi esotici, i lati più brutti del caldo. E tu vedi i fiori morti, l'erba gialla e stremata, le facciate delle case che sudano, i rami spogliati da un inverno a trenta gradi. Un inferno per villeggianti. L'alcol, e i cerchi alla testa, e le gambe che ballano senza musica, e la vescica che rischia di scoppiare, e la gastrite. Il caldo che sbriciola le strade e gioca a creare nuovi e tremolanti forme con il sole e le ombre. Le giostre, con le luci, i colori, le discoteche erranti. Gente che pomicia, gente che vomita. Gente che va, gente che viene. Un protagonista indecifrabile. Familiare e del tutto alieno. Obnubilato, fatto, sfatto. Una persona che non sa dire di no. Un ragazzo troppo buono, nel profondo: gli passano una canna e non sa dire di no; gli passano l'ennesima bottiglia e non sa dire di no; gli chiedono un bacio, un abbraccio, un po' di affetto e non dice di no. Mai. L'estate del coniglio nero racconta una settimana della vita di Pete e l'adolescenza intera, ma con gli strumenti del thriller. D'altronde, che c'è di più misterioso? Un'età sottile, un ponte tibetano sospeso su un fiume nero, una discarica in fiamme, una città di gente che eri solito conoscere. Assi sottili, funi sfilacciate, il rischio di cadere giù ad ogni passo. Inquieta, ma affascina. E' vertigine pura. Non è il romanzo dell'anno, vero. Correre in libreria per accaparrarsene una copia non è indispensabile. Eppure, con questo, non voglio dire che non mi sia piaciuto. Resta uno dei più incisivi ed interessanti letti nelle ultime settimane. L'ho capito da quel prologo che mi ha reso lo sfuggente Pete stranamente vicino. Disteso sul letto, con la serranda abbassata, per sconfiggere la noia con altra noia. Quando stendersi per due minuti significa finire per addormentarsi per due ore. Il calore che concilia il sonno, i grilli troppo stanchi per cantare, le mosche che hanno tanta sporcizia su cui ronzare. Gli amici c'erano, poi non ci sono più. Tutto è al passato, tutto è passato. Alcuni passaggi sono da imparare a memoria, riscrivere e incorniciare. Basta aver compiuto il salto, infatti, da una classe all'altra, da una scuola all'altra, per comprenderli a fondo. Quello che unisce i liceali è il liceo. Stessa cosa se, con l'arrivo dei quattordici anni, hai finito le scuole medie. 
Cosa triste, cosa vera. Pete e i suoi amici si illudono del contrario, anche se sanno di sbagliarsi. Si rincontrano dopo qualche anno. S'incontrano nel loro vecchio rifugio, ma in una manciata di anni troppe cose cambiano. Un po' come accade in quelle rimpatriate tra ex compagni di corso, organizzate a dieci anni dalla laurea. Nicole, Eric e Pauly sono piccoli, ancora. Non hanno messo su famiglia, non hanno un lavoro, non hanno bambini nati per errore. Ma fanno cose da grandi. Cose bruttissime. Giocano ad impossessarsi del peggio della vita da adulti. Giocano inconsapevolmente con la morte. L'autore è formidabile e può permettersi tutto, o quasi. Tante pagine sono sincere, vibranti, dirette e la descrizione di un'adolescenza corrotta, brutta, sporca e cattiva fa capire immediatamente che non ci troviamo davanti a uno young adult scritto e pensato in America. L'estate del coniglio nero è Skins, è Paranoid Park. Le droghe, il sesso, l'alcol, la problematicità. A livello “thriller” non offre nuovi spunti: una storia come tante, classica nella sua semplicità, ma è a livello “young adult” che ci mostra un mondo che tanti negano e pochi conoscono. Un ripido Grand Canyon, una piscina svuotata, un circo di passaggio. Un libro distorto. Un incubo artificiale, indotto da droghe sintetiche e brutti ricordi. Una trama effimera, comune, ma che si regge bene, e su pochissimo. Non c'è grosso stacco dai fatti descritti nella corposa sinossi, ma piace lo stesso. Per come è scritto. Per il fegato e il cuore. Per il vomito e l'onestà. Per l'effetto perpetuo di annegare nell'hangover. Credo sia tutta una questione d'amore. Eh, sì. E' una faccenda crudele, l'amore.”
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Eminem – Lose Yourself

mercoledì 19 marzo 2014

Qui pro cover #1

Ciao a tutti, amici. Come state? Rieccomi con una nuova, piccola rubrica. Più o meno.
Oddio. A essere piccola è piccola, ma non aspettatevi una grande novità. Dietro al titolo scemissimo e vagamente geniale (lo so, lo so) di Qui pro cover – scelta approvata dalla saggia Sonia di Cuore d'inchiostro, che ringrazio per le consulenze serali, in chat – appuntamenti a cadenza settimanale – almeno spero! - in cui parliamo e sparliamo, a random, di cover. E quali, mi chiederete... Cover gemelle, cover vagamente imparentate, cover praticamente uguali. La rubrica, vista e rivista su blog italiani e blog stranieri, di originale ha giusto il nome, ma per riempire il tempo, quando ce n'è poco, e per parlarvi di qualcosina, quando sono alle prese con altro di più noioso e urgente, è l'ideale. Nessunissimo intento polemico, nessuna guerra a “chi ha copiato chi”. Solamente qualche post più leggero, veloce e fresco del solito, mentre le temperature si alzano, la noia avanza, i libri si moltiplicano. Prossimamente, vi prometto che Qui pro cover avrà anche un piccolo logo, ma per il momento – pensando già a cosa mangiare oggi, e con altre due ore di lezione a breve – vi lascio con la mia solita fretta. Ma ditemi una cosa: solo a me è capitato di preparare la caffettiera, la tazzina, il fornello acceso... e di non aver messo l'acqua per far salire il caffé? Oookay, ahahahha. Sentivo uno strano odore di bruciato, in effetti. Solo io. Solo io. Oggi, due “coppie” di cover. Le prime tre hanno tre ragazze in rosso, con le braccia all'aria e lo sguardo sognante: vabbé, lo sguardo non si vede – sono pure di spalle – ma non so come definire altrimenti il comportamento dei tre aspiranti angioletti. Fare sognante va bene, dire? Quella degli Ingredienti Segreti dell'amore è a Parigi; quella della versione UK di Io prima di te in uno scenario vagamente desolante con una colomba della pace in cima al titolo – occhio a dove mira, eh. So che porta fortuna ma anche no; quella di Un giorno, forse – presto in libreria – è sul famoso ponte di Brooklyn. O almeno credo. Fatto sta che – tra le tre – è la mia preferita. Le rimanenti, invece, sono di Red at Night (dell'autrice del bellino Oltre i limiti) e dell'italiano Il bacio di Jude. Praticamente identiche, ma i riccioli rossi della seconda mi snervano un po'. Che dite, quale preferite? A presto e buona giornata a voi, M.


domenica 16 marzo 2014

Recensione: Out Of My Mind - Ho 11 anni e non ho mai parlato, di Sharon M. Draper

Buongiorno a tutti, amici. Come state? Qui tutto bene. In questo weekend di solitudine, lontano da casa, credo che coglierò l'opportunità per recuperare qualche episodio della cara, vecchia Veronica Mars: ieri ho visto il film – e ve ne parlerò al più presto – e mi è proprio piaciuto. Carinissimo! Oggi, comunque, vi parlo della mia ultima lettura. Un romanzo indubbiamente interessante, un tema importante, ma su cui – tuttavia – ho avuto qualcosina da ridire. Augurandovi buona domenica e ringraziando la gentilissima casa editrice, vi abbraccio. M.
I pensieri necessitano di parole. Le parole necessitano di una voce. Io amo il profumo dei capelli di mamma appena lavati. Io amo la sensazione della barba di papà prima di rasarsi. Ma io non sono mai stata capace di raccontare tutto questo ai miei genitori.

Titolo: Out of my mind – Ho 11 anni e non ho mai parlato
Autrice: Sharon M. Draper
Editore: Edizioni Anordest
Numero di pagine: 240
Prezzo: € 13,90
Sinossi: Melody non è come gli altri bambini. Non può camminare, né parlare, ma ha una formidabile memoria fotografica; si ricorda ogni minimo dettaglio di tutto ciò che vive. È più intelligente della maggior parte degli adulti che provano a curarla e più intelligente dei suoi compagni di scuola. La maggior parte del tempo, però, Melody si sente come un uccellino in gabbia; è in grado di osservare il mondo intorno, ma non riesce ad interagire con esso. Sono tante le parole e i sentimenti che si accumulano e restano intrappolati dentro di lei. Ma Melody si rifiuta di essere definita cerebralmente paralizzata. Ed è determinata a farlo sapere a tutti... in qualche modo. L'autrice conosce bene l'argomento in quanto anche sua figlia Wendy è paralizzata cerebralmente. E anche se Melody non è Wendy, la veridicità della storia è lampante. Raccontato dalla voce di Melody, questo romanzo commovente da subito fa risaltare la sua intelligenza e la sua determinazione a superare quegli ostacoli che paiono insormontabili.
                                                  La recensione
La normalità non esiste.” Noi viviamo di parole. Adesso, immaginate se non le avessimo. Non potremmo dire alla persona che ci piace quanto sia bello il suo sorriso, non potremmo dire ai nostri genitori quanto profondamente li amiamo, non potremmo vivere nel mondo. Semplicemente, moriremmo dentro. Le parole sono vita, in fondo. Melody ha undici anni e non ha mai parlato. Conosce milioni e milioni di vocaboli e lemmi, gioca a memorizzare a tempo record i numeri verdi delle pubblicità, sa a memoria i versi delle sue poesie preferite, ama la musica e le emozioni uniche che le note trasmettono. Eppure niente, le sue labbra rimangono mute. E' prigioniera della malattia, mentre il mondo le esplode dentro. Boati, scosse sismiche, eruzioni emotive che all'esterno non arrivano. Nascono dentro, riecheggiano dentro. Melody ha un nome che è musica, ma il destino ha una grottesca ironia. Lei è l'opposto della musica. Lei è un film muto, pellicola consumata. Un soprammobile pieno di difetti di fabbrica. I suoi pensieri, tuttavia, dicono altro. Perché lei pensa e, in questo romanzo, sono i suoi pensieri a parlare in sua vece. Il lettore non può che immaginare una bambina come tante, perfino più sveglia della media – i vestiti abbinati alle scarpe, lo zaino delle Barbie, il primo cellulare, la danza ritmica, il primissimo fidanzatino. La sua voce lieve, buffa, onesta abbozza i tratti tondeggianti di una bimba felice. E' un peccato avere undici anni ed essere tristi: la vita è lunga, infatti, e per il dolore e il rimpianto c'è sempre tempo. Invece no. La verità è un'altra. Melody è una di quelle persone che sono nate all'improvviso, mentre Dio non guardava. Venuta al mondo senza la benedizione dell'Altissimo. Non è solo autistica, come inizialmente immaginavo, ma è paraplegica. Una di quelle bambine scomposte, dalle ossa fragili, accartocciate sulla loro sedia a rotelle come gamberetti. Un filo di bava sulla bocca, lo sguardo vuoto, l'incapacità di mangiare senza sporcarsi e di usare il bagno da soli, senza accompagnatori. Lei sa che chi la guarda pensa a un guscio vuoto. Lì dentro, in quel corpo strano, non c'è nessuno. Toc, toc... Melody è in casa, ma non può andare alla porta e lasciare che qualcuno entri nel suo universo. Mamma e papà sono due ordinari supereroi e hanno creato, nonostante la paura di un altro sbaglio genetico, un'altra figlia, Penny, che è piccola, profumata, colorata e perfetta. Le hanno comprato un computer che parla e perfino un'amica vera, che da semplice baby-sitter è diventata il personale guru della porta accanto della nostra protagonista. Ma in questa storia ci sono adulti affettuosi e adulti inensibili, persone buone e persone cattive. Le maestre e i dottori guardano Melody con occhio clinico. La scuola è un zoo e lei è l'esemplare più strano che ci sia: in gabbia da quando è nata, si è nutrita di parole e si è resa conto di non avere i mezzi necessari per condividerle. 
Vive l'età in cui i bambini sono cattivi, come pappagalli indiscreti e scimmie curiose. Non hanno peli sulla lingua, sono egoisti e, ingenuamente, ripetono tutto quello che sentono. Non hanno opinioni loro, ma vanno formando le loro coscienze di futuri adulti. Out of my mind è una storia che si sviluppa tra tenerezza e crudeltà. Un'idea interessante, per un intreccio elementare, ma tutt'altro che stucchevole ed edulcorato. Coraggioso, drammatico, ma – a volte – non abbastanza. Ha incredibili picchi di sincerità, pagine che trapelano commozione, ma – in alcuni momenti – ho trovato il piglio di Sharon M. Draper un po' statico. Scarico. Mi aspettavo che questo romanzo sapesse scuotermi nel profondo, invece è così breve, così scorrevole, così veloce che i tremolii sono solo superficiali e i solchi non sono destinati a rimanere aperti poi tanto a lungo. Mi aspettavo che mi artigliasse lo stomaco forte. Sensazioni, necessità, queste, che sono state, purtroppo, deluse. La Draper, che ha un figlio nelle condizioni della piccola Melody, ci va cauta: ha la scrittura cristallina delle autrici di romanzi per bambini di una volta e sembra essere legata a un certo tipo di narrativa. Mette tanto di personale, probabilmente, nelle descrizioni delle giornate della protagonista – tra scuola, studio, famiglia - ; personalità, però, che manca nella più intima essenza di Out of my mind. Un romanzo che ha tanta anima, ma poca sostanza, secondo me. E mi struggo al pensiero di quanto indimenticabile potesse, invece, essere. Bastavano pochi accorgimenti nel plot; bastava uno stile incisivo, accattivante, sperimentale. Non una cosetta da nulla, e lo so.
Ma quanto sarebbe stato bello se al posto dei pensieri semplici semplici della Draper ci fosse stato un meraviglioso caos di sensazioni, pulsioni, frasi, parole? Melody non parla. Melody è arrabbiata. Melody urla, piange, fa facce strane quando vorrebbe comunicare a chi le è accanto qualcosa di importante. In Out of my mind – che dovrebbe avere la sua voce – non c'è quel naturale scompiglio, quel fare battagliero di eroina confusa e costretta a forza alla cattività. Il tutto è molto sobrio, molto... "americano". I quiz a premi, le gare di spelling le battaglie tra piccoli geni e i laboratori pomeridiani ricordano vecchi film - Il mio piccolo genio, Una parola per un sogno, Il quiz dell'amore. A un certo punto, inevitabilmente, si è creata una scissione tra com'era il romanzo e tra come avrei voluto, invece, che fosse stato. Educativo e a modo, comunque, fa riflettere su come reagiamo davanti alla malattia. Quando incontriamo una persona con degli handicap fisici, le cediamo il nostro posto a sedere o evitiamo il loro sguardo, come si fa con gli animali morti lungo l'autostrada? Che possiamo offrire loro: pietà o indifferenza? Out of my mind invita ad offrire amicizia. Semplicemente. Ad accontenarci di quello che abbiamo, anche se ci sembra poco. A guardare il bicchiere, sul bordo del tavolo, e a considerarlo mezzo pieno.
Il mio voto: ★★+
Il mio consiglio musicale: Cyndi Lauper – True Colors (Glee Version)

giovedì 13 marzo 2014

Recensione: Silver, di Kerstin Gier


Titolo: Silver
Autrice: Kerstin Gier
Editore: Corbaccio
Numero di pagine: 323
Prezzo: € 16,40
Sinossi: Porte con maniglie a forma di lucertola che si spalancano su luoghi misteriosi, statue che parlano, una bambinaia impazzita che si aggira con una scure in mano... I sogni di Liv Silver negli ultimi tempi sono piuttosto agitati. Soprattutto quello in cui si ritrova di notte in un cimitero a spiare quattro ragazzi impegnati in una inquietante cerimonia esoterica. E questi tipi hanno un legame con la vita vera di Liv, perché Grayson e i suoi amici sono reali: frequentano la stessa scuola, da quando Liv si è trasferita a Londra. Anzi, per dirla tutta, Grayson è il figlio del nuovo compagno della mamma di Liv, praticamente un fratellastro. Meno male che sono tutti abbastanza simpatici. Ma la cosa inquietante - persino più inquietante di un cimitero di notte - è che loro sanno delle cose su Liv che lei non ha mai rivelato, cose che accadono solo nei suoi sogni. Come ciò possa avvenire resta un mistero, esattamente il genere di mistero davanti al quale Liv non sa resistere..
                                              La recensione
Lo dico? Lo dico, dài. Quanto mi sta antipatica Kerstin Gier. Ora, ragionevolmente, starete pensando: “Ma chi, la stessa Kerstin Gier di Red, Blue e Green – così frizzante, spassosa, autoironica, divertente?”. Già, proprio lei. Parlo – e lo specifico – non avendo letto l'acclamata Trilogia delle Gemme: l'atrocità e il kitsch del film Rubinrot avevano ucciso qualsiasi mia intenzione; peggio di quanto faccia, in estate, l'implacabile carta moschicida con gli insetti. Mi era bastato il film, mi ero fermato felicemente al film. Poi, dopo due chick-lit, a qualche anno dalla sua famosa trilogia fantasy, eccola in libreria con il primo volume di una nuova serie. Il tema: i sogni. Interessantissimo è dire poco. E poi quella copertina così dark – con la solita ragazza in abito lungo di spalle (tutte timide queste modelle?) e i soliti scenari desolati – aveva fatto il resto. Amo le congetture sui sogni, le modelle troppo fighe per offrire un primo piano del loro bel faccino a noi spregevoli mortali, gli inquietanti cimiteri inglesi pieni di rovi e antichità. Trecentoventi pagine dopo, eccomi qui. Presente all'appello, ma poco entusiasta. Pochissimo. Silver... com'è, questo Silver? E' un classico racconto urban fantasy, scritto secondo uno stile che vorrebbe essere innovativo. Dico vorrebbe non a caso: perché – pur stemperando le atmosfere gotiche e i misteri più neri con un tono da commedia rosa – il risultato, almeno per me, lascia un tantino a desiderare. Immaginate una risaputa storia di evocazioni, riti e sacrifici umani raccontata dalla voce naif e fresca di una sedicenne: carina come cosa, vero? Immaginate, adesso, la stessa risaputa storia di evocazioni, riti e sacrifici umani raccontata dalla voce di un'autrice quasi cinquantenne che si finge sedicenne, e naif, e fresca come una rosellina di bosco: meno carina, la cosa. Decisamente. Una delle poche note positive di questo romanzo starebbe proprio nella protagonista, la “buffa” Liv, ma è proprio lei a mancare di credibilità. Ha i tratti della caricatura: lei che è bella, ma anche bruttina. O meglio, lei che è una nerd occhialuta, ma che quando si toglie gli occhiali si scopre uno schianto. Domanda al volo: ma perché, se io mi tolgo gli occhiali, mi scopro soltanto cieco come Ray Charles? Lei può. Perché è imbranata, ma è anche cintura nera di kung fu. Cita film e romanzi di nicchia, ma immancabili sono le perle di saggezza del suo sapiente istrutture di arti marziali. Che ovviamente sarà vecchio e assennato come il mitico Genio delle Tartarughe e avrà un nome giapponese alla Jackie Chan. 
Il lato positivo è che non si prende mai sul serio, ma io – insieme a lei – non ho preso sul serio nemmeno per un secondo la storia che mi raccontava: una specie di Raven Boys per gli spettatori di Dora L'Esploratrice, tipo. I Boys di turno costituiscono un quartetto pressoché inestricabile e indistinguibile. Tra loro, sono indistinguibili. E come sono? Tutti belli, ovvio. Capelli biondi, gambe lunghe, sorriso storto, occhi non semplicemente castanti, ma del colore delle Mou. No, non Le Mucche fanno Muuu, ma le caramelle. Quegli yogurt per bambini sono il mio piacere segreto per eccellenza, non fraintendetemi, ma uno sguardo a chiazze bianche e nocciola non sarebbe particolarmente allettante nemmeno per la nostra Liv. Penseremmo tutti a una rara e grave forma di cataratta e pregheremmo di evitare un mega-apocalittico contagio. Per trecentoventi pagine, dall'inizio alla fine, mi sono chiesto: “Ma questa Liv ci è o ci fa? Ma la Gier ci è o ci fa?”. Propendo per il “ci fa”, io. Lei – in maniera furba, nascosta, scaltra – finge un'allegria che non possiede e s'improvvisa cabarettista con un umorismo che, forzato e poco naturale, non ho trovato per nulla divertente. Silver mi è sembrato studiato a puntino. In maniera stucchevole e irritante. E' un mio problema: più ti fai l'amicone, più mi fai venire l'orticaria. L'autrice elemosina risate e sorrisini divertiti a tutti i costi e, per accattivarsi i più giovani, indossa i panni di una quindicenne un po' nomade che non esiste. Io ho visto lei che si fingeva, in maniera non così brillante, la quindicenne in questione. Come quando i genitori, per un'inquietante forma di cameratismo che mi sfugge, usano “Ganzo”, “Scialla”, “Fa il panico” e le emoticons su Whatsapp per sentirsi gggiovani dentro. 
Dopo le sue vecchie e fortunate esperienze, la scrittrice tedesca ritorna – con i suoi personaggi – nell'uggiosa Londra, con un volo “solo andata” proveniente dalla Germania. Ecco, Londra è assente. Non ci sono i soliti luoghi comuni, ok, ma non ci sono nemmeno informazioni di nessun tipo. La Gier è convinta che tutti gli inglesi abbiano nomi pomposi e cognomi dall'aria nobile e che i tour notturni presso il cimitero di Highgate siano più alla moda delle foto sorridenti a Piccadilly Circus. A portare la protagonista a Londra è la mamma: dove non si va, per la famiglia. Mamma che, con una comune laurea in letteratura inglese, viaggia più degli U2 in tour. Ha insegnato in tutt'Europa e anche in Africa. Grazie a una laurea in let-te-ra-tu-ra inglese, eh. Professori e precariato non dicono niente alla cara Kerstin, suppongo. Nella nuova scuola, che ha un'organizzazione più confusionaria e fantasiosa di quella della mia università, i soliti personaggi, il solito ballo d'autunno e colei che sa tutto e vede tutto: l'invisibile Secrecy. Il finale di Gossip Girl ha turbato la psiche di qualcuno... E' nella nuova casa, però, con il suo nuovo fratello nella stanza accanto, che Liv inizia a fare strani sogni. Questa, forse, è l'unica cosa che mi sia andata a genio per davvero. Ogni persona ha la sua porta e i suoi sogni e Liv, in un corridoio lunghissimo, a destra e a sinistra, può vedere le porte personalizzate delle persone che le sono accanto. Basta conoscere la parola d'ordine, possedere la chiave, per accedere ai sogni intimi dell'altro. E se qualcuno volesse proteggere i suoi segreti con l'omicidio? In questi pochi momenti, l'avventura della protagonista mi è piaciuta: una curiosa Alice, quasi, al cospetto delle infinite e colorate porte del magnifico Monsters & Co. Non scontato il piacevole colpo di scena inserito alla fine; peccato, solo, che alla pagina successiva il ragazzo di turno mi pronunci una frase come “Il mio sogno sei sempre stata tu!” per farmi cascare le braccia e, di conseguenza, il libro dalle mani. Poi finisce e ti rendi conto di non sapere niente di niente su questa nuova, ennesima saga. Può suscitare curiosità, questo; a me ha dato fastidio e basta. Silver ha idee interessanti, ma uno sviluppo banalissimo che – di tanto in tanto – annoia pure. A me, soprattutto, ha annoiato il tono sempre giulivo, querulo, artefatto e (s)piacevolmente sopra le righe della sua autrice. Ho scoperto che non fa per me. No.
Il mio voto: ★★ 

mercoledì 12 marzo 2014

Mr Ciak #30: La Bella e la Bestia, Storia d'inverno, Romeo e Giulietta

Buongiorno a tutti, cari lettori! Come state! Qui tutto bene. Oggi, per me, un'intensissima giornata: la bellezza di sette ore complessive di lezione. Invidiatemi pure, su. In questo poco tempo libero che mi resta, vi parlo velocemente di alcuni film che ho visto di recente. Fatemi sapere la vostra. Un abbraccio, M.

Due paroline, proprio. Lo aspettavo da tempo e, per ingannare l'attesa, qualche settimana prima dell'uscita del film, avevo letto il romanzo. Una classica storia della buona notte, da leggere in due orette, prima di andare a letto. Essendo il libro il rimaneggiamento della sceneggiatura della pellicola, conoscevo i pochi nuovi sviluppi alla perfezione, ma – benché fosse tutto a me già noto – un sentore di magia è rimasto ugualmente. L'ultimo film di La bella e la bestia aggiunge poco a ciò che è già stato detto. Visto al cinema, però, fa la sua bella figura. Emotivamente un tantino freddo, pur avendo a disposizione una delle storie d'amore più affascinanti e romantiche di sempre, sopperisce a quel lieve distacco – molto strano per il cinema francese, che con le storie d'amore ha una lunga e fortunata tradizione – con un apparato visivo splendido. Scenografico, barocco, mastodontico. Non ha nulla da invidiare alle grandi produzioni americane ed è a quelle che il regista ha come riferimento. Scelta potenzialmente giusta, scelta potenzialmente sbagliata. Giusta, perché – visti sul grande schermo – i mulinelli di neve ricordano Burton, le ricchissime scenografie Il fantasma dell'opera, gli imponenti giganti dormienti il recente film di Bryan Singer, i contrasti cromatici Cappuccetto rosso sangue e Alice in Wonderland. Sbagliata, perché – a volte – manca di personalità e, dunque, quello che poteva essere un retelling da favola si classifica, nel bene e nel male, come un semplice e accattivante intrattenimento, per grandi e piccini. L'avrei apprezzato molto di più se il film fosse rimasto fedele alle sue origini europee, e non solo perché il mio amore per il cinema francese è saputo e risaputo... In un castello tenebroso e costruito con cura impeccabile, la storia di Belle e del suo scontroso aguzzino. La storia di un'amicizia, di un'intimità, che si scopre pian piano altro. Nel cartone Disney, per esempio, erano tanti i momenti di confidenza, di divertimento e di normalità che univano due personaggi così diversi tra loro, mentre nel film l'amore di Belle cresce attraverso i flashback che i sogni le mostrano, e in maniera un po' ripetitiva. Pecca, questa, che ho trovato nel film e nel libro. Immancabile, tuttavia, la mitica scena del ballo: senza tazzine canterine in sottofondo, molto più passionale e gotica, ma bella sempre, con la macchina da presa coinvolta in volteggi da capogiro, tuffi dall'alto, panoramiche su uno splendido mondo in decadenza animato da ricordi e simpaticissime creature. Il regista – Cristophe Gans – non è nuovo a queste atmosfere dark ed è proprio ai toni orrorifici, seppur delicatamente, che presta maggiore attenzione. Dal bel Silent Hill si è portato dietro la nebbia, dall'affascinante Il patto dei lupi convincenti effetti speciali, creature ferine, il fedele Vincent Cassel. Un Cassel che in questo film recita poco con il suo vero volto: a lungo, infatti, in quest'ora e mezza, presta voce e movimenti a una Bestia ricreata al computer riuscita e credibile. La sua Bella, invece, è quell'angelo di Lea Seydoux. Lontana dalla bravura mostruosa sfoggiata in La vita di Adele, ovviamente, viene utilizzata per il suo viso dolce da principessa e le sue forme. Tipicamente francese, lei, con il naso all'insù e la pelle bianca, qui fa un po' da indossatrice, per valorizzare l'impressionante lavoro di sarti e costumisti. Una Bella sempre impeccabile e ben vestita: bella in verde, bella in rosso, bella nelle vesti di contadinella e di regina. Bella sempre. Carina la cornice in cui è inserita la storia: una mamma che racconta ai figli una fiaba... O sarà, forse, una storia vera? La bella e la bestia si è rivelato un film al di sotto delle mie aspettative, ma godibile, ben fatto e recitato da due attori che, nonostante la differenza d'età, sono particolarmente uniti. La storia la conosciamo, la fine la conosciamo. Di nuova c'è la rappresentazione, che omaggia piccole e grandi perle del cinema gotico con la solita leggerezza del cinema d'oltralpe. Per goderne a pieno, consigliata la visione al cinema: il perché di questo film è tutto lì, negli effetti visivi. Ma il cartone Disney era un'altra cosa.

Ho visto questo Storia d'inverno preparato al peggio. Forse uno sbaglio, forse no. Avere qualche pregiudizio, a volte, aiuta. E in positivo. Io ero preparato al peggio, infatti, e coloro che – lo scorso 13 Febbraio – si sono fiondati al cinema per vederlo, magari in dolce compagnia, erano semplicemente preparati ad altro. Perché il trailer sembrava raccontare altro, perché – mi dicono – il romanzo di Mark Helprin – così lungo, prolisso, importante – racconta decisamente altro. Si ci aspettava faide sanguinose alla Gangs of New York, attente ricostruzioni storiche, viaggi nel tempo, epiche e solide storie d'amore: un capolavoro a sorpresa. Io, un po' diffidente per natura, non mi ero lasciato incantare, anche se quello che vedevo mi piaceva molto, anche se la Wings di Birdy come colonna sonora, negli spot pubblicitari, era una meraviglia a tutti gli effetti. Sono riuscito a vederlo a distanza di settimane, quando tutti ne avevano già parlato – e male. Una cosa lasciatemela dire: fossero tutti così i film brutti. Storia d'inverno non è un film perfetto, ma, per me, che amo le storie e alcune volte amo raccontarle, è un buon film. Suggestive atmosfere, frasi e dialoghi da romanzo, elementi fiabeschi. Una storia buona dentro, proprio. Che sa d'inverno, che sa di Natale. Tra retelling e remake sparsi, il regista Akiva Goldsman propone una fiaba tutta nuova. Alla fine, solo di quello si tratta. Ha un suo particolare simbolismo, ha una sua particolare mitologia, ha un suo particolare messaggio. Ha un linguaggio suo che, secondo me, è stato ingiustamente oggetto di fraintendimenti. Inutile porsi troppe domande: perché in La bella addormentata c'è il fuso, perché in Biancaneve c'è la mela avvelentata? Qui ci sono stelle, cavalli volanti, diavoli che accendono lampadine, grandi miracoli. Basta avere cuore, fede, fantasia. Basta perdersi nell'illusione. Basta crederci, e io – per quelle due ore – c'ho creduto. In sala, tra un film e il suo spettatore si deve instaurare un patto sacrosanto, altrimenti tutto scricchiola e ogni scelta sembra assurdamente fuori luogo. Protagonisti sono Bene e Male, impegnati in una lotta senza tempo e frontiere che, molto semplicemente, si esprime attraverso classici contrasti cromatici: un cavallo bianco, un cavallo nero; le lacrime “dei pochi uomini buoni”, le catarrose risate dei cattivi. Protagonista è la luce, che balla, gioca, recita insieme al cast, abbraccia i protagonisti nelle scene più toccanti. E' un personaggio a tutti gli effetti, è una presenza perpetua: perfino le scene girate al buio, così, grazie a un tappeto di neve immacolata e a una ragazza che, in preda alla febbre, ci cammina sopra a piedi nudi, sono piene di piccoli, pulsanti granelli luminosi. Protagonisti sono Colin Farrell, che ha un bruttissimo taglio di capelli ma un viso e un piglio adattissimi per questi film; un appesantito Russel Crowe, che si limita a riprendere i gesti e le espressioni del suo recente Javert; la bellissima e convincente Jessica Brown Findlay, direttamente da Misfits e Downtown Abbey. Ruolo piccolo, ma importante per Jennifer Connelly, che troviamo dall'altra parte... nel presente. Il salto temporale ha un suo prodigioso perché, ma, dopo una prima parte piena e attenta ai dettagli, può effettivamente risultare un tantino frettoloso. La storia, tuttavia, non si sbilancia del tutto e non si riempie, per me, delle falle di cui tanti hanno parlato. Brevi le partecipazioni del bravo William Hurt, del desaparecido Matt Bomer e di un divertito e non completamente adatto Will Smith. C'è qualcosa di Stardust, qualcosa di August Rush, qualcosa di Cloud Atlas, anche se Storia d'inverno è un film più piccolo, ma ugualmente piacevole. I miti greci di Pegaso e del katasterismòs, la figura di un Lucifero che ha radici cristiane, una morale elementare. Siamo stelle, siamo miracoli, siamo nati per aiutare il prossimo...

Ci sono storie e storie. Storie intoccabili e storie che, comunque siano raccontate, non sanno sfiorire mai. Storie che non si dimenticano. Romeo e Giulietta è una di quelle. Storia d'amore per antonomasia troppo bella per esserne snaturata, anche nella più infelice delle produzioni. Anche in una recita scolastica delle elementari, scommetto che avrebbe un suo magico perché. Quella del nostro Carlo Carlei è una trasposizione che, nella madre padria del regista, non ha ancora visto la luce: ingiusto, perché lui ha talento e affronta il capolavoro di Shakespeare con umiltà, rispetto, calma. Forse un po' troppa. Il suo film è elegante e reverente, ma osa poco. Non aggiunge nulla di nuovo e i paragoni con gli illustri predecessori non reggono senza che il film perisca. Non c'è un nuovo sguardo, non c'è nuova linfa. Non si cerca nemmeno un nuovo punto di vista. La sceneggiatura rispetta le pause, i tempi, le minime virgole e racchiude il film in una dimensione teatrale suggestiva, ma potenzialmente nociva. Mai come in questo caso ho percepito i tempi tanto ristretti e stringati. Che i due sfortunati amanti s'innamorassero al primo sguardo per poi sposarsi il giorno dopo lo sapevo bene, certamente, ma mai come adesso ciò mi è pesato. La regia qualche piccolo virtuosismo lo osa: la macchina da presa si concede raramente momenti di pausa; volteggia, esplora, ammira, immortala i dettagli. Visivamente, infatti, il film di Carlei è bello, molto. Lo sfondo della ricca Italia rinascimentale – così piena d'arte, colori, sfarzo – è impeccabile e la grande opulenza delle regge signorili, dei castelli, dei labirinti di rose non risulta mai pacchiana, grazie a un gusto pittorico di gran classe. Carlo Carlei immortala la sua Italia con eleganza, venerenziale rispetto, ricercatezza: inquadra i personaggi in cornici dettagliatissime, che omaggiano la grande arte e la grande bellezza delle nostre case. Avrebbe potuto cercare, tuttavia, una nuova chiave di lettura: il suo film, infatti, per quanto godibile e ben fatto, non ha né la genialità di un Luhrmann, né la maestria che non invecchierà mai di Zeffirelli. L'apparato tecnico è notevole: maestosi scenari, ricchi costumi, una fotografia cristallina, una colonna sonora incantevole che – magari troppo scolasticamente, a volte, in unione al rallenty – sottolinea i momenti più importanti. La storia è bellissima, le parole da cui è composta sono bellissime e mentirei se dicessi che, sulle labbra dei membri cast, non risultino convicenti. Oltretutto, quasi tutti d'origine anglosassone, gli attori hanno un accento che è praticamente poesia di per sé. Belli e bravi i protagonisti, ma solo se singolarmente analizzati: insieme, infatti, non fanno scintille. Sono troppo diversi, il feeling manca. Tra i due, il più convincente è Douglas Booth: un Romeo dalla bellezza fuori dal comune, in relazione con il quale la tanto osannata Hailee Steinfeld scompare. Lei è gentile, delicata, fanciullesca, ma con lui ha poco in comune. Sono diversissimi. Mi è sempre piaciuta, lei, per la sua bellezza semplice, da ragazza della porta accanto, e per i suoi tratti ancora da bambina, ma forse avrebbe avuto bisogno, accanto a sé, di un Romeo meno aitante: nelle scene condivise, infatti, non mi sono sembrati particolarmente armoniosi e non sono se un Romeo con la faccia da stella del cinema – e anche piuttosto bravo, nel caso di Booth – si sarebbe innamorato a colpo sicuro di una Giulietta con il viso ordinario di un'adolescente ancora in attesa di sbocciare. Dal gusto artistico, le ultime scene degli innamorati, giunti – dopo quasi due ore – a un finale famosissimo, ma che sa emozionare anche dopo secoli: rigidi, uniti, composti, come Amore e Psiche prima del bacio. Tutto sommato, convincenti, anche se leggermente discordi. Lui, che conosco poco e ha recitato soprattutto in TV sa sorprendere: naturale, controllato, con una faccia che buca lo schermo. Da lei – candidata agli Oscar per Il Grinta – mi aspettavo di più. Tra la Danes e Di Caprio, invece, era pura magia: ricordate, no? Ottimi i comprimari – un arcigno Lewis, un commovente Giamatti e una brava McEhlone - ; destinato a vita breve il rancorso Tebaldo di Ed Westwick; una spanna sopra i giovani colleghi il Kodi Smith McPhee di Lasciami Entrare e The Road, nei panni di un Benvolio mai così intenso, sensibile, importante. Risultato non entusiasmante, prodotto mediamente sufficiente. E la colonna sonora – meravigliosa - è già sul mio iPod. Non brutto, per carità, ma il gioco era facile. Con un storia simile, come poteva esserlo?