lunedì 14 ottobre 2024

Recensione: Il male che non c'è, di Giulia Caminito


| Il male che non c’è, di Giulia Caminito. Bompiani, € 18, pp. 272 |

Parte tutto da un refuso nella newsletter della casa editrice per cui lavora. Un apostrofo fuori posto e Loris, trent'anni, precario, finisce schiacciato sulle mattonelle del bagno. Il fiato corto, il cuore impazzito, un uovo dal guscio duro che gli si schiude all'improvviso sul fondo della pancia. Lo conosciamo steso tra il lavandino e il bidet, all'alba dell'ennesima crisi. Al di là della porta chiusa c'è Jo, l'eterna fidanzata, che spererebbe in un compagno più tonico, più intrepido, più appassionato. Seduta sulla lavatrice, invece, c'è la sua amante immaginaria: si chiama Catastrofe, spiazza con trasformazioni imprevedibili e somiglia alla versione horror di una delle emozioni di Inside Out. È lei a comunicargli che presto o tardi esploderà. Cosa si nasconde dietro i mal di pancia, i tremori, le ossessioni di Loris? Schiavo della melatonina e dei fermenti lattici, prigioniero dell'inferno di sé stesso, invidia il codice rosso dei feriti a morte, si nutre di tragiche storie vere sui forum e su YouTube, origlia con astio i suoni di un vicino di casa che suona, scopa e vive senza pudore. A un certo punto dichiara che preferirebbe una malattia terminale al pressappochismo con cui, ormai, lo liquidano i medici.

Cosa succederà a quel ragazzino nella foto lui non lo sa, eppure non può fare niente per salvarlo, né da sé stesso né dal dolore, perché così avviene: il male arriva e passa schiacciando e livellando, deviando il corso del fiume che sei stato.

Sarebbe facile biasimarlo, considerarlo empio e vittimista, ma la verità è che quest'ipocondriaco con cui parrebbe impossibile empatizzare ha la mia faccia allo specchio, le mie identiche crepe. All'inizio ho corso il rischio di divorare la sua storia. Poi ho rallentato, per la paura di essere divorato. Il lockdown sembra accaduto una vita fa, ma l'altro giorno ho trovato una vecchia mascherina nella tasca del doppiopetto. E ho ripensato a quand'ero come Loris, ai capelli sporchi e alle clavicole sporgenti, ai libri letti bulimicamente e ai siti porno consultati in cerca di un'eccitazione che non sopraggiungeva. A un lavoro che, nell'immobilismo generale, non arrivava. Dopo tanta paura della malattia, il contagio, infine, era giunto con carico di delusione: una febbriciattola che non mi avrebbe ammazzato — per fortuna, purtroppo. La mia stanza, intanto, era diventata una cella dove enumerare le figuracce, i rimorsi, i ricordi; il corpo un campo di battaglia. Durante la lettura mi sono materializzato alle spalle di Loris e, io che ci sono passato, io che a volte ci passo ancora, ho rubato il posto a Catastrofe nell'ascoltarlo, scuoterlo, stringerlo forte. Se non fosse così brava, Giulia Caminito risulterebbe respingente. È il rischio che corre chi sceglie personaggi scomodi e pone al centro, senza fronzoli, la malattia: queste volta, per di più, una malattia reputata immaginaria. La sua scrittura, di chirurgica esattezza, è la sonda nelle viscere di Loris. Cerca il male, Giulia. Insegue il ticchettio della bomba e medita un modo per disinnescarla, lei che ha strumenti da artificiera. È nella ricerca, però, che trova anche la luce che resta.

Si era sempre immaginato accanto a lei, ma da soli. Loro due come una diade tenace, un microcosmo autosufficiente.

Loris, anestetizzato, se ne sta rannicchiato in posizione fetale e torna neonato, embrione, spermatozoo. Vive un'evoluzione a rovescio. Il suo lamento diventa un romanzo intimo, privatissimo, pieno di simboli e dolori, in cui il passato è l'unico baluardo sicuro contro un presente sismico. Laggiù c'è un nonno che ci spiega la vita attraverso l'osservazione delle voliere e che ci rivela, all'occorrenza, i segreti degli innesti felici. Serve colla abbondante affinché la vita attecchisca; serve pazienza, poi, affinché fiorisca nella pelle di una corteccia estranea. L'autrice romana si fa portavoce di quei segreti — suo nonno, a cui il romanzo è dedicato, doveva somigliare molto a Tempesta — e li condivide generosamente con noi, pur di vincere la solitudine che l'ansia chiama a sé. Firma, così, un romanzo ben più misurato del precedente, in cui trova finalmente spazio vitale una generazione che finora non c'era sui libri: quella affetta dal male che non c'è. Giulia Caminito ci ha salvati dall'estinzione.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gazzelle - Destri


lunedì 7 ottobre 2024

Recensione: Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, di Irene Solà

| Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre. Irene Solà, Mondadori, € 18,50, pp. 156 |

Cosa succederebbe se David Eggers, il regista di The Witch e The Lighthouse, dirigesse una sceneggiatura firmata dal fantasma di Gabriel Garcìa Màrquez? La bravissima Irene Solà, autrice catalana già di culto presso i millennial, sembra mostrarcelo in questo incubo a occhi aperti. Un po' menestrello, un po' strega, ci apre le porte di una saga familiare fosca e oscena, i cui personaggi si muovono in un limbo brulicante di insetti. Siamo in una stamberga sui Pirenei. Il casolare del Mas Clavell è paragonato a un corpo in decadenza, le stanze a una bocca guasta. È una proverbiale notte buia e tempestosa e, costretta a letto, la vecchia Bernadeta attende la morte: non è il paradiso che la attende. Veggente, è stata l'amante del Maligno in persona e una degli ultimi membri di una famiglia di donne irredente. Eccole, riunite intorno al capezzale, pronte a trascinare la parente inferma all'inferno. Hanno sgozzato un capretto. E disordinatamente, confondendosi coi vivi, si sono raccontate senza filtri al lettore. Vissute a cavallo tra le due guerre, appartengono a una progenie maledetta: nel loro DNA c'è il gene della mancanza, dell'abbandono.

Perché di mattino una donna ingenua poteva illudersi che la notte fosse finita. Mentre la notte non finiva mai, attendeva di nascosto e faceva sempre ritorno.

Solà ci propone un carosello spettrale di orgogliose peccatrici e, sondando le ombre, ci intrattiene con bambini divorati nella culla, abusi e mattanze, selve popolose di belve e briganti. Per leggerla è vietato essere impressionabili: gli argomenti scabrosi abbondano e poco è lasciato all'immaginazione. Il suo romanzo è una carogna che disgusta, eppure, misteriosamente, attrae. Come volgere lo sguardo altrove? Schiavo del turbamento, ho subito tessuto le lodi di una scrittura ritmica e fortemente suggestiva: sensuale perfino nell'orrore più turpe. Il difetto è che la trama non presenta una vera evoluzione e che, fino all'ultima pagina, aspettiamo soltanto l'ultimo rantolo di Bernadeta. Eccessivamente barocco, prima affascina e poi affatica, con uno stile densissimo e un albero genealogico troppo ramificato per duecento pagine scarse. Si respira un sentore di decomposizione. Ma anche l'odore del soffritto che intanto frigge in padella: cipolla, lardo, cannella. C'è una festa da preparare. Alienate dal mondo, mosse da attrazioni incestuose e fantasie di zoofilia, le donne di casa sghignazzano delle diavolerie dell'epoca contemporanea e nutrono nostalgia per gli eccessi che furono. Sono vittime inermi del Secolo breve o femministe all'avanguardia, in un passato in cui altrimenti non avrebbero avuto voce? Il loro sabbat è un commiato senza speranze in cui le tenebre sono l'unico spettacolo da rimirare; l'unica coperta abbastanza lunga da stringerle tutte insieme ancora una volta.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Thom Yorke – Volk


martedì 1 ottobre 2024

Recensione: Elizabeth, di Ken Greenhall

| Elizabeth di Ken Greenhall. Adelphi, € 19, pp. 173 |

Seduta in soffitta, a gambe incrociate, studia il suo riflesso allo specchio. Bellissima, mostra più dei suoi quattordici anni. La minigonna mette in mostra le gambe tornite e una ferita ancora fresca: è il morso di un ragno. Dall'altra parte della finestra New York è una foresta di grattacieli. All'improvviso sullo specchio si proietta l'immagine di un'altra donna: proviene da un'altra epoca, il Cinquecento, e da un'altra dimensione. Ha inizio, così, un dialogo strano e perturbante tra due generazioni lontane; tra un'allieva e la sua guida. Come si diventa una strega? Elizabeth è un'alunna provetta. Responsabile della tragica morte dei genitori, ha uno zio per amante e un'istitutrice inglese che pende dalle sue labbra. Nessuno — lettore compreso — può resistere ai suoi desideri mostruosi e alla sua oscura libidine. La seduzione è un'arma. Fin dove si spingerebbe per imparare a tracciare formule magiche con il suo rossetto scarlatto?

Tutti abbiamo diritto ai nostri segreti. Potremo forse affrontare il mondo con un minimo di sicurezza, senza la giusta dose di conoscenza non condivisa? La conoscenza di ciò che succede tra due persone nel buio di una stanza?

Accolta in un'antica famiglia di armatori navali, vivrà un soggiorno da brividi nella casa di Coenties Slip: vi seminerà turbamento e scompiglio. Come in ogni gotico degno di questo nome, non possono mancare all'appello stanze piene di specchi; feroci animali domestici contro cui accucciarsi per prendere sonno; un omicidio consumato con un candelabro d'argento. Ken Greenhall, contemporaneo di Shirley Jackson, debutta in Italia a dieci anni dalla sua morte con un teen horror esile ma dalle atmosfere suggestive, delirante nel contenuto ma elegantissimo nella forma. Al di sopra del bene e del male, contorto e sessualmente ambiguo, il romanzo è un covo di desideri inconfessabili su una ninfetta irrequieta: dietro il fare provocante, però, come ogni adolescente, sogna di vivere una vita straordinaria o un amore che appaia meno soffocante dell'odio. Abbraccerà la sua eredità o la avverserà? L'epilogo, frettoloso, lascia con la sensazione che nella giovinezza della protagonista ci saranno altri misfatti, altri colpi di fulmine, altre scoperte. Quanto sarebbe soddisfacente saperne di più, leggerla ancora? Come l'antieroina di Goliarda Sapienza, costi quel che costi, Elisabeth punterà a ottenere la sua personale parte di gioia. Sarà, però, la dannazione dei più. La lettura del vostro prossimo Halloween è presto servita.

Il mio voto: ★★★

Il mio consiglio musicale: Rettore – Il Cobra

martedì 17 settembre 2024

Recensione: Yellowface, di R.F. Kuang

| Yellowface, di R.F. Kuang. Mondadori, € 22, pp. 384 |

Quest'anno ho letto un libro di cui non farò il titolo. Una lettura, altrove molto chiacchierata, che mi ha fatto pensare: l'autore è più interessante della storia che racconta. Oggi, in editoria, cosa conta: l'immagine o la parola? Quanti esordienti raggiungono la fama poiché aiutati dalle caratteristiche richieste dell'algoritmo? Con risentimento, se lo domanda June: talentuosa ma non abbastanza interessante, ha assistito all'ascesa di Athena, una compagna di college brillante ma, soprattutto, benedetta dalla fortuna.

L'invidia viene sempre descritta come un livore tagliente e velenoso. Un'acredine infondata e meschina. Ma ho scoperto che per gli scrittori l'invidia assomiglia di più alla paura. L'invidia è quell'impennata del battito cardiaco tutte le volte che leggo dei successi di Athena su Twitter. L'invidia è ciò che provo quando mi paragono a lei e ne esco costantemente sconfitta, è il panico che mi prende quando penso che non scrivo abbastanza bene o abbastanza in fretta, quando sento che non sono, né sarò mai, all'altezza.

Asiatica, queer, fotogenica, rappresenta uno schiaffo al predominio della cultura bianca. Autrice giusta nel momento giusto, benché poco attiva nella comunità asiatica e non sempre solidale con le altre donne, ha un contratto con Netflix e un altro successo in rampa di lancio: alla macchina da scrivere, infatti, ha battuto un romanzo top secret sul ruolo della manodopera cinese nella Grande guerra. Essere bianca, etero, media, significa non avere più nulla da offrire ai lettori? Divorata dalla gelosia, June approfitta allora della morte di Athena per appropriarsi del manoscritto inedito: ne farà un successo internazionale. Arguto, politicamente scorretto e puntuale, Yellowface è una commedia nera sui retroscena dell'editoria, sui giustizieri di Twitter e sull'appropriazione culturale. È lecito che un'autrice bianca dia voce a un dramma cinese? Quand'è che scrivere ha smesso di essere un esercizio di empatia? Il plagio sarà solo l'inizio. Travolta dagli scandali e dalle illazioni, June sarà al centro di un'ascesa e di una caduta dolorosamente rapide, nonché di un romanzo a tratti asfissiante che si diverte a giocare con le storie di fantasmi e con la metanarrazione. Nessuno è al sicuro: perfino la defunta Athena, morbosamente attratta dalle sofferenze altrui, era una ladra incensurata.

Cosa si prova a essere così assolutamente perfetta, ad avere tutto il meglio del mondo? E forse sono i cocktail, forse è la mia esagerata immaginazione da scrittrice, fatto sta che comincio a sentire un grumo rovente nello stomaco, una strana e improvvisa voglia di infilare le dita in quella sua bocca rosso lampone e aprirle la faccia in due, sbucciarle la pelle del corpo come fosse un'arancia e infilarmela addosso.

Le polemiche, tuttavia, restano la migliore pubblicità desiderabile. Riuscirà la nostra antieroina a riappropriarsi finalmente della propria storia? Forte di un'idea originale e di una narratrice scomoda, il romanzo brilla anche per l'autoironia della stessa R.F. Kuang: sinoamericana di grande successo, incalza con innumerevoli interrogativi ma garantisce poche risposte. Ancora acerba, gira a vuoto e abbozza diverse strade percorribili: alcune sono buone, altre ottime, ma tentenna senza imboccarne nessuna. Destinato a un finale aperto, Yellowface è un prurito che non puoi grattare. L'intreccio, fragile, resta un groviglio arruffato. Ma il fastidio, nel frattempo, ti ha dato lungamente da pensare.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: David Bowie - China Girl 

mercoledì 11 settembre 2024

La letteratura in streaming: Kaos | Dostoevskij | Feud: Capote vs. The Swans

Cospirazioni, tradimenti coniugali, sangue, famiglie. Esiste forse intrattenimento più contemporaneo e accattivante di quello offerto dalla mitologia greca? A partire da una intuizione elettrizzante, Kaos porta in scena i personaggi più amati del mito calandoli nella Creta odierna. Gli dei esistono, sono tra noi e, come sempre, mettono lo zampino negli affari mortali. C'è chi, però, ha smesso di temerli. Il Zeus di un esilarante Jeff Goldblum trema di rabbia e frustrazione, con la segreta paura di essere esautorato. Chi sta tramando contro di lui? Come può gestire la convivenza forzata tra cretesi e troiani, se ha difficoltà perfino a farsi obbedire dalla gelosissima moglie Era o da Dioniso, il più spiantato dei suoi figli? Saga familiare ultraterrena, eccezionalmente raccontata da un Prometeo già prigioniero, questa prima stagione (confidiamo, per favore, in un tempestivo rinnovo) tira in ballo anche un trio di mortali dal ruolo cruciale: Arianna, figlia del Presidente Minosse, che questa volta non ha bisogno di nessun Teseo; Euridice, stanca di essere cantata dall'egoista musicista Orfeo; Ceneo, ex amazzone con disforia di genere. Profondamente umani nella caratterizzazione, toccanti e in crisi esistenziale, i nostri eroi si muovono tra le Moire e le Erinni, la terra e l'aldilà, con una domanda: si può cambiare un destino già profetizzato? Corali, spassosi, kitsch con gusto, gli episodi non ha bisogno di effetti speciali per incantarci: la magia è nella scrittura di Charlie Covell, che brilla di equilibri indovinati e di un irresistibile humour inglese. Dopo tanti passi falsi, Netflix tira dal cilindro una serie finalmente all'altezza delle aspettative. Kaos, chicca imperdibile, fa con la mitologia quello che Romeo + Giulietta fece con Shakespeare. (7,5)

Dopo il successo di Valeria Golino, anche Fabio e Damiano D'Innocenzo tornano al cinema con una serie TV. Lenti, sgradevoli, più oscuri che mai, i gemelli romani ci mettono alla prova con un crime in due atti in cui qualcuno potrebbe vedere la risposta italiana a True Detective. Sono cinque ore di cinema d'autore. Di quello lento, pesante, disperato, tipico di alcuni festival di nicchia. La scena clou della prima parte? La colonscopia particolareggiata a cui viene sottoposto il protagonista: un cattivo detective, colpito dalle dipendenze e dal fallimento familiare, di cui sondare le viscere per sincerarsi del marcio. Sbirro e assassino, infatti, condividono gli stessi demoni. Il serial killer, ribattezzato Dostoevskij per le lettere nichiliste seminate sulla scena del delitto, diventa l'ossessione del nostro antieroe. La morte può diventare una ragione di vita? Nei polizieschi c'è sempre il momento in cui la polizia si muove nel buio. I D'innocenzo immortalano quel brancolare: i tentennamenti, le ipotesi, i buchi nell'acqua. E in quel buio si scavano la tana, inventando una sfumatura di nero che prima non c'era. L'ultimo atto vola, più spedito, più corale, più incalzante, ma non ci sono notti bianche all'orizzonte. Non sarebbe stato possibile condensare tutto in un film? Sì, ma sarebbero venute meno le sequenze descrittive in cui il Lazio sembra il Midwest; l'amicizia sincera di un commovente Vanni e la hybris di Montesi, giovane leva con tutto da da perdere. Condannato a un'oscurità eterna, Dostoevskij si rivela il nostro Prisoners: un delitto senza castigo in cui la voce bellissima e cavernosa di Timi, qui in stato di grazia, risuona tra le bettole della povera gente, nelle memorie del sottosuolo, nel nostro buio più inconfessabile. (8)

Le parole possono tutto. Perfino uccidere. Lo sapeva bene Truman Capote: reduce dal successo di A sangue freddo, cercava ispirazione per il suo prossimo bestseller tra i salotti e i ristoranti dell'alta borghesia. Cinico e pettegolo, lo scrittore omosessuale era la mascotte di un gruppo di donne facoltose ma infelici: le chiamava i cigni. A conoscenza dei loro più sordidi segreti, lo scrittore le sburgiarderà per scrivere Preghiere esaudite: una di loro, disperata, si toglierà la vita. In cambio della gloria, Capote perderà la loro amicizia. E l'anima. Dopo averci raccontato la lotta tra Crawford e Davis, due dive sul viale del tramonto, la serie antologica torna con la consueta classe a svelarci un altro scandalo americano: questa volta si passa dal cinema all'editoria. Splendidamente diretta da Gus Van Sant, pur contando su un eccezionale cast femminile, la serie è una vetrina per mettere in luce il genio e la sregolatezza dello scrittore in confidenza con James Baldwin e in contrasto con Gore Vidal: già portato al cinema più volte, trova nell'interpretazione di un irriconoscibile Tom Hollander la sua incarnazione più spumeggiante. La qualità è alle stelle. Ma, a differenza della prima stagione, questa appare più rigorosa e meno fruibile dai profani; più un biopic, l'ennesimo, che un prodotto corale e femminista. Splende la sola Naomi Watts, l'amica prediletta, che ci regala una delle performance migliori della sua carriera con il personaggio di una donna divorata dal cancro e dalla nostalgia, ma pur sempre piena di decoro; degno di nota il cameo spettrale di mamma Jessica Lange. Questi cigni vittima della monotonia incantano per eleganza, ma hanno un becco che non morde. Lontani dall'orbita di Capote, con una faida già persa in partenza, faticano a volare. (6)

venerdì 6 settembre 2024

Recensione: E i figli dopo di loro, di Nicolas Mathieu

| E i figli dopo di loro, di Nicolas Mathieu. € 12, pp. 480 |

Abitano in una valle in cui non succede mai nulla. Pur di sfidare l'immobilismo, vivono le loro vite a velocità folle. Con le marmitte truccate e senza casco; il vento a spettinare loro i capelli. Li vediamo radunati sulle sponde di un lago in cui, ogni tanto, si registra un annegamento. In coda alle giostre del luna park, con le tasche dei jeans ingrossate dai gettoni degli autoscontro. Sulle piste di skateboard e nei pub col parquet appiccicoso di birra. Tutto è un gioco: perfino spaccarsi la testa. Siamo a Heillange, una cittadina di frontiera all'ombra degli altiforni. Le fabbriche, ormai chiuse da un pezzo, incombono sugli abitanti come carcasse in putrefazione. È lì, negli anni dei Nirvava e delle vaccinazioni antitubercolari, che si muovono tre protagonisti con nulla in comune se non il fatto di essere giovani da morire.

All'orizzonte il cielo aveva preso colori esagerati. Inebriato, mollò il manubrio e spalancò le braccia. La velocità faceva sbattere i lembi della canottiera. Chiuse gli occhi per un istante, con il vento che gli fischiava nelle orecchie. In quella città mezza morta, Anthony filava a tutta birra, pieno di brividi, giovane da morire.

Anthony, robusto e con un occhio pigro, si mette spesso nei guai pur di forzare il destino: sempre in cerca della ragazza più bella, della festa piu divertente, incappa nelle spire della piccola criminalità. Hacine, immigrato marocchino, spera di diventare qualcuno attraverso lo spaccio: ruberà la motocicletta sbagliata al ragazzo sbagliato, portando in famiglia venti di tragedia. E poi c'è Steph, figlia di un aspirante assessore, indifferente alle attenzioni di Anthony: innamorata del classico bad boy, è il sogno erotico di grandi e piccoli e, segretamente, fantastica di trasferirsi nella capitale. Parigi appare lontanissima: esiste soltanto nei film in bianco e nero. Com'è possibile affrancarsi dalla vita mediocre degli adulti, fatta di lavoretti in nero e sussidi statali? C'è futuro per gli adolescenti, che escono tutte le sere senza mai sapere bene dove andare? Assetati di un altrove che si trova chissà dove, i protagonisti bruciano gli anni migliori nella noia esistenziale. Hanno madri single e padri gravemente depressi, un'idea sorpassata della mascolinità e, in cuffia, una playlist con le hit più indimenticabili degli anni Novanta.

Da mesi prometteva a suo padre di andarlo a trovare. Ma aveva paura di vedersi di ronte un fantasma. Coralie lo aiutava anche in questo. Il retaggio impossibile e la morte che incombe. Lo prendeva per mano, gli diceva: “Scopami forte, tesoro mio”, cose semplici che aprono crepe nella solitudine.

Il bravissimo Nicolas Mathieu, nell'arco di otto anni, ci racconta quattro estati di un gruppo di diseredati teneri e smaniosi. Lunghissimo, ma all'apparenza povero di eventi, il suo esordio vive d'atmosfere palpabili. Come nel migliore cinema francese, è quasi possibile percepire l'odore zuccherino del sudore adolescenziale; gli umori viscosi del sesso, consumato goffamente in macchina o nelle tende da campeggio; l'oscillazione ipnotica delle code di cavallo e l'elettricità di quei temporali estivi prima preannunciati, infine abortiti. In un epilogo da incorniciare, splendido e simmetrico, la rabbia si depositerà come polvere. Ci sono i mondiali, si brinda e ci si abbraccia disinteressati ai trascorsi personali, si acquistano TV fuori budget: improvvisamente è un bel momento per essere giovani e francesi, per bearsi della “terribile dolcezza dell'appartenenza”. E i figli dopo di loro è il romanzo da leggere su un treno per il nord, quando al termine delle ferie ci si lascia alle spalle con un po' di commozione la provincia amata-odiata che ci ha visti crescere. Per dire addio all'estate, finita troppo in fretta. E, se come me si ha già trent'anni, anche alla giovinezza che fu.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are

venerdì 23 agosto 2024

Recensione: Wellness, di Nathan Hill

| Wellness, di Nathan Hill. Rizzoli, € 22, pp. 736 |

È possibile provare l'esistenza dell'amore a prima vista? Jack ed Elizabeth, dirimpettai, si studiano dalle finestre dei rispettivi palazzi: a separarli c'è soltanto un vicolo. Lui, fotografo, si è lasciato dietro le praterie del Kansas: romanticissimo, nasconde una sensibilità d'altri tempi dietro l'aspetto studiatamente trasandato. Lei, studentessa cresciuta in una magione invasa dai pipistrelli, è l'erede di una famiglia arricchitasi sulle disgrazie altrui: ribelle, molla tutto e decide di vivere da bohémien. Siamo nella Chicago degli anni Novanta, ma sembra di essere a Montmartre. Mentre l'avvento di internet semina dappertutto promesse, la scena artistica si colora di sperimentazioni. “Diversi in modi simili”, i nostri protagonisti tuonano contro il capitalismo e si fingono orfani. Cos'è dei loro sogni vent'anni dopo?

Credi in quello che vuoi, mia cara, ma credici con delicatezza. Credici con consapevolezza. Credici con curiosità. Credici con umiltà. E non fidarti dell'arroganza della sicurezza.

Ormai sposati, Jack ed Elizabeth puntano a mimetizzarsi tra le famiglie del circondario. Performanti, moderni, perfettibili, tentano (invano) di educare il figlio a un uso più accorto del Tablet e investono (invano, sempre) su un cantiere in corso d'opera, in un quartiere dove i grattacieli sono talmente brillanti da tendere trappole agli stormi. Le agenzie immobiliari sponsorizzano “case per sempre”, ma intanto consigliano alle coppie di dormire separate. Servono sex toys e locali per scambisti, pare, per tenere viva la scintilla. La società impone l'appagamento di bisogni continui, ma nel frattempo annichilisce con idiosincrasie, tensioni, caos. Gli orologi monitorano i respiri, gli algoritmi tracciano gli alti e bassi delle prestazioni lavorative e alcuni credono perfino che la vita non sia altro che una simulazione: il presente, insomma, è una distopia. Jack non tituba, ha finalmente una famiglia tutta sua per contrastare la solitudine vissuta nell'infanzia. Ma Elizabeth, più cinica, guarda angosciosamente la curva discendente della mezza età. È possibile preservarlo, l'amore? Famosa per gli studi sull'effetto placebo, sa che le persone amano lasciarsi ingannare pur di superare il dolore di vivere. E se la loro storia, sin dal primo incontro, fosse una frottola al pari dell'agopuntura?

Si poteva scegliere di essere sicuri o si poteva scegliere di essere vivi.

Wellness, sontuoso boy meets girl con dieci pagine di bibliografia in chiusura, resterà la folgorazione dell'anno. Arguto e coltissimo, Nathan Hill impiega 700 pagine per indagare il più grande dei misteri: il benessere matrimoniale. La sua prosa deve somigliare ai dipinti realizzati dalla sorella di Jack. Pennellate semplici e veloci, dettagli fugaci, con l'obiettivo della massiva universalità: la letteratura, così come le tempere, va fatta respirare. E questo romanzo respira, sì, e vive una vita propria in un luogo di confine in cui la commedia romantica e il saggio antropologico possono coesistere, fare l'amore e riprodursi. Come in Rooney, al centro ci sono due protagonisti perfetti l'uno per l'altra ma vittime dell'autosabotaggio. Come in Yanagihara, sullo sfondo, c'è una città popolata da bohémien vestiti da yuppie. Come in Franzen ci sono il disincanto, il grottesco, la satira, e si sorride a denti stretti di papà che cospirano su Facebook, strampalate coppie aperte, fortune fraudolente legate al Ku Klux Klan. Visceralmente contemporaneo, Hill gioca con la chimica delle emozioni e sonda le prese di coscienza di un'età in cui somigliare a tutti gli altri sembra la scelta più comoda. Si è troppo grandi per credere alle favole, alle bugie, alle cospirazioni. O forse no? Se perfino il mercato immobiliare collassa, infatti, gli unici architetti restano i romantici: costruttori di straordinarie bugie, in un mondo sempre più digitale e distratto, creano ogni giorno le emozioni per guarire in autonomia. Bisogna soltanto avere fede nella cura, e tenersi stretta la fede al dito. Il matrimonio è un placebo. Ma quanto è bello credere a una storia d'invenzione, per poi scoprirsi realmente cambiati?

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Smiths – How Soon Is Now?