lunedì 29 marzo 2021

Recensione: Blu, di Giorgia Tribuiani

 
| Blu, di Giorgia Tribuiani. Fazi, € 16, pp. 250 |

Dopo Guasti, opera prima in cui i cadaveri diventavano opere d'arte – il tema, macabro ma affascinante, era quello della plastinazione –, Giorgia Tribuiani torna in libreria alzando l'asticella dello sperimentalismo, della provocazione, dell'inquietudine. Frammentario, singhiozzante, disordinato, il nuovo romanzo è un'immersione letteraria senza capitoli e senza pause, senza respiro. Probabilmente avrei apprezzato un simile flusso di coscienza a piccole dosi, sul breve tratto. Blu intriga nella prima parte, invece, e finisce poi per trascinarsi nella seconda. Fedele a sé stesso, non cambia registro neanche quando la protagonista sembra man mano riappropriarsi della propria identità. E, affaticato da uno stile poco scorrevole e dalle atmosfere asfissianti, sono arrivato al punto da sperare che finisse il prima possibile: non perché sia una lettura sconsigliabile, ma perché – cercate gli effetti collaterali sul bugiardino – potrebbe suscitare spesso frustrazione e claustrofobia. La mente a soqquadro della protagonista, d'altronde, non è un posto piacevole in cui soggiornare. Come biasimare chi non vede l'ora di essere sputato fuori dal suo piccolo mondo matto?

Vorrei che non piangessi, dici, davvero, ma sai che la solitudine ti infetta il sangue, e che hai bisogno di (feritoie) ferite per entrare nel cuore degli altri come una malattia.

Geniale ed emarginata, smarginata, Ginevra – detta da sempre Blu – frequenta il liceo artistico ed è una cattiva ragazza. O tale si percepisce. Un po' vittima, un po' carnefice, avverte il peso del mondo sulle spalle e si crogiola in antiche ingiustizie. Sporca, ma in realtà piena di candore, è attratta dal dolore degli altri: vorrebbe farsi amare portando loro conforto. Figlia di genitori divorziati, cresciuta in una normalissima cameretta affollata di peluche e medaglie di nuoto, Blu ha un fidanzato che non la soddisfa sessualmente e una sorellastra diffidente. Cronicamente insicura, tiene conto maniacalmente dei respiri, dei battiti di ciglia, dei getti dell'erogatore del sapone. Ma la sua ultima ossessione, all'improvviso, è Dora Leoni: un'artista dalla vita sentimentale scandalosa, che sulla scia di Marina Abramovic si rende protagonista di performance spiazzanti. È possibile imparare da lei? È possibile carpirne i segreti, mentre si lava in pubblico in una vasca da bagno dai piedi leonini? È possibile avvicinarla abbastanza da farsi notare? Filtrata interamente dall'io caotico di Blu, la trama appare poco più di un abbozzo evanescente da inseguire fino all'epilogo aguzzando la vista. Il punto di forza della lettura, ma per me anche il suo difetto, è un approccio immersivo che o si ama o si odia.

Tutto ciò che di brutto hai vissuto non è stato che una prova per arrivare fin qui: l'esclusione, la solitudine, il dolore, nient'altro che ostacoli da affrontare per godere appieno di questo momento, una preparazione necessaria per essere scelti da Dora, ora lo sai, e ti levi in piedi e torni a girare tutte le stampe coi volti e i corpi dei performer, guardatemi, io sono Blu e sono una di voi.

Delirante, ipnotico, confusionario, il romanzo raggiunge spaventosi picchi di erotismo – la masturbazione con una penna, in scene a confine con l'autolesionismo – e sfocia poi in una storia di attrazione fatale, con tanto di stalking. Da un lato originalissimo, dall'altro faticoso, mi è parso un mirabile esercizio di scrittura forse più godibile nel formato del racconto. La compagnia di Blu è stata spiacevole, soprattutto in questi giorni di cambiamenti lavorativi, ma al sollievo per il sopraggiungere dei ringraziamenti finali si è affiancata anche una vaga tristezza: noi due non siamo andati d'accordo, no, ma non avrei voluto lasciarla sola. Anche nelle stramberie, anche negli eccessi, la protagonista è un'adolescente come tante. Che fa pensieri strani, cupi, scomodi. Chi non ne ha mai fatti? Chi non ne fa tutt'ora? Giorgia Tribuiani invita all'apertura, alla condivisione. E ci dice che quando smetteremo di essere isole disegnate a casaccio sulla tela grigiastra della nostra solitudine, perfino il dolore tornerà utile come ci prometteva un bellissimo romanzo di Peter Cameron. Il nostro brutto passato si farà performance e, allora, finalmente, arriveranno gli applausi.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Madame – Mami Papi

venerdì 26 marzo 2021

Cosa c'era ai Golden Globe: Fino all'ultimo indizio | I Care a Lot | Music | Deux

Due poliziotti di generazioni diverse, inizialmente ai ferri corti, uniscono le loro forze in cerca di un serial killer di donne ancora a piede libero. Il primo è il coriaceo Denzel Washington, rimasto bruciato da un vecchio caso del passato; il secondo è Rami Male, al contrario giovane e fiducioso. Nella sala degli interrogatori, sotto torchio, siete invece Jared Leto: un villain dalla pancia posticcia e dai capelli unti, inquietante e mellifluo come pochi. Capita raramente di vedere tre attori premi Oscar radunati nello stesso film. Un thriller dichiaratamente anni Novanta, che nel titolo italiano promette a torto una caccia all'uomo e all'indizio. Dopo una buonissima prima parte, il film di Hancock – poco più che un mestierante hollywoodiano – tradisce premesse e promesse in un proseguo più da buddy movie esistenzialista che da poliziesco, dove vengono messi in scena i caratteri inquieti dei personaggi maschili e soprattutto i loro metodi poco ortodossi. Mentre i due protagonisti parlano per cliché e frasi fatte, ben interpretati ma noiosamente già visti altrove, sorprende la performace di un Jared Leto che ha gioco facile per brillare: reduce da una meritata nomination ai Golden Globe, gigioneggia, seduce e spiazza. Il resto? Una mancata stagione di True Detective che ammicca all'ambiguità sottile di Seven, fa rimpiangere la potenza del coreano Memorie di un assassino e parla dell'importanza sostanziale dei piccoli dettagli, pur mancando di una grande trama portante. (5,5)

Marla Grayson è un tutore legale. Ha un bel sorriso, è affidabile, si prende cura degli anziani senza parenti. In realtà, truffatrice senza scrupoli insieme alla sexy compagnia Eiza Gonzàlez, è disposta a tutto pur di abbandonare i malati in una casa di cura e arricchirsi coi loro risparmi. Fino al giorno in un cui non raggira una Dianne Wiest in forma smagliante, la vecchina sbagliata... Come si realizza il sogno americano? Bisogna essere prede o predatori per vivere ricchi e felici? Commedia nera dell'umorismo cattivissimo, I Care a Lot vanta un incipit strepitoso, un epilogo generoso di colpi di scena, ma un epilogo rocambolesco mai realmente sorprendente. Anzi, si ha l'impressione che a questa protagonista fuori di testa e sopra le righe fili tutto un po' troppo liscio, nonostante abbia alle calcagna il boss russo di un carismatico Peter Dinklage. Divertentissima e divertitissima, Rosamund Pike – premiata come miglior attrice agli scorsi Golden Globe – torna finalmente ai fasti di Gone Girl: malvagia come nessuno, sfoggia un caschetto biondo, fuma la sigaretta elettronica, indossa tubini colorati impeccabili, fa monologhi fortemente femministi contro un mondo lavorativo misogino e sessista. E testimonia, soprattutto, come oggi, per fortuna, il cinema si stia mettendo all'opera per scrivere ruoli non convenzionali. Nel bene e nel male potreste prenderlo come un assaggio in attesa del ben più riuscito Promising Young Woman, in uscita ad aprile in sala. È compreso nell'abbonamento Amazon Prime Video. (7)

Nominato a due Golden Globe nell'insorgere della critica d'oltreoceano, Music è destinato a restare il film più contestato della stagione dei premi. Sabotato dagli americani, politicamente corretti come nessuno, si è procurato critiche su critiche per la presenza di un'attrice neurotipica nei panni di un'adolescente autistica. Evitabili polemiche a parte – ricordiamolo sempre: il mestiere dell'attore in fondo è proprio recitare –, com'è l'esordio alla regia della popstar Sia? Benché lo abbia affrontato senza pregiudizi, mi sono trovato mio malgrado davanti a un melodramma di buonissimi sentimenti visto e rivisto, con la solita sorellastra scapestrata costretta a prendersi cura della solita ragazzina fragile. Per fortuna, in questo caso la loro convivenza è vivacizzata da visioni musical: più che numeri musicali bene amalgamati con il resto della vicenda, purtroppo, questi momenti dai colori abbaglianti sono piccoli videoclip a sé dove emergono la creatività della popstar – impegnata anche in un ironico cameo – e la bravura della sottovalutata Kate Hudson, qui eccelsa anche come cantante e ballerina. La giovane Maddie Ziegler ci prova, pur risultando involontariamente sopra le righe. Altrettanto la stella in ascesa Leslie Odom Jr, vittima del personaggio di un vicino di casa assurdamente buono e improbabile. La colpa non è del cast, né di un argomento molto delicato per essere affrontato in un'acerba opera prima, ma di una scrittura troppo vecchia per risultare pop. (5,5)

Sono madri e nonne, dirimpettaie. Quando nessuno può osservarle, si intrufolano l'una in casa dell'altra. E si amano di nascosto. Il loro amore – omosessuale, anziano – scontenterebbe più di qualcuno. Nonostante l'età, le due fanno progetti: vorrebbero vender casa, ricominciare. Ma per paura di confrontarsi coi figli non si dichiarano. Fino a quando un ictus non le separa e una delle due, immobilizzata, viene affidata prima a una badante, poi ai figli egoisti, infine alle case di riposo; l'altra, trattata alla stregua di un'estranea, si limita allora a elemosinare momenti insieme. A spiare la vita dallo spioncino. Se stare insieme è un crimine, un'irruzione, ci sarà mai un posto per entrambe? Tagliato ingiustamente fuori dalla cinquina degli Oscar, ai Golden Globe rappresentava il cinema francese. Diretto dall'esordiente italiano Filippo Meneghetti, Deux è un dramma devastante e viscerale, la cui tematica spaventa soltanto a pensarci. Benché durante la visione scorrano copiosamente lacrime di tenerezza e di rabbia, il film stupisce per il suo approccio da thriller: fatto di attimi mancati e di piccoli presagi, di sparizioni, indaga i corpi rattrappiti, i misteri della vecchiaia e della memoria. Spaventosamente plausibile eppure pieno di bellezza, Deux ti sale con le ginocchia sul petto. Ti conduce in un turbinio di emozioni. E ora, ti chiedi? Cosa succederà? Cosa faranno? Caracollanti, Barbara Sukowa e Martine Chevallier – straordinarie – ti prendono per mano nell'epilogo. E sulle note di una canzone italiana, e dei colpi dei loro battiti malandati, ti stringono forte nel romanticissimo delirio di un lento. (7,5)

lunedì 22 marzo 2021

Recensione: Quanto tornerò, di Marco Balzano

| Quando tornerò, di Marco Balzano. Einaudi, € 18,50, pp. 197 |

Si sarebbe potuto chiamare Mal d'Italia. Ho scoperto questa definizione leggendo del senso di smarrimento di Daniela, badante romena a Milano, e dei suoi familiari lasciati indietro. Questa sindrome affligge innumerevoli paesi dell'Est, popolati esclusivamente da bambini, adolescenti e uomini: le donne di casa sono infatti andate via all'improvviso per prendersi cura degli altri, altrove; per provvedere alle spese della famiglia con uno stipendio guadagnato lontano, tra razzismo sottile e insopportabile nostalgia. La storia della protagonista di Marco Balzano è la storia di tante straniere che affollano le nostre città. Orgogliose, robuste e coriacee, scortano anziani a braccetto; sono in fila alle poste, al supermercato o in farmacia, mentre ascoltano le direttive dei datori di lavoro al cellulare; siedono sulle panchine dei parchi, con un contenitore di cibo speziato sulle ginocchia, e si guardano intorno in cerca di accenti amici. Daniela è fuggita dalla Romania nel cuore della notte, senza salutare nessuno: ha lasciato un biglietto per rendere l'arrivederci meno straziante.

La guardo sempre con la stessa rabbia e la stessa delusione, la casa. La mia famiglia sono questi calcinacci.

Si lascia alle spalle una coppia di genitori cagionevoli, un marito sfaccendato, due figli giovani schiacciati dalle responsabilità e una casa da ristrutturare: la mansarda smantellata sarebbe da risistemare; sarebbe bello inoltre pitturare, riarredare, rimodernare, per trasformare la proprietà in un piccolo agriturismo. Daniela impara la lingua delle medicine, delle malattie, dei principi attivi, e nel tempo libero si diletta a cercare parole più poetiche sul dizionario. Sconsolata, all'inizio del romanzo torna a casa d'urgenza: in sua assenza, la famiglia è andata in malora. Che senso ha badare al prossimo quando nessuno ha badato ai suoi cari? Alla luce di questa contraddizione, Balzano costruisce un romanzo con un difetto evidente alla base: la storia di Daniela è la storia di tante donne, e lui non sembra far niente per mostrarcela con occhi diversi. La sua esistenza ai margini è fatta di ambienti umili e spartani, di minestre e candeggina, di una pioggia sottile e tagliente che ispira mestizia. Il dramma senza fondo della protagonista – forse il personaggio meno interessante del romanzo – per fortuna viene smorzato grazie ai figli, che portano punti di vista diversi e a me vicinissimi.

Forse nella vita si rincorre la vita.

Manuel e Angelica sono arrabbiati, si sentono traditi. Su Skype non sanno bene cosa raccontare a quella madre di cui non comprendono le ragioni. I silenzi astiosi si allungano, le parole diminuiscono, il malcontento cresce. Manuel, al primo anno di liceo, colleziona brutti voti e patisce la sindrome d'abbandono: frequenta compagnie turbolente e spinge al massimo il motorino truccato. Angelica, il personaggio che ho di gran lunga preferito, è una studentessa brillante e un'instancabile bestia da soma: per pensare ai familiari ha taciuto su tante cose, compresa la sua vita sentimentale. A loro spetta il compito di migliorare le sorti del romanzo, soprattutto in un finale davvero perfetto. Dopo un intermezzo lungo e canonico, infatti, Balzano sorprende con delicatezza in un'ultima parte insolitamente armoniosa, fatta di balli folkloristici, frutta secca e boomerang. Lontano dalle tragedie di Orfani bianchi di Antonio Manzini, Quando tornerò è una lettura sensibile, delicata e piena di dignità. Il ritratto di una famiglia in frantumi che nei giorni buoni sa indossare gli abiti eleganti e riunirsi sotto un percolato. Perché l'amore non è sempre un lusso per pochi: non si paga per forza a caro prezzo. Dopo il più memorabile Resto qui, Marco Balzano torna con un romanzo diverso sin dal titolo: una storia giocata non sulla strenua resistenza delle stelle fisse, ma sugli andirivieni di mamme che sono meteore passeggere. Ma restare è una lezione comune, che si impara come l'italiano dei quotidiani online e delle canzoni di Vasco Rossi.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli – L'abitudine di tornare

martedì 16 marzo 2021

Recensione: Latte arcobaleno, di Paul Mendez

| Latte arcobaleno, di Paul Mendez. Atlantide, € 18. pp. 412 |

In Moonlight, il film premio Oscar di Berry Jenkins, i tre stadi della giovinezza del protagonista – vissuta tra razzismo, omosessualità e degrado – venivano mostrati attraverso una metamorfosi. Nel corso della visione, infatti, si avvicendavano ben tre attori per dare carne a Chiron: un'anima fragile prigioniera di una tentacolare giungla urbana. Succede qualcosa di simile al protagonista di Latte arcobaleno, straordinaria opera prima con un personaggio parimenti tormentato. In cerca del proprio centro di gravità, anche Jesse cambia aspetto e città. Cambia voce. Cresciuto dal patrigno bianco in una comunità di Testimoni di Geova che ha instillato in lui un forte senso del peccato, ricerca le origini giamaicane della famiglia nei tomi della biblioteca, ascolta i rapper di nascosto e sogna di andare a vivere con l'amico di cui è segretamente innamorato. Trattato presto alla stregua di un paria, fugge a Londra all'età di diciannove anni: lontano dalla verità rivelata e, si spera per lui, più vicino a sé stesso. Durante la dolorosa gavetta per diventare adulto, seguirà tanto gli ormoni quanto l'ambizione. Desideroso di diventare scrittore come James Baldwin, temporeggia incerto e nel frattempo si prostituisce in cambio di ospitalità, denaro, droghe: fino a quando la conoscenza di Owen, poeta che trascorre il Natale in solitudine, non lo farà sentire la persona più perfetta e più importante dell'universo.

Avevamo lasciato il Giardino dell'Eden per la Terra di Latte e miele e avevamo trovato Sodoma e Gomorra. Invece delle colline ondulate, c'era una montagna di spazzatura.

Storia di ordinario smarrimento, il debutto di Paul Mendez incanta sin da quelle prime sessanta pagine ambientate in un altro luogo e in un altro tempo: a raccontarsi nell'incipit è un giamaicano dal linguaggio sgrammaticato, disabituato al freddo inglese e ai miasmi delle fabbriche, che in giardino coltiva una sorprendente varietà di rose. Quale è il nesso tra lui e il resto, un'epopea giovanile dai ritmi folli? L'andamento martellante della narrazione è merito ora degli stupefacenti in circolo, che pompano il cuore a mille; ora di una colonna sonora trascinante, che va dai Joy Division a Lemonade di Beyoncè. Ritratto nell'arco di un quindicennio – si parte dall'attentato alle Torri Gemelle in TV, per giungere infine alla Brexit –, Jesse scoppia di fame e di vita. Il mondo degli adulti è un banchetto dove rimpinzarsi fino ad avere la nausea. Apparentemente senza pensieri, ingolla superalcolici, pilucca carni al sangue e infilza uomini di mezza età: tutti bianchi e potenti, dal momento che il sesso è percepito inconsciamente come l'unico mezzo per sottomettere Dio e il suprematismo. Ma se si guardasse indietro, se gli chiedessero a bruciapelo come sta, il protagonista scoppierebbe amaramente in un pianto fluviale. Come far tacere la nostalgia di casa? Come metabolizzare un razzismo più sottile, lontano dagli estremismi americani, ma altrettanto sistemico? Libero come l'aria, e per questo completamente solo, Jesse brama un nuovo senso di appartenenza. Lo troverà nella cerchia queer, spavalda ma al contempo terrorizzata dalla malattia, o nella comunità degli immigrati inglesi?

Spero che Tu sia davvero lassù, così non avrò passato i miei primi diciannove anni di vita a parlare a me stesso, ma spero anche che Tu non ci sia, così non devo ritenere Te responsabile di tutto il male che sta accadendo, causato da persone che si credono giuste e sono convinte di averti dalla loro parte. Ti faccio questa preghiera in nome di Tuo Figlio e Re Regnante Cristo Gesù, il cui compleanno non permetti di festeggiare nemmeno ai tuoi seguaci più sinceri. Buon Natale. E grazie, grazie davvero tanto per lo champagne e l'erba. E per Owen. E per i Joy Division. E per le Sugarbabes. E per le Destiny's Child. Amen!

Contemporaneo e prorompente, caratterizzato da una voce davvero inconfondibile, Latte arcobaleno è un romanzo di formazione energico, vitale e leggerissimo nonostante la crudezza dei temi trattati. Inutilmente appesantito dalle ultime cinquanta pagine, necessarie soltanto a chiudere il cerchio, procede per salti temporali ed ellissi: alcuni capitoli condensano in poche pagine espedienti loschi, amanti passeggeri, ricordi frammentari; altri si prendono, invece, i tempi giusti per raccontare al meglio l'emozione di una confessione o di una cena che all'improvviso fanno credere alle canzoni d'amore. Passo dopo passo, anche il linguaggio matura (un plauso alla traduttrice, la bravissima Clara Nubile): lo stile di Mendez si innalza e si imborghesisce, in conversazioni uscite dai salotti snob di Sally Rooney, senza mai tradire però l'amore per i colori saturi, le citazioni pop sparse a piene mani, i sensi sull'attenti e i corpi ansanti. Basso, magrolino e superdotato, con due occhi da cerbiatto che sono l'invidia di tutti i clienti, l'indimenticabile Jesse – «ragazzo nero che cercava di essere un ragazzo bianco che cercava di essere nero» – avrebbe bisogno di un bravo terapeuta o di un abbraccio sincero. Nel frattempo canta in playback i tormentoni del momento e cammina lungo le strade affollate con la consapevolezza di essere l'oggetto del desiderio di coloro che prima lo disprezzano, poi spererebbero comprarlo. Alle spalle ha lasciato tracce della muta avvenuta: pelle di serpente, pelle nera. Quando perde l'equilibrio, nessuna paura. Nella coreografia della propria vita spericolata, Jesse non cade: balla.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Madame – Voce

venerdì 12 marzo 2021

Sentimenti in giallo: The Flight Attendant | Losing Alice | Soulmates

Se non avessi già visto The Flight Attendant, la presenza di Kaley Cuoco agli scorsi Golden Globe mi avrebbe fatto storcere il naso. Mal sopportata in The Big Bang Theory, nella serie thriller è stata promossa da spalla comica a protagonista assoluta. A sorpresa, mi ha fatto ricredere rivelandosi una mattatrice straordinaria. Sexy, querula e disperata, in grado di passare dal registro comico a quello drammatico con un battito di ciglia, è Cassie: una hostess con la testa tra le nuvole. Inaffidabile, goffa e promiscua, ama la bella vita e gli uomini belli. Tipica alcolista che fa fatica ad ammetterlo, si nasconde dietro il cliché della femminista libertina. Ma intanto è perseguitata da demoni personali, vuoti di memoria, dipendenze. Caratterizzata con brio e intelligenza, tanto nei rapporti amorosi quanto in quelli familiari, la protagonista è una mina vagante in fuga da una scena del crimine: chi ha ucciso il suo ultimo amante, un sempre affascinante Michiel Huisman? Per paura di essere incriminata, Cassie vola tra New York, Roma e Bangkok. Quando smetterà di fuggire – rinunciando anche al vizio dell'alcol –, per affrontare finalmente la realtà? Grazie a una messa in scena stilosa e a una performance che non passa inosservata, The Flight Attendant intriga per i colpi di scena a raffica e per i deliri di Cassie, che in fantasticherie a occhi aperti immagina perfino di parlare con l'uomo assassinato. I ritmi restano altissimi, per fortuna, anche quando risvolti un po' improbabili e le somiglianze eccessive con Killing Eve rischieranno di far calare l'attenzione. Intrigo internazionale dalle ambientazioni cosmopolite, ha una bionda alla Hitchcock per fiore all'occhiello e i pregi che mancavano alla sopravvalutata The Undoing. Troppo autoironica per prendersi sul serio, la serie è un guilty pleasure che tratta i suoi spettatori con i guanti bianchi. La gentilezza, d'altronde, è compito delle brave hostess. Kaley Cuoco lavora, e cospira, per il nostro comfort. Buon viaggio. (7,5) 

Mentre tutti parlano e sparlano di Dietro i suoi occhi, ultimo successo Netflix fatto di atmosfere bollenti e intrecci torbidi, la sorpresa in materia di thriller erotici arriva da Israele. Distribuita da Apple, Losing Alice è una miniserie che affascinerà gli amanti del cinema di De Palma, Verhoeven, Lyne e Polanski. Nonostante il suo garbuglio di sotterfugi e sensualità tipicamente anni Novanta, non risulta mai fuori tempo. Il merito spetta alle protagoniste femminili, belle in maniera ipnotica, e a una riflessione metacinematografica che mi ha fatto tornare in mente le inversioni di ruolo di Sils Maria. Qual è il confine tra verità e finzione? Ogni sceneggiatura, perfino la più maledetta, contiene un briciolo di autobiografismo? Un film, soprattutto, appartiene più al suo autore o al suo regista? Cineasta in maternità, Alice è la moglie frustrata di un attore corteggiatissimo che suo malgrado la mette spesso in ombra. In cerca di un nuovo progetto, in treno si imbatte in Sophie: sceneggiatrice giovane e sfrontata – una sorta di Lolita – che le propone di trasporre un'irresistibile vicenda di tradimenti e relazioni sadomasochistiche. Il film, Camera 209, entra presto in produzione. Ma Alice si troverà a gestire il marito dongiovanni e Sophie, entrambi protagonisti, sullo stesso set. Come restare professionali se la ragazza prodigio sembra flirtare con tutti, moglie e marito compresi? Come conservare la sanità mentale se, a un certo punto, il passato misterioso di Sophie diventerà un'ossessione? Elegante, stratificato e perverso, Losing Alice è il giallo di un transfert inafferrabile e lussurioso. Ben recitata e costruita come un gioco perpetuo di simmetrie e anticipazioni, la serie in otto puntate ha un erotismo spiccato che non scade mai nel volgare e un difetto non da poco: episodi di troppo. Non esente da lungaggini superflue, la sceneggiatura si sfilaccia e si appesantisce in vista del gran finale: per fortuna c'è un epilogo abbastanza soddisfacente, per quanto rapido, a sciogliere i nodi in sospeso. Se amate il cinema, il thriller e le location insolite, fate come Alice: perdeteci la testa. (7)

A dispetto dei pareri poco entusiastici disseminati in rete, mi ci sono imbarcato in una serata di insofferenza diffusa. Avevo proprio bisogno di una serie così. Antologica, sei episodi slegati, un'impronta che ricorda il Black Mirror più sentimentale. Ambientata in un futuro non troppo lontano, Soulmates – distribuita in Italia da Amazon Prime Video e già rinnovata per una seconda stagione – è una app avveniristica per farti incontrare la tua anima gemella. Cosa succederebbe se intanto fossi già sposato, ma con la persona sbagliata? E se la tua dolce metà, con l'inganno, cercasse soltanto vendetta? E se fosse un'altra donna e ti tentasse, dunque, con la proposta indecente di un triangolo sexy? E se le preferissi un colpo di fulmine dell'ultimo minuto? E se, purtroppo, fosse già morta? E se, ancora, si rivelasse essere un efferato serial killer? Il cast, fatto di nomi non troppo altisonanti, include tra gli altri: gli onnipresenti Sarah Snook e Kingsley Ben-Adir, la sempre discinta Laia Costa, l'idolo di Stranger Things Charlie Heaton e Bill Skarsgard, divertente e divertito in un ruolo a tinte arcobaleno che poco ha a che spartire con l'incubo di Pennywise. Costituita da sei episodi di quaranta minuti, Soulmates racconta tre storie d'amore a cavallo tra commedia, dramma e mystery. Alcuni sono attualissimi – primo e ultimo –, alcuni involontariamente brutti – terzo e quinto –, altri sufficienti a malapena – secondo e quinto. Tutt'altro che imperdibile, interessa comunque per la visione agrodolce delle relazioni sentimentali e per una fantascienza minimalista, che sa restare sullo sfondo con discrezione. Insomma: per una serie così, gradevole ma in definitiva dimenticabile, non serviva mica un algoritmo avveniristico. (6,5)

mercoledì 10 marzo 2021

Recensione: Casa è dove fa male, di Massimo Cuomo

| Casa è dove fa male, di Massimo Cuomo. E/O, € 16,50, pp. 188 |

Da grandi aspettative derivano grandi responsabilità. È questo che ho pensato leggendo l'ultimo romanzo di Massimo Cuomo, assente in libreria dalla pubblicazione di Bellissimo: una fiaba caraibica bellissima come da titolo, finita tra le migliori letture della sua annata. Quattro anni dopo l'autore veneto è tornato con una storia profondamente diversa. Un cambio di genere, di tono, che mi ha disorientato per buona parte della lettura. Tanto il romanzo precedente era poetico e delicato, quanto questo – intitolato come la canzone di apertura di un film di Xavier Dolan – è un'ecatombe infernale di rara crudezza. Ambientato in un condominio di una Mestre collocata in un passato indefinito, Casa è dove fa male segue piano per piano le vicissitudini tragicomiche degli inquilini. Una giungla umana animata dalla disperazione più profonda che si crogiola nei miracoli e nell'autolesionismo, nella perversione e nei vizi, nel sangue mestruale e nell'adipe. A raccontarci i protagonisti, eccezionalmente, è il condominio stesso. Un narratore onnisciente originalissimo, dalla voce chirurgica eppure implacabile, che senza scomporsi scava nei corpi ansanti e nel calcestruzzo. Con una tecnica che ricorda le carrellate cinematografiche, Massimo Cuomo si muove sinuoso tra gli appartamenti. Il soffitto di un personaggio è il pavimento dell'altro collocato, invece, al piano di sopra. I paragrafi sono parte di un montaggio invisibile, giocato su raccordi di movimento raffinatissimi.

L'unica maniera per essere felici non è avere coraggio: è avere pazienza.

Ben pensato e diviso in quadri altamente scenografici, Casa è dove fa male mi ha affascinato più per la messa in scena che per il contenuto. Costituito da piccole storie cattive, non riesce mai a diventare un grande romanzo. I coniugi Busetto, pensionati, passano la giornata a invidiare le vite degli altri: mentre Paolino è incantato dalle bugie delle televendite, la moglie Lia scandaglia i vicini dallo spioncino. L'adolescente Anselmo Chinellato, gravemente in sovrappeso, sperimenta una fame atroce quando i genitori mettono catene al frigorifero affinché non mangi più fuori pasto. Schirru, uomo manesco e pelosissimo, cerca la fedeltà del suo cane per riprendersi dall'abbandono della moglie. Gianna Ruzzene, annoiata da un marito troppo perfettino, sforna sformati fumanti e sogna un rapporto sadomaso. Metodici e parsimoniosi, i Prambolini risparmiano fino all'inedia: perfino il sesso, fatto ogni sera, è soltanto un mezzo per scaldarsi. Tommaso Sbrogio, medico di base con l'hobby del nudismo, è diviso tra la trasgressiva Monia e la fragile Teresa, che ha sacrificato la propria gioventù appresso alla madre malata. Nelle fondamenta dell'edificio, intanto, i topi proliferano in un'orda mostruosa.

Un pugno è come una vibrazione sismica e come tutti i gesti potenti e sinceri si propaga sul pianerottolo, allagando gli spazi della famiglia Ruzzene. E nei minuti successivi ogni componente del nucleo familiare, in modi diversi, riceve e scarica quella violenza in reazioni che nessuno sa spiegarsi, se non con la necessità di doverlo fare e basta, per il fatto – che gli uomini hanno dimenticato – di appartenere al medesimo caos, di essere tutti nella stessa confezione di latte nel frigorifero dell'Universo.

Caratterizzato da una continua voglia di sconvolgere, il romanzo ci riesce senz'altro tra cannibalismo, feticismi sessuali, tantissimi colpi bassi e sporadici momenti di tenerezza. Ma purtroppo il mio straniamento è rimasto fino all'ultimo, e così ho fatto sinceramente fatica a riconoscere la penna che avevo tanto amato in passato. Con questa lettura ho avuto un rapporto altalenante. Allo smarrimento iniziale, dopo essermi acclimatato, è subentrata l'insofferenza. Mi sono fatto io un'idea sbagliata e limitante del mondo interiore di Massimo Cuomo? Se in copertina ci fosse stato un altro nome al posto del suo, avrei forse letto il romanzo con uno spirito diverso? Nel dubbio, posso rispondere soltanto alla seconda domanda: da amante della cosiddetta letteratura cannibale – per me, oggi, un genere un po' fuori tempo massimo –, avrei comunque storto il naso davanti alla mancanza di ironia di Casa è dove fa male. Questo condominio confina infatti con quello di Niccolò Ammaniti in Fango e con gli ascensori in panne del Blackout di Gianluca Morozzi: racconti grotteschi pregni di umorismo caustico, capaci di comunicare leggerezza anche nella gratuità della mattanza. Quando il troppo storpia, insomma, meglio far presto a togliere le tende. In questa casa, benché guidati da un anfitrione diverso, vi sembrerà di esserci già stati.

Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Camille – Home is Where it Hurts

sabato 6 marzo 2021

Recensione: Daddy, di Emma Cline

| Daddy, di Emma Cline. Einaudi, € 17,50, pp. 240 |

I racconti non mi piacciono. Qualche anno fa era questo il mio parere davanti a storie brevi e sospese, troppo rapide per restare impresse. Di quelle che le finisci, insomma, e interrogando la parete bianca domandi: e allora? Per fortuna mi hanno educato al genere Paolo Cognetti, Nickolas Butler, Niccolò Ammaniti, Elizabeth Strout, Kristen Roupenian e, benché lentamente, oggi sto ancora imparando. Qualche volta, perciò, i racconti mi piacciono. Quando sono ben scritti e perfettamente conclusi; quando a legarli in filigrana c'è un filo conduttore, una coerenza interna, il disegno delle scatole dei puzzle. Reduce dalla lettura dello splendido Harvey, in grado di immaginare e condensare in cento pagine appena l'ultima giornata di libertà di un memorabile Weinstein, sono tornato a leggere Emma Cline senza paure: con aspettative alle stelle, i suoi racconti mi sarebbero piaciuti a prescindere. Ma in Daddy ho trovato tutto quello che in principio mi ha fatto detestare il genere. Caratterizzate da atmosfere torride e peccaminose, le storie dell'autrice californiana questa volta sono poco più che squarci nella pagina; lampi d'inchiostro. Molto ben scritte, ma assolutamente fini a loro stesse, talora risultano perfino incomprensibili. Catapultato in medias res nelle vicende, il lettore si ritroverà nel clou di conversazioni e intrecci già avviati. E nel tempo impiegato ad acclimatarsi, a capire chi sia imparentato con chi, i racconti saranno già giunti al termine.

Era quel periodo della vita in cui tutte le volte che succedeva qualcosa di brutto, di strano o di sordido, Alice si consolava con quello che dicevano sempre tutti: è solo un periodo della vita. A pensarla in quei termini, qualunque casino in cui si ficcasse sembrava già legittimato.

Dei dieci che compongono il volume soltanto due sono realmente degni di nota. Uno, raccontato eccezionalmente in prima persona, racconta dell'amicizia selvaggia e sensuale che lega una coppia di hippy tredicenni. L'altro, in chiusura, ci porta invece in una clinica nel deserto: la protagonista, che spera di disintossicarsi da stupefacenti e chat pornografiche, ricerca a ogni costo le attenzioni di un nuovo, chiacchieratissimo degente. Gli altri racconti, dimenticabili, preferisco sacrificarli tutti in una rapida carrellata. Una famiglia si riunisce a Natale e, tra film a tema e lunghe cene in compagnia, emergono dissapori per colpa di un capofamiglia incapace di cancellare le proprie mancanze. Una giovane donna, aspirate attrice, mangia poco e sogna in grande mentre vende mutandine usate per pagarsi il corso di recitazione. Due vecchi produttori cinematografici si incontrano alla prima di un figlio d'arte. Una tata finisce nell'occhio del ciclone per una relazione col suo famoso datore di lavoro. Un'azienda agricola fa da sfondo alle schermaglie tra un ragazzo e il suo futuro cognato. Un uomo, convocato dal dirigente scolastico, viene a conoscenza della meschinità del figlio privilegiato. Sono andato in ordine sparso, scusatemi: probabilmente ho tralasciato qualche racconto di cui, ormai, mi sfugge il contenuto. La noia esistenziale contenuta tra le pagine, contagiosa, mi ha avvinto fino a togliermi qualsiasi voglia di approfondire. Volubile, sfuggente e disorganica, Daddy è la raccolta di un'autrice che lavora per sottrazione dal momento che a scuola di scrittura creativa – se ha preso ben bene appunti, da prima della classe qual è – le hanno insegnato che less is more. Ma a furia di togliere, Emma carissima, qui non è rimasto quasi niente.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Tones and I – Dance Monkey

martedì 2 marzo 2021

Recensione: Le conseguenze, di Richard Russo

| Le conseguenze, di Richard Russo. Neri Pozza, € 19, pp. 383 |

Come nella Casa sul lago di David James Poissant, un gruppo di personaggi si riunisce per trascorrere un ultimo weekend insieme prima che gli agenti immobiliari piantino il cartello vendesi sul vialetto. Come in Ohio di Stephen Markley, i protagonisti – tre amici di lunga data che non si vedono da un bel po' – si scoprono uniti da un garbuglio di bugie, segreti e non detti. È forse possibile sperimentare una seconda giovinezza, darsi una seconda possibilità? Quanto sappiamo davvero del bagaglio psicologico delle persone che ci circondano? La verità, una volta scoperta, renderà liberi come recitano i proverbi? Ormai ultrasessantenni, Lincol, Teddy e Mickey si danno appuntamento a Martha's Vineyard: è settembre, i turisti stanno andando via. Quarant'anni prima la stessa isola ha fatto da sfondo a un mistero rimasto irrisolto. Che fine ha fatto Jacy, l'unica ragazza del gruppo – quella di cui erano tutti innamorati alla follia? Compagni di college ai tempi dell'arruolamento per il Vietnam, i protagonisti formavano un quadretto organico nella sua disorganicità.

Quali erano le possibilità che quei tre finissero nello stesso dormitorio per matricole al Minerva College, sulla costa del Connecticut? Perché basta tirare un filo della trama del destino umano e tutto si dipana. Però potremmo pure dire che le cose hanno la tendenza a dipanarsi anche da sole.

Lincoln, bello e benestante, è diventato un agente immobiliare con sei figli e una nidiata di nipoti: circondato dall'amore di una grande famiglia, prende le distanze da un padre verso cui ha sempre nutrito sentimenti conflittuali. Teddy, figlio di una grigia coppia di insegnanti, ha abbandonato il sogno del basket in seguito a un grave infortunio e si è rifugiato tra i libri di teologia: editor frustrato, per quale motivo rifugge la compagnia delle donne e l'obiettivo di scrivere un libro tutto suo? Infine c'è Mickey, italo-irlandese scappato in Canada per evitare la guerra: musicista sboccato e rumoroso, all'apparenza è il bamboccione di sempre, ma si rivelerà il più sfuggente dei tre uomini. Oltre che essere un agrodolce amarcord, però, Le conseguenze è anche e soprattutto un giallo: a volte inquietante, a volte incantevole, Jacy – mi ha ricordato la Jenny di Forrest Gump, disinibita e sofferente – è un fantasma che li ossessiona; una sposa in fuga che baciava tutti ma non sceglieva nessuno, frequentava le spiagge nudiste, si spingeva al largo per sottrarsi a ogni scelta... Tridimensionali, affiatati, indagati tanto nei reumatismi quanto nelle contraddizioni, i riusciti protagonisti di Richard Russo sono tre anziani che tra bistecche, birre e rock 'n roll parlano del Vietnam, dell'ascesa di Donald Trump, del destino.

Ci sono un sacco di cose che non sappiamo delle persone, anche di quelle che amiamo di più. Ci sono delle cose che non ti ho mai detto di me, e probabilmente ci sono delle cose ce non sono affari miei e che tu non mi hai mai detto. Ma le cose che teniamo segrete tendono a rappresentare proprio il cuore di ciò che siamo.

Nella vita c'è un disegno? Le cose sarebbero andate diversamente se non si fossero mai incontrati all'università? Emozionante nel ritratto di una tipica amicizia al maschile, sincera ma laconica, il romanzo punta ai colpi di scena dell'epilogo e qui e lì incappa in qualche cliché di troppo – il vicino gradasso guardato con sospetto, il classico poliziotto in pensione dedito all'alcol e all'autocommiserazione –; in qualche spiegone evitabile che, anziché amalgamarsi al resto della narrazione, sembra spezzarla bruscamente. Scorrevole ma non sempre fluido, il premio Pulitzer Russo predilige inoltre una narrazione corale che non include uno dei tre protagonisti: tagliato fuori dall'alternanza dei punti di vista, e per questo guardato con maggiore scetticismo dal lettore, il personaggio in questione si sottrarrà in parte all'effetto sorpresa dello scioglimento. Sentitissimo ritorno alla narrativa americana, Le conseguenze mi ha regalato atmosfere e personaggi cari per risollevarmi di morale dopo una serie di letture deludenti. Poco originale, ma appassionante comunque, piacerà per i toni amareggiati e per i suoi lunghi viali di speranze infrante. Chi, a vent'anni, non si è illuso di poter cambiare il mondo? Chi, a sessantasei, può considerarsi in pace con sé stesso? Con l'avanzare dell'età non sopraggiunge alcuna saggezza. Ma soltanto l'ora di pagare, con interessi raddoppiati, e conseguenze delle nostre scelte.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Johnny Mathis – Chances Are