giovedì 10 luglio 2025

Recensione: Donnaregina, di Teresa Ciabatti

|Donnaregina, di Teresa Ciabatti. Mondadori, € 19, pp. 228 |

Chi è Giuseppe Misso, detto 'O Nasone? Ex camorrista, ha quasi ottant'anni e vive in una località segreta, lontano dalla sua amata Napoli. Carismatico, colto, bugiardo, descrive al “Corriere della Sera” un'esistenza dai toni picareschi, fatta di lussi sfacciati (gli orologi costosi e le Jaguar), hobby peculiari (l'allevamento di colombi) e relazioni improbabili (la presunta parentela con Leonardo DiCaprio; l'antagonismo con Lovigino, amico divenuto rivale; gli amori per Antonietta, Adele, Teresa, da cui sono nati due figli). Ormai invecchiato, si racconta all'alter-ego di Teresa Ciabatti.

Uno non ci pensa mai che i cattivi hanno una normalità, e a forza di pensarli lontani, a forza di relegarli in una dimensione remota, oltre a semplificare, proteggiamo noi stessi, credo.

Cos'hanno in comune un superboss e una scrittrice al centro di una dolorosa crisi familiare e creativa? La narratrice ne sa poco di cronaca, e soprattutto non è napoletana. Più interessata a raccontare l'uomo che il mostro, più concentrata sul privato che sui delitti, instaura con Misso un dialogo tenero e peculiare — è presente perfino all'ultimo matrimonio di lui, intrappolata in un discutibile tailleur arancione. Intanto, però, è costretta a fare i conti con le resistenze dell'editore, con un gemello litigioso e una migliore amica morente, ma soprattutto con Camilla: la figlia tredicenne, nella quale scorge il riverbero delle sofferenza di Bruna, la primogenita transgender di Misso.

Chiunque è un'invenzione di qualcun altro.

Come mai ho letto Donnaregina, lettura a metà tra l'inchiesta e l'autofiction, io che solitamente prediligo la narrativa? Merito della voce di Ciabatti. Empatica ed egocentrica, sprezzante e fragilissima — un'autrice, insomma, che c'entra tutto e niente con le doglianze del camorrista che si credeva Robin Hood. Benché sia lei stessa intrusa nel rione Sanità, mi ha condotto tra i vicoli e le contraddizioni di una storia che esce spesso fuori traccia e proprio per questo risulta irresistibile. Tra lunghi audio su WhatsApp e appuntamenti alla Rinascente, Misso tenta di soggiogare la protagonista per veicolarne le opinioni. Ma, in un lungo braccio di ferro, è lei a imporre la sua personale versione dei fatti — umana e incoerente, surreale a tratti, ma assolutamente vincente. È più temibile fronteggiare un criminale, d'altronde, o convivere con una figlia iscritta in seconda media? Il mistero dell'adolescenza: più impenetrabile della camorra.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Nada – Amore Disperato

martedì 1 luglio 2025

Recensione: L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, di Goliarda Sapienza

|Autobiografia delle contraddizioni, di Goliarda Sapienza. Einaudi, € 20 |

È stata allevata in casa per sfuggire alla propaganda fascista. Staffetta partigiana, attrice, scrittrice, aspirante suicida, icona femminista, Goliarda Sapienza ha vissuto mille vite e flirtato spesso con la morte. A cent'anni dalla sua nascita, il mondo la sta riscoprendo tra letteratura e cinema. Dopo l'amore sconfinato per L'arte della gioia, ho recuperato L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio — entrambi hanno ispirato il film di Mario Martone presentato a Cannes.

Chi non sa che la bellezza è anche protezione dai mali della vita e dagli incubi della notte?

Due racconti autobiografici, brevi e armoniosi, guidati dallo sguardo acuto di Goliarda. In carcere per furto, descrive il suo soggiorno dietro le sbarre. Il silenzio innaturale dell'isolamento iniziale, il latte col brumoro, ma soprattutto la ritualità e i colori di un microcosmo femminile che sembra uscito da un salottino del sud. Le carcerate fumano, giocano a carte, parlano di amori e di delitti. Sciantose come uccelli esotici, si fondono in una voce sola. Disparate — disperate mai —, accolgono volentieri questa sofisticata cinquantenne che indossa camicie di seta e ringrazia per tutto. Il corso accelerato di vita di Goliarda, senza distinzioni di età né di censo, dura poco. Tornata presto in libertà, lotta contro il caldo romano e la nostalgia del “dentro”, dove le convenzioni sociali non contano e tutto è istinto. Tutto è natura. Può l'esperienza del carcere rivelarsi liberatoria? A partire da questa contraddizione, Goliarda — fuori posto nei salotti letterari italiani — rievoca con calore commovente l'intimità con le compagne di cella, la fame delle loro storie, gli andirivieni con Roberta: una detenuta politica sensuale e ipercinetica, molto simile all'indimenticabile modesta.

Perché scrivi, Goliarda?” “Per allungare di qualche attimo la vita delle persone che amo.” “E con loro anche la tua, eh, volpona?” “Certo. Chi odia a tal punto la vita da non desiderare di vederla allungata almeno per un po'?”

Benché attento al materiale di partenza, Martone ha costruito un biopic troppo lirico e frammentario, in cui la bravissima Golino interpreta una versione ben più arrendevole e naïf dell'autrice. Goliarda, invece, era ironica, indocile, a proprio agio sia con l'italiano aulico che col romanesco. Subito dopo l'arresto, dichiara la fantasia sua nemica: in cella, meglio non avere troppi grilli per la testa. Per fortuna, era bugiarda come nessuno. Innamorata della vita, innamorata degli altri, fantastica per tutto il tempo e immortala tra queste pagine un apprendistato lungo un verdetto. Ha rubato una collana. O, semplicemente, la sua parte di gioia?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Città vuota

venerdì 13 giugno 2025

Recensione: Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo

| Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo. Mercurio, € 19, pp. 264 |

In X, primo capitolo della trilogia cinematografica di Ti West, c'è una sequenza in cui la terrificante Pearl — ormai anziana, ma non per questo meno sanguinaria — si intrufola nel letto della pornodiva Maxine. È attratta dal suo calore, dalle sue carni sode ed elastiche, dalla sua giovinezza. Gli spettri del romanzo d'esordio di Matteo Cardillo provano la stessa fame struggente verso la vita che hanno lasciato. È per questo che si concentrano a Bologna, la città universitaria per antonomasia, al piano terra di un palazzone in stile Liberty aperto agli studenti. Mentre un'estate implacabile svuota le strade della città e i mandarini imputridiscono sui rami, nell'appartamento di Viale XII giugno si snodano le esistenze e le relazioni degli inquilini. Storie di sesso e tradimenti, di crisi personali e lavorative, che ben presto rianimano dal sonno eterno gli antichi abitatori. Il risveglio sensoriale di Amarsi in una casa intestata, a confine tra il romanzo di formazione e la ghost story, tra il desiderio e l'orrore, contagia anche i morti.

Ci saremmo di nuovo baciati con affetto come facevamo un tempo, sulle spalle, sulle clavicole, dicendoci ti amo, rispondendoci ti amo anch'io, perché in quello spazio fuori dal tempo, quel luogo della notte, nel tempo dei morti, tutto vale e tutto esiste ancora e non esiste più, e così anche i noi due di una volta.

Aggrappato a quel che resta dei vent'anni e a una relazione ormai al capolinea, il protagonista — per tutto il tempo senza nome — diventa un diapason per gli spiriti intrappolati dietro le pareti e, soprattutto, la voce di una generazione in cerca di risposte: la mia. Alle pareti ci sono poster di Argento. Le sorelle Morelli, le enigmatiche proprietarie di casa, somigliano alle dame velate dei film di Plaza e Balagueró. La campagna emiliana della medium Beniamina è la stessa del capolavoro di Avati. Con una scrittura personale e magmatica, Cardillo attinge a piene mani al cinema di genere, di cui è dichiaratamente fan, ma non dimentica che il linguaggio dell'horror ben si presta alla metafora. Tra le pagine, così, l'autore pugliese ospita un dolente giro di vite dove presente, passato e futuro si confondono e gli amanti abbandonati, insieme ai traumi rimossi, scivolano inesorabilmente nell'intercapedine dei nostri ricordi. Esiste forse tragedia peggiore della bellezza sciupata? I fantasmi ci spiano dalle porte a vetri, scavano nella carta da parati, picchiano contro i muri. Un po' ci tormentano e un po' ci consolano — vittime come siamo del precariato, della schiavitù delle app d'incontri, degli strascichi fisici e psicologici del Covid-19. Sarà proprio il loro fiato gelido a ricordarci che siamo caldi. E vivissimi. Tanto vale, allora, lasciare che i lamenti si confondano coi gemiti di piacere. E dormire insieme, popolando il buio di carezze, per scoprirsi meno estranei e spaventati di quanto non fossimo la notte prima.

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matia Bazar – Elettochoc

martedì 3 giugno 2025

Per trenta minuti: Dying for Sex | The Studio | Overcompensating | The Four Seasons

Può una miniserie sulla morte scoppiare di vita? È la scommessa, vinta, di Shannon Murphy. Già premiata a Venezia per Babyteeth, la regista torna a declinare la malattia in chiave umoristica trasponendo la storia vera di Molly Kochan: quarant'anni, due tumori, nessun orgasmo, abbandona il marito imbelle pur di realizzare i suoi desideri più inconfessabili. In francese, d'altronde, chiamano l'orgasmo così: petit mort. Dovremmo quindi stupirci se assisteremo al sesso più libero e pazzo dell'anno in Dying for Sex, storia di una malata al quarto stadio, anziché nel patinato Babygirl? Tragici e spregiudicati, gli otto episodi seguono l'odissea della protagonista dalla diagnosi fino all'ultimo respiro, senza mai staccarsi dal viso di una Michelle Williams radiosa come non mai — sarà colpa della radioterapia? In scena: l'assoluta centralità del corpo femminile. Nel piacere. Nel dolore. Vittima di abusi da bambina, continuamente in balia dei medici da adulta, Molly esercita il pieno dominio di sé stessa soltanto nelle vesti di mistress. Tutto è scoperta, perfino i kink più assurdi, ma potrebbero esserci effetti collaterali: rompersi il femore prendendo a calci gli attribuiti del vicino di casa, ad esempio, o finire per innamorarsi di lui. Ma quella diretta da Murphy è soprattutto una grande storia di sorellanza: l'amicizia tra Williams e l'inseparabile Jenny Slate si candida a rimanere la storia d'amore più struggente dell'anno. (8,5)

Immaginate di poter conoscere i meccanismi produttivi di un immaginario studio cinematografico a Los Angeles. Il responsabile, un Seth Rogen strepitoso come non mai, è un sognatore sprovveduto  e pasticcione che vorrebbe conciliare cinema d'autore e film commerciali. È possibile, però, tra acquisizioni, problemi di budget e pressioni crescenti da parte di pubblico e media? Il cinema è cambiato. È in crisi? Se sì, quanto è grave? A metà tra Boris e Call my Agent, Apple produce una delizia metacinematografica sui retroscena più folli del microcosmo hollywoodiano. Se i Continental Studios contano in squadra anche gli iconici Bryan Cranston, Catherine O'Hara e Kathyn Hahn, il resto del cast vanta cameo non da meno: registi (Scorsese, Howard, Polley, Wilde, Snyder) e attori (Kravitz, Franco, Lee, Efron) sulla cresta dell'onda, infatti, si prestano con autoironia a una satira che si prende estremamente sul serio. Senza mai dimenticare i fasti dei Golden Globe e del CinemaCon, The Studio mostra la frustrazione dei piani sequenza, gli inconvenienti della pellicola, i casting al tempo del politicamente corretto, le guerriglie interne e le mancata riconoscenza. Il tutto con dialoghi fluviali e una regia elettrizzante, che somiglia a un'improvvisazione jazz di Damien Chazelle. (8)

Tornate indietro a quindici anni fa. Su MTV andavano in onda Blue Mountain State, Hard Times, Faking It. Eravamo felici e lo sapevamo. Coprodotta da Amazon e A24, la serie scritta e interpretata dal brillante Benito Skinner è un atto d'amore alle commedie universitarie di quegli anni. Qui aggiornate, però, in una versione immancabilmente più gentile, inclusiva, queer. Tante le partecipazione delle icone televisive del passato: James Van Der Beek, Connie Britton, Kyle MacLachlan. Immancabili, ma questa volta con autoironia, gli attori trentenni chiamati a impersonare un gruppo di matricole. Ambientata all'incirca nel 2014, vanta poster di Megan Fox alle pareti e una colonna spudorata dove Britney, Lady Gaga e Charli XCX guidano i protagonisti tra feste, sesso e segreti. Per quanta lieve ed esilarante, la serie ha un titolo che è tutto un programma: sovracompensazione. Chi non ha mai mentito per aderire alle aspettative del prossimo? Tutti, non soltanto il protagonista gay, nascondono non detti e fragilità private. Tutti, perfino i cattivi di turno, sono vittime delle pressioni sociali e degli stereotipi. Riusciranno, tra una risata e l'altra, a liberarsi delle maschere superflue – e dei vestiti? E noi, riusciremo? (7,5)

Dopo l'esageratissima Unbreakable Kimmy Schmidt, Tina Fey torna come sceneggiatrice e interprete di una nuova dramedy approdata su Netflix sotto silenzio – almeno in Italia. Questa volta più amara e misurata che in passato, vicina alle atmosfere del cinema di Woody Allen, raduna tre coppie di amici di mezza età mostrate in quattro diverse stagioni dell'anno e della vita. Nonostante vantino matrimoni longevi, nessuno è al sicuro: la crisi dei cinquant'anni minaccia di mettere in forse vacanze, relazioni, amicizie. Fey patisce l'apatia del marito, Will Forte; Colman Domingo trova soffocanti le moine dell'iperprotettivo Marco Calvani – che rivelazione, quest'ultimo –; e poi c'è Steve Carell, sempre immancabile, sempre più fascinoso, che all'indomani di un anniversario in pompa magna abbandona la moglie Kerri Kenney-Silver per una trentenne. La trama non è tra le più originali: anzi, si ispira all'omonimo film degli anni Ottanta. Tutto è estremamente classico, ma altrettanto ben scritto. Tutti sono privilegiati, annoiati, ciarlieri, come nei migliori romanzi di Peter Cameron, eppure è matematicamente impossibile non volere loro bene. Occhio all'episodio finale, però: dopo tanta leggerezza, un colpo di scena da crepacuore è in agguato. (7)

martedì 27 maggio 2025

Recensione: Le sorelle Blue, di Coco Mellors

| Le sorelle Blue, di Coco Mellors. Einaudi, € 20, pp. 432 |

Con alcune storie, forse, tocca soltanto litigare per entrarci in sintonia. Mi è successo con il nuovo romanzo di Coco Mellors. Da me attesissimo, si è lasciato leggere per buona parte in perfetto silenzio: non riuscivo ad ammettere nemmeno a me stesso, infatti, quanto mi stesse deludendo. Colpa di dinamiche familiari non sempre credibili — i genitori, all'indomani di un lutto terribile, sono completamente assenti —, di dialoghi talmente verbosi da rubare la scena al cordoglio, di un gruppo di protagoniste descritte tutte con i superlativi assoluti delle donne toste, forti, indipendenti. Per fortuna, ci ho fatto la pace nella seconda metà. Cresciute nel Upper West Side, Le sorelle Blue sembrano le figlie di Cleopatra e Frankenstein.

Ti voglio bene anch'io. Senza “anche”.

Nate da una coppia di genitori inseparabili e disfunzionali, ne hanno ereditato le dipendenze. Fuggite da un capo all'altro del mondo per scappare al dolore e ai rimorsi, si ritrovano nella casa in cui sono state bambine per l'anniversario della morte di Nicky. Da quando una overdose di antidolorifici l'ha portata via, le superstiti si sono trovate a fare i conti con una nuova formazione. Come funziona un terzetto? Avery, la primogenita, si è costruita una vita perfetta in un sobborgo inglese alla giusta distanza dal suo passato di eroinomane: da sempre punto di riferimento per le sorelle, si scopre pietrificata all'evenienza di diventare madre, rischiando di ricascare nelle antiche abitudini. Bonnie, la meno memorabile, è un'ex campionessa di boxe: l'attrazione segreta verso il suo allenatore l'ha spinta a trasferirsi in California, dove lavora come buttafuori. Lucky, la più piccola, è una modella a Parigi nella settimana della moda: dedita alle notti in bianco e agli eccessi, è cresciuta troppo in fretta in un mondo dove gli uomini sono predatori e alle donne è richiesta la massima frivolezza. Rotta per sempre l'armonia di un'infanzia di letti a castello e Spice Girls, possono riuscire a innamorarsi nuovamente della vita?

Si erano scritte pagine e pagine sull'amore romantico, sul legame profondo che unisce gli amanti. Ma anche quest'altro tipo di amore meritava estasi, meritava canzoni. Prima ancora di conoscere il corpo di un amante, lei conosceva già quello delle sorelle: si era specchiata nei loro piedi lunghi, negli occhi chiari, nelle membra eleganti e nelle orecchie arrotondate.

Di gran lunga più convenzionale del romanzo d'esordio, per me malinconico ed effervescente come alcune commedie newyorkesi di Woody Allen, l'opera seconda di Mellors è una parabola esistenziale imperfetta ma vivissima, che la speranza incrollabile e le simmetrie sottili trasformano in una versione contemporanea di Piccole donne. Peccato che protagoniste pretendano tutte indistintamente di essere Jo March. Alleate contro il mondo, ma per il resto acerrime rivali, serbano i peggiori segreti per loro stesse pur di proteggersi. Il rischio: isolarsi. Toccherà salvare un frigorifero rosa dalla nettezza urbana, convertire una lite in piena regola in una toccante occasione di confronto, per rivalutarsi. E rivalutarle. È una storia che parla di rapporti di sangue, d'altronde. Era necessario prima azzuffarsi un po' per diventare parte della famiglia.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Billie Eilish - Birds of a Feather

lunedì 12 maggio 2025

Recensione: Scelgo tutto, di Valerio Mieli

| Scelgo tutto, di Valerio Mieli. La Nave di Teseo, € 22, pp. 432 |

La vita, spesso, ci pone davanti a un bivio. Ecco biforcarsi due strade destinate a non incrociarsi mai. Come sarebbe percorrerle contemporaneamente anziché scegliere? Può sperimentarlo Cosimo — diciannove anni, da sempre fidanzato con Sabina —, che cova il sogno di una vita sbadabam. Accontentarsi? Una parolaccia. Davanti a sé ha due opzioni: restare nella periferia romana, oppure spiccare il volo. Il regista di Dieci inverni e Ricordi?, questa volta in veste di scrittore, ci mostra in un montaggio alternato le vite potenziali del suo protagonista. Perfino l'impaginazione si adegua, per rendere ancora più cinematografico questo novello Sliding Doors. In una vita, così, Cosimo si ritrova padre di due gemelli e impiegato comunale, con un rudere nei boschi da ristrutturare. Nell'altra, parte per Parigi con lo zaino in spalla e frequenta i cenacoli culturali più elitari. Ci sono, ovviamente, delle costanti: è destino, infatti, che una tragedia metta tutto in forse; che la natura preservi un rifugio segreto in cui nascondersi a leccarsi le ferite; che, in un caso come nell'altro, faccia capolino una nuova donna. A metà tra Mary Poppins e Amèlie, Giacoma diventa un personaggio fisso nella seconda parte del romanzo: avventurosa e un po' mistica, figura ora come babysitter e ora come barista, diventando l'alter-ego di Cosimo. Ma mentre lui osa soltanto immaginare vite diverse, lei ne crea in prima persona, collezionando così esperienze e viavai.

Sai una cosa: invece la realtà non è tanto male. Dagliela, una possibilità.

Da Valerio Mieli mi aspettavo qualcosa di simile e di opposto. Nella lettura ho trovato il passo sognante e frammentario del suo cinema — in particolare del secondo film, che mostrava la stessa storia d'amore dalle prospettive di Luca Marinelli e Linda Caridi —, ma anche un gusto per l'accumulo di dettagli e storie, aneddoti e immagini, che hanno reso la lettura troppo prolissa. Felice o infelici, affollate o ascetiche, le vite di Cosimo hanno le gioie e i dolori delle nostre, ma anche piccoli momenti miracolosi che potrebbe ricordare Sandro Veronesi. Irrequieto come Il colibrì, il protagonista si affanna inseguendo l'eccezionalità. Ingegnere con la vocazione dell'architetto, vorrebbe fare della sua esistenza un capolavoro. Ma è impossibile opporsi al caso, al caos, e all'amara consapevolezza che il nostro destino influenzerà anche quello altrui. Esiste davvero il libero arbitrio? Siamo protagonisti del nostro film, o spettatori inconsapevoli? Davanti al famoso bivio, dunque, Mieli posizione una macchina da presa. E la punta sul mondo. Il tempo scorre in presa diretta, incerto e dolcissimo, ma senza un vero plot né un regista a salvare gli attori dall'empasse. Cercavo il cinema, ho trovato la vita.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Olly – Balorda Nostalgia

martedì 6 maggio 2025

Recensione: Il giorno dell'ape, di Paul Murray

| Il giorno dell'ape, di Paul Murray. Einaudi, € 22, pp. 664 |

A casa Barnes non c'è nessuna foto incorniciata a ricordare il matrimonio tra Imelda e Dickie. La colpa è di un'ape che la mattina delle nozze si intrufolò sotto il velo, pizzicando il viso alla sposa. Come può nascere una famiglia felice sotto simili auspici? Siamo in Irlanda. La crisi economica ha intaccato la fortuna dei protagonisti, condannandoli al declassamento, ma non la magia del folklore locale. C'è chi legge i fondi di caffè, chi vede cani neri all'alba delle dipartite più tragiche, chi pensa che alle cerimonie i fantasmi si mescolino agli invitati. Mai trascurare i segni. È l'assunto di partenza del romanzo più chiacchierato dell'anno — per qualcuno, già il migliore. Sempre scorrevole e appassionante, nonostante la mole minacciose, è per me più debitore alla HBO che alle saghe di Jonathan Franzen.

I tempi cambiano, dice Victor. E poi tornano com'erano prima.

Strutturato come una serie TV dal complesso montaggio alternato — immancabili, a tratti forzatamente, le tematiche dettate dall'algoritmo: privilegio bianco, omosessualità, ambientalismo —, Il giorno dell'ape restituisce i punti di vista dei diversi membri della famiglia, senza renderceli amabili a tutti i costi. Ci sono Cassie, la figlia adolescente, ossessionata dai confronti con la migliore amica bella e facoltosa; PJ, il timido secondogenito vittima della disattenzione degli adulti. Poi Imelda, l'indimenticabile madre, che in un flusso di coscienza si racconta come una novella Miss Havisham: sopravvissuta a un'infanzia miserabile, si è resa protagonista di una sudata scalata sociale con il solo passaporto della bellezza. Peccato che alla morte di Frank, il promesso sposo stella del calcio gaelico, sia finita insieme al fratello del defunto. Quanto ci si può sentire soli in un matrimonio? È la domanda che si pone infine anche Dickie — il padre dei suoi figli, il rimpiazzo —, che vende automobili ma preferisce andare in bicicletta e nasconde un ammanco nei conti, un segreto negli anni universitari, un bunker nel bosco.

Immagino che chiunque lo vorrebbe. Essere come gli altri. Ma nessuno è come gli altri. È questa la cosa che abbiamo in comune. Siamo tutti diversi, ma pensiamo tutti che gli altri siano uguali, disse. Se ce lo insegnassero a scuola, il mondo sarebbe un posto più felice, credo.

I capitoli sono personalizzati, lunghi, quasi indipendenti, se non fosse per sottili simmetrie interne rintracciabili soprattutto col senno di poi. Fino a un passo dell'epilogo, i Barnes sono irraggiungibili gli uni agli altri: barricati nelle loro rispettive solitudini. A stringerli insieme sarà un finale fortemente sospeso, angoscioso e polifonico, dove misteriose forze centripete sembreranno volerli nello stesso posto, nella stessa notte di lampi. Se ne scriverà in lungo e in largo: benissimo e malissimo, come capita soltanto ai bestseller. Io stesso, nel corso della lettura, ho rimproverato il manierismo della scrittura e gli ammiccamenti di troppo, tra dialoghi senza virgolette e tematiche calde non sempre approfondite a dovere. Sono sottigliezze, però, nell'ottica di un romanzo che, per il resto, è un invidiabile congegno a orologeria retto interamente dalla bravura di Paul Murray. Con stile acido e brillante, anche capace delle concitazione del thriller, lo scrittore irlandese firma una tragicommedia sull'impossibilità di tornare alla normalità quando la carrozza della fiaba torna a trasformarsi in zucca. Alluvioni, siccità, animali in via d'estinzione: il mondo è alla deriva, e le nostre famiglie ne sono lo specchio esatto. Lo scoiattolo rosso non si trova; la serenità familiare altrettanto. Entrambi appartengono, forse, a un mondo che non esiste più. È possibile però costruire un rifugio contro disastro, chiamarlo “casa”, quando il disastro siamo noi?

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: The National – Sleep Well Beast 

mercoledì 30 aprile 2025

Recensione: Il weekend, di Peter Cameron


| Il weekend, di Peter Cameron. Adelphi, € 18, pp. 177 |

Fine luglio, anni Novanta. Se bianchi, ricchi e privilegiati a New York, può apparire legittima la tentazione di ritirarsi dal mondo per un po'. Magari di trasferirsi in campagna? Lyle, un attempato critico d'arte, prende il treno per raggiungere John e Marian: legati da un'amicizia decennale, hanno in comune anche un lutto da elaborare. Tony, compagno del protagonista e fratellastro di John, è infatti morto di Aids l'anno prima. Un fine settimana di ricordi condivisi all'ombra dei gelsi e di nuotate al fiume è stravolto, però, da due ospiti dell'ultimo momento. Il primo, Robert, è l'ultima frequentazione di Lyle: meno inconsolabile del previsto, infatti, il vedovo si accompagna con un bel pittore con la metà dei suoi anni. La seconda, Laura Ponti, è un'italiana in vacanza: ai ferri corti con la figlia attrice, accetta volentieri l'invito a cena dei vicini di casa. Siamo nel più classico dei romanzi di Peter Cameron. E, con il senno di poi, nel più sottovalutato.

Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella copia carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi, ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore, ma non lo consuma: quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai.

Sono tutti cinici, colti, snob. Parlano troppo, e a sproposito, alimentando aperte ostilità a dispetto del perbenismo diffuso. Per tutto il tempo serpeggia un disagio strisciante. Per fortuna, Cameron si riconferma l'artefice dei dialoghi più belli del mondo. Le lunghe contestazioni dell'esistenza dell'anima gemella, le frecciate al vetriolo contro la vacuità della narrativa contemporanea e le massime vibranti di spocchia — gli immobili sarebbero preferibili agli innamorati — suoneranno acide e assolutamente deliziose alle orecchie di coloro che hanno amato le vite segrete di Perfetti sconosciuti. All'apparenza meno caustico del film del nostro Paolo Genovese, Il weekend è una commedia umana densa di tensioni latenti, dove la vicinanza forzata cambierà per sempre dinamiche e relazioni. Possono due soli giorni essere percepiti come un secolo? Mentre la padrona di casa cerca di scongiurare i silenzi imbarazzanti con considerazioni a sproposito, mentre gli uomini si rifugiano in nuovi hobby per superare il lutto, gli ospiti faranno notare il disgustoso perbenismo dei protagonisti e, forse, troveranno una soluzione ai loro errori di percorso. Secondo Cameron, la vita è una vacanza. Ma chi, nel bel mezzo della villeggiatura, esaurito il divertimento di iniziale, non ha mai sperato di poter tornare immediatamente a casa?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sufjan Stevens – Forth of July

venerdì 18 aprile 2025

Gli snobbati: Here | Diamanti | Giurato numero 2 | The Last Showgirl | Babygirl

Quando torno nella mia città, passo spesso davanti alla casa in cui siamo stati uniti. Immagino i mobili, il colore delle pareti, la famiglia che ci vive adesso. I nostri fantasmi si aggirano ancora lì, in un varco spazio-temporale. Here è perfetto per i malinconici come me, che, a colpo d'occhio, riescono a vedere passato, presente, futuro. Il tempo non esiste. Come un colibrì, vola veloce ma per rimanere sempre immobile. A trent'anni dal trionfo di Forrest Gump, Zemeckis riunisce il cast del suo capolavoro per raccontare la storia di una famiglia immortalata in un salotto – e, purtroppo, fa flop. La macchina da presa, come nelle sitcom, non si schioda da lì. A dare dinamismo c'è un montaggio alternato che, pur con qualche innegabile inceppo, segue sei linee temporali mostrando le grandi glaciazioni, la scoperta dell'America, le guerre, il Black Lives Matter, la pandemia. Come cambiano la società, l'educazione dei figli, i rapporti? Hanks e Wright fanno da perno a un magico meccanismo di cui lo spettatore stesso, infine, si scopre parte. Insieme ai protagonisti ho pianto i miei morti, le mie separazioni, i miei addii. Vero, struggente, dolcissimo, Here mi ha riconciliato coi nostri fantasmi e fatto desiderare un territorio neutrale, un porto franco, dove riguardarlo un giorno con i miei affetti sparsi. Cerco casa nelle vetrine delle agenzie immobiliari. Da qualche parte c'è. E ci siamo, ancora, noi. (8)

Dopo l'ultimo passo falso arrivato su Netflix, Ferzan Ozpetek torna in sala. Il successo di pubblico è assicurato, anche se la giuria dei David di Donatello – dove il film ha misteriosamente ricevuto soltanto poche candidature – non deve avere apprezzato quanto gli spettatori paganti. Questa volta, il regista italo-turco ha un cast di diciotto primedonne e una storia metacinematografica per omaggiare il mondo invisibile dei costumisti. Piccole e operose come formiche, le protagoniste lavorano a testa bassa per le sorelle Canova seguendo le direttive di una premiata scenografa. I personaggi sono tanti. I temi troppi (violenza sulle donne, depressione, elaborazione del lutto, empowerment femminile). Se le grandi Ranieri, Trinca e Scalera reggono la scena alla maniera delle vere dive, le altre devono sgomitare un po' – ma Cucciari e Venier, padrone come in TV, qui e lì sorprendono. Ozpetek cita Sirk, Ozon e purtroppo, immancabilmente, anche sé stesso. Come sempre, eccede in sottotrame amorose da fotoromanzo e straborda, ma fa tutto parte del suo famoso fascino: prendere o lasciare. Quest'anno prendo, sì, anche se a Diamanti avrebbe giovato la dimensione della miniserie in streaming. Melodrammatico e difettoso, appassionato e nazional-popolare, resta comunque il film più riuscito dai tempi di Mine Vaganti. (7)

La verità coincide sempre con la giustizia? A novantaquattro anni, l'inossidabile Clint Eastwood scrive e dirige un legal drama dai ritmi implacabili per portare alla luce, ancora una volta, le crepe del sistema giudiziario statunitense. Un giovane giurato, presto papà, è chiamato a esprimersi sul destino di un uomo accusato di omicidio. Peccato che conosca il colpevole: in realtà, è lui stesso. Ma ci sono giurie scisse, avvocati distratti, giudici troppo desiderosi di tirare in fretta le redini. E nella foga di giungere a un verdetto, di bollare un chiacchierato colpevole come tale, ecco l'aprirsi di una falla. La nostra giustizia, al confronto, è poi così infallibile? Classico, ambiguo, solidissimo, il sottovalutato Giurato numero 2 parte da un femminicidio per poi costruire un caso di coscienza lacerante che, a carte scoperte, si muove nei territori di Fedora Dostoevskij e, per tutto il tempo, ti fa domandare: “Al posto del protagonista”, un tormentato Nicholas Hoult schiacciato tra l'incudine e il martello, “cosa farei?” Se fosse l'ultimo Eastwood come da qualche parte ormai si mormora, sarebbe un congedo da maestro: è il suo miglior film dai fasti lontani di Gran Torino. (7,5)

Cosa succede a un'icona sexy quando le luci dei riflettori si spengono e tocca riporre i lustrini di scena? Pamela Anderson, come Demi Moore prima di lei, si mette metaforicamente a nudo con un ruolo autobiografico e scritto su misura. Ingenua, vulnerabile, sciantosa, è la ballerina di uno spettacolo di burlesque destinato a chiudere presto i battenti. Sempre pronta a difendere a spada tratta quel suo microcosmo a un passo dall'oblio, soprattutto nelle discussioni con una figlia giustamente rancorosa, ci guida in una commedia dolce-amara firmata dalla promettente nipote d'arte Gia Coppola: autentica, onesta, malinconica quanto la protagonista. La scrittura certamente non brilla, ma sa affidarsi agli occhi lucidi e ai sorrisi di scena di un'interprete che quest'anno avrebbe nominato una candidatura all'Oscar più di altre colleghe. In scena: un altro “viale del tramonto”. Anche se si ha l'impressione che a cinquantasette anni, finalmente senza make-up e senza cliché, per Pamela questo sia soltanto un nuovo inizio. (7)

Non è un thriller erotico. Non è una commedia sexy. Il terzo lungometraggio di Halina Reijn è tutto e la sconfessione di tutto. Annunciato come il film scandalo dello scorso Festival di Venezia, dove ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, non ha niente di provocante. È un bel film? Confuso, non saprei proprio dirlo. Le scene di intimità non mostrano mai i corpi nudi dei protagonisti e i giochi di ruolo tra Nicole Kidman e Harris Dickinson sono inscenati in squallide camere d'albergo piene di risatine imbarazzate - volutamente? Ma, a quasi sessant'anni, Nicole si mette ancora in gioco con un ruolo che la vuole autoironica, svestita e con sprezzo del ridicolo: gli Oscar, però, l'hanno snobbata. Fuori posto in una famiglia perfetta, non all'altezza di un ufficio in cui le è richiesto di essere l'incarnazione di una femminilità combattiva e vincente, sorprende per la sua profonda onestà in una seduta psicoanalitica a proposito della naturale scompostezza dei corpi e dei desideri. Tutti sono goffi. Gli orgasmi non sono pigolii ammiccanti, ma ruggiti spaventosi. E la perdizione morale è l'ultima frontiera per ritrovarsi, in un pamphlet interessante e pasticciato - volutamente? - che ci rivela l'umanità dietro il proibito. (6)

martedì 8 aprile 2025

Recensione: Ava Anna Ada, di Ali Millar

| Ava Anna Ada, di Ali Millar. Sur, € 19, pp. 310 |

Cosa succederebbe se Yorgos Lanthimos dirigesse Saltburn, ma in chiave saffica e apocalittica? Lei, Anna, è una influencer con una ricca rete di follower e un lussuoso faro ristrutturato per casa. L'altra, Ava, è una prostituta adolescente, all'occorrenza anche babysitter. Si incontrano in circostanze scioccanti: Anna sta prendendo a calci il cadavere del suo cane, morto di overdose. Ava la raggiunge, nel suo impermeabile giallo, e il riconoscimento è immediato: quella ragazzina è la copia sputata di Ada, la figlia della protagonista. Ma mentre Ada si è lasciata morire di anoressia, Ava ha fame di tutto. Ha inizio un ménage fatto di collezioni macabre e sadomasochismo, di morsi sul seno e spine sotto pelle, mentre la natura minaccia di prendere il sopravvento: quell'estate elettrica preannuncia realmente tsunami?

Il tempo è una cosa da caderci dentro e attraversarlo, se uno sa come si fa.

Tre personaggi femminili sui generis, tre nomi palindromi, tre maschere che si divertono ad alternarsi e confonderci in un gioco delle parti senza inibizioni né regole. Si può far rivivere chi non c'è più? Nell'esordio di Ali Millar — imperdibile per i fan della letteratura weird di Schweblin, Awad, Rouopenian — tutti, perfino il fratellino minore che fantastica di avere una cerniera per cambiare pelle, vorrebbero essere la compianta Ada. Sullo sfondo della Punta, un non-luogo sospeso tra Inghilterra e Scozia, il romanzo è inscenato in una società distopica in cui le persone sono schedate sulla base del loro Valore: l'apparenza, allora come oggi, conta più di tutto.

La prima volta che io e Leo siamo usciti dopo la nascita di Adam, mi sono resto conto che me ne stavo seduta in mezzo a un pub dondolandolo leggermente, abituata com'ero a cullarlo per farlo addormentare. Una serie di minuscole follie: è questo che significa amare con quell'intensità. Che significava.

Popoloso di donne splendide e crudeli, nonché intriso di un umorismo nerissimo, Ava Anna Ada è una psichedelia sull'elaborazione del lutto, i lati oscuri della maternità e i misteri del piacere, a cui l'autrice scozzese conferisce l'andamento liquido delle onde e una sensorialità sorprendente. Morboso, oscuro, caleidoscopico, mostra la stessa scena da prospettive diverse e fa un uso brillante della prima persona plurale. Il Noi, così, è sintomatico del legame inscindibile tra le protagoniste — dove finisce l'una, dove inizia l'altra? Ma anche il punto di vista degli Dei, a volte annoiati, altre crudeli, davanti allo spettacolo catastrofico della nostra scompostezza. Quest'anno, scommetto, non leggerete niente di simile.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Abracadabra

lunedì 31 marzo 2025

Recensione: Gotico salentino, di Marina Pierri

Gotico salentino, di Marina Pierri. Einaudi, € 17, 50, pp. 240 | 

Cosa ci fanno Mary Shelley, Shirley Jackson e una giornalista in crisi creativa nella stessa casa infestata? Con una lingua onomatopeica e barocca, capace all'occorrenza di coloriture dialettali sorprendentemente divertenti, ce lo spiega Marina Pierri: come la sua protagonista, una salentina trapiantata a Milano, qui alle prese con il suo romanzo d'esordio. Di ritorno all'ovile dopo la morte del padre, Filomena Quarta, quarant'anni, non ha né soldi né un marito né un lavoro. Aspirante scrittrice, albergatrice apprendista, medium presunta, vorrebbe trasformare la residenza di famiglia in un B&B: peccato che il suggestivo casolare, ormai abbandonato a sé stesso in un intrico di pini marittimi e gramigna, sia considerato vittima della “malumbra”. I compaesani superstiziosi si segnano, e non hanno tutti i torti. Le finestre, infatti, si spalancano all'improvviso; i muri strillano sotto il trapano dei manovali; i corridoi vibrano di nenie inquietanti e il bosco ama confondere i viandanti.

Non devo avere timore di me stessa, né di questo luogo. È la ma famiglia ed è la mia storia. Ho letto abbastanza racconti del terrore per sapere come funziona.

Sardonica e sfrontata, Filomena si fa coraggio ospitando Alba, l'esilarante migliore amica non binaria, e Antonio, un tenero agricoltore in fuga dal cliché del maschio meridionale. Con loro, come già preannunciato, gli spettri delle autrici di Frakenstein e L'incubo di Hill House: chi meglio di loro potrebbe giudicare il manoscritto di Filomena e, soprattutto, fare i conti con le apparizioni agghiaccianti di una suora in cerca di vendetta? La resa dei conti, immancabilmente, avverrà la notte di Halloween. Erudita, brillante, citazionista, Pierri si rifà ai capostipiti del gotico senza prendersi troppo sul serio e confeziona un gioco metaletterario assolutamente delizioso, in cui Dimora Quarta diventa un rifugio per diseredati — noi, la generazione dei “se” — e una cassa di risonanza per l'orrore delle violenze di genere. L'amorevole Mary, curiosamente dipendente dai reel di Instagram, ricorda l'amore tossico con Shelley, gli aborti, i giorni della vedovanza a Lerici; Shirley, invece, anestetizza con l'alcol l'astio verso un marito editor che la considerava in primis una casalinga, poi un'autrice.

Scrivere non è un mestiere per vigliacchi.

Loro e altre donne senza voce, così, tornano sotto forma di fantasime per invadere le nostre stanze e le nostre coscienze. Il rombare della loro rabbia, mista però a una tenerezza disarmante, sormonterà per intensità il lugubre cigolio di qualsivoglia porta. Sullo sfondo: una Puglia autentica e lontana dal mare; la stessa in cui si è trasferita mia madre all'indomani di una separazione che, per anni, mi ha voluto rancoroso verso una regione che da qualche estate a questa parte, infine, ospita le mie vacanze. Gotico salentino è un prontuario per famiglie infestate perfetto anche per chi, come me, troppo pavido per elaborare, a lungo ha nutrito un'ingiustificata paura verso i propri fantasmi.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Doechii – Anxiety

martedì 25 marzo 2025

Le serie TV di marzo: Adolescence | Il gattopardo | Paradise | Storia della mia famiglia

La polizia fa irruzione in una casa dei sobborghi inglesi. Cercano il responsabile di un omicidio. Ha tredici anni. L'ultima miniserie Netflix, già destinata a rimanere tra le più memorabili di un anno ricco, non è tratta da una storia vera, ma potrebbe. I quattro episodi, girati in quattro piani sequenza, seguono senza stacchi una terribile presa di coscienza. Gli straordinari attori protagonisti — Stephen Graham, anche sceneggiatore, e l'esordiente Owen Cooper — recitano in apnea. La macchina da presa si muove, invisibile, in un'elaborata coreografia che passa dalla sala interrogatori alle classi di una scuola media, da un teso faccia a faccia con una psicologa a un cinquantesimo compleanno da dimenticare. Si parla di cyberbullismo, revenge porn, violenza di genere. Ancora, dell'incomunicabilità tra genitori e figli. Ma mentre spezza il cuore seguire la routine della famiglia del carnefice, in lotta per la normalità, atterriscono i primi piani del piccolo Jamie: ora serafico, ora inquietante, ha una sessualità oscura e ricordi in cui serpeggia il disagio di un bambino che non voleva giocare a calcio né tirare di boxe, ma soltanto disegnare. Dolorosissima, Adolescence è un miracolo di tecnica destinato a seminare più domande che risposte. Conosciamo i nostri figli? Siamo certi che, nelle loro camerette, siano al sicuro dal mondo? E il mondo, è al sicuro da loro? (8,5)

Quando Il Gattopardo uscì, fu un flop. Non soltanto il romanzo, rifiutato da molti editori, ma anche il film, ormai un classico. Bisognerebbe essere più clementi con l'ultimo adattamento di Tomasi di Lampedusa. Vittima di inutili paragoni, è una coproduzione con tutti i pregi e i difetti del caso. Si avvicendano ben tre registi in sei episodi; i membri del cast perdono talora l'accento siciliano, che ricordano di sfoggiare soltanto nei momenti più convincenti (Lancaster, Delon e Cardinale – ricordiamolo – erano doppiati). Con la stessa cura impiegata nel favoloso comparto tecnico, Il Gattopardo avrebbe potuto essere un trionfo. Invece si accontenta di essere un solido period drama, a tratti vittima della disattenzione, che nella seconda parte sa trovare una sua direzione. Più ci si affranca dal romanzo e più acquisiscono spessore i personaggi. Il principe del superbo Rossi Stuart assistente con amarezza al tramonto dell'aristocrazia; questa volta, però, c'è speranza nella generazione successiva. Se Porcaroli si rivela la vera protagonista, nei panni di una Concetta finalmente al centro della scena, perfino la Angelica della magnetica Cassel stupisce: consapevole della sua bellezza, fa dell'erotismo un mezzo di ascesa per lo scialbo Nanni. È realmente tutto perduto per i nobili — nobili d'animo compresi? Doveva cambiare tutto perché nulla cambiasse. E la miniserie, sospesa tra omaggio e innovazione, fa sua la lezione. (7)

Chi ha ucciso il presidente degli Stati Uniti? Ambientata in una idilliaca cittadina americana, Paradise parte come un giallo politico. Ma niente è come sembra. Sin dal primo episodio si rivela un mix al cardiopalma, in cui la tensione è alta e la critica sociale semplice ma di impatto. Un po' thriller catastrofico, un po' dramma post-apocalittico, un po' distopia, è una serie solidissima, fieramente vecchio stile e piena zeppa di colpi di scena. Non c'è un singolo episodio che non riservi un twist finale. Non c'è un singolo personaggio senza ombre. Scrivono gli autori di This Is Us: i flashback abbondano, così come i monologhi pieni di enfasi. Ancora una volta, il protagonista è Sterling K. Brown: i muscoli guizzanti e il cuore d'oro. Con lui Nicholson, cattiva degna dei migliori Bond, e Marsden, nel miglior ruolo della sua carriera alle prese con un presidente tragico e sbruffone. Non si contano i segreti. Le stanze del potere vibrano di rivelazioni. Dietro questa utopia all'apparenza perfetta, senza armi né sbavature, si nasconde un prodotto di grande intrattenimento che, dopo Baker e Corbet, smantella nuovamente il sogno americano. Il paradiso è un truman show per pochi privilegiati; una farsa da sabotare con un colpo alla Die Hard. (7,5)

Fausto, papà single e malato terminale a poco più di trent'anni, si domanda cosa resterà della sua famiglia — allargata, disfunzionale, napoletana — quando non ci sarà più. Attraverso una serie di lunghi messaggi vocali, li educherà all'elaborazione del lutto e alla convivenza. Morirà già nel primo episodio, ma non andrà mai realmente via. Il rischio? Quello di plasmarli involontariamente a sua immagine e somiglianza. Possiamo diventare quello che qualcun altro ha decretato, seppure a fin di bene, per noi? Benché diriga il solitamente valido Claudio Cupellini, Storia della mia famiglia ha la foggia dozzinale di una serie Rai — ma di quelle ben riuscite e realizzate con innegabile cuore. Televisiva ma sobria, sorprendentemente in equilibrio tra comicità e tragedia soprattutto nell'ottima prima metà, è un family drama sulla scia di This is us e Parenthood. Insomma, a dispetto della piega giudiziaria del finale — a chi saranno affidati i bambini, contesi nel frattempo da una madre mentalmente instabile? —, le si vuole bene. Il merito spetta tutto al cast, trainato dal sempre più bravo Eduardo Scarpetta e impreziosito da Vanessa Scalera, mattatrice straordinaria nei panni kitsch di una giovane nonna sopra le righe. (7)

martedì 18 marzo 2025

Recensione: Katie, di Michael McDowell

| Katie, di Michael McDowell. Neri Pozza, € 14,90, pp. 440 |

È divertentissimo, sanguinoso, improbabile. Fino all'ultima pagina, è stato un chiodo fisso: la mia nuova ossessione. Ambientato nella New York ottocentesca di Edith Warthon, fa il verso al romanzo d'appendice. Prima di smembrarlo, pezzo per pezzo, con una ascia affilata. Katie, piccolo e implacabile dietro la copertina d'altri tempi, è un gotico che confermerà ai fan il talento di Michael McDowell: scomparso ventisei anni anni fa e a lungo considerato dalla critica un autore di serie B, gode finalmente di un successo tardivo grazie a Neri Pozza. Lo leggo qui e ora per la prima volta. Da adolescente, quando guardavo vecchi slasher e consumavo soltanto romanzi di Stephen King, ne avrei amato alla follia la crudezza. Adesso, pur stordendo un po' il naso davanti alle svolte più rocambolesche della trama, mi sono goduto comunque la corsa a perdifiato su queste montagne russe: accanto a me, sedeva una cattiva di rara perfidia, a metà tra la Pearl di Mia Goth e la serial killer Lizzie Borden.

Ho giurato a me stessa di vederli tutti e tre morti. Mi trasformerò in un segugio, li braccherò nelle loro tane, li farò impiccare, e quella notte dormirò ai piedi della loro forca. Il tanfo di decomposizione dei loro cadaveri sarà un balsamo per me.

Cresciuta in una famiglia rozza, stolida e avara, Katie Slape è l'artefice di omicidio aberranti ai danni di uomini, donne, bambini, animali. Dotata di misteriose capacità premonitorie e attratta dalle ricchezze al pari di una gazza ladra, si appropria del patrimonio di Philo Drax: una ragazza virtuosa ma sfortunata, ingiustamente accusata della morte del nonno. Per ironia della sorte, le due si troveranno a vivere a poche strade di distanza l'una dall'altra. Sullo sfondo di una città sapientemente rievocata tra spiritismo e cabaret alla moda, investimenti fallimentari a Wall Street e lucidascarpe in ogni dove, McDowell annoda le mille trame — senza nessuna paura di sporcarsi le mani — di una favola nera sognante e terribile, dove le eroine vivono sciagure indicibili, pur mantenendo incorrotti i loro valori, e gli antagonisti vengono sempre puniti dalla sorte. Miete più vittime una lama, infatti, o il karma? Divertito e onnisciente, l'autore americano mette il suo sapere nella costruzione di un contesto storico credibile in ogni dettaglio, con un occhio di riguardo alla condizione femminile: Philo, all'inizio idealista, scoprirà presto i mezzi coi quali le sue coinquiline sopravvivono alla crisi economica. È possibile smaliziarsi senza mai perdere la dignità e, nel frattempo, trovate perfino un marito facoltoso? Il resto, che ovviamente non vi svelo, è intrattenimento impagabile e purissimo. Astenersi i deboli di cuore. Il martello di Katie non lascia superstiti, né fa sconti.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Meghan Trainor – Criminals