martedì 18 marzo 2025

Recensione: Katie, di Michael McDowell

| Katie, di Michael McDowell. Neri Pozza, € 14,90, pp. 440 |

È divertentissimo, sanguinoso, improbabile. Fino all'ultima pagina, è stato un chiodo fisso: la mia nuova ossessione. Ambientato nella New York ottocentesca di Edith Warthon, fa il verso al romanzo d'appendice. Prima di smembrarlo, pezzo per pezzo, con una ascia affilata. Katie, piccolo e implacabile dietro la copertina d'altri tempi, è un gotico che confermerà ai fan il talento di Michael McDowell: scomparso ventisei anni anni fa e a lungo considerato dalla critica un autore di serie B, gode finalmente di un successo tardivo grazie a Neri Pozza. Lo leggo qui e ora per la prima volta. Da adolescente, quando guardavo vecchi slasher e consumavo soltanto romanzi di Stephen King, ne avrei amato alla follia la crudezza. Adesso, pur stordendo un po' il naso davanti alle svolte più rocambolesche della trama, mi sono goduto comunque la corsa a perdifiato su queste montagne russe: accanto a me, sedeva una cattiva di rara perfidia, a metà tra la Pearl di Mia Goth e la serial killer Lizzie Borden.

Ho giurato a me stessa di vederli tutti e tre morti. Mi trasformerò in un segugio, li braccherò nelle loro tane, li farò impiccare, e quella notte dormirò ai piedi della loro forca. Il tanfo di decomposizione dei loro cadaveri sarà un balsamo per me.

Cresciuta in una famiglia rozza, stolida e avara, Katie Slape è l'artefice di omicidio aberranti ai danni di uomini, donne, bambini, animali. Dotata di misteriose capacità premonitorie e attratta dalle ricchezze al pari di una gazza ladra, si appropria del patrimonio di Philo Drax: una ragazza virtuosa ma sfortunata, ingiustamente accusata della morte del nonno. Per ironia della sorte, le due si troveranno a vivere a poche strade di distanza l'una dall'altra. Sullo sfondo di una città sapientemente rievocata tra spiritismo e cabaret alla moda, investimenti fallimentari a Wall Street e lucidascarpe in ogni dove, McDowell annoda le mille trame — senza nessuna paura di sporcarsi le mani — di una favola nera sognante e terribile, dove le eroine vivono sciagure indicibili, pur mantenendo incorrotti i loro valori, e gli antagonisti vengono sempre puniti dalla sorte. Miete più vittime una lama, infatti, o il karma? Divertito e onnisciente, l'autore americano mette il suo sapere nella costruzione di un contesto storico credibile in ogni dettaglio, con un occhio di riguardo alla condizione femminile: Philo, all'inizio idealista, scoprirà presto i mezzi coi quali le sue coinquiline sopravvivono alla crisi economica. È possibile smaliziarsi senza mai perdere la dignità e, nel frattempo, trovate perfino un marito facoltoso? Il resto, che ovviamente non vi svelo, è intrattenimento impagabile e purissimo. Astenersi i deboli di cuore. Il martello di Katie non lascia superstiti, né fa sconti.

Il mio voto: ★★★★
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lunedì 10 marzo 2025

Dal Festival di Venezia allo streaming: M - Il figlio del secolo | Dieci Capodanni | Disclaimer

Il 2025 è appena iniziato, eppure sembrerebbe di aver già trovato la serie più rappresentativa di quest'anno, e di tanti anni a questa parte. Specchio nero dei tempi che corrono, M è il figlio del secolo, ma, soprattutto, il padre di una mostruosa progenie ancora tra noi. Ispirandosi a Scurati, Joe Wright mette in scena la banalità del male, e le sue origini, come avrebbe fatto Shakespeare. Accuratissima ma mai didascalica, la serie Sky lascia sedere in cattedra Mussolini in persona. Seduttivo e ributtante, carismatico e insicuro, il Duce di un incredibile Marinelli appare tutto e il contrario di tutto. A metà tra un personaggio slapstick e il sanguinario Macbeth, ci guida fino al delitto Matteotti, in una Roma fuligginosa come Birmingham: con lui Russo, sorprendente partner in crime, e Chichiarelli, fiammeggiante femme fatale. Se il cast è di soli fuoriclasse, la regia è arte futurista. Wright coreografa i voltafaccia, la violenza delle camicie nere, gli assalti come se fossero parte di un musical. La Storia non è la solita storia. M osa con l'ironia della tragicommedia per mostrare l'avanzata di un tiranno con poche idee e molti consiglieri, abilissimo nel tradire tutti — soprattutto sé stesso — quando il vento soffiava contrario. Perseguitato dai presagi e dal senso di colpa, Mussolini si svela nel pubblico e nel privato. E muove un atto d'accusa che nauseerà lo spettatore. L'indignazione non va a lui, ma a noi stessi, inebetiti davanti al suo predominio; complici. Il male peggiore è di chi lo compie o di chi, con le opere e le omissioni, lo nutre? (9)

Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Succede proprio così, come nella canzone di Antonello Venditti, anche ad Ana e Oscar. Si conoscono alla vigilia di Capodanno del 2015, appena trentenni, e si inseguono per dieci anni. Lei intraprendente ristoratrice, lui medico nevrotico, non si ameranno con fedeltà per tutto il tempo. A volte in coppia, altre separatamente, animano con l'assoluta imprevedibilità dei loro sentimenti la serie del premiato Rodrigo Sarogoyen. Presentata in anteprima al Festival Venezia e imperdibile per tutti gli appassionati del cinema di Linklater e Kechiche, resterà tra le più struggenti dell'anno. Se la struttura narrativa ricorda l'iconico One Day, il resto sembra frutto di una magica improvvisazione. Gli attori rivelzione Iria del Rio e Francesco Carril, intimi e intensissimi, sono al centro di dialoghi lunghi interi piani sequenza e di scene di sesso così dettagliate da sembrare reali. Nel passaggio dai trenta ai quarant'anni, cambieranno lavoro, partner, città; vivranno lutti, nascite, perfino la pandemia; guadagneranno un fascino inaspettato, mentre i capelli si tingono inevitabilmente di grigio. Torneranno insieme, stavolta per sempre, in vista del faccia a faccia finale? Sicuramente, al termine di questo splendido tranche de vie che un po' appartiene anche a noi, non si scorderanno mai. (8)

Una documentarista rischia di perdere sia famiglia che reputazione quando un’ombra dal passato minaccia di rendere un suo segreto di dominio pubblico. A sbugiardarla è un romanzo autopubblicato, in cui si racconta la passione di un’estate lontana finita poi in tragedia. Ci si può fidare, però, di un narratore bugiardo? E di una donna spinta al limite? La regia di Alfonso Cuaròn, la fotografia di Emmanuel Lubezki, il cast all stars capitanato da Cate Blanchett. Possibile che, dopo l’anteprima al Festival di Venezia, si sia parlato tanto poco di Disclaimer? Scarsamente pubblicizzata, è un thriller sull’illusorietà delle relazioni e sul potere della scrittura, a tratti erotico e a tratti agghiacciante; una storia di vendette, servite rigorosamente fredde, dove il vedovo Kevin Kline è talmente magnetico da giganteggiare sul resto del pur sempre ottimo cast. Tratto dal romanzo di Renée Knight, bestseller da supermercato coinvolgente ma dozzinale nello stile, l’adattamento Apple trova l’autorialità che mancava alla controparte letteraria. Peccato che la patina eccessiva della confezione, la ridondanza delle voci off e l’esagerato manierismo della regia rendano il tutto troppo lezioso, anche a discapito dell'efficace colpo di scena in agguato. Questo asserragliamento da Oscar avrebbe meritato comunque maggiore attenzione. (7)

martedì 25 febbraio 2025

And the Oscar goes to: The Brutalist | A Real Pain | Flow | The Girl with the Needle

Qual è il prezzo del sogno americano? Recentemente se l'era chiesto Anora, commedia amara in cui il risveglio dalla favola somigliava a un pianto. La domanda riecheggia anche in The Brutalist, un film con la solennità di un cinema che non c'è più. Ambientato in quarant'anni, diviso in due capitoli con tanto di intervallo al centro, è un'epopea degna di Philip Roth. Corbet, classe 1988, sceneggia dal nuovo l'odissea di un architetto ungherese al soldo del filantropo Guy Pierce. Finalmente riunitosi alla moglie Felicity Jones, sopravvissuta ai campi di concentramento, vivrà una parabola oscura dopo un viaggio tra i bianchi marmi di Carrara. Mentre il suo capolavoro si eleva, infatti, la sua vita sprofonda in un abisso di vergogna. È un genio o un parassita? Sulle spalle nervose di Adrien Brody, a lungo a digiuno di ruoli memorabili, poggia il peso immane di una struttura grigia e austera, con corridoi angusti e soffitti altissimi. Il simbolismo del progetto sarà spiegato in un finale, purtroppo, troppo didascalico. The Brutalist, per il resto, è una morality play degna di Scorsese, Coppola, Anderson, in cui lo spirito di onnipotenza del committente e l'ossessione dell'architetto si scontreranno con l'impossibilità di cambiare le proprie origini. L'innesto, giacché forzato, non fiorirà. (8)

Dopo la morte dell'affezionata nonna, miracolosamente sopravvissuta ai campi di sterminio, due cugini americani dai caratteri agli antipodi volano insieme fino a Varsavia, Polonia, con lo scopo di omaggiarla. Jesse Eisenberg, per un po' pupillo di Woody Allen, scrive, dirige e interpreta una classica commedia indie dai toni dolce-amari, ritagliando per sé il classico personaggio del newyorkese nevrotico, privilegiato, ipocondriaco. Il ruolo migliore? In un atto generosissimo, lo regala all'amico e collega Kieran Culkin: già in odore di Oscar, nonostante un personaggio cucito addosso, veste qui i panni trasandati di una sorta di Zach Galifianakis votato all'ipersensibilità e agli eccessi. Affascinante e imprevedibile negli sbalzi d'umore, Culkin è il bellissimo cuore emozionale di un film on the road assai poco memorabile per approccio e scrittura — il pensiero corre ai cult Ogni cosa è illuminata o Little Miss Sunshine: A Real Pain è ben lontano dalla loro iconicità —, ma con il pregio di sapere riflettere con un sorriso a fior di labbra di colpa, memoria, elaborazione. Quanto pesa il fardello di essere immigrati di terza generazioni, magari non all'altezza dei sacrifici dei propri antenati? Quanto pesa, soprattutto, questa leggerezza? (6)

Il film animato più bello dell'anno (scorso) arriva dalla sconosciuta Lettonia. Meritatamente candidato a due Oscar, è il diretto rivale di Il robot selvaggio. I due film, favole ambientaliste in cui gli animali imparano per forza di cose a collaborare, hanno a ben vedere più di qualche punto in comune. Ma mentre il film DreamWorks si perde in una seconda parte inutilmente roboante, questo film è un esempio perfetto di tecnica e delicatezza. Sensibile, minimalista, sperimentale, racconta l'odissea di un gatto nero all'indomani di un inspiegabile diluvio. Come un novello Noè, il gatto vincerà la diffidenza per radunare una piccola arca con un labrador, un lemure, un capibara: con loro anche un misterioso airone, che li guida – e giudica – come un dio imperscrutabile. In mancanza di dialoghi, parlano l'espressività dei protagonisti e i rumori d'ambiente, in un gioiello d'immagini e suoni che ha il nitore del documentario. I 90 minuti di durata sembrano forse troppi per uno spunto che si sarebbe prestato meglio al mediometraggio; la morale si perde di vista nel lirismo dell'epilogo. Eppure la visione di Flow angoscia, incanta e stupisce, portandoci alla deriva in un mondo in cui a mancare, per una volta, è l'animale più infestante: l'uomo. (7,5)

Irresistibili atmosfere da fiaba nera. Una fotografia ispirata al meglio del cinema espressionista. Una donna sessualmente repressa, sempre a un passo da un abisso di oscurità. Non sto parlando del sopravvalutato Nosferatu, bensì del danese The Girl with the Needle, in lizza per il Miglior Film Straniero. Ambientato nella Copenhagen del dopoguerra, sceglie un claustrofobico bianco e nero – accompagnato al 4:3, immancabile in questi angosciosi film di nicchia – per rievocare una spaventosa catena di infanticidi realmente accaduti. Indeciso tra il dramma sociale e l'horror, sin troppo manierato per strappare veri brividi, racconta comunque con solidità la vicenda di un'operaia sedotta dal suo datore di lavoro. Rimasta incinta, con un marito invalido appena tornato dal fronte, affiderà il nascituro a una donna misteriosa. Più simile del previsto al film della nostra Maura Delpero, che in definitiva avrebbe meritato un posto in cinquina ben più dell'algido ibrido di Von Horn, non è tanto la storia di una efferata serial killer, quanto uno spaccato su un gruppo di donne mute e abbandonate, private della facoltà di scegliere, qui costrette a commettere l'indicibile pur di assaporare in extremis un briciolo di libertà. Per non essere le vittime della Storia, infatti, tocca forse diventare le carnefici? (7)

venerdì 21 febbraio 2025

Recensione: I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead

| I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead. Mondadori, € 13,50, pp. 216 |

A lungo ho avuto il timore di leggerlo. Troppo impegnato l'autore, vincitore di ben due Pulitzer a distanza di pochi anni. Troppo drammatico il tema, tra discriminazioni e violenze sullo sfondo di una America non così lontana. I ragazzi della Nickel è un romanzo che disattende le aspettative. E, per fortuna, è la cosa più bella che possa fare. È possibile rendere luminosissima un'orribile vicenda realmente accaduta? Ai piedi di un riformatorio, in tempi recenti, fu rinvenuto un cimitero di morti mai reclamati. Le ossa appartenevano agli studenti – anzi, ai prigionieri – di un istituto della Florida: negli anni Sessanta del Novecento, laggiù, lo schiavismo era un incubo ancora reale.

Era una follia scappare ed era una follia non scappare. Come poteva un ragazzo guardare oltre il confine della proprietà, vedere quel mondo vivo e libero e non pensare di evadere? Per decidere del proprio futuro, una volta tanto. Sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità

Colson Whitehead modifica i nomi, non lo sconcerto, e affida la narrazione a un protagonista che fa la differenza. Dotato di un ottimismo incrollabile, fragile ma resiliente, Elwood è un faro di speranza in una storia nerissima. Studioso, occhialuto, profondamente legato alla nonna materna, è cresciuto con le foto degli attivisti sulle pagine di Life e con i discorsi di Martin Luther King, ascoltati al posto del peccaminoso Elvis. Destinato a studi brillanti, si scontrerà con l'imprevedibilità del destino a causa di un crimine mai commesso. La reclusione nella Nickel Academy, un campo di lavoro nascosto dietro la facciata di scuola rispettabile, cambierà tutto. Non servono cancellate né filo spinato: in un inferno gestito da alcuni dei fondatori del Ku Klux Klan, infatti, nessuno osa scappare. Diviso tra rivalsa e sottomissione, Elwood rispetta a denti stretti le regole e riga dritto, a differenza del più scapestrato Turner: un piccolo truffatore già finito dentro due volte.

Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.

Spesso, tuttavia, sarà impossibile volgere lo sguardo altrove. Il suo spiccato senso della giustizia metterà il protagonista nei guai. E allora, nei meandri di una fabbrica del dolore che si fa magistralmente emblema di tutto il marcio che c'è, sperimenterà addosso le vendetta dei sorveglianti, con un rumoroso ventilatore industriale a coprire le urla. Caratterizzato da una sorprendente delicatezza, nonostante i supplizi a cui sono condannati i suoi ragazzi, Whitehead firma un'opera con il respiro dei classici più intramontabili – di quelli con orfani sfortunati, amicizie salvifiche, fughe mirabolanti. Il lessico, preso in prestito dai romanzi d'avventura. La formazione di Elwood deforma le ossa e disegna sulla schiena una mappa di cicatrici ritorte. Il titanismo non è nel parare le scudisciate, ma nella capacità di abbattere con una risata i muri della segregazione, nelle nobiltà d'animo, nella gentilezza. A volte, come in questo caso, diventa perfino contagioso. Soltanto imparando da Elwood – vincendo il cinismo, ispessendoci la pelle – è possibile sopportare con prontezza di spirito un ribaltamento finale magnifico e agghiacciante insieme, che altrimenti avrebbe fatto più male delle cinghiate del sovrintendente Spencer.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Alex Somers – Stare

giovedì 13 febbraio 2025

And the Oscar goes to: Emilia Pérez | Conclave | Maria | Nosferatu

Il fu Manitas Del Monte. È l'epitaffio che Emilia potrebbe leggere sulla tomba della sua vita passata. Prima narcotrafficante, poi benefattrice. Prima uomo, poi donna, in un film — travolto, francamente, dalle più sterili polemiche — con una tesi reazionaria: cambiare il corpo, e l'anima, per cambiare il mondo. Proprio come la sua eroina tragica, il film è un mutaforma; un anfibio splendido e kitsch come il primo Luhrmann. Senza pretese di verosimiglianza, Jacques Audiard — francese che filma il Messico con un cast americano — sceglie un cinema di innesti, dove la dimensione del musical sottolinea la natura farsesca del tutto, ma le performance del cast garantiscono grande trasporto emotivo. Se le candidature di Gascón segnano già un primato, gli occhi sono puntati su Gomez e Saldana: la prima, benché goffa con lo spagnolo, abbandona l'etichetta di icona Disney con un ruolo conturbante; l'altra, favorita agli Oscar, è un'avvocata con un numero iconico in cui, ballando, sbugiarda la classe politica. Fiaba di colpa e sorellanza, sempre in bilico tra il musical e il thriller, Emilia Pérez trascina in una spirale ipnotica in cui la musica, per fortuna, è più prepotente della violenza. Può un film su una persona a metà farci completamente suoi? Bingo. Tutto può succedere, nell'opera pop in cui i ritornelli cantano di vaginoplastica, i mitra emettono sonorità tribali e i boss, in pectore, sono regine. (8)

Un famoso proverbio dice: morto un papa, se ne fa un altro. Chi, se potesse, non vorrebbe spiare i retroscena blindatissimi delle elezioni del nostro pontefice? Le macchinazioni, i segreti, le ambizioni covate dai numerosi cardinali in lizza per il soglio più ambito al mondo? Il regista Edward Berger ci apre eccezionalmente le porte del conclave, ispirandosi al best-seller di Robert Harris. L'impianto è quello di un giallo alla Agatha Christie. Ci sono gruppo di uomini con tutto da nascondere, la claustrofobia di un ambiente precluso, un sospetto strisciante. L'ultimo papa, rinvenuto misteriosamente morto nel suo letto, è stato forse assassinato? Indaga un Ralph Fiennes in crisi mistica, mentre battagliano il favorito Tucci, il machiavellico Lithgow, il cinico Castellitto; un piccolo ruolo spetta finanche a suor Isabella Rossellini, unica donna in un ambiente maschilista. Elegante, scenografico, serrato, Conclave – plurinominato ai premi – è ben più blando e semplicistico del previsto. Doveva farmi ragionare un'uscita in sala senza polemiche. Meno caustico di quanto si legga, con rivelazioni che indignano ma non troppo, ha un unico colpo di testa: il twist conclusivo. Peccato che, benché significativo, appaia una concessione al politicamente corretto retorica e un po' forzata in un film che, per il resto, è più classico che non si può. Nonostante sbancherà, non è fumata bianca. (6)

Dopo Jackie e Spencer, Larraìn chiude la sua trilogia con un altro ritratto di signora. Maria: la donna prima della Callas. Ma anche quella che, fragile e volitiva, voleva disperatamente tornare a incarnare quel mito indimenticato. Benché il corpo, ormai prosciugato dai lassativi, protestasse. Benché la sua voce, prima venduta al miglior offerente e poi messa a tacere, l'avesse tradita quanto Onassis. Il cileno realizza un flusso di coscienza vorticoso e febbrile, narrativamente frammentario ma formalmente impeccabile. Strutturato in lunghi colloqui come il film sulla First Lady, onirico come quello su Lady Diana, si posiziona a metà. Elegante e asimmetrico, racconta la vita pubblica, quella privata e, soprattutto, quella immaginata. Messi in scena in una Parigi autunnale di rara malinconia – un'unica nomination, Miglior fotografia –, gli ultimi giorni del soprano ne fanno un'eroina tragica degna delle arie che intonava. Nella sua testa si agitava un teatro inarrestabile, popolato di pulsioni irrazionali e vecchi fantasmi. Si può chiudere la porta al passato, se implica escludere anche la musica? Soltanto una diva poteva interpretare una diva. Jolie, scandalosamente snobbata ma in stato di grazia, ne adotta gli accessori e i costumi, il desiderio di adulazione e i vezzi. Per l'autista Favino c'è sempre un pianoforte da spostare; per la cuoca Rohrwacher, invece, una prova a cui assistere. Visse d'arte, Maria; visse d'amore. Morì in solitudine, forse. Ma a modo suo. (7,5)

Da grandi film derivano grandi responsabilità. Avrebbe dovuto saperlo bene Robert Eggers, presto salutato come nuovo paladino dell'horror d'autore. Troppo presto, mi domando con il senno di poi? Verrebbe da chiederselo, infatti, davanti a Nosferatu: la sua opera più ambiziosa, ma, per forza di cose, la più derivativa. Quella che maggiormente avrebbe avuto bisogno di uno sguardo personale, di un immaginario nuovo, di una rinfrescata nella forma e nel contenuto. La trama è la solita: un agente immobiliare viaggia fino al Transilvania, assoldato da un conte misterioso; peccato che quest'ultimo sia un vampiro centenario ossessionato dalla fidanzata del protagonista, una fragile sposina tacciata d'isteria. Oscuro ed elegante come il genere comanda, impeccabile nelle scenografie e nei costumi – meritatissimi gli eventuali premi tecnici –, è un sogno gotico che non diventa mai un incubo. Più fedele del previsto al materiale di partenza, rilegge la storia in una vaga chiave psico-sessuale e regala al conte Bill Skarsgård un paio di baffoni subito da ridere. Lily Rose Depp, insopportabile e sgraziata, si agita, sbava e si dimena in un perenne overacting; convincente soltanto Nicholas Hoult, in missione di salvataggio insieme agli abbozzati Willem Dafoe e Aaron Taylor-Johnson. L'ultimo Nosferatu è antiquato, non retrò. Tedioso, esangue, senza linfa da succhiare. Eggers, questa volta sei stato solo la copia di mille riassunti di un plagio di Stoker. (5)

mercoledì 5 febbraio 2025

Recensione: Avete presente l'amore?, di Dolly Alderton

| Avete presente l'amore?, di Dolly Alderton. Rizzoli, € 18, pp. 370 |

A quindici anni ho visto 500 giorni insieme. Ricordo distintamente la gioia e la rabbia, lo schermo spaccato in due da un indimenticabile split screen: la realtà contro le aspettative, lui contro lei. Ho ripensato spessissimo all'anti-commedia romantica di Marc Webb — e ad Ahia, l'album dei Pinguini Tattici Nucleari consumato in pandemia —, mentre leggevo della rottura tra Andy e Jen. Dopo quattro anni di relazione, appena rientrati da un viaggio nella città dell'amore, si lasciano: anzi lei, rigorosa assicuratrice, lascia lui, comico che non fa ridere. Mi aspettavo una lettura brillante, leggera, divertente. A sorpresa, ho trovato un manuale bellissimo sulla scienza del crepacuore in cui finalmente è svelato il supremo tabù: anche gli uomini piangono. Possibile che la disamina più profonda sulla vulnerabilità maschile sia opera di una donna?

Non lasci andare qualcuno tutto in una volta. Dici addio nell'arco di una vita intera. Magari puoi non pensare a lei per dieci anni, poi senti una canzone che te la ricorda o finisci in un posto dove una volta siete stati insieme, ed ecco che qualcosa che avevi completamente dimenticato riaffiora in superficie. E dici un altro addio. Devi essere pronto a lasciarla andare un migliaio di volte.

Credibilissima, l'inglese Dolly Alderton fa di Andy l'archetipo del trentacinquenne medio: spaventato dalla calvizie e dalla solitudine, si rifugia nelle chat e rinuncia ai carboidrati, si strugge con Bon Iver e sperimenta la convivenza con coinquilini sconosciuti. La gente si lascia in continuazione, lo consolano. Ma queste parole, intanto, arrivano da coetanei troppo impegnati per fare un salto al pub. Quand'è successo di trovarsi in un'età più vicina ai cinquanta che ai venti? Com'è possibile guarire se tutto, perfino un profumo o una fantasia masturbatoria, ci ricorda lei? Questa storia, però, appartiene anche a Jen. Siamo sicuri, infatti, che nel film Zoey Deschanel fosse una stronza senza cuore? Pur non tradendo mai il punto di vista di Andy, fallito nel lavoro e nell'amore, Alderton ricorda anche le difficoltà dell'essere donna oggi: l'orologio biologico, le pressioni sociali, l'angoscia di trovarsi in un vicolo cielo se senza figli né anello al dito.

Qualche volta è piacevole non essere una cosa che cerca disperatamente di essere una persona.

Mentre si accumulano gli episodi esilaranti — la notte in una casa galleggiante, la convivenza con un vecchio complottista, la frequentazione con una ragazza della generazione Z che giudica tutto “cringe” —, Andy prende nota. Spera che, prima o poi, possa condividere ogni dettaglio con la sua Jen, nel frattempo bloccata su Instagram. E che, magari, la sua alienazione, le sue lagnanze, il suo dolore possano ispirare uno spettacolo più convincente dei suoi sketch triti. Se pensate che l'arte imiti la vita e che autocommiserarsi sia un diritto inalienabile del maschio, troverete un po' di voi tra queste pagine. I coniugi di Storia di un matrimonio scrivevano una lettera dove il lutto rimava con la celebrazione del passato. Dolly Alderton, destinata a restare una sorpresa delle sorprese letterarie del 2025, ne fa un irresistibile spettacolo di stand-up.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Pinguini Tattici Nucleari – Islanda

martedì 28 gennaio 2025

Recensione in anteprima: Splendeva l'innocenza, di Roberto Camurri

| Splendeva l'innocenza, di Roberto Camurri. NN Editore, € 17, pp. 192 |

Ci sono romanzi in grado di immortalare un momento, un'estate, come foto Polaroid. Lo scrivevo dell'ultimo Veronesi: un amarcord semplice e difficilissimo sul confine che separa l'infanzia dall'adolescenza. Quando accade, invece, di scoprirsi adulti? Crescere significa sopravvivere nel quarto romanzo di Roberto Camurri: scoperto otto anni, torna in libreria con il suo lavoro più memorabile, dopo i racconti dell'esordio e le sfumature horror dell'esperimento precedente. Alle prese con i sogni e le paure della meglio gioventù, firma un inno generazionale che sembra uscito da un ritornello degli 883. Questa volta non siamo a Fabbrico, ma a Monterosso, dove ho speso qualche giorno proprio al principio dell'anno nuovo. In questo borgo delle Cinque Terre stretto tra il mare e la montagna, il tempo sembra fermo. Soprattutto per Luca. Proprietario di un bar appartenuto ai genitori, si rifugia tra le braccia di una ragazza che ogni notte gli si intrufola in casa come una vampira. Presto compirà quarant'anni. Quando diventerà un adulto responsabile?

Le altre persone sparite, solo loro due, quella panchina e il profumo di lei, uno strano aroma di mele e vaniglia. Luca avrebbe voluto rimanere in silenzio, toccarla, baciarla. Restare su quella panchina per sempre.

Mente l'amico Pietro si è già sposato, c'è qualcun altro che gli dà da pensare: Alessio, mingherlino ma titanico, ha un animo vagabondo e sempre scarsa voglia di rincasare. Quale affinità lo inchioda al devoto Luca; quale colpa? Ormai magistrale nel ritrarre questi microcosmi sospesi e sonnolenti, sensibilissimo nella trattazione di una mascolinità spoglia di qualsiasi machismo, Camurri ci sussurra di genitori che invecchiano, ideali che scolorano, amicizie che durano. E mentre la natura minaccia alluvioni, preannunciando in anticipo il climax dell'epilogo, l'autore si barrica nell'eterno presente della giovinezza tramontata. Scritto a cavallo tra due linee temporali, Splendeva l'innocenza splende — letteralmente — nei suoi lunghi flashback. Il 2001 non è in bianco e nero. Coloratissimo, pieno di bandiere rosse e arcobaleno, ci mostra protagonisti socialmente impegnati, politicamente schierati, che all'indomani del diploma sognavano un altro mondo possibile. In una Genova a ferro e fuoco, in quei giorni, si teneva il G8.

Perché la nostalgia ha rotto il cazzo.

Nel caos delle manifestazioni, Camurri isola abilmente immagini di bellezza e devastazione. E con poche precise pennellate cristallizza la fiducia, la rabbia, il volto di un primo amore di nome Valentina. Che fine ha fatto quella novella partigiana che sognava soltanto di dire: «Io c'ero»? Tra attese in stazione, abbracci goffi e sigarette di troppo, Luca e gli altri si librano in una bollaoltre i confini del mondo. Quando scoppierà, le conseguenze faranno un male cane. Pervaso di una nostalgia balorda, questo Camurri sa di fumo e lacrimogeni. Il vento lo spettina, gli schizzi del mare lo raggiungono finanche in strada. È allerta meteo: l'alta marea ha trascinato a riva resti sparsi, ricordi. Speriamo che, quando le acque si ritireranno, avranno clemenza per le fantasticherie dei ventenni che furono. Dove finiscono le speranze? E le onde?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: 833 - Rotta per casa di Dio
 

mercoledì 22 gennaio 2025

Recensione in anteprima: Mentre tutto brucia, di Paulina Spiechowicz

| Mentre tutto brucia, di Paulina Spiechowicz. Nutrimenti, € 19, pp. 240 |

È il 1994. Carlo e Diana d'Inghilterra annunciano alla stampa il loro chiacchierato divorzio. L'Italia è incantata e indignata dalle ragazze ammiccanti di Non è la Rai. Le prodezze di Roberto Baggio ai mondiali fanno ululare i tifosi di gioia. In quello stesso anno nasco anch'io. L'esordiente Paulina Spiechowicz – in libreria dal 24 gennaio, nella collana italiana Greenwich Extra – va indietro nel tempo, all'estate di trent'anni fa. I suoi protagonisti, come lei alla loro età, non si sentono né abbastanza polacchi né abbastanza italiani. Tornati a Roma da Varsavia, compongono una famiglia in prova assieme alla madre: un'ereditiera fragile e incostante, ai ferri corti con un ex marito educato secondo una rigida educazione sovietica.

Avrebbe vagato alla ricerca di origini impossibili da trovare. La perdita, ecco le sue nuove radici.

Kamil, quasi diciotto anni, vuole essere disperatamente accettato dal branco: si esprime in romanesco, in segno di appartenenza forzata. Beatrice, sedicenne, fa invece i conti con una femminilità esplosa all'improvviso, legge Sylvia Plath, confonde il piacere con il dolore: a differenza del fratello maggiore, prova profonda nostalgia per la lingua paterna. Tra loro c'è Nico: acerrimo rivale dell'uno, amante segreto dell'altra, è appena uscito da Rebibbia per buona condotta e cerca la redenzione tra gli scaffali di una libreria, sperando che l'accesso alla cultura lo nobiliti agli occhi di Beatrice. Sensuali, selvaggi e incapaci di stare al mondo, i personaggi popolano una Ostia da Far West, fatta di rave trasgressivi e fantomatici dischi volanti. Il mare all'orizzonte non lenirà il senso di claustrofobia. In questa storia di estasi e colpa, in questo intrecciarsi di solitudini senza posa, incombe per tutto il tempo la nuvola nera di un brutto presentimento.

Quando vedo una famiglia felice mi prende una fitta allo stomaco, so già che mentono.

Con una lingua ritmica ed energica, Paulina Spiechowicz rispolvera un immaginario di citazioni pop e fabbricati industriali, in cui il vuoto generazionale somiglia a quello dei romanzi giovanili di Valentina D'Urbano, Silvia Avallone, Mattia Insolia. Qualche dinamica appare talora troppo frettolosa. Qui e lì vengono aperte parentesi su personaggi secondari (l'amica Ludovica, l'ex Tiziano, il pigmalione Pawel), a ben vedere, lasciate irrisolte. I fratelli "cannibali" Kamil e Beatrice vivono a velocità raddoppiata l'ultima estate della loro innocenza. Dove li porterà l'arrivo di settembre, mese di cambiamenti e rivoluzioni personali? L'autrice, classe 1983, si adegua al loro passo nervoso e firma un romanzo disperatissimo a proposito di due anfibi senza identità, senza casa, senza speranza, che domandano forse soltanto un po' d'amore. Al pari loro, Mentre tutto brucia è nostalgico, vitale, precipitoso. Brucia, sì, e in fretta: a volte in un'unica fiammata. Il luccichio violento del fuoco, però, si farà notare.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Afterhours - Non è per sempre

giovedì 16 gennaio 2025

Recensione: Tu sei qui, di David Nicholls


| Tu sei qui, di David Nicholls. Neri Pozza, € 20, pp. 384 |

Lei, Marnie, è un'editor di città. Sposata e divorziata ancora prima dell'arrivo dei trent'anni, patisce il fatto che i protagonisti dei libri che corregge facciano più sesso di lei. Lui, Michael, è un professore di geografia. Ferito nel fisico e nei sentimenti, nasconde sotto i maglioni infeltriti i dolori per il matrimonio naufragato a causa dei problemi di infertilità. Uguali ma diversi, faticano entrambi a riprendersi e, come animali feriti, preferiscono rifugiarsi nella solitudine. Hanno realmente chiuso con l'amore, o l'hanno soltanto offerto alla persona sbagliata? David Nicholls, da sempre un fuoriclasse in materia di commedie romantiche, torna in libreria con un'altra storia perfetta per diventare un film. I dialoghi sono brillantissimi, i toni nostalgici, lo spunto cinematografico: spinti da amici comuni, infatti, i protagonisti si metteranno alla prova con un trekking costa a costa. Trecento chilometri, puntando dritti al mare.

C’è una sorta di tirannia anche in questo, nell’idea che la vita debba essere piena, come se fosse un buco che devi continuare a riempire, un secchio che perde, e non basta riempirla, devi anche farti vedere che la riempi. Devo per forza avere hobby, progetti, amanti? Devo per forza eccellere?

Tra piogge torrenziali e schiarite, laghi gelati e paesini sommersi, stanze da incubo e playlist condivise, passeggeranno nei luoghi di Wordsworth e delle sorelle Brontë parlando di amore, sesso, vita, morte. Benché il lieto fine appaia questa volta dietro l'angolo, vietato dubitare del tocco inconfondibile dell'autore di Un giorno. Anche se non destinati alla tragedia, Marnie e Michael appaiono struggenti coi loro ordinati dispiaceri: la genitorialità mai arrivata, l'ansia sociale peggiorata con il lockdown, la difficoltà di stringere rapporti sinceri dopo i quaranta. Ma a furia di camminare i calcagni si induriscono, il passo si fa più svelto, la lingua si scioglie. Anche la socialità è un muscolo che va allenato, per scongiurare l'atrofia? Ambientato in una natura aspra ma mozzafiato, Tu sei qui ha per colonna sonora i No Doubt e il picchiettare della pioggia sul cappuccio cerato. Soprattutto, la medesima gentilezza degli escursionisti che, quando ti incrociano, ti salutano sempre. Sul finire dell'anno appena passato, così, ho sognato anch'io la crisi di mezza età e un viaggio coast to coast.

Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Joni Mitchell – Blue

giovedì 9 gennaio 2025

Recensione: Cent'anni di solitudine, di Gabriel García Márquez

| Cent’anni di solitudine, di Gabriel García Márquez. Mondadori, € 15, pp. 384 |

Alla prima pagina della mia copia di Cent'anni di solitudine tengo un foglietto fittamente annotato. Ci ho segnato man mano i membri della famiglia Buendía e le loro parentele, talmente intricate che, a torto, temevo avrei perso il filo. Sul retro ho scritto altri dettagli. Una psichedelia illeggibile di fiori gialli e farfalle, effluvi stordenti e valzer di orologi, contagi d’insonnia e galeoni senza mare. Davanti a un romanzo così denso e meraviglioso, l'unica frustrazione nasce qui: dall'impossibilità fisiologica di tenere a mente i prodigi e gli anatemi della città di Macondo. La nostra memoria è limitata; Márquez, al contrario, sconfinato. Ambientato nel folto della sierra, il suo capolavoro si apre in un paradiso perduto in cui gli abitanti sono tutti al di sotto dei trent'anni, non c'è ancora nessun morto da seppellire e le case son bianche come colombe. I protagonisti, in fuga dai fantasmi del passato, sono tra i fondatori. José Arcadio e Ùrsula, cugini con il timore di mettere al mondo una nidiata di bambini dalla coda di maiale, saranno i primi di una stirpe di cui l'autore ci racconta i primordi e l'epilogo: delle sette generazioni di Buendía, impossibile non menzionare Amaranta e Rebeca, separate dall'amore per lo stesso italiano; il primogenito superdotato, assoldato in un freak show; il colonnello Aureliano, sorpreso davanti al plotone di esecuzione in uno degli incipit più famosi di sempre.

Confuso da due nostalgie, una di fronte all’altra come due specchi, perse il suo meraviglioso senso dell’irrealtà, e finì per raccomandare a tutti di andarsene da Macondo, di dimenticare i suoi insegnamenti sul mondo e sul cuore umano, di sbattersene di Orazio, e in qualunque posto fossero di ricordarsi sempre che il passato era una bugia, che la memoria non aveva via di ritorno, che ogni primavera antica era irrecuperabile, e che l’amore più sfrenato e tenace era comunque una verità effimera.

Gli uomini, instabili e nostalgici, si rifugeranno nelle passioni incestuose, nell'occulto, nei lavori di fino: quando perderanno la lucidità, vedranno scorrere la vita in timelapse legati a un castagno. Le donne non saranno angeli del focolare, bensí guide: non perderanno il controllo nemmeno nel buio della cecitá e rimanderanno l'ora della morte fino al completamento di un sudario ricamato. A sciabolate, l’autore Premio Nobel apre la sua Colombia prima al mare, poi al progresso, trasformando un'utopia senza chiese né gendarmi in un fiero avamposto di ribellione. Inevitabili gli scontri tra liberali e conservatori, gli illeciti di una compagnia bananiera, gli attimi di folle munificenza e i lunghi periodi di declino. In questa inesauribile girandola di accidenti e ritorni, per fortuna, la violenza non scalza mai lo stupore. Riusciranno i discendenti a opporsi alla profezia dello zingaro Melquíades, stimato conoscitore del cuore e del mondo? Il passato, il presente e il futuro si intrecciano in un labirinto di fiori esotici e sangue, fino a inglobare la casa dei protagonisti in un abbraccio. L'eternitá: soltanto un punto di interpunzione fissato da Marquez. Il suo romanzo, giá nel novero dei classici e subito tra i miei preferiti, è un girotondo in cui ogni fine è un inizio e dove nessuno va mai via per davvero.

In realtá non gli importava della morte ma della vita, per questo la sensazione che provò quando pronunciarono la sentenza non fu di paura ma di nostalgia.

Dall’immaginaria Macondo passa un treno destinato ai viaggi solo andata. I Buendía, seduti sotto il portico in una siesta senza fine, lo guardano passare; ci salutano. Non è un addio, ma un arrivederci. C'è sempre speranza di ritrovarsi. Laggiù, infatti, si ritorna controcorrente, nelle intestazioni delle strade e negli scricchiolii dei fantasmi, fino a quando qualcuno non avrà l'audacia di battezzerà il proprio figlio con un nome che sia diverso da Arcadio o Aureliano, Remedios o Ùrsula. E, almeno illusoriamente, porrá fine cosí a un secolo d'abbandono. Non contraddiciamolo. Non sveliamogli, mai, che era giá tutto previsto. A differenza dei membri della famiglia Buendía, noi che leggiamo della loro maledizione, d'ora in avanti, non conosceremo più la piaga della solitudine.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Riccardo Cocciante – Era già tutto previsto