giovedì 29 giugno 2023

Recensione: Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow, di Gabrielle Zevin

| Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow, di Gabrielle Zevin. Nord, € 19, pp. 440 |

Lui, per metà coreano, è un secchione occhialuto con un inseparabile bastone da passeggio: da bambino, nell'incidente stradale che uccise la madre a Mulholland Drive, si ruppe il piede in ventisei punti. Lei, secondogenita di una facoltosa famiglia ebrea, è una giovane donna che ha imparato presto a scendere a compromessi per farsi strada in un mondo di soli uomini. I due si conoscono da bambini, nella sala giochi di un ospedale. Diventeranno inseparabili. Sembra l'inizio di una commedia romantica di quelle che piacciono a me, colte e ciarliere, ma Sam e Sally non si scambieranno mai neppure un bacio. Per questo, forse, la loro non è una grande fiaba d'amore? Il nuovo romanzo di Gabrielle Zevin – popolarissimo, a giusta ragione, sui social – è in realtà molto di più. È la storia di un lungo sodalizio creativo. È un'ode spassionata alla libertà degli anni Novanta e alla ricchezza del multiculturalismo. È una vicenda di profonda devozione. I protagonisti, messi alla prova dalla vita vera, si costruiscono mondi di fantasia su misura: progettano videogiochi.

Falle capire che ci sei. E, se puoi, portale un biscotto, un libro, un film. L'amicizia è un po' come avere un Tamagotchi.

Da semplice hobby, la loro passione diventerà un mestiere che li porterà fino a Los Angeles. E Ishigo, quel primo esperimento ispirato alle xilografie di Hokusai e ai poemi omerici, sarà un trampolino di lancio verso il sogno americano. Quando le cose si metteranno male – troppo narcisista Sam, troppo pretenziosa Sally –, stempererà i malumori Marx: migliore amico e produttore inizialmente nell'ombra, finirà per diventare il vostro personaggio del cuore; un po' come Ettore, l'eroe dell'Iliade che ama citare alla stregua di un mentore. Paragonato a Una vita come tante, Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow regala ai suoi protagonisti più gioie che dolori, ma similmente riesce a catturare il tempo che scorre, i rapporti che mutano, il mondo che si evolve. Forgiati dai loro traumi, Sam e Sally si stimolano, supportano e aiutano per custodire il senso di meraviglia che ha guidato i loro primi passi. L'America, nel frattempo, diventerà sì più inclusiva, ma anche più folle; perderà il senso dell'umorismo e si perderà nel politicamente corretto; prometterà e, infine, si negherà. Vittima di un infondato pregiudizio da bontemponi, tacciati di essere ricettacolo di violenza e alienazione generazionale, i videogiochi si fanno in questa lettura antidoto contro la solitudine.

Tu non morirai mai. E, anche se fosse, mi basterebbe ricominciare un'altra partita.

I matrimoni omosessuali? Saranno contemplati, ad esempio, prima in un gioco nello stile di The Sims che nella Costituzione. Non lasciatevi ingannare dai toni brillantissimi, dalla copertina colorata, dall'eccezionale accoglienza online. L'autrice cita nel titolo un celebre monologo di Shakespeare e, con dolce amarezza, ragiona di eterni ritorni e del controllo illusorio offerto dalle console. Nella vita vera non possiamo ripristinare ciò che non va, resettare gli errori. Senza la possibilità di indossare i panni di un invincibile alter-ego, i limiti fisici sono destinati a rimanere tali e delle tragedie, indelebili, non è possibile fare un reset. Nei videogiochi nulla è mai per sempre, nemmeno la fine. Fuori, al contrario l'imprevedibilità dell'amore e l'irreparabilità della morte rendono ogni attimo una sfida. Ma, con un po' di coraggio, si può essere eroi. Anche senza joystick, anche senza check-point. Almeno per oggi. Domani, poi, chissà.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mika – Stardust

lunedì 19 giugno 2023

Recensione: Resta con me, sorella, di Emanuela Canepa

| Resta con me, sorella, di Emanuela Canepa. Einaudi, € 19, pp. 408 |

In maniera superba ha raccontato gli ambigui giochi di potere tra un avvocato e una sottoposta. È tornata, poi, con una storia per me meno incisiva, sui non detti tra donne. Questa volta, più elegante e matura, si cimenta con il romanzo storico – genere di cui non sono un fan – senza snaturarsi. Femminile, femminista, Resta con me, sorella è una storia di autoaffermazione e riscatto ambientata nel Veneto del primo dopoguerra. Emanuela Canepa porta fin laggiù la sua scrittura scabra, chirurgica, e un'altra primadonna controcorrente. Anita ha lo stesso nome della sposa di Garibaldi e un destino all'apparenza segnato. Sacrificatasi per il bene della famiglia, sconta nove mesi di prigionia per una colpa non sua. Nessuno indaga più approfonditamente, nessuno si oppone: essere donna, insegnano, è sacrificio. Abituata a stare ai margini sin dalla morte del padre, la protagonista trova considerazione e amicizie nel carcere della Giudecca. Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima, oscura e claustrofobica, le prigioniere si confondono con le carceriere: dietro le sbarre hanno divise simili e lo stesso destino. È la luce plumbea del carcere, però, a regalare le pagine più ispirate all'autrice – ho pensato a Margaret Atwood – e un riflettore ad Anita. Abile con i numeri, diventa presto la responsabile dei rendiconti e attira l'attenzione di Noemi: prigioniera sui generis, enigmatica e imperiosa, che domina stoffe ed esseri umani con sorprendente flessibilità.

Capita che il tessuto voglia mettersi contro di te, che l'ago rifiuti di forare la stoffa. Ma poi, a forza di spingere da una parte all'altra, si trova il ritmo e la pezza diventa come una cosa tua, viva e docile, che ti appartiene e ti ubbidisce.

Nemiche-amiche come nella saga di Ferrante, si fanno una promessa: aspettarsi per aprire insieme un atelier. Le cose, tanto a livello narrativo quanto a livello tematico, cambiano nella seconda metà. Quando si passa dal silenzio delle celle al chiacchiericcio della città, dalle feritoie della Giudecca allo stordimento sensoriale di Venezia, qualcosa si perde: la forza d'animo della protagonista, ad esempio, che fra uomini e riunioni familiari rischia di smarrirsi nei labirinti sommersi della laguna. Bisogna essere cauti coi sogni e con l'amore. A un inizio tesissimo segue uno svolgimento più dilatato nei tempi, in cui pesano l'assenza di Noemi e qualche chiacchiera salottiera di troppo. Se la storia delle due minaccia di subire una battuta d'arresto, a irrompere e affascinare è la Storia con la lettera maiuscola: presso i Berlendis, la famiglia dove Anita finirà per lavorare come domestica, si nominano con entusiasmo le provocazione dei futuristi, gli scandali di Sibilla Aleramo, l'arrivo del Milite Ignoto, le contraddizioni di una Venezia da traghettare verso il futuro. Quali erano le possibilità di riscatto al tempo delle nostre bisnonne? Tra le difficoltà grandi e piccole del quotidiano, nel bel mezzo dell'aridità del mondo, i sogni riuscivano forse a superare i confini della notte?

La conoscenza ti renderà libera, Anita. Non farti sopraffare dal mondo. Io so che puoi moltissimo.

A momenti alterni, l'autrice ci spinge ad appoggiare e biasimare le sue protagoniste. Perfino gli obiettivi della scostante Noemi si fanno confusi nel finale: la carcerata ottiene sempre quello che vuole, ma cos'è che vuole? Canepa non romanticizza il passato. E non scrive – non può – un lieto fine netto per Anita, Noemi, Clelia, Luisa e le altre. Regala loro, tuttavia, una bellissima ora d'aria, profumata di arance e pensieri vaghissimi di vendette trasversali, in cui la libertà è uno stato mentale. Dalla Giudecca si sente il mare che gorgoglia.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Elisa – Una poesia anche per te

venerdì 16 giugno 2023

Ritorni d'autore: The Whale | Beau ha paura | Decision to Leave | Empire of Light | Close

Quello di Aronofsky è un cinema di corpi. Il wrestler Rourke spingeva il suo alle corde del ring; la ballerina Portman lo levigava alla ricerca ossessiva della perfezione. Fraser, vedovo gravemente obeso, ha trasformato la propria carne in prigione. Impegnato in una trasformazione indimenticabile, l'attore canadese recita con gli occhi e con quel corpo pantagruelico, sporco per tutto il tempo di muco, lacrime, cibo, sperma. Lo ha martoriato e martirizzato. Ma, al contempo, ha nutrito una commovente fede verso il prossimo. C'è davvero bontà nell'adolescente Sadie Sink? Hong Chau è un'infermiera amorevole o una carceriera? Ty Simpkins è mosso da afflato evangelico, oppure da altro? Hanno tutti luci e ombre. E Aronofsky li inchioda tutti al centro di un terrificante 4:3. Tutti in cerca di Moby Dick, tutti vittima delle loro vite passate, si lasceranno alle spalle la terraferma. E torneranno, finalmente, a vedere il mare. Solido, compatto, precisissimo, The Whale brilla per una scrittura teatrale inappuntabile e, generoso, contiene a fatica la silhouette di Charlie, così come gli strepiti di rabbia e nostalgia di un cast splendidamente assortito. Su tutti, come un Cristo amorevole, incombe l'adorato Fraser: vincitore dell'Oscar, ci regala un disperato canto del cigno. E una lezione su come amare gli altri pur odiando, fino alla morte, sé stessi. (8)

Beau ha paura. Prima della visione, ne avevo anch'io. Accolto tra applausi e pernacchie, il terzo film di Ari Aster (anzi, la terza fatica) è un'odissea psicologica che divide. Cinematografico eppure profondamente letterario, ha le nevrosi di Roth, gli atti mancati di Svevo, le metamorfosi di Kafka: il tutto messo in scena su una struttura fiabesca degna di Collodi. La visione, tappa dopo tappa, mostra il classico viaggio dell'eroe. Nello spasimato epilogo diventerà un uomo vero? Caotico, ma diviso in atti ben distinguibili, il film si apre come una distopia ambientata in un quartiere da poco riqualificato; si sposta poi in un salotto da sitcom americana, con due pimpanti coniugi pronti ad adottare il protagonista; sfocia nel teatro dell'assurdo e, all'ultimo, nell'horror psicologico, con tanto di mostro da sconfiggere. Si ride. Ci si sorprende. Si sbuffa. Sorpresi e sgomenti, proprio come questo Phoenix perennemente imbambolato, si vive la visione come un'avventura nell'avventura. Noi siamo nella testa di Beau. Ma Beau è nella testa di sua madre – una LuPone da Oscar. Si dice che i registi girino sempre il medesimo film. Questo Aster, lontano dai confini sicuri (be', si fa per dire) dell'horror, riprende i temi di Hereditary e li getta in un'autobiografia che, in contrasto con l'insostenibile pesantezza dell'essere, non poteva che farsi commedia nera. Non è troppo presto per autocitarsi? Il regista newyorkese avrà già finito le idee? Mi godo lo spettacolo; mi tengo il dubbio. Beau ha paura è una cosa divertente che non vedrò mai più. (7+)

Lui è un detective tutto d'un pezzo, a cui la ricerca della giustizia ruba finanche il sonno. Lei, cinese in Corea, è la principale sospettata dell'omicidio del marito. Questa è la storia di un'ossessione amorosa. Vietato, però, aspettarsi un torbido thriller erotico. Sontuoso nella messa in scena, a modo suo romanticissimo, l'ultimo Park Chan Wook è una schermaglia sentimentale illuminata da sprazzi impensati d'umorismo e da colori finora inediti al regista della Trilogia della Vendetta. A metà tra Insonnia d'amore e Vertigo, oscilla tra romcom e noir, mare e montagna, tenerezza e manipolazione. A tratti classico come un melodramma d'altri tempi, a tratti modernissimo per via del continuo ricorso alla tecnologia per superare la barriera linguistica tra i protagonisti, ammalia attraverso la cronaca di una dolce ossessione. La regia è di uno splendore indescrivibile, così come splendidi sono questi amanti al centro di un continuo flirtare; di un continuo inseguirsi. Ma l'intreccio, fragile e diluito, somiglia a quello di un racconto poliziesco che risulta stare un po' largo in una trasposizione cinematografica di oltre due ore. Restano le suggestioni del grande cinema festivaliero. E gli indizi, sparsi, del più infido tra i casi irrisolti: l'amore. (7)

In un piccolo cinema della costa inglese si intrecciano gli amori, i tradimenti e le tragedie dei dipendenti. Anche Sam Mendes, dopo il collega Spielberg, parla della magia della sala. Ma questa volta i riflettori non sono puntati su Hollywood, bensì sulle sale cinematografiche: qui rifugi per cuori spezzati e anime in pena. Nonostante lo spazio dedicato a figuranti d'eccezione, la protagonista è la fragile e timida bigliettaia che non ha mai il coraggio di irrompere in sala e godersi lo spettacolo. Affetta da una grave depressione, trova conforto nei colori caldi della bellissima fotografia di Roger Deakins e tra le braccia dell'ultimo arrivato: nero, giovane, pieno di vita. Accolto negativamente dalla critica, Empire of Light ha una dimensione corale mai realmente approfondita e troppa carne al fuoco. Ingenuo e sfilacciato, mostra il fianco alle critiche peggiori soprattutto nel finale: anzi, nei finali. Troppi, e didascalici. Ma mentirei se dicessi di non avergli voluto bene, vinto dalla gentilezza dei suoi protagonisti e dall'ennesima grande interpretazione di Olivia Colman. Il regista, lo stesso delle coppie scoppiate e delle battaglie in piano sequenza, torna e spiazza. Per i più, delude. Ma ci regala una coccola inaspettata, di buoni sentimenti e con vista mare. (7)

Leo e Remy sono inseparabili. Vanno a scuola in bicicletta, giovano a inseguirsi, dormono appaiati come due lenti a contatto e, sulla soglia dell'adolescenza, scelgono lo stesso liceo. Con una risatina, una compagna di classe domanda loro: “State insieme?”. Ne nasce un dramma dall'intensità straziante, che ha ridotto le sale a un silenzio tesissimo. Piangevamo tutti. Per la dolcezza disarmante della prima parte e per il dolore della seconda. Tormentati e pensierosi, infatti, i piccoli protagonisti si struggono nell'ombra della malizia sorta all'improvviso tra loro. Crescono, ma con il rischio di perdersi. A dispetto del titolo, questa è una storia di allontanamento. E quei bellissimi campi fioriti percorsi non più di pari passo, ma da soli, commuovo perfino più dell'inevitabile risvolto tragico in agguato. Cosa implica crescere? Cosa significa, ieri come oggi, essere uomini? Il secondo film di Lukas Dohnt, reduce dai fasti di Girl, è una tragedia sulle parole non dette e su quelle di troppo. Una riflessione sulla sessualità e sul dolore negati, in cui, nell'era della mascolinità tossica e nell'età acerba delle prime consapevolezze, è più lecito piangere per un braccio rotto che per un cuore spezzato. (8)