sabato 30 novembre 2024

Sulla bocca di tutti: Wicked | The Substance | Anora | Parthenope

Smisurato, opulento, coloratissimo, resterà lo spettacolo spettacolare di queste feste. Messo in scena a Broadway da oltre vent'anni, Wicked è un classico del musical che aspettava di arrivare al cinema da un po'. L'ha spuntata, infine, Jon M. Chu: dopo in In the Heights, il regista torna con agilità al genere e raduna un cast impareggiabile. Se il film elettrizza non è soltanto per le scenografie degne delle magie di Hogwarts, né per le coreografie trascinanti (il numero migliore è affidato a Bailey: irresistibile principe-ballerino in fuga dai cliché), ma per l'affinità alchemica tra Erivo e Grande. Se la prima impersona con fierezza un'emarginata dalla pelle verde e dagli acuti struggenti, è la popstar la vera rivelazione: frivola e appariscente, stupisce per gli eccezionali tempi comici e per l'adesione al personaggio. Molto più di un semplice prequel, Wicked punta il dito contro le macchinazioni dei potenti: il potere è un'illusione ottica e la diversità può diventare strumento di propaganda. Divisa tra orgoglio e repressione, Elphaba cerca il suo posto nel mondo in una fiaba che parlava di inclusione, disabilità e specismo ben prima dell'algoritmo di Netflix. Onesto e mai didascalico, il film giunge forse in ritardo a ribadire il messaggio, ma conserva la purezza disarmante di chi fa le cose per la prima volta. Se vi siete sentiti incompresi, qui troverete un senso di appartenenza che vi farà sentire parte di una grandiosa coreografia a prova di gravità. Non abbiate paura di apparire scoordinati: la vita, a tempo debito, vi ha già insegnato tutti i passi. (8)

Non c'è amante più ingrato dello show business. Cinquant'anni sono troppi, decreta, e a poco servono le sedute di ginnastica sfiancanti o i bisturi dei chirurghi. Hollywood si è trasformata in un tritacarne anche per Demi Moore. A lungo lontana dagli schermi, l'ex sex symbol degli anni Novanta si mette a nudo con un ruolo a tratti autobiografico. Non è un canto del cigno, questo, ma un ritorno di fiamma. Fargeat, bravissima in materia di vendette, le cuce addosso un “revenge dress” impossibile da ignorare, con un profondo scollo sulla schiena: è da lì, dalla carne viva, che sbuca Margaret Qualley — la versione più giovane, bella, soda di Demi. Chi vorrebbe tornarsene in un anonimato fatto di comfort food e appuntamenti mancati quando il proprio alter-ego giganteggia, intanto, sui manifesti pubblicitari? Glamour e ributtante, puntuale tanto nei rimandi filmici — Kubrick, Cronenberg, Zemeckis — quanto nelle scudisciate al patriarcato, l'horror premiato a Cannes si confronta con il tema del doppio per riflettere di standard irraggiungibili, competizione femminile, fallocentrismo. La regista escogita un brillante contrappasso di aghi e tagli, escrescenze e secrezioni, dove i mostri del gotico inglese (Frankenstein, Gray, Jekyll e Hyde) trascinano in un amplesso insanguinato tutte le dive tristi raccattate lungo il viale del tramonto (Swanson, Davis, Crawford). Irreversibilmente intrecciati, i morti di fama formeranno una creatura plasmata dai desideri più meschini degli uomini. Per non chiamarci mostri, la chiameremo mostro. (9)

Qualche anno fa, per un addio al celibato, sono stato in uno strip club. Ricordo il vago imbarazzo e la fascinazione verso le spogliarelliste: maestose, ti sussurravano all'orecchio proposte di privé e storie personali. L'ultima protagonista di Sean Baker avrebbe potuto essere una di loro. Giovane e piena di dignità, fa del palo un mezzo di ascesa sociale. Quale sarebbe il risultato se i Coen o Tarantino dirigessero una commedia romantica? Fresco di Palma d'oro, Baker firma un tour de force spassoso e tentacolare, destinato a una deriva rocambolesca in cui questa novella Pretty Woman rischia, a tratti, di scomparire. In cerca del viziato neomarito in fuga, una Mikey Madison da Oscar dà anima e corpo a una sex worker candida e sboccata, divisa tra romanticismo e rivalsa. A proprio agio con il sesso, ma terrorizzata dall'intimità, ci regala la scena più esilarante dell'anno (il tentativo dei tirapiedi russi di rabbonirla) e quella più struggente (l'epilogo in macchina). Il volume delle conversazioni resta troppo alto per i miei gusti. La dimensione corale sposta frequentemente il focus sui lazzi comici dei comprimari. Ma Anora, per fortuna, riconquista le attenzioni dello spettatore proprio in chiusura, spalleggiata da uno scagnozzo dal cuore d'oro. Quando la volontà di potenza, ormai annientata, ti lascia con l'amaro in bocca e il risveglio dal famoso sogno americano ti strappa dagli occhi, infine, il pianto di un bambino deluso. (7,5)

Sedotta e abbandonata da Ulisse, Parthenope si tolse la vita schiantandosi sugli scogli. Napoli è sorta lì: sulla scena del crimine di un amore infelice. La protagonista dell'ultimo Sorrentino e la sirena di Omero hanno in comune ben più del nome. Ma mentre il personaggio leggendario muore tragicamente, la Parthenope di Paolo Sorrentino scoppia di vita in un film che ha la grazia, l'incanto e la presuntuosità della gioventù. Interpretata da Celeste Dalla Porta, abbagliante come lo fu soltanto Bellucci in Malena, cerca dappertutto sé stessa: mai negli occhi degli uomini, anche se tutti (dallo scrittore omosessuale interpretato da Gary Oldman al fratello incestuoso) ne sono invaghiti. La tenteranno le chimere del cinema e i rituali dei clan malavitosi, la corruzione del clero e il mondo accademico. Per il resto, c'è Sorrentino che fa Sorrentino: immagini e colonna sonora si sposano in fantasmagorie barocche; gli inserirti onirici, parodici e grotteschi abbondano; le sequenze memorabili — il ballo a tre sulle note di Cocciante — sono giustapposte a sequenze troppo slegate. Cosa pensa Parthenope? Cosa pensare, soprattutto, di Parthenope? Il film e la sua protagonista hanno la risposta sempre pronta, ma si trincerano dietro snervanti aforismi. Si schermano dietro veli, vetri, maschere per nascondere e amplificare i loro misteri. Sono un miracolo o una truffa? Il dubbio resta, anche se uno sguardo di Dalla Porta — un'altra disunita, un'altra grande bellezza — scioglierebbe finanche il sangue di San Gennaro. (7)

lunedì 25 novembre 2024

Recensione: Settembre nero, di Sandro Veronesi


|Settembre nero, di Sandro Veronesi. La nave di Teseo, € 20, pp. 304 |

Non faccio testo, penserete. Avevo amato il romanzo precedente e per un breve periodo avevo pensato finanche di tatuarmelo, un colibrì. Perfino i detrattori, però, concorderanno con me su un dettaglio: al di là degli sfoggi di bravura, oltre le improbabili tragedie, a brillare di luce propria era un capitolo dedicato alla collezione di Urania della famiglia Carrera. Settembre nero è infuso della stessa luce, è scritto dallo stesso Veronesi — quello meno manieristico e più malinconico. A dispetto del titolo, il suo è romanzo pieno di colori. Piccolo e lineare, ma non per questo meno complesso, è ambientato negli anni Settanta. La TV si è lasciata alle spalle il bianco e nero. I mangianastri cantano Bowie e Stevens. Le Olimpiadi incantano grandi e piccoli. Gigio, dodici anni, non sa ancora che tutto sta per cambiare: l'hard rock dei Led Zeppelin, col senno di poi, gli sembrerà profetizzare il terremoto in arrivo.

Se mi chiedessero di dire quale sia stato il singolo momento della mia prima vita in cui sono stato più felice, direi quello. Sul cedro. A guardare Astel da vicino. A non baciarla.

Candido e curioso come un novello Charlie Brown, il protagonista è ossessionato dallo sport, dai fumetti e dai segreti degli adulti: al Bagno Stella, in Versilia, si intrufola sotto le cabine in cerca delle loro dimenticanze e origlia come una spia le conversazioni dietro le porte chiuse. Il suo corpo cambia, cresce e stravolge i connotati senza prima avvisare. Allo stesso modo appaiono inarrestabili le dinamiche che minacciano di far scoppiare la bolla che il papà, avvocato, ha creato per proteggere il protagonista e la sorellina. Cosa lo trattiene in città? Perché sua moglie, un'irlandese dai capelli rossi come l'alba, è costretta a curare da sola le ustioni di quei figli troppo pallidi per sopportare tre mesi di villeggiatura? A distrarre Gigio c'è Astel: mulatta e con la testa fitta di treccine, è la ragazzina perfetta con cui spartire l'attesa di un bacio e l'amore per i cantanti americani. Cosa dicono quei testi? Gigio, bilingue, diventerà traduttore per amore. Accompagnato da una colonna sonora di divorante nostalgia, Veronesi rievoca un'epoca e una stagione precise, nonché l'insostenibile leggerezza dell'avere dodici anni. Si credeva a Babbo Natale fino alle scuole medie, il riposino pomeridiano era un imperativo categorico, il razzismo e la malizia apparivano come idee indefinite. La cronaca parlava di scandali e attentati; il conflitto israelo-palestinese teneva Monaco in scacco.

Non ho mai incontrato nessuno al quale sia successo così presto, e inaspettatamente, e precipitosamente, e brutalmente, e irreversibilmente, quello che è successo a me. Da non riuscire più a ricordare com'era fatta, quella vita che fu spazzata via; non non poter mai più dimenticare d'averla vissuta.

La storia del mondo è destinata a intrecciarsi a quella di Gigio, in questo struggente romanzo di formazione con echi di Il buio oltre la siepe e un'attenzione tutta nuova verso le emozioni dei giovanissimi, spesso minimizzate. Veronesi prende le vicissitudini del suo protagonista profondamente sul serio e traduce in immagini l'intraducibile. Perché ci saranno anche scioglilingua dotati di un significato criptico in versione originale, traduzioni italiane fatte di assonanze e libere perifrasi, ma Veronesi non ha bisogno di simili espedienti. Riesce a descrivere alla perfezione lo stupore per le isole che affiorano all'orizzonte, l'odore del sole — quel misto, insomma, di crema solare e materassini di gomma —, l'angoscia che le lezioni riprendano troppo presto. L'arrivo di settembre rappresenta la perdita dell'innocenza. Questo romanzo, per fortuna, è un'eterna estate. Sono stato al mare, così, anche a Torino, a novembre. Sono stato bambino anche a trent'anni.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Cat Stevens - When The Children Play

venerdì 22 novembre 2024

Come (non) fare un sequel: Il Gladiatore II | Folie à Deux | Giorno 1| Beetlejuice Beetlejuice | MaXXXine

Se ho fatto il classico, la colpa è del Gladiatore. Epico, intriso di retorica e romanitas, è un bignami del mondo antico. In un'epoca senza idee, non stupisce l'idea di un sequel: l'ottantaseinne Scott è in forma e il cast è perfino quello delle grandi occasioni. Godibilissimo, il film è uno spettacolo dalla CGI discutibile in cui il protagonista è chiamato a lottare contro scimmie, rinoceronti, squali. Riuscirà a perdonare la madre e a realizzare il sogno di Marco Aurelio? Dappertutto aleggia il ricordo di Massimo, ma Lucio non ha né il carisma né l'emotività del suo predecessore: colpa di Mescal, totalmente fuori parte nel primo ruolo hollywoodiano. La riflessione politica resta l'elemento più stimolante. In una Roma logorata dall’imperialismo, tutti, schiavi compresi, sognano il potere. Tra il prode Pascal e il gigioneggiante Quinn, a spuntarla è il grande Washington: luciferino, eleva un copione frutto dell'AI a un'allegoria dell'America contemporanea. Ma tutto è talmente senz'anima che bisogna aspettare le note della vecchia colonna sonora per avvertire un brivido in poltrona. Il Gladiatore II non contribuirà al crollo delle iscrizioni al classico, ma non troverà nuove generazioni da ispirare con il mito della Città Eterna. (5,5)

Chi scrive considera il musical una delle più alte forme di cinema e aveva reputato Joker un crime in cui tutto era spettacolare, violenza compresa. Folie à Deux è troppo stridente per essere uno degli incanti omaggiati dalla colonna sonora: i protagonisti intonano a cappella le loro battute e soltanto raramente la dimensione del musical li sottrae alla solitudine, alla malagiustizia, al voyeurismo. Fleck vorrebbe inoltre rinunciare a Joker: il pubblico ha trasformato un uomo bipolare in un supercattivo. Metacinematografico, antinarrativo e anticlimatico, il film si fa odiare non tanto per il suo essere a cavallo tra generi, né per una Gaga con le labbra troppo gonfie di filler, ma per il suo essere una sconfessione del primo: la decostruzione di un antagonista a lungo glorificato; un dito medio al people pleasing. Phoenix interpreta il Joker da cui nessun ragazzino vorrebbe vestirsi a Halloween. Noi siamo la folla fuori dal tribunale: confidiamo nella sedia elettrica. Le sue groupie: ragazze in cerca di brividi facili. Gli spettatori che all'uscita dalla sala digitano: che merda, evitate, cos'hanno fatto. A Joker, in un gesto prometeico, Phillips ha restituito l'umanità e strappato la maschera. Meglio essere centomila clown, o nessuno? È il dilemma di un'operazione bellissima e incompresa, in cui, grazie al regista, Arthur non rischia mai di essere un personaggio in cerca d'autore. Amaramente, però, resterà in cerca di pubblico. (8)

L'apocalisse è ormai qui. I mostri sono tra noi. Grazie alla famiglia Abbott, conosciamo ampiamente le regole del gioco: è severamente vietato fare rumore. John Krasinski cede lo scettro a Michael Sarnoski, già regista del delicatissimo Pig, ma poco cambia. Questo prequel, che dovrebbe raccontare l'origine dell'invasione, in realtà nulla aggiunge e nulla toglie alla mitologia di A Quiet Place. A fare la differenza è l'intensità straordinaria dei protagonista: Lupita Nyong'o, una malata terminale aggrappata alla poca vita che le resta, e Joseph Quinn, expat tormentato dagli attacchi di panico che apre finalmente l'horror alla vulnerabilità maschile. Al bando il rumore, si diceva. Ma gli sguardi espressivi del cast urlano paura, confusione e tenerezza in ogni frame. Narrativamente Giorno 1 è un'operazione senza nessuna sorpresa, ma sa commuovere fino alle lacrime grazie al collage di brutture e gentilezze di cui il genere umano si dimostra capace. L'inno alla vita che non ti aspetti? Arriva da un blockbuster pieno di morti. Un incrocio tra La guerra dei mondi e Soul, dove sfogliare poesie sulle rovine fumanti di una libreria, sognare una pizza da asporto e carezzare un gatto rosso ci aiuterà a sconfiggere la solitudine e altri mostri. (7,5)

È da Sweeney Todd, arrivato in sala nel lontano 2007, che Tim Burton fatica a trovare l'ispirazione. Dopo oltre un decennio di progetti dimenticabili, attraverso i quali il regista ha rischiato pericolosamente di diventare la caricatura di sé stesso, se ne torna nella comfort zone con il seguito di uno dei suoi cult. Non ho dovuto aspettare trentasei anni, io, per conoscere il destino dei protagonisti di Beetlejuice: ho recuperato il primo soltanto di recente e senza euforia. Questo ritorno, agli occhi di uno spettatore dell'ultima ora, è parso un amabile e divertente casino. Tre generazioni di donne a confronto, una moglie vendicativa, vecchi amori (Keaton, Rider, O'Hara) e nuovi (Ortega e Bellucci: magnetica presenza, quest'ultima, poco sfruttata) vengono riuniti nella stessa casa, qui curiosamente vestita a lutto. Macabro ma tenero, spaventoso ma innocuo, l'ultimo Burton strizza l'occhio a generazioni vicine e lontane: non osa sorprese, in una sceneggiatura semplice e un po' frettolosa, ma ci regala un paio di sequenze memorabili (una, in bianco e nero, è un omaggio al cinema di genere del nostro Mario Bava) e idee fresche fresche per Halloween. Dopo svariati flop, ci si accontenta. Anche se, Tim, ti piace vincere facile? (6)

C'era grande hype per la fine della trilogia di Ti West, iniziata con X (slasher anni Settanta sulla solitudine della vecchiaia) e poi proseguita con Pearl (cult istantaneo finito nel meglio della scorsa annata). Maxxxine, ben più sponsorizzato e distribuito in sala in pompa magna, è l'apoteosi della nostra eroina texana dal corpo da pin-up e dai metodi poco ortodossi: dopo il suo esordio nel porno ha finalmente raggiunto Hollywood, ma il passato la perseguita. Si tratta, tuttavia, del punto più basso toccato dalla serie. Ambientato negli abusati anni Ottanta, in cima alle colline rese per sempre immortali da Mulholland Drive, il film si rifà pedissequamente ai thriller erotici di Argento, Fulci, De Palma. L'assassino ha mani guantate, semina qualche morto ammazzato, ma la sensualità scarseggia e il gioco di citazioni continue, questa volta, si inceppa e annoia. Senza particolare ispirazione, West vive della luce riflessa della sola Mia Goth, nel frattempo diventata la star che ci si auspicava; ma, in un cast inutilmente sopra le righe, a crederci sembrano essere soltanto lei e un'algida Elizabeth Debicki, perfetta nei panni di una regista donna in un'industria misogina. Un plauso alla sequenza ai piedi del Bates Motel: ho sempre trovato il sequel di Psycho degno di una riscoperta tardiva. Ma oltre gli omaggi, “sotto il vestito”, niente. (5)

mercoledì 13 novembre 2024

L'amore secondo Netflix: Nobody Wants This | Heartstopper S03 | One Day

Lui è un rabbino da poco uscito da una lunga relazione e in attesa della promozione della vita. Lei, invece, è l’autrice eternamente single di un popolare podcast sul sesso. Come nel più classico dei boy meets girl degni di questo titolo, i due – per quanto siano agli antipodi – si incontrano e fanno le scintille promesse. Le famiglie e gli amici, intanto, borbottano. Facendo leva sull’ormai abusato effetto nostalgia, Nobody Wants This è giù un successo rinnovato in tempi record per una seconda stagione. La formula, semplice ed efficace, si limita a far innamorare due degli attori più iconici di una generazione fa – e a farci innamorare nuovamente di loro, ormai bellissimi e spiegazzati quarantenni. Peccato che, a dispetto del talento del redivivo Adam Brody e della prezzemolina Kristen Bell, la loro serie sia una comedy innocua, antiquata, alquanto noiosetta (userei gli stessi aggettivi per il film Tutti tranne te, similmente accolto alla stregua di classico istantaneo), che fa parlare di sé soltanto perché i leggendari Seth Cohen e Veronica Mars si scambiano per la prima volta tenerezze. Più che a una serie Netflix di ultima generazione, somiglia a uno di quegli show dei primi anni Duemila rubati agli oziosi pomeriggi adolescenziali di Italia Uno. Che il titolo avesse ragione? (5,5)

Nick e Charlie stanno crescendo. Ormai sedicenni, iniziano a porsi i primi problemi dei grandi: disturbi alimentari, sesso e università tra cui scegliere. Dolcissimi come sempre, anche se più provati che in passato, continuano a essere l’anima di una commedia romantica surreale ma bella, che poco somiglia, purtroppo o per fortuna, all’adolescenza odierna. In un mondo senza bullismo né discriminazioni, questa volta appare eccessivamente forzata la dimensione corale: pur di includere in ogni puntata quei comprimari variopinti, amichevoli, queer, salta puntualmente fuori una festa, un campeggio, un concerto. Non c’erano modi meno macchinosi, mi domando, per riunirli? Nella stagione più ripetitiva e monotona, però, si nasconde a sorpresa anche l’episodio più prezioso delle tre: un gioiello di scrittura e sensibilità – due punti di vista complementari, lo struggimento della lontananza, un corto sperimentale girato la notte di Halloween – che si termina con gli occhi lucidi e il sincero bisogno di averne altrettanti di così ispirati. Sarebbe stato un finale di stagione ben più memorabile da quello scelto dagli sceneggiatori. Per Kit Connor e Joe Locke, nel frattempo, si prospettano carriere in crescita. Quanto toccherà aspettare per ritrovarli? (7)

Li ho conosciuti all'età di quindici anni. Li ho incontrati nuovamente dopo aver spento trenta candeline. Emma e Dexter – una delle mie coppie preferite di sempre – tornano a un decennio di distanza dall'omonimo film. Ci pensa Netflix, che promette maggiore aderenza al romanzo e offre un ottimo trampolino di lancio a due interpreti che faranno strada: Leo Woodal e Amika Mod. Fedelissima al materiale di partenza – a tratti anche troppo –, questa seconda trasposizione ripropone tutti gli elementi del libro cult: meno, purtroppo, la magia tra i protagonisti. Bravi ma troppo acerbi, gli attori mancano di chimica e fanno rimpiangere  Jim Sturgess e Anne Hathaway. Non aiuta il pressappochismo della messa in scena. Nonostante una storia d'amore lunga vent'anni, Emma e Dexter non sembrano invecchiare mai: Woodal, ad esempio, conserverà il ciuffo biondo del primo episodio per tutto il tempo. Nonostante l'iconicità degli anni Ottanta-Novanta, inoltre, non sono riuscito a respirarli: l'algoritmo  appiattisce tutto sotto un'aria patinata e, in nome dell'inclusività, regala al personaggio femminile origini indiane. Ho preferito il romanzo? Assolutamente. E il film – sì sintetico, ma capitanato da un eccezionale duo attoriale? Sì. Ho pianto comunque, arrivando a un epilogo arcinoto? Inutile chiedermelo. Non mi riprenderò mai da questa cotta, né dal crepacuore che ne consegue. (6,5)

lunedì 4 novembre 2024

Recensione: Oliva Denaro, di Viola Ardone

| Oliva Denaro, di Viola Ardone. Einaudi, € 18, pp. 312 |

È possibile consigliare un romanzo che non hai apprezzato? È quello che mi ritrovo a fare con Oliva Denaro: un grande successo di pubblico, forte di una struttura cinematografica e di tematiche così forti da non lasciare indifferenti. Anche quando ho storto il naso per le troppe frasi a effetto, per i comprimari troppo anacronistici, per le ambientazioni troppo stereotipate, infatti, mi sono scoperto commosso dal dramma della protagonista: sedici anni, impossibilitata a proseguire gli studi, oggetto delle attenzioni del ragazzo sbagliato. Ispirandosi liberamente alla vicenda di Franca Viola, Viola Ardone ci parla di disparità e consenso, violenza e aborto. Erano gli anni di Mina e delle Kessler alla TV. Ma, in Italia, essere donna era una condanna.

Non voglio sembrare più bella, non voglio seguire consigli, non voglio obbedire a nessuno più. A che è valso? Al posto delle tabelline e dei verbi irregolari avrebbero dovuto insegnarci a dire di no, tanto il sì le femmine lo imparano dalla nascita

Con il sopraggiungere del ciclo, nella routine della giovane Oliva cambia tutto: vietato correre forte, vietato indovinare la forma delle nuvole accanto all'amico di sempre. La sua bellezza in boccio attira gli sguardi di Pino, i capelli neri di brillantina e un fiore di gelsomino dietro l'orecchio: il giorno del loro incontro è colorato di inquietanti segnali. Scorrerà il sangue. Con capitoli brevi ed efficaci, l'autrice ci racconta di un'epoca non molto lontana in cui la verginità appariva il solo valore femminile e della rieducazione di un'adolescente inconsapevole, all'inizio, di essere la parte lesa. L'onore macchiato? Si era soliti correre ai ripari o con le nozze, o con la lupara. Tra dettagli folkloristici e scene dal forte impatto visivo, con tanto di piccole concessioni all'horror (gli animali ammazzati, il rapimento), Ardone affianca Oliva a personaggi macchiettistici: dall'amica comunista alla sorella vittima di percosse, fino ad arrivare a quel papà dolcissimo ma troppo sensibile per i suoi tempi. E cosa dire dei Paternò, gli antagonisti, che gestiscono una pasticceria proprio come i fratelli Solara?

La politica la facciamo tutti, in un modo o nell’ altro, ribatte, ogni cosa è politica: le nostre scelte, quello che siamo o non siamo disposti a fare per noi e per gli altri.

Ho avuto, a tratti, l'impressione di leggere un romanzo scritto con Elena Ferrante tenuta sul comodino. Una storia intensa, ma con il pilota automatico inserito, che osa qualche guizzo soprattutto nelle scelte lessicali volutamente colorite (a lungo andare, però, ho trovato ridondanti i vari: “Piccinna”, “Non lo preferisco”, “Sono favorevole”). Mi sono emozionato e indignato. Ho pensato di consigliarlo a mia madre e ai miei studenti. Ma lì dove l'esordio alla regia di Cortellesi osa una magnifica variazione sul tema, Ardone si adagia nella stesura di un compitino senza errori, più importante che bello. Il femminile singolare non esiste, pensa Oliva. Se le smentite devono passare attraverso questo romanzo, allora, ben venga. Non mi è piaciuto, ma all'interno ci ho trovato una ragazzina con un tacco rotto che trova il coraggio di camminare in direzione contraria. Io sono favorevole a Oliva; meno a come  è stata raccontata.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Gigliola Cinquetti – Non ho l’età