lunedì 21 ottobre 2024

Il cinema delle donne: Vermiglio | Love Lies Bleeding | Gloria! | I Saw The TV Glow | Blink Twice

Premiato a Venezia, rappresenterà l'Italia agli Oscar. Piccolo, ma preceduto da grandi aspettative, Vermiglio non amerebbe il centro dell'attenzione. Esile, lineare, incantevole, racconta la quotidianità della famiglia Graziadei: sette figli, un papà maestro, una mamma che ha già sepolto due neonati. È ambientato in un presepe in provincia di Trento che nemmeno le bombe osano sfiorare, dove la vita scorre scandita dalle lezioni e dalla preghiera. Maura Delpero pone l'accento sulle “piccole donne” di casa e le rende protagoniste di una saga familiare resa irresistibile dalla freschezza del cast (giganteggia il sempre impeccabile Ragni) e dalla giocosità del dialetto. La primogenita vorrebbe sposare un siciliano, la mediana soffoca la propria sessualità a suon di fioretti, l'ultima ambisce alle scuole medie. La regista è con loro ai matrimoni e ai funerali, sia nelle dipartite che nelle nascite. A parlare sono i gesti, gli occhi e i silenzi, in un cinema che è limpidezza di sguardo. L'impressione finale è che la vita andrà avanti oltre i titoli di coda, che i personaggi continueranno a essere vivi anche una volta battuto l'ultimo ciak. Non spaventiamoli con il nostro clamore. Che restino incontaminati e disarmanti: rossi di vita. (8) 

Stewart, sensuale come non mai col suo mullet sporco e spettinato, vorrebbe smettere di fumare e tenersi fuori dai guai. I suoi piani vanno a monte quando conosce la statuaria O'Brian: body builder appassionata che, suo malgrado, la costringe a confrontarsi con i crimini di una famiglia ormai annichilita dalla violenza, dove un vampiresco Ed Harris, intanto, tiranneggia indisturbato. Scorrerà molto sangue. Insieme ai fluidi corporei, alla merda e all'albume d'uovo del secondo film della britannica Rose Glass: dopo Saint Maud, gelido horror sul fervore religioso, torna al cinema con un fumettone viscoso, folle e libero come l'aria. Thelma e Louise, ma in chiave saffica e sotto anabolizzanti, Love Lies Bleeding è una chicca vietata ai minori che elettrizza grazie alla bravura selvaggia delle sue protagoniste. Splendide, giocano agli sceriffi in un thriller onirico, sexy e ributtante insieme, in cui è impossibile tenere la conta dei morti ammazzati e degli orgasmi. Il vero amore? Qui comporta lo sbarazzarsi dei reciproci delitti, in un canyon pieno di stelle. (7,5)

Nella Venezia del primo Ottocento, un gruppo di orfane scopre il potere sovversivo della musica. Basta il ritrovamento di un pianoforte, e nella claustrofobia dei chiostri è subito emancipazione. L'esordio di Margherita Vicario e
L'arte della gioia, la serie TV di Valeria Golino, hanno più di qualche punto in comune: il gusto pittorico, la fame di vita delle protagoniste, il messaggio femminista in un'epoca di repressione. Ma mentre l'adattamento di Goliarda Sapienza osa e seduce, la cantautrice romana debutta alla regia restando nella comfort zone (una delle protagoniste è proprio la voce solista di La Rappresentante di Lista). Se Veronica Lucchesi canta e incanta, complice una versione acustica di Questo corpo, a restare impresso è il fascino tormentato di Carlotta Gamba: presente anche in Vermiglio, qui è l'ape regina abituata a eccellere ma dal cuore fragile. Comunque lodevole per fattura montaggio, Gloria! è un tableau vivant vivissimo. Troppo fiabesco e ingenuo nella sceneggiatura, è trainato dall'energia contagiosa del messaggio e del cast. Queste Barbie ballano, e si dirigono, da sole. (6,5)

Sconosciuto ai più, era attesissimo dagli estimatori del cinema indie. Oscuro e stiloso, è giunto in Italia nel silenzio dell'homevideo. Non male per uno pseudo-horror che parla di odi sanguinose al tubo catodico. Ambientato negli anni Novanta, è la storia di due ragazzi fuori. Vittime dell'alienazione e della solitudine, fanno amicizia grazie al culto per la medesima serie TV: un fantasy alla 
Buffy in cui due amiche combattono un villain di nome Malinconia. Sfortunatamente la serie chiuderà con la quinta stagione. Cosa succede dopo quell'ultimo episodio shock? Justice Smith e Bridget Lundy-Paine mettono il loro fascino androgino al servizio di un'allegoria che li segue dall'infanzia all'età adulta, nella speranza di una reunion. La brava Schoenbrun, regista transgender, mostra tormenti a lei familiari e confessa pensieri noti a ogni buon cinefilo: tutti abbiamo considerato la finzione più vera della realtà. A metà tra il primo Lynch e l'ultimo Aster, I Saw The TV Glow potrà apparire pretenzioso. Ma, al di là delle pretese autoriali, oltre la pelle e sotto le ossa, ha l'incanto del technicolor: basta squarciare. (8)

Una cameriera di belle speranze viene ospitata sull'isola di un filantropo reduce da uno scandalo. Alcol inesauribile, vestiti di lino, ogni sera una festa: sembra l'inizio di una favola, o di una puntata di 
The White Lotus, in cui tutti sono bianchi, facoltosi, privilegiati. L'incubo è dietro l'angolo: soprattutto se si ha a che fare con un gruppo di uomini danarosi, dediti a lusso e lussuria; soprattutto se i toni, all'inizio brillantissimi, sono destinati a un crescendo agghiacciante con tanto di trigger warning iniziali e sangue a fiumi. La sorprendente Zoë Kravitz, attrice di talento e figlia di Lenny, stupisce sganciando sul finire dell'estate la bombetta che nessuno sospettava. Acuta, colorata, incazzatissima, con Blink Twice prima incornicia l'ottima Naomi Ackie in una foto Instagram tutta bolle e simmetrie; poi fa luce sui suoi vuoti di memoria, strappando finalmente l'insospettabile Channing Tatum al solito ruolo di principe azzurro. Per quanto gli esiti siano intuibili, Kravitz ha una gran bella voce. E tuba, grida, ruggisce, in un esordio che ricorda i cocktail alchemici di Jordan Peele ed Emerald Fennell. Non battete gli occhi: potreste perdervi questa pazza gioia. (7)

lunedì 14 ottobre 2024

Recensione: Il male che non c'è, di Giulia Caminito


| Il male che non c’è, di Giulia Caminito. Bompiani, € 18, pp. 272 |

Parte tutto da un refuso nella newsletter della casa editrice per cui lavora. Un apostrofo fuori posto e Loris, trent'anni, precario, finisce schiacciato sulle mattonelle del bagno. Il fiato corto, il cuore impazzito, un uovo dal guscio duro che gli si schiude all'improvviso sul fondo della pancia. Lo conosciamo steso tra il lavandino e il bidet, all'alba dell'ennesima crisi. Al di là della porta chiusa c'è Jo, l'eterna fidanzata, che spererebbe in un compagno più tonico, più intrepido, più appassionato. Seduta sulla lavatrice, invece, c'è la sua amante immaginaria: si chiama Catastrofe, spiazza con trasformazioni imprevedibili e somiglia alla versione horror di una delle emozioni di Inside Out. È lei a comunicargli che presto o tardi esploderà. Cosa si nasconde dietro i mal di pancia, i tremori, le ossessioni di Loris? Schiavo della melatonina e dei fermenti lattici, prigioniero dell'inferno di sé stesso, invidia il codice rosso dei feriti a morte, si nutre di tragiche storie vere sui forum e su YouTube, origlia con astio i suoni di un vicino di casa che suona, scopa e vive senza pudore. A un certo punto dichiara che preferirebbe una malattia terminale al pressappochismo con cui, ormai, lo liquidano i medici.

Cosa succederà a quel ragazzino nella foto lui non lo sa, eppure non può fare niente per salvarlo, né da sé stesso né dal dolore, perché così avviene: il male arriva e passa schiacciando e livellando, deviando il corso del fiume che sei stato.

Sarebbe facile biasimarlo, considerarlo empio e vittimista, ma la verità è che quest'ipocondriaco con cui parrebbe impossibile empatizzare ha la mia faccia allo specchio, le mie identiche crepe. All'inizio ho corso il rischio di divorare la sua storia. Poi ho rallentato, per la paura di essere divorato. Il lockdown sembra accaduto una vita fa, ma l'altro giorno ho trovato una vecchia mascherina nella tasca del doppiopetto. E ho ripensato a quand'ero come Loris, ai capelli sporchi e alle clavicole sporgenti, ai libri letti bulimicamente e ai siti porno consultati in cerca di un'eccitazione che non sopraggiungeva. A un lavoro che, nell'immobilismo generale, non arrivava. Dopo tanta paura della malattia, il contagio, infine, era giunto con carico di delusione: una febbriciattola che non mi avrebbe ammazzato — per fortuna, purtroppo. La mia stanza, intanto, era diventata una cella dove enumerare le figuracce, i rimorsi, i ricordi; il corpo un campo di battaglia. Durante la lettura mi sono materializzato alle spalle di Loris e, io che ci sono passato, io che a volte ci passo ancora, ho rubato il posto a Catastrofe nell'ascoltarlo, scuoterlo, stringerlo forte. Se non fosse così brava, Giulia Caminito risulterebbe respingente. È il rischio che corre chi sceglie personaggi scomodi e pone al centro, senza fronzoli, la malattia: queste volta, per di più, una malattia reputata immaginaria. La sua scrittura, di chirurgica esattezza, è la sonda nelle viscere di Loris. Cerca il male, Giulia. Insegue il ticchettio della bomba e medita un modo per disinnescarla, lei che ha strumenti da artificiera. È nella ricerca, però, che trova anche la luce che resta.

Si era sempre immaginato accanto a lei, ma da soli. Loro due come una diade tenace, un microcosmo autosufficiente.

Loris, anestetizzato, se ne sta rannicchiato in posizione fetale e torna neonato, embrione, spermatozoo. Vive un'evoluzione a rovescio. Il suo lamento diventa un romanzo intimo, privatissimo, pieno di simboli e dolori, in cui il passato è l'unico baluardo sicuro contro un presente sismico. Laggiù c'è un nonno che ci spiega la vita attraverso l'osservazione delle voliere e che ci rivela, all'occorrenza, i segreti degli innesti felici. Serve colla abbondante affinché la vita attecchisca; serve pazienza, poi, affinché fiorisca nella pelle di una corteccia estranea. L'autrice romana si fa portavoce di quei segreti — suo nonno, a cui il romanzo è dedicato, doveva somigliare molto a Tempesta — e li condivide generosamente con noi, pur di vincere la solitudine che l'ansia chiama a sé. Firma, così, un romanzo ben più misurato del precedente, in cui trova finalmente spazio vitale una generazione che finora non c'era sui libri: quella affetta dal male che non c'è. Giulia Caminito ci ha salvati dall'estinzione.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gazzelle - Destri


lunedì 7 ottobre 2024

Recensione: Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, di Irene Solà

| Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre. Irene Solà, Mondadori, € 18,50, pp. 156 |

Cosa succederebbe se David Eggers, il regista di The Witch e The Lighthouse, dirigesse una sceneggiatura firmata dal fantasma di Gabriel Garcìa Màrquez? La bravissima Irene Solà, autrice catalana già di culto presso i millennial, sembra mostrarcelo in questo incubo a occhi aperti. Un po' menestrello, un po' strega, ci apre le porte di una saga familiare fosca e oscena, i cui personaggi si muovono in un limbo brulicante di insetti. Siamo in una stamberga sui Pirenei. Il casolare del Mas Clavell è paragonato a un corpo in decadenza, le stanze a una bocca guasta. È una proverbiale notte buia e tempestosa e, costretta a letto, la vecchia Bernadeta attende la morte: non è il paradiso che la attende. Veggente, è stata l'amante del Maligno in persona e una degli ultimi membri di una famiglia di donne irredente. Eccole, riunite intorno al capezzale, pronte a trascinare la parente inferma all'inferno. Hanno sgozzato un capretto. E disordinatamente, confondendosi coi vivi, si sono raccontate senza filtri al lettore. Vissute a cavallo tra le due guerre, appartengono a una progenie maledetta: nel loro DNA c'è il gene della mancanza, dell'abbandono.

Perché di mattino una donna ingenua poteva illudersi che la notte fosse finita. Mentre la notte non finiva mai, attendeva di nascosto e faceva sempre ritorno.

Solà ci propone un carosello spettrale di orgogliose peccatrici e, sondando le ombre, ci intrattiene con bambini divorati nella culla, abusi e mattanze, selve popolose di belve e briganti. Per leggerla è vietato essere impressionabili: gli argomenti scabrosi abbondano e poco è lasciato all'immaginazione. Il suo romanzo è una carogna che disgusta, eppure, misteriosamente, attrae. Come volgere lo sguardo altrove? Schiavo del turbamento, ho subito tessuto le lodi di una scrittura ritmica e fortemente suggestiva: sensuale perfino nell'orrore più turpe. Il difetto è che la trama non presenta una vera evoluzione e che, fino all'ultima pagina, aspettiamo soltanto l'ultimo rantolo di Bernadeta. Eccessivamente barocco, prima affascina e poi affatica, con uno stile densissimo e un albero genealogico troppo ramificato per duecento pagine scarse. Si respira un sentore di decomposizione. Ma anche l'odore del soffritto che intanto frigge in padella: cipolla, lardo, cannella. C'è una festa da preparare. Alienate dal mondo, mosse da attrazioni incestuose e fantasie di zoofilia, le donne di casa sghignazzano delle diavolerie dell'epoca contemporanea e nutrono nostalgia per gli eccessi che furono. Sono vittime inermi del Secolo breve o femministe all'avanguardia, in un passato in cui altrimenti non avrebbero avuto voce? Il loro sabbat è un commiato senza speranze in cui le tenebre sono l'unico spettacolo da rimirare; l'unica coperta abbastanza lunga da stringerle tutte insieme ancora una volta.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Thom Yorke – Volk


martedì 1 ottobre 2024

Recensione: Elizabeth, di Ken Greenhall

| Elizabeth di Ken Greenhall. Adelphi, € 19, pp. 173 |

Seduta in soffitta, a gambe incrociate, studia il suo riflesso allo specchio. Bellissima, mostra più dei suoi quattordici anni. La minigonna mette in mostra le gambe tornite e una ferita ancora fresca: è il morso di un ragno. Dall'altra parte della finestra New York è una foresta di grattacieli. All'improvviso sullo specchio si proietta l'immagine di un'altra donna: proviene da un'altra epoca, il Cinquecento, e da un'altra dimensione. Ha inizio, così, un dialogo strano e perturbante tra due generazioni lontane; tra un'allieva e la sua guida. Come si diventa una strega? Elizabeth è un'alunna provetta. Responsabile della tragica morte dei genitori, ha uno zio per amante e un'istitutrice inglese che pende dalle sue labbra. Nessuno — lettore compreso — può resistere ai suoi desideri mostruosi e alla sua oscura libidine. La seduzione è un'arma. Fin dove si spingerebbe per imparare a tracciare formule magiche con il suo rossetto scarlatto?

Tutti abbiamo diritto ai nostri segreti. Potremo forse affrontare il mondo con un minimo di sicurezza, senza la giusta dose di conoscenza non condivisa? La conoscenza di ciò che succede tra due persone nel buio di una stanza?

Accolta in un'antica famiglia di armatori navali, vivrà un soggiorno da brividi nella casa di Coenties Slip: vi seminerà turbamento e scompiglio. Come in ogni gotico degno di questo nome, non possono mancare all'appello stanze piene di specchi; feroci animali domestici contro cui accucciarsi per prendere sonno; un omicidio consumato con un candelabro d'argento. Ken Greenhall, contemporaneo di Shirley Jackson, debutta in Italia a dieci anni dalla sua morte con un teen horror esile ma dalle atmosfere suggestive, delirante nel contenuto ma elegantissimo nella forma. Al di sopra del bene e del male, contorto e sessualmente ambiguo, il romanzo è un covo di desideri inconfessabili su una ninfetta irrequieta: dietro il fare provocante, però, come ogni adolescente, sogna di vivere una vita straordinaria o un amore che appaia meno soffocante dell'odio. Abbraccerà la sua eredità o la avverserà? L'epilogo, frettoloso, lascia con la sensazione che nella giovinezza della protagonista ci saranno altri misfatti, altri colpi di fulmine, altre scoperte. Quanto sarebbe soddisfacente saperne di più, leggerla ancora? Come l'antieroina di Goliarda Sapienza, costi quel che costi, Elisabeth punterà a ottenere la sua personale parte di gioia. Sarà, però, la dannazione dei più. La lettura del vostro prossimo Halloween è presto servita.

Il mio voto: ★★★

Il mio consiglio musicale: Rettore – Il Cobra

martedì 17 settembre 2024

Recensione: Yellowface, di R.F. Kuang

| Yellowface, di R.F. Kuang. Mondadori, € 22, pp. 384 |

Quest'anno ho letto un libro di cui non farò il titolo. Una lettura, altrove molto chiacchierata, che mi ha fatto pensare: l'autore è più interessante della storia che racconta. Oggi, in editoria, cosa conta: l'immagine o la parola? Quanti esordienti raggiungono la fama poiché aiutati dalle caratteristiche richieste dell'algoritmo? Con risentimento, se lo domanda June: talentuosa ma non abbastanza interessante, ha assistito all'ascesa di Athena, una compagna di college brillante ma, soprattutto, benedetta dalla fortuna.

L'invidia viene sempre descritta come un livore tagliente e velenoso. Un'acredine infondata e meschina. Ma ho scoperto che per gli scrittori l'invidia assomiglia di più alla paura. L'invidia è quell'impennata del battito cardiaco tutte le volte che leggo dei successi di Athena su Twitter. L'invidia è ciò che provo quando mi paragono a lei e ne esco costantemente sconfitta, è il panico che mi prende quando penso che non scrivo abbastanza bene o abbastanza in fretta, quando sento che non sono, né sarò mai, all'altezza.

Asiatica, queer, fotogenica, rappresenta uno schiaffo al predominio della cultura bianca. Autrice giusta nel momento giusto, benché poco attiva nella comunità asiatica e non sempre solidale con le altre donne, ha un contratto con Netflix e un altro successo in rampa di lancio: alla macchina da scrivere, infatti, ha battuto un romanzo top secret sul ruolo della manodopera cinese nella Grande guerra. Essere bianca, etero, media, significa non avere più nulla da offrire ai lettori? Divorata dalla gelosia, June approfitta allora della morte di Athena per appropriarsi del manoscritto inedito: ne farà un successo internazionale. Arguto, politicamente scorretto e puntuale, Yellowface è una commedia nera sui retroscena dell'editoria, sui giustizieri di Twitter e sull'appropriazione culturale. È lecito che un'autrice bianca dia voce a un dramma cinese? Quand'è che scrivere ha smesso di essere un esercizio di empatia? Il plagio sarà solo l'inizio. Travolta dagli scandali e dalle illazioni, June sarà al centro di un'ascesa e di una caduta dolorosamente rapide, nonché di un romanzo a tratti asfissiante che si diverte a giocare con le storie di fantasmi e con la metanarrazione. Nessuno è al sicuro: perfino la defunta Athena, morbosamente attratta dalle sofferenze altrui, era una ladra incensurata.

Cosa si prova a essere così assolutamente perfetta, ad avere tutto il meglio del mondo? E forse sono i cocktail, forse è la mia esagerata immaginazione da scrittrice, fatto sta che comincio a sentire un grumo rovente nello stomaco, una strana e improvvisa voglia di infilare le dita in quella sua bocca rosso lampone e aprirle la faccia in due, sbucciarle la pelle del corpo come fosse un'arancia e infilarmela addosso.

Le polemiche, tuttavia, restano la migliore pubblicità desiderabile. Riuscirà la nostra antieroina a riappropriarsi finalmente della propria storia? Forte di un'idea originale e di una narratrice scomoda, il romanzo brilla anche per l'autoironia della stessa R.F. Kuang: sinoamericana di grande successo, incalza con innumerevoli interrogativi ma garantisce poche risposte. Ancora acerba, gira a vuoto e abbozza diverse strade percorribili: alcune sono buone, altre ottime, ma tentenna senza imboccarne nessuna. Destinato a un finale aperto, Yellowface è un prurito che non puoi grattare. L'intreccio, fragile, resta un groviglio arruffato. Ma il fastidio, nel frattempo, ti ha dato lungamente da pensare.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: David Bowie - China Girl 

mercoledì 11 settembre 2024

La letteratura in streaming: Kaos | Dostoevskij | Feud: Capote vs. The Swans

Cospirazioni, tradimenti coniugali, sangue, famiglie. Esiste forse intrattenimento più contemporaneo e accattivante di quello offerto dalla mitologia greca? A partire da una intuizione elettrizzante, Kaos porta in scena i personaggi più amati del mito calandoli nella Creta odierna. Gli dei esistono, sono tra noi e, come sempre, mettono lo zampino negli affari mortali. C'è chi, però, ha smesso di temerli. Il Zeus di un esilarante Jeff Goldblum trema di rabbia e frustrazione, con la segreta paura di essere esautorato. Chi sta tramando contro di lui? Come può gestire la convivenza forzata tra cretesi e troiani, se ha difficoltà perfino a farsi obbedire dalla gelosissima moglie Era o da Dioniso, il più spiantato dei suoi figli? Saga familiare ultraterrena, eccezionalmente raccontata da un Prometeo già prigioniero, questa prima stagione (confidiamo, per favore, in un tempestivo rinnovo) tira in ballo anche un trio di mortali dal ruolo cruciale: Arianna, figlia del Presidente Minosse, che questa volta non ha bisogno di nessun Teseo; Euridice, stanca di essere cantata dall'egoista musicista Orfeo; Ceneo, ex amazzone con disforia di genere. Profondamente umani nella caratterizzazione, toccanti e in crisi esistenziale, i nostri eroi si muovono tra le Moire e le Erinni, la terra e l'aldilà, con una domanda: si può cambiare un destino già profetizzato? Corali, spassosi, kitsch con gusto, gli episodi non ha bisogno di effetti speciali per incantarci: la magia è nella scrittura di Charlie Covell, che brilla di equilibri indovinati e di un irresistibile humour inglese. Dopo tanti passi falsi, Netflix tira dal cilindro una serie finalmente all'altezza delle aspettative. Kaos, chicca imperdibile, fa con la mitologia quello che Romeo + Giulietta fece con Shakespeare. (7,5)

Dopo il successo di Valeria Golino, anche Fabio e Damiano D'Innocenzo tornano al cinema con una serie TV. Lenti, sgradevoli, più oscuri che mai, i gemelli romani ci mettono alla prova con un crime in due atti in cui qualcuno potrebbe vedere la risposta italiana a True Detective. Sono cinque ore di cinema d'autore. Di quello lento, pesante, disperato, tipico di alcuni festival di nicchia. La scena clou della prima parte? La colonscopia particolareggiata a cui viene sottoposto il protagonista: un cattivo detective, colpito dalle dipendenze e dal fallimento familiare, di cui sondare le viscere per sincerarsi del marcio. Sbirro e assassino, infatti, condividono gli stessi demoni. Il serial killer, ribattezzato Dostoevskij per le lettere nichiliste seminate sulla scena del delitto, diventa l'ossessione del nostro antieroe. La morte può diventare una ragione di vita? Nei polizieschi c'è sempre il momento in cui la polizia si muove nel buio. I D'innocenzo immortalano quel brancolare: i tentennamenti, le ipotesi, i buchi nell'acqua. E in quel buio si scavano la tana, inventando una sfumatura di nero che prima non c'era. L'ultimo atto vola, più spedito, più corale, più incalzante, ma non ci sono notti bianche all'orizzonte. Non sarebbe stato possibile condensare tutto in un film? Sì, ma sarebbero venute meno le sequenze descrittive in cui il Lazio sembra il Midwest; l'amicizia sincera di un commovente Vanni e la hybris di Montesi, giovane leva con tutto da da perdere. Condannato a un'oscurità eterna, Dostoevskij si rivela il nostro Prisoners: un delitto senza castigo in cui la voce bellissima e cavernosa di Timi, qui in stato di grazia, risuona tra le bettole della povera gente, nelle memorie del sottosuolo, nel nostro buio più inconfessabile. (8)

Le parole possono tutto. Perfino uccidere. Lo sapeva bene Truman Capote: reduce dal successo di A sangue freddo, cercava ispirazione per il suo prossimo bestseller tra i salotti e i ristoranti dell'alta borghesia. Cinico e pettegolo, lo scrittore omosessuale era la mascotte di un gruppo di donne facoltose ma infelici: le chiamava i cigni. A conoscenza dei loro più sordidi segreti, lo scrittore le sburgiarderà per scrivere Preghiere esaudite: una di loro, disperata, si toglierà la vita. In cambio della gloria, Capote perderà la loro amicizia. E l'anima. Dopo averci raccontato la lotta tra Crawford e Davis, due dive sul viale del tramonto, la serie antologica torna con la consueta classe a svelarci un altro scandalo americano: questa volta si passa dal cinema all'editoria. Splendidamente diretta da Gus Van Sant, pur contando su un eccezionale cast femminile, la serie è una vetrina per mettere in luce il genio e la sregolatezza dello scrittore in confidenza con James Baldwin e in contrasto con Gore Vidal: già portato al cinema più volte, trova nell'interpretazione di un irriconoscibile Tom Hollander la sua incarnazione più spumeggiante. La qualità è alle stelle. Ma, a differenza della prima stagione, questa appare più rigorosa e meno fruibile dai profani; più un biopic, l'ennesimo, che un prodotto corale e femminista. Splende la sola Naomi Watts, l'amica prediletta, che ci regala una delle performance migliori della sua carriera con il personaggio di una donna divorata dal cancro e dalla nostalgia, ma pur sempre piena di decoro; degno di nota il cameo spettrale di mamma Jessica Lange. Questi cigni vittima della monotonia incantano per eleganza, ma hanno un becco che non morde. Lontani dall'orbita di Capote, con una faida già persa in partenza, faticano a volare. (6)

venerdì 6 settembre 2024

Recensione: E i figli dopo di loro, di Nicolas Mathieu

| E i figli dopo di loro, di Nicolas Mathieu. € 12, pp. 480 |

Abitano in una valle in cui non succede mai nulla. Pur di sfidare l'immobilismo, vivono le loro vite a velocità folle. Con le marmitte truccate e senza casco; il vento a spettinare loro i capelli. Li vediamo radunati sulle sponde di un lago in cui, ogni tanto, si registra un annegamento. In coda alle giostre del luna park, con le tasche dei jeans ingrossate dai gettoni degli autoscontro. Sulle piste di skateboard e nei pub col parquet appiccicoso di birra. Tutto è un gioco: perfino spaccarsi la testa. Siamo a Heillange, una cittadina di frontiera all'ombra degli altiforni. Le fabbriche, ormai chiuse da un pezzo, incombono sugli abitanti come carcasse in putrefazione. È lì, negli anni dei Nirvava e delle vaccinazioni antitubercolari, che si muovono tre protagonisti con nulla in comune se non il fatto di essere giovani da morire.

All'orizzonte il cielo aveva preso colori esagerati. Inebriato, mollò il manubrio e spalancò le braccia. La velocità faceva sbattere i lembi della canottiera. Chiuse gli occhi per un istante, con il vento che gli fischiava nelle orecchie. In quella città mezza morta, Anthony filava a tutta birra, pieno di brividi, giovane da morire.

Anthony, robusto e con un occhio pigro, si mette spesso nei guai pur di forzare il destino: sempre in cerca della ragazza più bella, della festa piu divertente, incappa nelle spire della piccola criminalità. Hacine, immigrato marocchino, spera di diventare qualcuno attraverso lo spaccio: ruberà la motocicletta sbagliata al ragazzo sbagliato, portando in famiglia venti di tragedia. E poi c'è Steph, figlia di un aspirante assessore, indifferente alle attenzioni di Anthony: innamorata del classico bad boy, è il sogno erotico di grandi e piccoli e, segretamente, fantastica di trasferirsi nella capitale. Parigi appare lontanissima: esiste soltanto nei film in bianco e nero. Com'è possibile affrancarsi dalla vita mediocre degli adulti, fatta di lavoretti in nero e sussidi statali? C'è futuro per gli adolescenti, che escono tutte le sere senza mai sapere bene dove andare? Assetati di un altrove che si trova chissà dove, i protagonisti bruciano gli anni migliori nella noia esistenziale. Hanno madri single e padri gravemente depressi, un'idea sorpassata della mascolinità e, in cuffia, una playlist con le hit più indimenticabili degli anni Novanta.

Da mesi prometteva a suo padre di andarlo a trovare. Ma aveva paura di vedersi di ronte un fantasma. Coralie lo aiutava anche in questo. Il retaggio impossibile e la morte che incombe. Lo prendeva per mano, gli diceva: “Scopami forte, tesoro mio”, cose semplici che aprono crepe nella solitudine.

Il bravissimo Nicolas Mathieu, nell'arco di otto anni, ci racconta quattro estati di un gruppo di diseredati teneri e smaniosi. Lunghissimo, ma all'apparenza povero di eventi, il suo esordio vive d'atmosfere palpabili. Come nel migliore cinema francese, è quasi possibile percepire l'odore zuccherino del sudore adolescenziale; gli umori viscosi del sesso, consumato goffamente in macchina o nelle tende da campeggio; l'oscillazione ipnotica delle code di cavallo e l'elettricità di quei temporali estivi prima preannunciati, infine abortiti. In un epilogo da incorniciare, splendido e simmetrico, la rabbia si depositerà come polvere. Ci sono i mondiali, si brinda e ci si abbraccia disinteressati ai trascorsi personali, si acquistano TV fuori budget: improvvisamente è un bel momento per essere giovani e francesi, per bearsi della “terribile dolcezza dell'appartenenza”. E i figli dopo di loro è il romanzo da leggere su un treno per il nord, quando al termine delle ferie ci si lascia alle spalle con un po' di commozione la provincia amata-odiata che ci ha visti crescere. Per dire addio all'estate, finita troppo in fretta. E, se come me si ha già trent'anni, anche alla giovinezza che fu.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are

venerdì 23 agosto 2024

Recensione: Wellness, di Nathan Hill

| Wellness, di Nathan Hill. Rizzoli, € 22, pp. 736 |

È possibile provare l'esistenza dell'amore a prima vista? Jack ed Elizabeth, dirimpettai, si studiano dalle finestre dei rispettivi palazzi: a separarli c'è soltanto un vicolo. Lui, fotografo, si è lasciato dietro le praterie del Kansas: romanticissimo, nasconde una sensibilità d'altri tempi dietro l'aspetto studiatamente trasandato. Lei, studentessa cresciuta in una magione invasa dai pipistrelli, è l'erede di una famiglia arricchitasi sulle disgrazie altrui: ribelle, molla tutto e decide di vivere da bohémien. Siamo nella Chicago degli anni Novanta, ma sembra di essere a Montmartre. Mentre l'avvento di internet semina dappertutto promesse, la scena artistica si colora di sperimentazioni. “Diversi in modi simili”, i nostri protagonisti tuonano contro il capitalismo e si fingono orfani. Cos'è dei loro sogni vent'anni dopo?

Credi in quello che vuoi, mia cara, ma credici con delicatezza. Credici con consapevolezza. Credici con curiosità. Credici con umiltà. E non fidarti dell'arroganza della sicurezza.

Ormai sposati, Jack ed Elizabeth puntano a mimetizzarsi tra le famiglie del circondario. Performanti, moderni, perfettibili, tentano (invano) di educare il figlio a un uso più accorto del Tablet e investono (invano, sempre) su un cantiere in corso d'opera, in un quartiere dove i grattacieli sono talmente brillanti da tendere trappole agli stormi. Le agenzie immobiliari sponsorizzano “case per sempre”, ma intanto consigliano alle coppie di dormire separate. Servono sex toys e locali per scambisti, pare, per tenere viva la scintilla. La società impone l'appagamento di bisogni continui, ma nel frattempo annichilisce con idiosincrasie, tensioni, caos. Gli orologi monitorano i respiri, gli algoritmi tracciano gli alti e bassi delle prestazioni lavorative e alcuni credono perfino che la vita non sia altro che una simulazione: il presente, insomma, è una distopia. Jack non tituba, ha finalmente una famiglia tutta sua per contrastare la solitudine vissuta nell'infanzia. Ma Elizabeth, più cinica, guarda angosciosamente la curva discendente della mezza età. È possibile preservarlo, l'amore? Famosa per gli studi sull'effetto placebo, sa che le persone amano lasciarsi ingannare pur di superare il dolore di vivere. E se la loro storia, sin dal primo incontro, fosse una frottola al pari dell'agopuntura?

Si poteva scegliere di essere sicuri o si poteva scegliere di essere vivi.

Wellness, sontuoso boy meets girl con dieci pagine di bibliografia in chiusura, resterà la folgorazione dell'anno. Arguto e coltissimo, Nathan Hill impiega 700 pagine per indagare il più grande dei misteri: il benessere matrimoniale. La sua prosa deve somigliare ai dipinti realizzati dalla sorella di Jack. Pennellate semplici e veloci, dettagli fugaci, con l'obiettivo della massiva universalità: la letteratura, così come le tempere, va fatta respirare. E questo romanzo respira, sì, e vive una vita propria in un luogo di confine in cui la commedia romantica e il saggio antropologico possono coesistere, fare l'amore e riprodursi. Come in Rooney, al centro ci sono due protagonisti perfetti l'uno per l'altra ma vittime dell'autosabotaggio. Come in Yanagihara, sullo sfondo, c'è una città popolata da bohémien vestiti da yuppie. Come in Franzen ci sono il disincanto, il grottesco, la satira, e si sorride a denti stretti di papà che cospirano su Facebook, strampalate coppie aperte, fortune fraudolente legate al Ku Klux Klan. Visceralmente contemporaneo, Hill gioca con la chimica delle emozioni e sonda le prese di coscienza di un'età in cui somigliare a tutti gli altri sembra la scelta più comoda. Si è troppo grandi per credere alle favole, alle bugie, alle cospirazioni. O forse no? Se perfino il mercato immobiliare collassa, infatti, gli unici architetti restano i romantici: costruttori di straordinarie bugie, in un mondo sempre più digitale e distratto, creano ogni giorno le emozioni per guarire in autonomia. Bisogna soltanto avere fede nella cura, e tenersi stretta la fede al dito. Il matrimonio è un placebo. Ma quanto è bello credere a una storia d'invenzione, per poi scoprirsi realmente cambiati?

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Smiths – How Soon Is Now?


venerdì 16 agosto 2024

Recensione: Un'estate, di Claire Keegan

| Un'estate, di Claire Keegan. Einaudi, € 12, pp. 80 |

Su Instagram resto puntualmente incantato dai contenuti di una pagina intitolata Vita Lenta. Quegli scorci, quegli sprazzi di vita vissuta, sono il migliore antidoto contro la tristezza. Quei post sono la pace dei sensi. Quei post sono un'estate senza fine. Ho respirato atmosfere simili nel romanzo di Claire Keegan, che al cinema ispirò The Quiet Girl. Una lettura tanto breve quanto evocativa in cui la fatica gioiosa della vita dei campi scandisce la bella stagione di una bambina spaiata.

È bello sentire la strada digradare, sapendo che in fondo c'è il mare.

Selvatica e taciturna, sempre a piedi scalzi, la protagonista è cresciuta in una famiglia in cui c'erano tanti figli e pochi soldi. Non c'era mai tempo per le premure né per la tenerezza; forse non c'era tempo neanche per i nomi di battesimo: per questo, nel romanzo, la protagonista sarà anonima per tutto il tempo. Allontanata dai fratelli e affidata momentaneamente a una coppia di zii sconosciuti, sperimenta gli ambienti umili e i sentimenti nobili della vita accanto a John e Edna, in una casa senza vergogna e senza segreti. In poco tempo, diventa la loro ombra; il bastone dello loro vecchiaia. Cos'è accaduto al loro unico figlio, di cui tutti in città parlano a mezza bocca? Tra passeggiate notturne con lo sciabordare del mare in sottofondo e crostate al rabarbaro profumatissine, la bambina conoscerà per la prima volta l'amore, la morte, la vita. In punta di penna come il miglior Kent Haruf, l'autrice ci regala un piccolo romanzo di formazione sulla paura di diventare grandi.

Se non ci fossi, sono sicura che cadrebbe. Chissà come fa quando io non ci sono. Cerco di ricordarmi di un'altra vola in cui ho avuto la stessa sensazione e sono triste perché non riesco a ricordarmela, e anche felice perché non ci riesco.

C'è l'arrivo di settembre, un mese di cambiamenti, che mette paura. C'è la scoperta della lettura, con una nuova sorprendente consapevolezza: i libri, a volte, portano più lontano di una bicicletta. C'è la reticenza della gente di campagna, i cui gesti parlano più forte delle parole. Non siamo a Holt, ma nell'Irlanda dei primi anni Ottanta. In un libricino nei cui silenzi c'è talora malinconia e talora l'esatto contrario: una gioia di vivere per cui si faticano a trovare parole adatte. Bisognerebbe coniarne di inedite allora: un nuovo lessico famigliare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Taylor Swift – August

giovedì 1 agosto 2024

Recensione: L'amore è un fiume, di Carla Madeira

 
| L'amore è un fiume, di Carla Madeira. Fazi, € 18,90, pp. 180

La chiamano saudade. È la nostalgia che illanguidisce gli arti e i petti con l'avvicinarsi del crepuscolo. Intraducibile in italiano, è il sentimento che nell'antichità accompagnava gli uomini di ritorno dalla caccia. Le mogli avrebbero riabbracciato i mariti morti di fatica? E i mariti le mogli, ritte alla finestra? Come un vento caldo, la saudade soffia tra le pagine del romanzo di Carla Madeira: un successo del passaparola, con una scrittura a ritmo di bossanova e un intreccio da gustarsi preferibilmente sotto l'ombrellone, con il mare a fare pendant con il blu della copertina. Ambientato in un Brasile senza tempo, è la sfida tra tre personaggi combattuti tra la difficoltà di disimparare l'odio e il bisogno di tornare ad amare.

Non si ragiona con chi è malato di saudade.

Separati in casa all'indomani di una tragedia da non svelare, Venancio e Dalva erano la coppia più invidiata di una citta divisa tra chiesa e bordello. Tutti ricordano gli oggettini intagliati da lui e il profumo delle empadas di lei. Tutti ricordano il giorno delle nozze, con quel vestito bianco ricamato da ognuno dei presenti e i canti festosi a fare da accompagnamento. Cosa li ha divisi? Se lo chiede anche Lucy, la piu fiera e capricciosa tra le prostitute, desiderosa di conquistare l'inconquistabile Venancio: l'unico maschio con l'ardire di rifiutarla. Ne deriverà un gioco di seduzione a colpi di provocazioni e sberleffi, in cui a dominare sarà il fascino dei personaggi femminili: la gelosia bruta del protagonista, conteso tuttavia per l'intero romanzo, nulla può contro i silenzi misteriosi di quella moglie piena di decoro né contro la sensualità dell'amante, stesa come una lucertola all'ombra del quartiere a luci rosse.

Perché l'amore scatti, ci vuole un qualche tipo di coincidenza. In ogni contatto, esiste una percentuale di miracolo. Non è peregrino dire che l'amore è sacro.

Il pensiero corre alle squillo sagge di Marquez, al cinema femminista e fieramente kitsch di Almodovar: pulsioni ancestrali, istinti bassi, parole abbastanza palpitanti da evocare la morbidezza dei colpi e la passionalità degli amplessi. Forte di atmosfere semplicemente irresistibili, Madeira pecca di un intreccio esile e di una narrazione a tratti inutilmente corale, in cui i comprimari (i genitori di Dalva, la miracolosa Francisca) hanno il difetto di affollare una narrazione troppo leggera, troppo breve, per prestarsi alla polifonia: non aiuta l'esagerato colpo di scena conclusivo. L'amore è un fiume. L'autrice non lo argina con una struttura più ragionata, ma lo lascia scorrere senza padroni. Ha numerose forme, ha mille sblocchi. Cosa succede quando lo inquinano un raptus mortifero, i tradimenti e i difetti di forma? Basta lasciarlo scorrere. E aspettare, aspettare, aspettare. Al resto penserà la naturale magia della narrativa sudamericana.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ornella Vanoni – La voglia, la pazzia

martedì 23 luglio 2024

Recensione: Lamento di Portnoy, di Philip Roth

| Lamento di Portnoy, di Philip Roth. Einaudi, € 13, pp. 220 |

Quale uomo non spererebbe di impugnare la propria vita così come abitualmente fa col proprio pene? Il mio quarto Philip Roth è il più divertente e autobiografico dei suoi romanzi finora letti. Bisogna avere una spiccata autoironia, d'altronde, per lavare i panni sporchi in pubblico. E mettere nero su bianco, senza peli sulla lingua né falsi pudori, feticismi, nevrosi e fantasmi. Il protagonista ha un altro nome, Alexander Portnoy, ma ha gli stessi tratti distintivi del giovane Roth: è nato a cavallo fra le due guerre, è sopravvissuto a un'epidemia di poliomielite, ha un naso adunco e una spugna abrasiva per chioma, è incontrovertibilmente ebreo. Come un novello Zeno Cosini, benché preferisca definirsi il «Raskolnikov delle pugnette», Portnoy si sfoga sul lettino rosso dell'analista.

Dottore, di cosa dovrei sbarazzarmi, mi dica, dell'odio... o dell'amore?

Queste duecento pagine sono la trascrizione delle sue sedute. Il risultato è un monologo fiume, una barzelletta sporca, il ritratto di un trentenne troppo poco ebreo in famiglia e troppo poco americano in società. Figlio di un assicuratore imbelle, nonché gravemente costipato, e di una madre castrante dotata del dono dell'ubiquità, il protagonista vuole affrancarsi; diventare tutto ciò che i genitori, angoscianti e un po' razzisti, non sono. Scapolo a Manhattan, colleziona viaggi esotici e donne virtuose. Lasciate ogni pudore, o voi ch'entrate. Misogino, vanaglorioso, volgare, l'alter-ego dell'autore non fa mistero di avventure sessuali e perversioni. C'è un intero capitolo dedicato alle gioie della masturbazione e, come in una scena cult di American Pie, non sono al sicuro nemmeno gli alimenti: basta un torsolo di mela, infatti, a infiammare le fantasie! Ma ci sono anche i ricordi color seppia delle vacanze insieme, le partite di softball, i primi lavori accanto al cognato comunista, il candore delle fantasticherie adolescenziali. Bastano i Levis e un paio di mocassini a cancellare il senso di colpa per la Shoah? Cosa direbbe Freud delle occhiate alle gambe di mamma o dell'invidia verso il pene di papà? Così sincero da fare tenerezza, questo Roth leggerissimo oscilla tra “id” e “yid” con l'intramontabile romanzo di formazione su un ragazzo e il suo sogno: scoparsi, e così conquistare, l'America.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: AC/DC – You Shook Me All Night Long

lunedì 8 luglio 2024

Recensione: L'arte della gioia, di Goliarda Sapienza

| L'arte della gioia, di Goliarda Sapienza. Einaudi, € 15, pp. 540 |

Nell'omonima miniserie di Valeria Golino, è la voce suadente di Tecla Insolia a guidarci nel dedalo dei pensieri di Modesta. Queer, determinata, machiavellica, si inebria della forza segreta dell'odio ma inneggia all'amore libero. Ora ingenua e ora spietata, profondamente consapevole della sua intelligenza, ci sussurra la fiaba nera di una serva divenuta padrona. È possibile, seppure al termine di una lunga serie di nefandezze, arrivare a gioire con la nostra antieroina? Assolutamente sì, in una storia di curiosità intellettuale, emancipazione e lotta di classe, che prende avvio nella povertà delle campagne verghiane e giunge, infine, presso i palazzi nobiliari di Tomasi di Lampedusa. Questo, però, non è che l'inizio delle vicende di Modesta. Ci saranno altri uomini (dopo il gabellotto Carmine: Mattia, Carlo, Marco) e altre donne (dopo suor Leonora e la principessina Beatrice: Joyce e Nina); ci saranno figli biologici e figli acquisiti (Prando, Jacopo, Ida, Ntoni); arriveranno i totalitarismi e le loro promesse illusorie rivolte ai giovanissimi, un altro conflitto mondiale, una democrazia di cui diffidare.

Per prepararsi alla rivoluzione si deve bere tanta e tanta fantasia.

Attratta dalla rivoluzione ma nauseata dalla guerra, sedotta da una carriera in politica ma troppo idealista per appendere il ritratto del Re o del Duce in salotto, Modesta maturerà con grazia e nessun rimpianto in una casa in cui farà da benefattrice a geniali trovatelli, spie in incognito, sognatori instancabili. L'orfana incendiaria degli inizi diventa la matriarca di una comune definita “una piccola repubblica”; una donna come tante e come nessuna, impensierita dalle ansie della maternità e dalla Certa che incombe. I suoi protetti sconfesseranno amaramente ciò che lei ha insegnato loro? E se la vecchiaia, a ben vedere «una giovinezza cosciente», riservasse altre avventure, altri amori? Golino adatta soltanto la prima delle quattro parti di un romanzo asimmetrico e fluviale, splendido e spossante, che spesso ha l'andamento frammentario di certe poesie, di certi ricordi, di certi sogni. Lo ha scritto Goliarda Sapienza cinquant'anni fa, ma non l'ha mai visto pubblicato: protagonista di travagliate vicende editoriali e di una rocambolesca vita da film, l'autrice meriterebbe un discorso a parte. Quest'anno si celebra il centenario della sua nascita. Ma l'iconica Goliarda, in realtà, doveva venire dal futuro. Lascia in eredità alla sua Modesta l'ateismo, le simpatie comuniste, la fame di tutto e subito. L'Etna è un seno, la lava zampilla al posto del latte: nutrite col fuoco, sono destinate a non morire mai. Nella mia vita ci sarà sempre un prima e un dopo di loro.

E se questo mio vecchio ragazzo si stende su di me col suo bel corpo pesante e lieve, e mi prende come ora fa, o mi bacia fra le gambe proprio come Tuzzu faceva allora, mi trovo a pensare bizzarramente che la morte orse non sarà che un orgasmo pieno come questo.

Scritto in una lingua assonanzata e musicale, il romanzo slitta a piacimento dalla prima alla terza persona, da pagine dense di dialoghi a ellissi narrative che restituiscono informazioni confuse sul destino di taluni secondari. L'andamento: quello imprevedibile di una cantastorie controcorrente, contro natura, nata per seminare dappertutto un magico disappunto. Le ambientazioni: la testa febbrile di Modesta, il suo corpo flessuoso, e una Sicilia claustrofobica che spalanca occhi e cuore davanti allo spettacolo improvviso del mare. Laggiù, in quel blu fino ad allora immaginato attraverso gli occhi dell'indimenticato Tuzzu, la protagonista imparerà a nuotare. Ma anche a cavalcare, a fumare la pipa, a mostrarsi nuda senza l'ausilio del buio. A dare piacere. A darsi piacere. E a organizzare feste sfrenate dove i vivi ballano con i loro fantasmi e le fiaccole illuminano a giorno l'isola. Non si dimentica mai come si galleggia al largo, né la gioia di essere stati eccezionalmente ospiti nell'esistenza di una donna tanto scandalosa. Ora voglio nuotare controcorrente, progettare colpi di stato, chiamare un gatto Mody, ribellarmi sempre. Rubare tutta la vita che posso. L'arte della gioia è un diritto di natura: «come il pane, come l'acqua, come il sole».

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Parola (Rework) feat. Anna Caragnano

martedì 2 luglio 2024

Musica (d'autore) leggerissima: Challengers | Kinds of Kindness | Hit Man | The Idea of You

Gli elegiaci parlano di militia amoris. L'uomo è un soldato, la donna il comandante. L'amore: una guerra. È così anche per l'ultimo Guadagnino, in cui i sentimenti sono un gioco disputato su un singolare campo di battaglia: quello da tennis. A struggersi sono due campioni con tutto da perdere: soprattutto la stima di una moglie-manager che, sotto gli occhiali da sole, nasconde lo sguardo di una sfinge. Affamato di bellezza, il regista palermitano regala con una commedia sportiva che eccita come un porno e gasa come un film d'azione. I piedi battono al ritmo della colonna sonora elettronica di Reznor e Ross. Gli occhi guizzano, smaniosi, di qua e di là. I rimbalzi della pallina diventano metafora, così, dei rovesci di fortuna e dei cambi di alleanze di un triangolo in cui l'infuocato O'Connor e il vulnerabile Feist gareggiano per Zendaya: dea beffarda, incolume tanto al sex appeal del primo quanto alle lacrime del secondo, che urla di piacere soltanto in caso di vittoria. Teso, muscolare, iper cinetico, Challengers trasforma l'attrazione in spirito agonistico e non rinuncia a dialoghi alleniani dove il tennis diventa l'anticamera del sesso e, dunque, dell'esistenza. Mainstream con audacia, questo Guadagnino in forma smagliante torna felicemente a declinare il desiderio. Non è bastata la parentesi horror di Bones and All a placare la sua brama di corpi umani. Qui è attentissimo alle fronti imperlate, ai nervi tesi, ai muscoli guizzanti. Sulla macchina da presa, piovono gocce di sudore. È tempesta – ma ormonale. È il cinema con la lettera maiuscola – fattosi, nel frattempo, carne soda, madida, palpitante. (9)

Un impiegato vessato dall'infernale datore di lavoro sperimenta una crisi d'identità una volta uscito malauguratamente dalle sue grazie. Un poliziotto riabbraccia la moglie, sopravvissuta a una spedizione in mare attraverso presunti atti di cannibalismo, ma sospetta sia un'impostora. I membri di una setta cercano una giovane dai poteri taumaturgici per riconquistare i favori del loro leader. Cosa succederebbe se il regista del recentissimo Povere creature dirigesse una serie antologica nello stile di Black Mirror? Il risultato è uno Yorgos Lanthimos più indipendente e più colorato, leggero ma in pillole amare, che rinuncia al grandangolo ma non a un cast di sole star: Emma Stone balla ancora, Jesse Plemons vince a Cannes, ma questa volta è Margaret Qualley a stregare. Meno manieristico che in passato, il regista greco confeziona una commedia nera in cui non mancano i lampi di genio e gli eccessi del cinema delle origini, ma la cui struttura episodica prima diverte e infine annoia. Si va alla ricerca, allora, di un comune fil rouge all'interno di storie dentro storie che similmente parlano di relazioni tossiche e people pleasing; che, contemporaneamente, sanno raccontare benissimo l'America odierna e omaggiare l'immancabile tragedia greca. Tra investimenti e dita mozzate, sesso e lacrime, a sorpresa si ride perfino. Ma la sensazione che sia un estenuante esercizio di stile, o una serie TV ancora work in progress, è più forte degli atti di fede dei protagonisti. (6,5)

Un mite professore con collaborazioni occasionali con la polizia viene creduto un sicario. Ma cosa succede quando a ingaggiarlo è la cliente di cui finisce per innamorarsi? Ispirato a una storia vera, il soggetto potrebbe apparire lontano dal cinema di Linklater: cosa hanno in comune il regista di Boyhood e questo incrocio tra la romcom e il thriller? Applaudito a Venezia, Hit Man non è ciò che sembra. Se la trama promette equivoci e sparatorie, sorprenderà scoprire un film ben più intimo, raffinato, pirandelliano. Qualcosa non mi ha convinto nella prima parte, retta interamente da Glen Powell: qui anche sceneggiatore, non mi fa simpatia con il suo faccione, i suoi ammiccamenti, le sue smorfie. E il faccione, gli ammiccamenti, le smorfie trapelano da sotto ogni camuffamento, facendomi credere ben poco al talento di questo novello Ripley. Fittamente dialogato, ambientato soprattutto in interni, il film ha però come uniche scene d'azione gli incalzanti botta e risposta tra i personaggi. Sexy, divertenti, divertiti, regalano grande intrattenimento in una seconda metà in cui, tra un dialogo e l'altro, sorgono pericolosi malintesi e colpi di scena per via della folgorante Adria Arjona: una femme fatale per cui vivere, morire, cambiare. E uccidere? La risposta: ora al cinema, prossimamente su Netflix e il prossimo anno, pronostico, in lizza per la Migliore Sceneggiatura Originale. (7)

Solene, una gallerista d'arte quarantenne, si innamora, ricambiata, di un giovane cantante un tempo apprezzato dalla figlia adolescente. Nato come una fanfiction su Harry Styles, poi diventato bestseller, The Idea of You riesce a essere sorprendentemente credibile: non solo perché i protagonisti sono talmente belli e affiatati da superare qualsiasi differenza d'età, ma perché il regista Michael Showalter, bravissimo in materia di commedie dopo il premiato The Big Sick, eleva a buon cinema un comune vagheggiamento di Wattpad. Certo: è richiesta la massima sospensione dell'incredulità. Ma è impossibile non guardare con un sorriso inebetito gli incontri e le paure di Anne Hathaway e Nicholas Galitzine. Se lui, ormai onnipresente, è qui più convincente del solito, lei si conferma l'erede ufficiale di Audrey Hepburn e Julia Roberts: senza paura di mostrare i primi segni del tempo, è un sole. Speranzosa ma tormentata, la storia d'amore targata Amazon Prime Video dovrà confrontarsi con la sovraesposizione e il sessismo. Perché una madre innamorata deve sempre scegliere tra sé e gli altri? Perché destreggiarsi, ancora, tra chi la considera squallida e chi iconica? Nel solco di Notting Hill, una fiaba romantica con tutti i sacri crismi: surreale ma bella. E più longeva di certe boy band. (7)