martedì 31 dicembre 2024

La mia top 10: i migliori film del 2024

10. Joker: Folie à Deux – A noleggio sulle piattaforme

Dopo il primo capitolo, vincitore del Leone d’oro a Venezia, un sequel che scontenta i fan. Per me, è il film più frainteso dell’anno. Ne riparleremo quando diventerà un cult.

9. I Saw the TV Glow – A noleggio sulle piattaforme

Etichettato a torto come horror, è un’allegoria sulla disforia di genere e un’ode alle magie del piccolo schermo. La mia immancabile quota A24.

8. Anora – Attualmente in sala

Una sex worker e il suo sogno. È tutto troppo rocambolesco, tutti parlano troppo forte, ma – complice un’ottima Madison – contiene la scena più esilarante dell’anno, insieme a quella più struggente.

7. Vermiglio – Da febbraio a noleggio e in vendita

Un piccolo grande film, di sguardi parlanti e paesaggi silenti, per la quota: orgoglio italiano. 

6. Wicked – Attualmente in sala

Inclusione, disabilità, specismo. Il tutto, in uno spettacolo spettacolare a prova di gravità.

5. Povere Creature – Disney Plus

Anno bisesto, doppio Lanthimos. Ma se Kinds of Kindness scontenta, si continua a gioire delle sue collaborazioni internazionali. Guidato da una magnifica Stone, è la versione "brat" di Barbie.

4. The Holdovers – Sky

Un professore brontolone, uno studente oppositivo. Possono due solitudini completarsi? Lasciato a bocca asciutta alla stagione dei premi, è il nuovo classico delle feste.

3. Challengers – Amazon Prime Video

Lui, lei, l’altro. Il sudore, la bellezza, i corpi. Guadagnino filma lo sport come se fosse sesso e il sesso come se fosse sport. Elettrizzante, con un'iconica colonna sonora. 

2. The Substance – Attualmente in sala

L'horror per raccontare di standard impossibili e dive sul viale del tramonto. Un canto del cigno, un grido femminista, per rinascere come Demi Moore: da uno squarcio.

1. Estranei – Disney Plus

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Questa ha il merito e la colpa di avermi fatto addormentare piangendo, con Scott e Mescal che, abbracciati, si trasformano in stelle.

lunedì 30 dicembre 2024

La mia top 10: Le migliori serie TV del 2024

10. Rivals – Disney Plus

Il sesso, gli scandali, la TV. Umorismo britannico e un trio in stato di grazia. Il guilty pleasure è servito.

9. Storia della bambina perduta – Rai Play

Lila e Lenù ci dicono addio. Con loro, si chiude una delle pagine più importanti della TV italiana.

8. Qui non è Hollywood – Disney Plus

Un agghiacciante caso di cronaca diventa una miniserie di impensata empatia, ingiustamente criticata dall’opinione pubblica. I tre protagonisti offrono le migliori interpretazioni dell’anno: altro che Hollywood.

7. Dostoevskij – Sky

I Fratelli D’Innocenzo dividono anche a puntate, con una serie di asfissiante cupezza, ma con un Timi talmente tormentato da ereditare a pieno titolo il distintivo dagli sbirri di True Detective.

6. Hanno ucciso l’Uomo Ragno – Sky

La leggendaria storia degli 883 per raccontare la provincia, gli anni Novanta, l’amicizia. Un feel-good movie lungo otto ore, perfetto anche per i non fan.

5. Kaos – Netflix

Gli dei, oggi. Intrighi, sesso e potere, per una trasposizione audace come nella tradizione di Luhrmann. Non eravamo pronti a questa ventata d’originalità: l'hanno cancellata dopo una sola stagione.

4. The Bad Guy – Amazon Prime Video

La serialità italiana e la mafia: storia di una lunga relazione. Mettete tutto in discussione, però, davanti a questa commedia nera che fa tramare lo Stato e le vene dei polsi. Lo Cascio è il Conte di Montecristo che né Niney né Claflin potranno eguagliare.

3. Baby Reindeer – Netflix

Una miniserie shock per svelare il più grande dei tabù: la vulnerabilità maschile.

2. Expats – Amazon Prime Video

Siete stanchi di vedere la solita Kidman – algida, manierata, noiosamente perfetta? Ammiratela qui, in un dramma lacerante tutto al femminile, in cui smarrisce il suo bambino a Hong Kong. Ma ritrova l’immensità di cui l’avevamo scordata capace.

1. L’arte della gioia – Prossimamente su Sky

È arrivata al cinema la scorsa estate, ma è attesa sul piccolo schermo al principio dell’anno nuovo. Preparatevi a essere sedotti. Spregiudicate e machiavellica, Golino conquista Cannes e consacra il talento di Tecla Insolia: è nata una star. 

domenica 29 dicembre 2024

La mia top 10: le migliori letture del 2024

10. Le nostre mogli negli abissi – Julia Armfield (Bompiani)

Nell'anno di The Substance, un altro body horror, un'altra allegoria: un amore alla deriva in mari ignoti. 

9. Il male che non c'è – Giulia Caminito (Bompiani)

Il precariato, l'ipocondria, i trent'anni. Che paura riconoscersi, che liberazione leggerlo.

8. Day – Michael Cunningham (La Nave di Teseo)

Esiste una saga lunga un giorno? Per gli appassionati di Leavitt e Cameron, la foto di una famiglia al tempo del lockdown a cui è impossibile non affezionarsi.

7. Settembre nero – Sandro Veronesi (La Nave di Teseo)

Un romanzo di formazione semplice e complicatissimo, dolce e straziante. Proprio come ricordare la leggerezza dell'infanzia, una volta che è passata.

6. Triste Tigre – Neige Sinno (Neri Pozza)

Può una violenza aberrante trasformarsi in una lettura bellissima? Un po' saggio, un po' memoir, la scabrosa Sinno scava nel suo passato e nel petto del lettore. 

5. I giorni di Vetro – Nicoletta Verna (Einaudi)

Verna cambia genere, cambia forma, per un'epopea tragica che ricorda Elsa Morante.

4. Trilogia della città di K. – Agota Kristof (Einaudi)

Tre racconti intrecciati, due fratelli indimenticabili nella crudeltà e nell'innocenza, un grande recupero. Raramente capita di leggere un romanzo degli anni Ottanta e pensare: è un classico.

3. Intermezzo – Sally Rooney (Einaudi)

Ogni suo romanzo è un evento. La amano, la odiano. Amano odiarla. Ma Rooney è la voce di una generazione, la mia, e ogni sua storia è un colpo al cuore. Attendiamo la prossima.

2. L'arte della gioia – Goliarda Sapienza (Einaudi)

Nel centenario della nascita di Sapienza, ho conosciuto la sua Modesta. Un'eroina che si muove nei primi del Novecento, ma che veniva già dal futuro. Un'esperienza indimenticabile.

1. Wellness – Nathan Hill (Rizzoli)

L'ho letto, amato, consigliato. Se un romanzo conta seicento pagine ma vorresti fossero molte di più, se la romcom incontra l'antropologia, se Franzen conosce Rooney, allora il capolavoro è servito.

venerdì 27 dicembre 2024

Made in Italy: The Bad Guy | Storia della bambina perduta | Qui non è Hollywood | Hanno ucciso l'Uomo Ragno

È una delle serie dell’anno corrente, ma lo sarebbe stata anche di quello passato. L’ho recuperata in ritardo, con ben due stagioni a disposizione. The Bad Guy non è ciò che sembra. Vedi Lo Cascio, leggi “mafia”, immagini la solita serie italiana: un giudice coraggioso, una lotta prometeica, una morte gloriosa. Dimenticatelo. Perché Nino, da anni impegnato nella caccia al latitante Suro, viene incastrato. Creduto morto, torna con una nuova identità. Non vuole vendicarsi soltanto del boss, ma dello Stato. Intrigante come il Conte di Montecristo, caustico come Walter White, un brillante Lo Cascio compie una rapida ascesa al fianco dei cattivi. Riuscirà a non sporcarsi le mani, tra pizzi, appalti e clan da aizzare l’uno contro l’altro? Dirige un duo, ma, nonostante lo splatter e l’ironia pungente, non si tratta dei Coen. Vulcanici e con ambizioni internazionali, Fontana e Stasi guidano un cast in stato di grazia – al suo meglio Pandolfi, sorprendente Catania, folgoranti Maenza e Caramazza – in una commedia nera che immagina un covo criminale in un parco acquatico e perfino il ponte sullo Stretto. Tra una risata e l’altra, non mancano cenni all’attualità né invettive. Nemmeno il Ministro degli Interni è senza colpe: ha assoldato il sicario Accorsi per mettere a tacere ogni dissenso. Il più buono, insomma, ha la rogna. Il più cattivo, invece, si è meritato una serie così. (8,5)

Lila e Lenù ci dicono addio per sempre. A sei anni dalla prima stagione, a dieci dall’ultimo romanzo, si congedano. Mazzucco e Girace, troppo giovani per interpretare due quarantenni, cedono il posto a Rohrwacher e Maiorino seminando qualche dissenso in rete. Mentre Maiorino non scontenta, aiutata da una forte somiglianza con l’interprete precedente e da una napoletanità che la rende, a tratti, troppo teatrale, Rohrwacher è stata una scommessa vinta: il suo accento lascia un po’ a desiderare, ma compensa con due occhi parlanti, silenzi pieni di significato e un fascino che ricorda quello di Monica Vitti. La migliore del cast, però, è Vitolo: nei panni dell’anziana Imma è di un’intensità straziante. Dirige Bispuri, finalmente una donna, e si nota dai dettagli. Entrambe nel rione, entrambe madri, le protagoniste tornano inseparabili come lo erano da bambine. Ma, tra le macchinazioni dei Solara e una tragica sparizione, perfino dieci episodi sembrano pochi per contenere i misteri della “smarginata” Lila. Nonostante la cura di regista e sceneggiatori, Storia della bambina perduta non è stata accolta all’unanimità: è l’adattamento più arduo dei quattro. Matura ma imperfetta, densa ma dalla forza altalenante, la quarta stagione ci lascia definitivamente orfani di Ferrante. (7,5)

Perché siamo tutti ossessionati dalle serie true crime, ma ci indigniamo quando a produrle sono gli italiani? Accolta tra polemiche e sabotaggi – troppo brutto il poster, troppo messa in cattiva luce l’innominabile Avetrana –, la serie del sorprendente Pippo Mezzapesa è da vedere senza pregiudizi di sorta. Asciutta e accurata, ma caratterizzata da uno sguardo fortemente autoriale a metà tra il cinema grottesco dei Fratelli D’Innocenzo e i southern gothic americani, non cede a facili illazioni. Qui non è Hollywood vuole raccontare l’irrequietezza adolescenziale, una provincia da Far West, lo sciacallaggio a opera di giornalisti e compaesani: mai proporre nuove ipotesi a proposito di colpevoli presunti o moventi. Quattro episodi, quattro punti di vista, un cast impreziosito da alcuni fra gli attori più intensi dell’annata: le irriconoscibili Perulli e Scalera, al centro di una impressionante trasformazione da Actors Studio, e uno struggente De Vita. Il risultato è un folk horror dall'impianto originalissimo. Un meticoloso scavo psicologico. Un’ode alle gioventù invisibili, mentre i Queen cantano di eternità e gli altri, indifferenti, passano oltre: perché il tuo caso, Sarah, ormai conta più di te. Questa serie, a quindici anni dal delitto, ripristina finalmente l’ordine. (7,5)

Non è necessario essere fan accaniti della musica degli 833 per recuperare e amare la serie TV a loro dedicata. L’ottimo Sidney Sibilia, da sempre appassionato di strane storie vere, utilizza l’ascesa del curioso duo di Pavia per raccontarci la provincia italiana, l’industria musicale degli anni Novanta, la storia di un’amicizia lunga e ispiratissima. Dalla scoperta casuale della musica (tutto per conquistare la ragazza più bella del liceo) alla fatica per imporsi (a dispetto del successo istantaneo riscosso, i nostri eroi erano considerati troppo impresentabili per la televisione), la prima stagione della serie Sky è molto più che un canonico biopic: un feel-good movie lungo otto ore che funziona sia come appassionante romanzo di formazione, sia come juke-box tutto da cantare. Tra disavventure rocambolesche e cameo divertentissimi (i giovani Fiorello, Jovanotti, Maria De Filippi), Hanno ucciso l'Uomo Ragno si rivela un’ode al cuore puro di Repetto. Max Pezzali cantava. Cosa faceva, invece, il danzerino Mauro? Ancora prima che esistessero, era il più grande fan degli 833. Come Elia Nuzzolo, bravo ma acerbo, avremmo tutti bisogno di un motivatore che somigli a Matteo Oscar Giuggioli: è nato un nuovo stato d'animo, è nata una star. (8)

lunedì 23 dicembre 2024

Recensione: L'avversario, di Emmanuel Carrère


| L’avversario, di Emmanuel Carrère. Adelphi, € 17, pp. 169 | 

Ho scoperto la tragedia greca negli anni del liceo classico. Personaggi oscuri, argomenti tabù, epiloghi sanguinosi. Ma, al termine di un'inarrestabile catena di nefandezze, ecco sopraggiungere la catarsi. Ci si può sentire liberati dopo una lunga esposizione alla violenza? Può la sperimentazione del male renderci meno estraneo il prossimo nostro? Emmanuel Carrère, oggi autore che non ha bisogno di presentazioni, al tempo dei fatti era conosciuto soprattutto come critico cinematografico. Fu un caso di cronaca nera a ossessionarlo e consacrarlo, facendone un osservatore più attento e, soprattutto, un narratore più empatico. In una comunità tra la Francia e la Svizzera, nei primi anni Novanta, lo stimatissimo Jean-Claude Romand sterminò i suoi cari. Se il gesto non ci stupisce, tristemente assuefatti come siamo a notizie altrettanto agghiaccianti, a farci rabbrividire è il resto della vicenda: la vita dell'assassino (medico presso l'OMS, padre amorevole, figlio devoto) era, infatti, una menzogna. Non era nemmeno laureato.

Una dolorosa lucidità è preferibile a una pace illusoria.

Narcisista patologico, impostore, mitomane, Romand raccontava bugie da vent'anni. E da vent'anni, invano, aspetta di essere scoperto. Come hanno potuto gli amici, i parenti, l'amante, credergli? In che modo ha pagato la scuola privata ai due figli, le macchine costose, i viaggi all'estero? Cosa faceva tutte le mattine quando non andava a lavorare? Sulle sue orme, Carrère gli scrive lettere; lo studia durante il processo, per poi vederlo diventare un detenuto modello; immagina di seguirlo nei parcheggi desolati, nelle stanze d'albergo, nei vuoti di una routine fantasma. Romand aveva una doppia identità o, a ben vedere, nessuna? Come Capote prima di lui, come Lagioia dopo, Carrère mette una scrittura dalla lucidità giornalistica al servizio della verità - sempre che esista. E, in un reportage che ha il ritmo dei migliori thriller, scandaglia una famiglia all'apparenza divorata dalla putredine e gli abissi di un personaggio pirandelliano.

Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.


Additato dai media come l'incarnazione dell'incubo, il protagonista del romanzo custodiva un silenziatore in una confezione regalo e una ricca collezione di maschere. Chi era in borghese, a nudo? Forse nessuno, ci dice Carrère, in un'opera pubblicata dopo cinque anni di tagli, riscritture e ripensamenti. Ha tentato di dare al carnefice profondità psicologica, redenzione, perdono. Ma forse, amaramente, gli ha assicurato soltanto l'ennesimo ruolo da interpretare; un'altra maschera dietro cui schermarsi. “Sono un essere umano”, scriveva Terenzio, “tutto ciò che è umano mi riguarda”. E il disumano, invece?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Talking Heads - Psycho Killer 

venerdì 13 dicembre 2024

Recensione: La torre d'avorio, di Paola Barbato


| La torre d’avorio, di Paola Barbato. Neri Pozza, € 20, pp. 416 |

Mi dichiaro colpevole. Avevo dimenticato quanto brava fosse Paola Barbato. Autrice tanto talentuosa quanto prolifica, ha scritto tutto e dappertutto: dai fumetti per Bonelli ai romanzi a puntate su Wattpad. Elegante come non mai, entra nella scuderia Neri Pozza per seminare colpi di scena e conferme. Incalzante, adrenalinico, tesissimo, La torre d'avorio è una caccia all'uomo — anzi, alla donna — che non conosce tregua. Ma è, soprattutto, la storia di un gruppo di personaggi femminili dalla psicologia oscura, qui scandagliata senza pregiudizi. I nostri demoni, infatti, sono al sicuro con Barbato. E tra reiette, a sorpresa, può nascere anche un commovente senso di famiglia. Prendete La pazza gioia, il capolavoro di Paolo Virzì, e vestitelo di nero: dategli una macchina con il serbatoio pieno, sicari alle calcagna e un'arma a portata di mano. Il romanzo è la storia della seconda vita di Mara: ormai cinquantenne, vive sotto falso nome in un appartamento stipato di scatoloni e rimorsi. Un decennio prima i notiziari l'hanno dipinta come una spietata femme fatale: affetta dalla sindrome di Münchausen, aveva avvelenato i suoi familiari. Tutto per prendersi cura di loro e mostrarsi, così, la madre modello richiesta dalla società.

È come se avessi dentro una belva addormentata. E finché non sarò sicura che sia morta, farò di tutto perché nessuno si avvicini.

È possibile sfuggire al proprio passato, se qualcuno ci ha intrappolato in un'imprevedibile macchinazione? Accusata di una lunga catena di nuovi avvelenamenti, la protagonista fugge. E ritrova Moira, ex bancaria che investì la dirimpettaia per via di un parcheggio conteso; Fiamma, che sfoga il suo pericoloso sex appeal su Onlyfans; Maria Grazia, che, vessata in casa e al lavoro, sparò al suo capo; Beatrice, splendida ereditiera morbosamente ossessionata dai defunti. Amiche per la vita e per le morte, le protagoniste sono talmente ben caratterizzate che ognuna meriterebbe un romanzo a sé. Strette da un legale indissolubile, costituiscono il pregio maggiore di un romanzo dallo straordinario cast d'insieme destinato a una seconda parte, però, inutilmente rocambolesca e improbabile. Superfluo anche lo strascico finale. All'inizio fortemente claustrofobico, La torre d'avorio diventa poi un tour de force sui misteri insolvibili della mente umana e sulle imperfezioni dell'essere genitori. Mara non è sola. Mara non è guarita. Non ci si riprende mai, infatti, dall'inferno di sé stessi. La bestia che ha dentro non è morta: dorme. Brutalmente oneste, le nostre antieroine hanno nostalgie profonde ma nessuno senso di colpa. Radioattive, recidive, animano uno dei romanzi più vitali dell'anno. Anche se, paradossalmente, lo scoprirete pieno di morti.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Alice Cooper – Poison

mercoledì 4 dicembre 2024

Recensione: Intermezzo, di Sally Rooney


| Intermezzo, di Sally Rooney. Einaudi, € 22, pp. 432 |

Mio nonno è morto il mese scorso. Sono stato io a comunicarlo a mio fratello: raramente risponde alle telefonate di nostra madre. Ci siamo incontrati il mattino successivo a Porta Nuova. Avevo preso i biglietti per entrambi. L'ho rimproverato: vestiva leggero, era in ritardo. Se sono a Torino, in parte, è merito suo. Quando la nostra famiglia è implosa, lui è stato il primo a mettersi al riparo lontano. Siamo diversi. Siamo superstiti.
Sensibile come sempre, adulta come mai, Sally Rooney mi si è intrufolata nel profondo, sotto pelle, con una storia di elaborazione e fratellanza. Il suo ultimo romanzo è una camera ardente. Un lungo intervallo prima di tornare alla vita. È possibile che questo Intermezzo in cui rintanarsi in attesa che il peggio passi ci riservi, a sorpresa, anche il meglio? È auspicabile augurarsi che la quiete della stasi, che la ritrovata libertà dopo mesi di reparti oncologici, durino per sempre?

Lei fa una specie di tremolante risata. Be’, se c’è un Dio, dice, sono sicuro che ti ama molto. Lui abbassa gli occhi. Sì, a volte lo riesco a sentire. Tipo quando sono con te.

Peter, trentenne all'apparenza perfetto, è in cerca del suo centro. Imbottito di antidepressivi, si divide tra due donne: Sylvia, l'indimenticata ex tormentata dai dolori cronici; Naomi, un'universitaria con una pagina Onlyfans e un appartamento occupato abusivamente. Il secondogenito, Ivan, è una promessa degli scacchi mancata: goffo e asociale, si innamora di Margaret, una deliziosa neodivorziata con dieci anni di troppo. Combattuti tra desiderio e pregiudizio, i fratelli Koubek vivranno clandestinamente la bigamia e l'incanto di un colpo di fulmine. Alle prese con l'incompiuto, cercheranno conforto nel calore di un corpo nudo e nel piacere di rivelarsi a un'amante inconsapevole. Pretenderanno di amare ed essere amati: troppo? Galeotta, come sempre, la piovosa Dublino. I cappotti non sembrano mai pesanti a sufficienza e ogni conversazione è destinata a tramutarsi in nuvole di vapore: tanto vale affogare la malinconia nelle sbronze infelici, nel sesso riparatore, anche se, cerebrali al solito, i personaggi inciamperanno nei loro atti mancati al risveglio. Li si spia senza palesarsi. Li si legge senza prender nota. Tra le pagine c'è un'intimità tale che ogni voce improvvisa, qualsiasi fruscio, minaccerebbe di infrangerla. Non sempre, tuttavia, siamo altrettanto delicati con coloro che amiamo. Io e Peter giudichiamo aspramente le scelte dei nostri fratelli - come si vestono, chi frequentano, cosa fanno del loro denaro. Ci arroghiamo il diritto di essere i boia più imparziali. È per ispessire loro la pelle, per rafforzargli le ossa. Per proteggerli dal mondo.

Nessuno è perfetto. A volte hai bisogno che le persone siano perfette e loro non riescono a esserlo e allora le odi per sempre perché non lo sono anche se non è colpa loro, e neanche tua. È solo che avevi bisogno di qualcosa che loro non potevano darti. E poi capita lo stesso a te con altre persone, sei tu quello che non soddisfa le aspettative, che non riesce a far andar meglio le cose, e ti odi così tanto che vorresti essere morto.

Da sempre custode degli equilibri familiari, il primogenito mette al vaglio ogni errore del più piccolo: hanno idee agli antipodi e vivono un lutto che, anziché unirli, minaccia di separarli - parlo di loro, parlo di noi, non lo so più. Chi avrebbe pronunciato l'elogio funebre migliore? Che fine farà il cane, rimasto senza padrone? Dove passeranno il prossimo Natale? L'unico in grado di conciliarli, quel padre dell'est umile e arrendevole, non c'è più. Pensosi, i Koubek litigano per tutto e per niente. Si bloccano su WhatsApp. Vengono alle mani. Ma, con le labbra spaccate e le nocche livide, finiscono per trovare poi scampo nei luoghi in cui sono stati bambini. Quando, al telefono, gli amici di famiglia confondevano le loro voci. Quando, nelle fotoricordo, si somigliavano. Essere simili agli occhi degli altri era la fonte di irritazione e orgoglio più grande. Siamo fratelli. Siamo specchi. Non sappiamo perdonare al sangue del nostro sangue il difetto di essere imperfetto. Non sappiamo perdonarci. Al funerale di mio nonno abbiamo visto cugini che non frequentavamo da un decennio. La notte, poi, abbiamo dormito in due letti appiccicati. Sembrava di essere tornati nei giorni terribili della separazione dei nostri genitori. Segretamente, tra me e me, però, li ricordo anche belli. Non siamo mai stati altrettanto complici come allora.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Calcutta – Tutti 

sabato 30 novembre 2024

Sulla bocca di tutti: Wicked | The Substance | Anora | Parthenope

Smisurato, opulento, coloratissimo, resterà lo spettacolo spettacolare di queste feste. Messo in scena a Broadway da oltre vent'anni, Wicked è un classico del musical che aspettava di arrivare al cinema da un po'. L'ha spuntata, infine, Jon M. Chu: dopo in In the Heights, il regista torna con agilità al genere e raduna un cast impareggiabile. Se il film elettrizza non è soltanto per le scenografie degne delle magie di Hogwarts, né per le coreografie trascinanti (il numero migliore è affidato a Bailey: irresistibile principe-ballerino in fuga dai cliché), ma per l'affinità alchemica tra Erivo e Grande. Se la prima impersona con fierezza un'emarginata dalla pelle verde e dagli acuti struggenti, è la popstar la vera rivelazione: frivola e appariscente, stupisce per gli eccezionali tempi comici e per l'adesione al personaggio. Molto più di un semplice prequel, Wicked punta il dito contro le macchinazioni dei potenti: il potere è un'illusione ottica e la diversità può diventare strumento di propaganda. Divisa tra orgoglio e repressione, Elphaba cerca il suo posto nel mondo in una fiaba che parlava di inclusione, disabilità e specismo ben prima dell'algoritmo di Netflix. Onesto e mai didascalico, il film giunge forse in ritardo a ribadire il messaggio, ma conserva la purezza disarmante di chi fa le cose per la prima volta. Se vi siete sentiti incompresi, qui troverete un senso di appartenenza che vi farà sentire parte di una grandiosa coreografia a prova di gravità. Non abbiate paura di apparire scoordinati: la vita, a tempo debito, vi ha già insegnato tutti i passi. (8)

Non c'è amante più ingrato dello show business. Cinquant'anni sono troppi, decreta, e a poco servono le sedute di ginnastica sfiancanti o i bisturi dei chirurghi. Hollywood si è trasformata in un tritacarne anche per Demi Moore. A lungo lontana dagli schermi, l'ex sex symbol degli anni Novanta si mette a nudo con un ruolo a tratti autobiografico. Non è un canto del cigno, questo, ma un ritorno di fiamma. Fargeat, bravissima in materia di vendette, le cuce addosso un “revenge dress” impossibile da ignorare, con un profondo scollo sulla schiena: è da lì, dalla carne viva, che sbuca Margaret Qualley — la versione più giovane, bella, soda di Demi. Chi vorrebbe tornarsene in un anonimato fatto di comfort food e appuntamenti mancati quando il proprio alter-ego giganteggia, intanto, sui manifesti pubblicitari? Glamour e ributtante, puntuale tanto nei rimandi filmici — Kubrick, Cronenberg, Zemeckis — quanto nelle scudisciate al patriarcato, l'horror premiato a Cannes si confronta con il tema del doppio per riflettere di standard irraggiungibili, competizione femminile, fallocentrismo. La regista escogita un brillante contrappasso di aghi e tagli, escrescenze e secrezioni, dove i mostri del gotico inglese (Frankenstein, Gray, Jekyll e Hyde) trascinano in un amplesso insanguinato tutte le dive tristi raccattate lungo il viale del tramonto (Swanson, Davis, Crawford). Irreversibilmente intrecciati, i morti di fama formeranno una creatura plasmata dai desideri più meschini degli uomini. Per non chiamarci mostri, la chiameremo mostro. (9)

Qualche anno fa, per un addio al celibato, sono stato in uno strip club. Ricordo il vago imbarazzo e la fascinazione verso le spogliarelliste: maestose, ti sussurravano all'orecchio proposte di privé e storie personali. L'ultima protagonista di Sean Baker avrebbe potuto essere una di loro. Giovane e piena di dignità, fa del palo un mezzo di ascesa sociale. Quale sarebbe il risultato se i Coen o Tarantino dirigessero una commedia romantica? Fresco di Palma d'oro, Baker firma un tour de force spassoso e tentacolare, destinato a una deriva rocambolesca in cui questa novella Pretty Woman rischia, a tratti, di scomparire. In cerca del viziato neomarito in fuga, una Mikey Madison da Oscar dà anima e corpo a una sex worker candida e sboccata, divisa tra romanticismo e rivalsa. A proprio agio con il sesso, ma terrorizzata dall'intimità, ci regala la scena più esilarante dell'anno (il tentativo dei tirapiedi russi di rabbonirla) e quella più struggente (l'epilogo in macchina). Il volume delle conversazioni resta troppo alto per i miei gusti. La dimensione corale sposta frequentemente il focus sui lazzi comici dei comprimari. Ma Anora, per fortuna, riconquista le attenzioni dello spettatore proprio in chiusura, spalleggiata da uno scagnozzo dal cuore d'oro. Quando la volontà di potenza, ormai annientata, ti lascia con l'amaro in bocca e il risveglio dal famoso sogno americano ti strappa dagli occhi, infine, il pianto di un bambino deluso. (7,5)

Sedotta e abbandonata da Ulisse, Parthenope si tolse la vita schiantandosi sugli scogli. Napoli è sorta lì: sulla scena del crimine di un amore infelice. La protagonista dell'ultimo Sorrentino e la sirena di Omero hanno in comune ben più del nome. Ma mentre il personaggio leggendario muore tragicamente, la Parthenope di Paolo Sorrentino scoppia di vita in un film che ha la grazia, l'incanto e la presuntuosità della gioventù. Interpretata da Celeste Dalla Porta, abbagliante come lo fu soltanto Bellucci in Malena, cerca dappertutto sé stessa: mai negli occhi degli uomini, anche se tutti (dallo scrittore omosessuale interpretato da Gary Oldman al fratello incestuoso) ne sono invaghiti. La tenteranno le chimere del cinema e i rituali dei clan malavitosi, la corruzione del clero e il mondo accademico. Per il resto, c'è Sorrentino che fa Sorrentino: immagini e colonna sonora si sposano in fantasmagorie barocche; gli inserirti onirici, parodici e grotteschi abbondano; le sequenze memorabili — il ballo a tre sulle note di Cocciante — sono giustapposte a sequenze troppo slegate. Cosa pensa Parthenope? Cosa pensare, soprattutto, di Parthenope? Il film e la sua protagonista hanno la risposta sempre pronta, ma si trincerano dietro snervanti aforismi. Si schermano dietro veli, vetri, maschere per nascondere e amplificare i loro misteri. Sono un miracolo o una truffa? Il dubbio resta, anche se uno sguardo di Dalla Porta — un'altra disunita, un'altra grande bellezza — scioglierebbe finanche il sangue di San Gennaro. (7)

lunedì 25 novembre 2024

Recensione: Settembre nero, di Sandro Veronesi


|Settembre nero, di Sandro Veronesi. La nave di Teseo, € 20, pp. 304 |

Non faccio testo, penserete. Avevo amato il romanzo precedente e per un breve periodo avevo pensato finanche di tatuarmelo, un colibrì. Perfino i detrattori, però, concorderanno con me su un dettaglio: al di là degli sfoggi di bravura, oltre le improbabili tragedie, a brillare di luce propria era un capitolo dedicato alla collezione di Urania della famiglia Carrera. Settembre nero è infuso della stessa luce, è scritto dallo stesso Veronesi — quello meno manieristico e più malinconico. A dispetto del titolo, il suo è romanzo pieno di colori. Piccolo e lineare, ma non per questo meno complesso, è ambientato negli anni Settanta. La TV si è lasciata alle spalle il bianco e nero. I mangianastri cantano Bowie e Stevens. Le Olimpiadi incantano grandi e piccoli. Gigio, dodici anni, non sa ancora che tutto sta per cambiare: l'hard rock dei Led Zeppelin, col senno di poi, gli sembrerà profetizzare il terremoto in arrivo.

Se mi chiedessero di dire quale sia stato il singolo momento della mia prima vita in cui sono stato più felice, direi quello. Sul cedro. A guardare Astel da vicino. A non baciarla.

Candido e curioso come un novello Charlie Brown, il protagonista è ossessionato dallo sport, dai fumetti e dai segreti degli adulti: al Bagno Stella, in Versilia, si intrufola sotto le cabine in cerca delle loro dimenticanze e origlia come una spia le conversazioni dietro le porte chiuse. Il suo corpo cambia, cresce e stravolge i connotati senza prima avvisare. Allo stesso modo appaiono inarrestabili le dinamiche che minacciano di far scoppiare la bolla che il papà, avvocato, ha creato per proteggere il protagonista e la sorellina. Cosa lo trattiene in città? Perché sua moglie, un'irlandese dai capelli rossi come l'alba, è costretta a curare da sola le ustioni di quei figli troppo pallidi per sopportare tre mesi di villeggiatura? A distrarre Gigio c'è Astel: mulatta e con la testa fitta di treccine, è la ragazzina perfetta con cui spartire l'attesa di un bacio e l'amore per i cantanti americani. Cosa dicono quei testi? Gigio, bilingue, diventerà traduttore per amore. Accompagnato da una colonna sonora di divorante nostalgia, Veronesi rievoca un'epoca e una stagione precise, nonché l'insostenibile leggerezza dell'avere dodici anni. Si credeva a Babbo Natale fino alle scuole medie, il riposino pomeridiano era un imperativo categorico, il razzismo e la malizia apparivano come idee indefinite. La cronaca parlava di scandali e attentati; il conflitto israelo-palestinese teneva Monaco in scacco.

Non ho mai incontrato nessuno al quale sia successo così presto, e inaspettatamente, e precipitosamente, e brutalmente, e irreversibilmente, quello che è successo a me. Da non riuscire più a ricordare com'era fatta, quella vita che fu spazzata via; non non poter mai più dimenticare d'averla vissuta.

La storia del mondo è destinata a intrecciarsi a quella di Gigio, in questo struggente romanzo di formazione con echi di Il buio oltre la siepe e un'attenzione tutta nuova verso le emozioni dei giovanissimi, spesso minimizzate. Veronesi prende le vicissitudini del suo protagonista profondamente sul serio e traduce in immagini l'intraducibile. Perché ci saranno anche scioglilingua dotati di un significato criptico in versione originale, traduzioni italiane fatte di assonanze e libere perifrasi, ma Veronesi non ha bisogno di simili espedienti. Riesce a descrivere alla perfezione lo stupore per le isole che affiorano all'orizzonte, l'odore del sole — quel misto, insomma, di crema solare e materassini di gomma —, l'angoscia che le lezioni riprendano troppo presto. L'arrivo di settembre rappresenta la perdita dell'innocenza. Questo romanzo, per fortuna, è un'eterna estate. Sono stato al mare, così, anche a Torino, a novembre. Sono stato bambino anche a trent'anni.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Cat Stevens - When The Children Play

venerdì 22 novembre 2024

Come (non) fare un sequel: Il Gladiatore II | Folie à Deux | Giorno 1| Beetlejuice Beetlejuice | MaXXXine

Se ho fatto il classico, la colpa è del Gladiatore. Epico, intriso di retorica e romanitas, è un bignami del mondo antico. In un'epoca senza idee, non stupisce l'idea di un sequel: l'ottantaseinne Scott è in forma e il cast è perfino quello delle grandi occasioni. Godibilissimo, il film è uno spettacolo dalla CGI discutibile in cui il protagonista è chiamato a lottare contro scimmie, rinoceronti, squali. Riuscirà a perdonare la madre e a realizzare il sogno di Marco Aurelio? Dappertutto aleggia il ricordo di Massimo, ma Lucio non ha né il carisma né l'emotività del suo predecessore: colpa di Mescal, totalmente fuori parte nel primo ruolo hollywoodiano. La riflessione politica resta l'elemento più stimolante. In una Roma logorata dall’imperialismo, tutti, schiavi compresi, sognano il potere. Tra il prode Pascal e il gigioneggiante Quinn, a spuntarla è il grande Washington: luciferino, eleva un copione frutto dell'AI a un'allegoria dell'America contemporanea. Ma tutto è talmente senz'anima che bisogna aspettare le note della vecchia colonna sonora per avvertire un brivido in poltrona. Il Gladiatore II non contribuirà al crollo delle iscrizioni al classico, ma non troverà nuove generazioni da ispirare con il mito della Città Eterna. (5,5)

Chi scrive considera il musical una delle più alte forme di cinema e aveva reputato Joker un crime in cui tutto era spettacolare, violenza compresa. Folie à Deux è troppo stridente per essere uno degli incanti omaggiati dalla colonna sonora: i protagonisti intonano a cappella le loro battute e soltanto raramente la dimensione del musical li sottrae alla solitudine, alla malagiustizia, al voyeurismo. Fleck vorrebbe inoltre rinunciare a Joker: il pubblico ha trasformato un uomo bipolare in un supercattivo. Metacinematografico, antinarrativo e anticlimatico, il film si fa odiare non tanto per il suo essere a cavallo tra generi, né per una Gaga con le labbra troppo gonfie di filler, ma per il suo essere una sconfessione del primo: la decostruzione di un antagonista a lungo glorificato; un dito medio al people pleasing. Phoenix interpreta il Joker da cui nessun ragazzino vorrebbe vestirsi a Halloween. Noi siamo la folla fuori dal tribunale: confidiamo nella sedia elettrica. Le sue groupie: ragazze in cerca di brividi facili. Gli spettatori che all'uscita dalla sala digitano: che merda, evitate, cos'hanno fatto. A Joker, in un gesto prometeico, Phillips ha restituito l'umanità e strappato la maschera. Meglio essere centomila clown, o nessuno? È il dilemma di un'operazione bellissima e incompresa, in cui, grazie al regista, Arthur non rischia mai di essere un personaggio in cerca d'autore. Amaramente, però, resterà in cerca di pubblico. (8)

L'apocalisse è ormai qui. I mostri sono tra noi. Grazie alla famiglia Abbott, conosciamo ampiamente le regole del gioco: è severamente vietato fare rumore. John Krasinski cede lo scettro a Michael Sarnoski, già regista del delicatissimo Pig, ma poco cambia. Questo prequel, che dovrebbe raccontare l'origine dell'invasione, in realtà nulla aggiunge e nulla toglie alla mitologia di A Quiet Place. A fare la differenza è l'intensità straordinaria dei protagonista: Lupita Nyong'o, una malata terminale aggrappata alla poca vita che le resta, e Joseph Quinn, expat tormentato dagli attacchi di panico che apre finalmente l'horror alla vulnerabilità maschile. Al bando il rumore, si diceva. Ma gli sguardi espressivi del cast urlano paura, confusione e tenerezza in ogni frame. Narrativamente Giorno 1 è un'operazione senza nessuna sorpresa, ma sa commuovere fino alle lacrime grazie al collage di brutture e gentilezze di cui il genere umano si dimostra capace. L'inno alla vita che non ti aspetti? Arriva da un blockbuster pieno di morti. Un incrocio tra La guerra dei mondi e Soul, dove sfogliare poesie sulle rovine fumanti di una libreria, sognare una pizza da asporto e carezzare un gatto rosso ci aiuterà a sconfiggere la solitudine e altri mostri. (7,5)

È da Sweeney Todd, arrivato in sala nel lontano 2007, che Tim Burton fatica a trovare l'ispirazione. Dopo oltre un decennio di progetti dimenticabili, attraverso i quali il regista ha rischiato pericolosamente di diventare la caricatura di sé stesso, se ne torna nella comfort zone con il seguito di uno dei suoi cult. Non ho dovuto aspettare trentasei anni, io, per conoscere il destino dei protagonisti di Beetlejuice: ho recuperato il primo soltanto di recente e senza euforia. Questo ritorno, agli occhi di uno spettatore dell'ultima ora, è parso un amabile e divertente casino. Tre generazioni di donne a confronto, una moglie vendicativa, vecchi amori (Keaton, Rider, O'Hara) e nuovi (Ortega e Bellucci: magnetica presenza, quest'ultima, poco sfruttata) vengono riuniti nella stessa casa, qui curiosamente vestita a lutto. Macabro ma tenero, spaventoso ma innocuo, l'ultimo Burton strizza l'occhio a generazioni vicine e lontane: non osa sorprese, in una sceneggiatura semplice e un po' frettolosa, ma ci regala un paio di sequenze memorabili (una, in bianco e nero, è un omaggio al cinema di genere del nostro Mario Bava) e idee fresche fresche per Halloween. Dopo svariati flop, ci si accontenta. Anche se, Tim, ti piace vincere facile? (6)

C'era grande hype per la fine della trilogia di Ti West, iniziata con X (slasher anni Settanta sulla solitudine della vecchiaia) e poi proseguita con Pearl (cult istantaneo finito nel meglio della scorsa annata). Maxxxine, ben più sponsorizzato e distribuito in sala in pompa magna, è l'apoteosi della nostra eroina texana dal corpo da pin-up e dai metodi poco ortodossi: dopo il suo esordio nel porno ha finalmente raggiunto Hollywood, ma il passato la perseguita. Si tratta, tuttavia, del punto più basso toccato dalla serie. Ambientato negli abusati anni Ottanta, in cima alle colline rese per sempre immortali da Mulholland Drive, il film si rifà pedissequamente ai thriller erotici di Argento, Fulci, De Palma. L'assassino ha mani guantate, semina qualche morto ammazzato, ma la sensualità scarseggia e il gioco di citazioni continue, questa volta, si inceppa e annoia. Senza particolare ispirazione, West vive della luce riflessa della sola Mia Goth, nel frattempo diventata la star che ci si auspicava; ma, in un cast inutilmente sopra le righe, a crederci sembrano essere soltanto lei e un'algida Elizabeth Debicki, perfetta nei panni di una regista donna in un'industria misogina. Un plauso alla sequenza ai piedi del Bates Motel: ho sempre trovato il sequel di Psycho degno di una riscoperta tardiva. Ma oltre gli omaggi, “sotto il vestito”, niente. (5)