sabato 30 gennaio 2021

Recensione: La saga di Vigdis, di Sigrid Undset

| La saga di Vidgis, di Sigrid Undset. Utopia, € 18, pp. 170 |

Ho finito di leggere questo romanzo durante la mia supplenza in quinta liceo. I ragazzi stavano facendo il compito di latino. Terminando La saga di Vigdis, opera di un'autrice Premio Nobel per la Letteratura nel 1928, ho pensato proprio ai banchi di scuola. All'ora di epica negli anni del ginnasio. Alla letteratura latina e greca del liceo. Quando in poco spazio – quello esiguo di una versione, quello di una melodiosa strofa in endecasillabi – erano condensati mondi interi, lunghe avventure per terra e per mare. Questo succede anche nell'ultima pubblicazione Utopia, precedentemente arrivata in libreria con Iperborea. Una storia d'onore e vendetta, d'amore e morte, che si dipana nell'arco di un ventennio di lotte ma che su carta dura 170 pagine appena. I capitoli sono snelli; lo stile di Sigrid Undset è semplice e immediato; il linguaggio – fatto di epiteti infraintendibili e attributi altisonanti – ricorda le particolarità dei racconti tramandati a voce. Della narrativa orale, però, il romanzo presenza anche i limiti: alcuni episodi appaiono dettagliatissimi, altri vengono riassunti sbrigativamente; alcune digressioni lasciano spazio a canzoni e miti popolari, a discapito poi di eventi condensati con furia.

Ora sono come un uccello che si dibatte a terra con le ali spezzate. Non può più allontanarsi da dove è caduto e non può vedere più in là del sangue che ha versato. Se cerco di ricordare il passato, mi viene in mente solo il presente. Se ripenso al tempo in cui ero allegra e spensierata, mi sembra solo una premessa per questa fine.

Ambientato tra Islanda e Norvegia, finestra su una cultura lontanissima dalla nostra, il romanzo si è rivelato un'appassionante gita fuori porta. Anziché intimorirmi – per via dei nomi di battesimo impronunciabili, dei luoghi remoti da ricercare uno a uno sull'atlante per meglio orientarmi –, mi ha affascinato dall'inizio alla fine. Oltre le colonne d'Ercole dei miei limiti, lì dove le leggende pagane abbracciano quelle cattoliche, ho letto del colpo di fulmine tra i protagonisti. Ljot, mercante ospite di un fattore, s'innamora della figlia di quest'ultimo: lei ricambia. Ma, ingelosito dalle voci di un presunto tradimento, fa propria la giovane on la forza. Sedotta e violentata, abbandonata nell'onta, Vigdis partorisce un figlio che cresce al suon di botte e rancori. Agli antipodi della barricata, i protagonisti vivono soltanto per rincontrarsi e per riaffrontarsi faccia a faccia. Sono furenti. Sono stati traditi. Nonostante tutto, a modo loro, restano innamorati.

Ma io amo la voglia scura che l'altra aveva tra i seni più di tutta la bellezza di Leikny. E amai di più lei quando mi colpì alla gola col suo coltello di quanto ami Leikny quando mi getta le braccia al collo. Ero meno infelice quando erravo d'inverno sulle montagne di Dovre pensando alla sua maledizione di quanto non lo sia quando torno a Skomedal e so che Leikny mi accoglierà con parole affettuose sulla porta di casa. Preferirei essere dilaniato dagli artigli di un orso bianco che saperla fra le braccia di Kare.

Divorato dal senso di colpa per lo stupro, Ljot è un'anima in pena incapace di perdonare sé stesso: ai successi professionali corrispondono le sciagure private; il suo matrimonio è avvelenato dai dissapori e la sua prole perseguitata dalla sfortuna. Reduce da peregrinazioni disperate, in fuga da una casa in fiamme, Vigdis diventa invece una novella Penelope capace di mediare tra pretendenti e usurpatori: donna di straordinaria resilienza, dispone alleanze; temporeggia; si affranca dichiarandosi padrona del proprio destino. Entrambi immorali, benché nobili d'animo, i protagonisti alimentano le braci di un sentimento sfuggente, viscerale, che nasconde ancora un'ultima scintilla. Sono concessi ritorni di fiamma, però, nell'epica brutale dell'autrice? Tra duelli, diaspore e travestimenti, La saga di Vigdis è una storia d'altri tempi. La cronaca di un amore lungo una vita e una vendetta, che a sorpresa apparirà più moderna del previsto nell'era televisiva di Game of Thrones. È un ritorno sui banchi di scuola, all'ora di epica. Questa volta, per appassionarsi a pulsioni ataviche e a moti femministi ante-litteram, non servirà la parafrasi.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Enya - Only Time 

martedì 26 gennaio 2021

Mr. Ciak in musica: Soul | Ma Rainey's Black Bottom | The Prom | Wild Rose

Dopo averlo incluso nella lista dei migliori film dell'anno e averne tratto ispirazione per un post, sembrerebbe superfluo scriverne ulteriormente. L'ho detto e lo ribadisco: Soul è stato il regalo più bello che il 2020 potesse farci per chiederci scusa. Poetico, profondo e maturo, è l'esperimento più felice di casa Pixar. Se perfino Inside Out e Coco mi avevano lasciato a guance asciutte, il miracolo è avvenuto grazie alle disavventure ultramondane di Joe: pianista jazz, muore all'alba dell'occasione della vita. Intrappolato nell'Antemondo, s'improvvisa mentore per una piccola anima che non ha nessuna fretta di venire al mondo. Perché nascere, gli domanda? Perché quell'attaccamento insensato a un'esistenza spesso e volentieri ingiusta? Che senso ha vivere, se destinati comunque a morire? Storia di due anime in cerca della famosa scintilla, Soul si muove fra paffute bolle di luce, contabili maniaci del controllo, silhouette alla Picasso. Ingegnoso dal punto di vista visivo, riserva altrettante meraviglie nel dipingere il mondo dei viventi: questa New York a cartoni, brulicante e caotica, è infatti di una bellezza alleniana. Prima o poi torneremo a chiacchierare con i barbieri, a danzare tra le foglie e i condotti di ventilazione, a mangiare pizza e lecca-lecca: anche se mai come oggi somigliamo a quelle anime smarrite, ridotte a gusci spaventosi per via dell'ossessione per talento e per la felicità. Mi sono sentito simile ai mostri di Soul tantissime volte; mi ci sento anche adesso. Cosa racconteremo ai bambini che si apprestano a nascere? Quale mondo troveranno? Quale futuro? Il film esistenzialista di Pete Docter, col suo contagioso senso di meraviglia e un protagonista vittima di una frustrazione tutta contemporanea, ci fa da bussola e promemoria. Vi rimetterà al mondo. (8)

Nella Chicago degli Venti, una sala d'incisione diventa un microcosmo di tensioni scandagliato come nella migliore tradizione teatrale. Durante una lunga seduta di registrazione, si suonerà il blues. E si farà spazio a conflitti religiosi, razziali, generazionali. Agli antipodi ci sono loro, che hanno un modo diverso di vivere la musica e il rapporto coi produttori: la cantante sulla bocca di tutti e un anonimo trombettista, che aspira però alla fama. Come suoneranno Black Bottom, il pezzo più famoso del repertorio: seguendo i desideri di Ma, la cui parola è legge, oppure le intuizioni di un giovane di talento? Rigoroso, intenso, importante, il film rinuncia alla dimensione corale di Fences – dramma familiare scritto dallo stesso drammaturgo – per concentrarsi sui poli della contesa. Da un lato abbiamo Viola Davis – qui meno protagonista del previsto, gigioneggia senza mai strafare –, nel ruolo di una diva dispotica e con manie di grandezza: volgare e rissosa, con il trucco sbavato e il volto madido, è una leonessa sul palcoscenico ma nella vita reale è una donna di colore a cui non portano il dovuto rispetto. Dall'altro, invece, c'è Chadwick Boseman: scomparso all'indomani delle riprese, spicca per la scarpe gialle nuove di zecca e per il desiderio di primeggiare. Destinato a commuovere in due monologhi strazianti, è il portavoce di una rabbia giovane che l'attore ha reso eccezionalmente grazie alle sue ultime energie: orgoglioso e disperato, si ostina a prendere a spallate le porte chiuse a chiave. Per lui non esistono divieti. Ma se la porta si affacciasse su un muro di mattoni? I bianchi, dice la protagonista con aria di superiorità, non capiscono il blues. Probabilmente non capiremo fino in fondo neanche il messaggio di questo film, connaturato nella cultura “black”, ma ciò non ci impedirà di applaudirlo. (7+)

In una cittadina di bifolchi, il ballo di un'adolescente omosessuale è messo in pericolo dalle decisioni del consiglio di classe: non potrà ballare con la propria fidanzata. Per contrastare l'episodio di omofobia, è in arrivo una squadra di allegre fate madrine direttamente da New York: tre star di Broadway non più sulla cresta dell'onda si prendono a cuore le sorti della protagonista al suon di balli, canzoni e armonia. Ispirato a una storia realmente accaduta ma già messo in musica sui palcoscenici, The Prom appartiene a un genere che è il mio guilty pleasure sin dai tempi di Glee: il musical. È proprio Ryan Murphy, il creatore della serie per teenager, a dirigere il film Netflix. Porta con sé anche qui il solito armamentario: nomi altisonanti, un gusto kitsch, qualche aspettativa inevitabilmente delusa. Smaccatamente lieto, il film è una festa dai colori sfavillanti e dal cuore delicato per celebrare l'amore e la tolleranza. A onor del vero, nonostante i numeri musicali siano innumerevoli, soltanto pochi risultano davvero memorabili e la stella più splendente del nutrito cast è quella di una Streep ancora una volta in odore di Golden Globe: primadonna vanitosa e narcisista, che non ha mai elaborato la rottura con il marito presentatore televisivo, regala un'entrata di scena trionfale, qualche battuta caustica e inattesi momenti di struggimento davanti al Matrimonio del mio migliore amico. Insieme a lei Corden, attore gay ai ferri corti coi genitori, e una Kidman dall'amaro destino di ballerina di fila. Molto colpevoli, ma altrettanto piacevoli, queste due ore scorrono all'insegna dei buoni sentimenti e ci insegnano l'orgoglio di stare a centro pista. A dicembre, e a Broadway, eravamo tutti più buoni. (6,5)

Lei è Rose. Selvaggia come da titolo. Reduce da un anno di carcere per stupefacenti, madre e figlia borderline, si muove nel grigiore dei sobborghi scozzesi ma punta a Nashville con la fantasia. Si può vivere il sogno americano anche lì, in una plumbea Glasgow dov’è illecito nutrire ambizioni di gloria? Quest’anno protagonista dell’ultimo capolavoro di Charlie Kaufman, la poliedrica Jessie Buckley si nasconde sotto la frangia spettinata e negli stivali da rodeo in una commedia musicale assai ben accolta in patria. E nasconde una voce meravigliosa, che garantisce alla colonna sonora alcuni pezzi country-folk che in questi giorni non faccio altro che ascoltare e riascoltare. A tratti esilarante, a tratti struggente, la cantante di provincia si sente perennemente inadeguata. Sotto la superficie sbarazzina, cova un’insoddisfazione frustrante. Vive un rapporto conflittuale con la madre – la sempre preziosa Julie Walters –, illude i figli bisognosi con promesse non mantenute, delude la generosissima mecenate. Le cose andrebbero diversamente in Texas, dove tutti nutrono le sue stesse ambizioni? È meglio essere un pesce fuor d’acqua, o un pesce piccolo nell’oceano degli Stati Uniti? In cerca di una propria voce, Rose confida nella maturità; nell’addomesticamento. Perché sono possibili le vie di mezzo, e dove c’è talento può esserci anche equilibrio: essere responsabili no, non significa rinunciare. Storia ordinaria per svelarci un talento straordinario, Wild Rose è un feel-good movie perfetto per le domeniche di pioggia. Una favola moderna – con tre semplici accordi e, nel mezzo, tanta verità –, dove il sentiero di mattoni gialli conduce a casa anziché a Oz. (7)

lunedì 25 gennaio 2021

Recensione: Quando tornerò, di Marco Balzano

| Quando tornerò, di Marco Balzano. Einaudi, € 18,50, pp. 197 |

Si sarebbe potuto chiamare Mal d'Italia. Ho scoperto questa definizione leggendo del senso di smarrimento di Daniela, badante romena a Milano, e dei suoi familiari lasciati indietro. Questa sindrome affligge innumerevoli paesi dell'Est, popolati esclusivamente da bambini, adolescenti e uomini: le donne di casa sono infatti andate via all'improvviso per prendersi cura degli altri, altrove; per provvedere alle spese della famiglia con uno stipendio guadagnato lontano, tra razzismo sottile e insopportabile nostalgia. La storia della protagonista di Marco Balzano è la storia di tante straniere che affollano le nostre città. Orgogliose, robuste e coriacee, scortano anziani a braccetto; sono in fila alle poste, al supermercato o in farmacia, mentre ascoltano le direttive dei datori di lavoro al cellulare; siedono sulle panchine dei parchi, con un contenitore di cibo speziato sulle ginocchia, e si guardano intorno in cerca di accenti amici. Daniela è fuggita dalla Romania nel cuore della notte, senza salutare nessuno: ha lasciato un biglietto per rendere l'arrivederci meno straziante.

La guardo sempre con la stessa rabbia e la stessa delusione, la casa. La mia famiglia sono questi calcinacci.

Si lascia alle spalle una coppia di genitori cagionevoli, un marito sfaccendato, due figli giovani schiacciati dalle responsabilità e una casa da ristrutturare: la mansarda smantellata sarebbe da risistemare; sarebbe bello inoltre pitturare, riarredare, rimodernare, per trasformare la proprietà in un piccolo agriturismo. Daniela impara la lingua delle medicine, delle malattie, dei principi attivi, e nel tempo libero si diletta a cercare parole più poetiche sul dizionario. Sconsolata, all'inizio del romanzo torna a casa d'urgenza: in sua assenza, la famiglia è andata in malora. Che senso ha badare al prossimo quando nessuno ha badato ai suoi cari? Alla luce di questa contraddizione, Balzano costruisce un romanzo con un difetto evidente alla base: la storia di Daniela è la storia di tante donne, e lui non sembra far niente per mostrarcela con occhi diversi. La sua esistenza ai margini è fatta di ambienti umili e spartani, di minestre e candeggina, di una pioggia sottile e tagliente che ispira mestizia. Il dramma senza fondo della protagonista – forse il personaggio meno interessante del romanzo – per fortuna viene smorzato grazie ai figli, che portano punti di vista diversi e a me vicinissimi.

Forse nella vita si rincorre la vita.

Manuel e Angelica sono arrabbiati, si sentono traditi. Su Skype non sanno bene cosa raccontare a quella madre di cui non comprendono le ragioni. I silenzi astiosi si allungano, le parole diminuiscono, il malcontento cresce. Manuel, al primo anno di liceo, colleziona brutti voti e patisce la sindrome d'abbandono: frequenta compagnie turbolente e spinge al massimo il motorino truccato. Angelica, il personaggio che ho di gran lunga preferito, è una studentessa brillante e un'instancabile bestia da soma: per pensare ai familiari ha taciuto su tante cose, compresa la sua vita sentimentale. A loro spetta il compito di migliorare le sorti del romanzo, soprattutto in un finale davvero perfetto. Dopo un intermezzo lungo e canonico, infatti, Balzano sorprende con delicatezza in un'ultima parte insolitamente armoniosa, fatta di balli folkloristici, frutta secca e boomerang. Lontano dalle tragedie di Orfani bianchi di Antonio Manzini, Quando tornerò è una lettura sensibile, delicata e piena di dignità. Il ritratto di una famiglia in frantumi che nei giorni buoni sa indossare gli abiti eleganti e riunirsi sotto un pergolato. Perché l'amore non è sempre un lusso per pochi. Dopo il più memorabile Resto qui, Marco Balzano torna con un romanzo diverso sin dal titolo: una storia giocata non sulla strenua resistenza delle stelle fisse, ma sugli andirivieni di mamme che sono meteore passeggere. Ma restare è una lezione comune, che si impara come l'italiano dei quotidiani online e delle canzoni di Vasco Rossi.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli – L'abitudine di tornare

venerdì 22 gennaio 2021

Recensione: Blankets, di Craig Thompson


| Blankets, di Craig Thompson. Rizzoli Lizard, € 29, pp. 592 |

Scegliere la prima lettura dell'anno richiede molta cura. Dal momento che chi ben comincia è a metà dell'opera, ai principi di gennaio ho messo la mia serenità di lettore nelle mani d'oro di Craig Thompson: un fumettista premiatissimo, capace a detta dei più di trasformare una mia passione recente – ossia i romanzi grafici – in un'autentica opera d'arte. Se non me lo avessero regalato all'ultimo momento, probabilmente non avrei letto Blankets con altrettanta urgenza. E senza questa coperta di patchwork il mio gennaio sarebbe stato un po' più buio di così, e soprattutto più freddo. Storia autobiografica, il graphic novel condensa grazie a sprazzi di dolore e lirismo il vissuto dell'autore: da un'infanzia sofferta, scandita da abusi fisici e psicologici, fino alla scoperta di un talento artistico capace di aprire impensate vie di fuga. Giusto al centro, però, c'è il cuore nevralgico della vicenda: quel primo amore, vissuto tra slanci e sensi di colpa, che aveva il carattere scostante della bella Raina. Craig la conosce al campo della parrocchia, durante le vacanze invernali, e insieme escogitano trovate ingegnose per saltare la messa della domenica o per non unirsi al coro degli altri fedeli. Vissuta inizialmente a distanza – lei vive in Michigan, con due fratelli affetti dalla sindrome di Down e una coppia di genitori in rotta di collisione –, la loro relazione epistolare diventa carnale quando Craig è suo ospite per qualche settimana.

Fa riflettere vedere i bambini che fanno tanta fatica per risalire la collina solo per provare il breve piacere della discesa. Noi adulti viviamo in salita. Su, su, su... Senza arrivare mai da nessuna parte.

Riuniti per un po' sotto lo stesso tetto, gli adolescenti sperimentano il contatto fisico, imparano a conoscere il sapore della pelle dell'altra persona o i rumori impercettibili del sonno, vivono notti che spererebbero interminabili in cui il paradiso sembrerebbe l'attimo presente. Nell'immaginazione, i letti diventano ora zattere contro la tempesta, ora fortini. Essendo un'opera stratificata e matura, però, Blankets non si limita a raccontare il semplice struggimento del romanticismo adolescenziale, ma anche le famiglie. Quella di Raina, faticosa ma amorevole. Quella di Craig, religiosa ai limiti del fanatismo, che ha instillato nel figlio un profondo senso di colpa e l'idea di diventare sacerdote. Crescere significa aprire finalmente gli occhi: accorgersi delle contraddizioni e delle bugie delle Sacre scritture, dei genitori, degli amanti. Se perfino la Bibbia contiene incongruenze grandi e piccole, quanto è possibile fare affidamento sulle promesse di una fidanzatina? A tratti tragico, a tratti esilarante, ma nostalgico e delicato fino alla fine, Thompson è un illustratore ispiratissimo e un narratore pieno di dubbi.

Di notte, quando stai sdraiato a pancia in su e guardi la neve che scende, è facile immaginare di librarti in volo tra le stelle.

Nonostante le visioni apocalittiche di diavoli tentatori pronti a pungolare con un forcone le sue pulsioni sessuali, nonostante la severità con cui bacchetta i genitori negligenti e il crepacuore immancabile dell'epilogo, fa di questa sua confessione a disegni un pacato salmo per onorare il gelido Wisconsin: le luci abbaglianti, le ombre lunghe, i pick-up scalcagnati, i silenzi condivisi, le attese cariche di non detti. L'elettricità statica, qui e lì, solleva scintille imputabili a fate o folletti. Le precipitazioni nevose, benché onnipresenti, non smettono di suscitare nei protagonisti un magico senso di meraviglia. Al momento del disgelo, arriverà l'ora di accettare il nostro passato, la nostra famiglia, noi stessi. Con il cambio di stagione – crescendo –, qualcosa sarà da riporre, qualcosa sarà da buttare via. Cosa ne è stato delle avventure in cortile con un dolcissimo fratello minore? Degli aneddoti, delle punizioni, della complicità? Cosa, ancora, delle lettere d'amore, delle dichiarazioni scarabocchiate sui bigliettini, dei regali? Ci sono cose che non chiuderemo mai in uno scatolone. Ci accompagneranno nei sogni più belli e segreti, nelle notti più pungenti. Resteranno per sempre. Anche se il mito della caverna di Platone fosse applicabile con puntualità alle relazioni umane – conosciamo le persone, infatti, o soltanto le loro proiezioni ingannevoli? –, sarà possibile tendere le mani verso una vecchia fiamma. Che non brucia, non più, ma emana comunque un calore confortante.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran – Afterglow

lunedì 18 gennaio 2021

Recensione: Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron

| Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron. Adelphi, € 11, pp. 206 |

Da quando sei triste? Quando gli pongono questa domanda, James fa spallucce. Vorrebbe rispondere che triste lo è da sempre. Paragona il raggiungimento della felicità a una fatica erculea; essere in pace con sé stessi gli appare un'impresa agonistica, un po' come attraversare a nuoto il canale della Manica. Perché questo pessimismo cosmico, per di più alla tenera età di diciotto anni? C'entrano forse il divorzio dei genitori, i dubbi legati a una sessualità ancora inesplorata, la paura di un salto nel vuoto chiamato futuro? Scuote energicamente la testa. Poco importa se l'incostante mamma gallerista sia tornata da un viaggio di nozze a Las Vegas già in procinto di divorziare nuovamente o se il papà affarista, eterno Peter Pan, inganni lo scorrere del tempo con qualche ritocchino di chirurgia estetica; poco importa se qualcuno lo pensi gay, dopo un'adolescenza problematica e solitaria; poco importa dell'iscrizione a un college esclusivo, se all'improvviso medita di mollare gli studi per comprare una casetta isolata nel Midwest. James ha visto crollare le Torri Gemelle senza riportare grossi traumi, è fisicamente in salute, appartiene alla classe privilegiata che beve acqua Evian e spende diciotto dollari per un piatto di pasta. Ma in una metropoli popolata di squali e avvoltoi, percependosi alla stregua di un coniglio candido e indifeso, prevedibilmente non si sente a proprio agio. Ci si può sentire soli a New York? A colloquio con una psicoterapeuta che ha il brutto vizio di rispondere a una domanda con un'altra domanda, James verrà a capo di un viaggio a Washington che l'ha condotto sull'orlo del suicidio. Cos'è successo in gita scolastica? Cosa non è successo?

So di pensare e di parlare nella stessa lingua, e so che in teoria non c’è ragione per cui io non possa comunicare i miei pensieri appena si formano o immediatamente dopo. Eppure la lingua in cui penso e quella in cui parlo sembra spesso talmente lontane che mi pare impossibile colmare il vuoto sul momento o anche retroattivamente. […] Credo che nel mio cervello ci sia un setaccio che impedisce un rapido (e tantomeno simultaneo) travaso di parole. Un po’ come il filtro nello scarico della vasca da bagno. C’è qualcosa che trattiene i pensieri nel cervello e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati.

Da quando sei triste? Se me lo chiedessero, risponderei anch'io da sempre. Anch'io, come James, non avrei altre argomentazioni. Prendendo in prestito uno dei passi più veritieri scritti da Peter Cameron, potrei aggiungere che a certe domande non c'è risposta; che qualche volta le parole non bastano. Un conto è pensarle, le cose, e un conto è esprimerle a voce alta. Nel passaggio dal cervello alla bocca si perdono sfumature sostanziali, come nelle traduzioni simultanee; i contenuti finiscono per suonare ridotti all'osso, banali. Il disagio di James somiglia al mio. Dal momento che purtroppo o per fortuna l'identificazione è stata istantanea, ho finito per affezionarmi a un romanzo destinato a dividere: o lo si ama o lo si odia. Diviso tra frustrazione e speranza, lieve e filosofico insieme, Un giorno questo dolore ti sarà utile è composto da episodi e dialoghi giustapposti. Manca una trama portante, manca perfino un epilogo. Nonostante tutto, avrei voluto sottolinearlo da cima a fondo, acquistare un diario Smemoranda e trascrivere a penna le pagine in cui mi sono sentito prima spiato, poi tradito, infine compreso. Eccomi qui: stimo noiosa la compagnia dei miei coetanei (James stravede per la nonna); vorrei saltare a pie' pari le tappe, essere già vecchio e avere il peggio alle spalle (come nei dipinti di Thomas Cole); mi vanto di usare al meglio modi e tempi verbali per mettere ordine al caos cosmico (i pensieri sono intrasponibili, perciò le parole vanno dosate con cura); sui social ho una vita parallela ben più interessante di quella vera (iscritto su un sito d'incontri, James si finge colto, di successo e con un pene di ragguardevoli proporzioni).

A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono, un dono crudele, ma pur sempre un dono.

C'è qualcosa che non va? Tutto. Niente. La nostra inquietudine misteriosa è celata dalle acque alte, mentre dall'esterno i più scorgono soltanto la punta dell'iceberg. Essere nella testa ingarbugliata di Cameron è un privilegio. Leggere di James è terapeutico. Non è mai troppo tardi, infatti, per rivivere i propri tormenti adolescenziali. Non è mai troppo tardi, soprattutto, per auscultarsi e scoprirsi così degli adorabili disagiati. A diciotto anni lo avrei considerato uno dei miei romanzi preferiti, ma nella mia vita – prigioniera di uno di quei loop temporali da film – è cambiato poco da allora. Sono irrisolto, confuso, incasinato. Alle vecchie ansie se ne sono aggiunte soltanto di nuove. Ma vado fiero di me e dei dispiaceri grandi e piccoli che mi hanno reso come sono oggi. A quasi ventisette anni, dunque, vado dicendo di essermi imbattuto a scoppio ritardato in una di quelle storie-specchio che riflettono tutte le mie nevrosi; tutte le mie contraddizioni. E anche se sono un personaggio alleniano, cinico e fatalista, non smetterò di prestare fede al titolo. Una frase di Ovidio, una promessa solenne. Perché il dolore non passerà mai, non c'è guarigione né vaccino – non è mal di denti, non è Covid –, ma prima o poi si scoprirà una ricchezza interiore. Vivo con impazienza in attesa di questo giorno, per vantarmi del mio dolore anziché affannarmi a mettergli una museruola.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – En e Xanax

giovedì 14 gennaio 2021

Recensione in anteprima: La pazienza del diavolo, di Roberto Cimpanelli


La pazienza del diavolo, di Roberto Cimpanelli. Marsilio, € 18, pp. 448 |

Arriva oggi in libreria, ma ho avuto il piacere di leggerlo in anteprima. È un signor thriller, ma ho preferito non alimentare ulteriori misteri: quanto mi sia piaciuto – con il suo carico di efferatezze, l'umorismo nero e i personaggi memorabili – l'ho svelato man mano su Instagram, durante i miei aggiornamenti di lettura. L'esordio di Roberto Cimpanelli, produttore e regista cinematografico, è la nuova dipendenza in cui gli amanti del genere non sapevano di incappare. Rocambolesco, oscuro e marcio fino al midollo, è un bagno di sangue degno del miglior Dario Argento che a sorpresa custodisce anche un cuore letterario. In una Roma bella, caotica e truffaldina, popolata di camioncini profumati di porchetta e cinema all'aperto, un serial killer armato di rampino semina morti ammazzati sul lungotevere: le vittime, col cranio trapassato e i bulbi oculari penzoloni, appartengono alla feccia peggiore. Tutte schedate per reati sessuali, dalla pedofilia alla violenza domestica, vengono giustiziate da un vendicatore fedele alla legge del taglione. Ad apparire fuori posto, tuttavia, è l'omicidio di una perpetua nella parrocchia che fu teatro di una strage degli innocenti: chi voleva colpire realmente l'assassino; quei delitti erano forse stati attribuiti alla persona sbagliata, un maestro di musica poi morto suicida? Tre personaggi diversi come il giorno e la notte, vecchi amici separati da un antico senso di colpa, sono chiamati a indagare: l'indagine sarà di quelle poco ortodosse.

Stanotte noi facciamo un giuramento: questo Male che non finisce mai, che non ha pietà di nessuno e che rinnega Dio, rispetta e teme solo chi ha il coraggio di sfarlo con le sue stesse armi. Noi saremo peggiori di lui, danneremo le nostre anime e lo distruggeremo, qualunque cosa sia.

Tormentato da incubi, Herman ha abbandonato il suo ruolo in polizia per dedicarsi a una piccola libreria. Di madre americana e padre italiano, cresciuto nella Nantucket di Melville, si è rifugiato in una quieta routine e nel letto di innumerevoli amanti per sfuggire all'inquietudine. Abituato ormai a barcamenarsi tra la clientela e i pochi dipendenti – l'adorabile Francesca, studentessa universitaria, e sua zia Giulia, ex professoressa dalla bellezza sfiorita –, il protagonista non avrebbe mai immaginato di ricevere a domicilio degli inquietanti DVD: inquadrature in soggettiva, con l'ausilio di una GoPro, dove le mani guantate dell'assassino commettono gli atti più esecrabili. Coinvolto suo malgrado in un nuovo turbine di violenza, Herman si unisce alla vecchia task force: riallaccia i rapporti con l'affezionato Walter, ispettore pronto a volare a Cuba per drammatici problemi di salute, e rivaluta la fedeltà di Gaetano, commissario in età da pensione rimasto da poco vedovo. Roberto Cimpanelli scava nel loro passato, nella loro psiche, nei loro demoni. Con generosità, impreziosisce il suo esordio con tre personaggi che fanno la differenza. Al centro di un'indagine privata, macchiano le loro fedine penali pur di far trionfare la verità. Fragilissimi, si sono rivolti ora alla fede, ora alla psicoterapia per venire a patti con le proprie coscienze. Ma la ricerca del serial killer diventa per loro un'ossessione viscerale, motivante, che rinsalda amicizie tramontate nonché un disperato attaccamento alla vita. Impari a chiamarli per nome, vuoi loro bene, e poco importa la conta delle loro colpe grandi e piccole.

Moby Dick è un falso obiettivo per cacciatori dilettanti: noi siamo un abisso senza fine, noi vaghiamo nelle tenebre.

Anche a costo di diventare un po' prolisso, La pazienza del diavolo si prende tutto il tempo necessario per approfondirli Compressi come pentole a pressione, per fortuna hanno diritto ad allegri momenti di distensione: il segreto di questo romanzo, per me, è un clima cameratesco, virile, godereccio, che aiuterà anche a metabolizzare gli aspetti più indigeribili – e perché no, meno riusciti – dell'epilogo. Partito come un rigoroso giallo all'italiana, il romanzo si apre nel prosieguo a gustosi sprazzi horror – la cognata di Walter, Estrella, ha infatti legami con la Santeria – per poi sfociare brevemente nella spy-story, con la comparsa di un'eminenza grigia con un ruolo clou nel nostro Paese di mezze verità. In quest'esordio, denso ma imperfetto, si ha l'impressione che qualcosa succeda troppo sbrigativamente e che qualche colpo di scena intuibile, al contrario, venga trascinato troppo per le lunghe. In ogni caso, poco importa: animato di desideri perversi e ferocia, La pazienza del diavolo si divora con impazienza grazie allo stile scorrevole di un autore che conosce alla perfezione i meccanismi dell'intrattenimento. Nero come la pece, è sì un luogo orribile, ma è rischiarato dalla giovialità di tre brutti ceffi che non vedo l'ora di incontrare in un secondo capitolo. Il libraio Herman D'Amore, che ha i dilemmi etici di Moby Dick scritti nel destino, conosce come le proprie tasche la lotta tra Achab e la balena; l'ha somatizzata. Chi bracca chi? Chi è il bene, chi il male? Pur sapendo che nell'abisso c'è posto per entrambi, la caccia resta aperta.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead – I Promise

lunedì 11 gennaio 2021

Recensione: Supereroi, di Paolo Genovese


Supereroi, di Paolo Genovese. Einaudi, € 18, pp. 288 |

Si chiamano come i protagonisti di Lucio Dalla, ma ricordano più la coppia in crisi di una bellissima canzone di Brunori Sas. Anziché essere messi in musica, questi Anna e Marco si lasciano analizzare con schiettezza da un terapista d'eccezione, Paolo Genovese. Il regista di Perfetti sconosciuti già pronto a portarli in sala, dove avranno i volti di Jasmine Trinca e Alessandro Borghi – ha racchiuso il loro amore nel romanzo che mi ha tenuto compagnia sotto Natale. Molto più che una semplice commedia romantica, Supereroi si dirama nell'arco di vent'anni. Grazie a un montaggio cinematografico di sorprendente fluidità, passato e presente si alternano e si avvicendano. Si inseguono attraverso flashback e flashforward, in una struttura che ricorda un puzzle. I protagonisti, quindi, siedono a bordo di una macchina del tempo che ce li mostra ora agli albori della loro relazione, ora sul viale del tramonto.

Tu che sei così bravo con i numeri, quante possibilità ci sono che due persone che si incontrano per caso si incontrino una seconda volta?

Si sono conosciuti nei primi Duemila, in una Milano fradicia di pioggia: cercavano entrambi riparo sotto i portici. Lei artista di strada, fumettista aspirante, che si dilettava a immaginare i turisti da anziani; lui futuro docente di Fisica, abituato a ponderare perfino le precipitazioni atmosferiche. Anna è un'anima imprevedibile, Marco tiene i calzini anche durante il sesso. Anna ha paura di essere felice, Marco si getta a capofitto tanto nei progetti accademici quanto in quelli di vita. Se gli opposti si attraggono, perché la routine li ha comunque resi schiavi? Da quando una è appollaiata sul water, mentre l'altro si lava i denti, senza più misteri? Come mai lui si volta platealmente a guardare il culo a un'altra, per strada: è forse insoddisfatto? Fatto di tira e molla, di spensieratezza e gravità, il romanzo di Genovese cattura i gesti quotidiani, i momenti di complicità, le sfide grandi e piccole. Parla con realismo poco consolatorio dei compromessi a cui talora tocca scendere per non perdersi di vista. Se il vostro partner vi tradisse, preferireste una bugia o l'amara verità? Se non volesse né un matrimonio né un figlio, sacrifichereste i vostri desideri per rispettarne la volontà? Messi duramente alla prova dalla convivenza, dall'ansia dell'orologio biologico, dalla spesa all'ultimo momento da fare, Anna e Marco sono i protagonisti di un amore adulto, che cambia modalità ma non per questo scolora. Eccoli: in vacanza vanno sempre nella solita Ponza; al cinema, spesso e volentieri, siedono da soli per inconciliabilità di interessi o di orari; qualche volta consumano i pasti in solitaria...

Voglio fare un fumetto sui supereroi”, dice all'uomo. […] “Che hanno di speciale? Volano? Bruciano? Si trasformano”. “Stanno insieme”.

Trasformati in supereroi nelle strisce a fumetti di Anna – da qui il titolo –, trasmettono leggerezza pur condividendo i pesi della convivenza. Al contrario di Superman, non possono mandare indietro il tempo volando intorno al mondo in senso opposto. Come Spider-Man, qui e lì sono costretti a scegliere tra cuore e cervello, perché da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Pur non aggiungendo niente di nuovo al filone di One Day e Harry ti presento Sally – anzi, la deriva drammatica dell'ultima parte sembra un pegno da pagare al genere strappalacrime per eccellenza –, al momento giusto Supereroi saprà farà strage di cuori grazie a due personaggi profondamente simili a noi. Peccato per qualche forzatura di troppo, che potrebbe farmi preferire il film di prossima uscita al romanzo. Belli anche se più spiegazzati che agli inizi, piacevoli anche quando i toni si incupiscono, vivono l'avventura più coraggiosa che ci sia: restare insieme, nonostante tutto.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Brunor Sas – Per due che come noi

giovedì 7 gennaio 2021

Nove anni online: l'acqua è pur sempre oceano?

Nove anni fa, oggi, scrivevo il mio primo post. Avevo diciassette anni, tantissime idee e altrettanta speranza. Per forza di cose, i compleanni del blog mi immalinconiscono sempre. Finiscono per trasformarsi in un bilancio dell'anno appena trascorso e questa volta, dopo tutto il male che il 2020 ci ha riservato, avrei preferito glissare. Dimenticare questa data e passare direttamente al post successivo. Ma questi appuntamenti, ogni sette gennaio, significano per me lasciare una traccia del mio passaggio. Un picchetto ad alta quota. Come nei videogiochi, sono dei check-point da cui è possibile ripartire. Potrei parlarvi perciò delle convivenze claustrofobiche del lockdown, delle mascherine che ormai penzolano dagli specchietti retrovisori al posto degli Arbre Magique, delle sabbie mobili che impediscono di mettere un piede dietro l'altro, della frustrazione per le opportunità mancate, delle visualizzazioni in calo e dei commenti un po' più timidi del solito. Psicologicamente, sì, è stato un anno impegnativo. Ma non sono mai stato un tipo cagionevole, per fortuna, e allora meglio non crucciarsi troppo per gli sbalzi d'umore: sto bene. Mi sto sforzando di vedere il bicchiere mezzo pieno. La vecchia insoddisfazione ha lasciato il posto alla quieta accettazione che insegna Soul, l'ultimo capolavoro Disney Pixar su un jazzista insoddisfatto. Appassionato com'è, perché il protagonista fa fatica a ritagliarsi un posto nel mondo? Sogna forse troppo in grande? Meglio accantonare la vocazione artistica: che resti soltanto un innocuo hobby?

Conosco una storia che parla di un pesce che va da un pesce anziano e gli dice: “Sto cercando quella cosa che tutti chiamano oceano”. “L'oceano” risponde il pesce più vecchio “è quello in cui nuoti adesso”. “Questo?” dice il giovane pesce. “Questa è l'acqua. Io invece cerco l'oceano”.

Fino ai venticinque anni avrei voluto mangiare il mondo; poi ho dichiarato indigestione. Avrei voluto l'oceano anch'io, ma a ventisei ho realizzato che il punto in realtà è imparare a galleggiare – in mancanza del Pacifico, anche lo spazio ristretto di una piscina gonfiabile andava benone. Perché non è il talento a essere al servizio della vita, insegna il film d'animazione, ma l'esatto contrario. Sopravvissuto alla crisi del settimo anno, resisto anche al Covid-19 e a tutto quello che mi toglie: compresa la voglia di leggere. Come mandare avanti un blog letterario se il blocco del lettore si è ripresentato più volte nel tempo? Come evadere con l'immaginazione, se barricato in una stanza che d'inverno ha per di più grossi problemi di umidità? L'oceano, dove sta? Ho letto e postato meno del solito, ma probabilmente nessuno se n'è accorto: sono bravo a tamponare. Ho vissuto la mia improvvisa discontinuità senza grossi sensi di colpa né rancori. Anzi, spesso e volentieri ho cercato la condivisione con altri mezzi – Instagram, la spietata concorrenza: da novembre con tanto di soffertissime storie parlate –, senza vivere la cosa come un tradimento verso chi c'era prima dei followers o degli hashtag. La compagnia e l'ispirazione, insomma, le ho trovate dove capitava. Sono diventato più social per sentirmi meno solo. L'importante è stato costruire – anche semplicissimi castelli di carte –, per opporsi all'anno che distruggeva ogni cosa. Qualche nuovo mattoncino, nonostante tutto, l'ho impilato anche qui. Il risultato è una sgangherata casa di Lego che qualche volta fa acqua – presto acquisterò un nuovo dominio: confesso che vorrei dare una rinfrescata alle pareti, cambiare volto; riprovarci –, ma in cui è comunque possibile svernare in attesa della fine dell'apocalisse.

lunedì 4 gennaio 2021

Pillole di recensioni: L'ombra e altri oscuri racconti | Il parassita

Ho chiuso il 2020 con una passeggiata sul lungomare. Sulla spiaggia, una mano sconosciuta aveva tracciato cerchi concentrici e ghirigori millimetrici. Dopo il virus, erano forse arrivati anche gli alieni? Seduto a gambe incrociate nei paraggi, ho pensato agli extraterrestri ma ho letto appassionatamente di fantasmi. Le mie ultime letture: due piccoli classici del gotico, riscoperti da Caravaggio Editore. I festeggiamenti sui generis dell'anno appena passato, così, hanno assunto la parvenza di un tardivo Halloween grazie alle suggestioni di Nesbit e Doyle.

| L'ombra e altri oscuri racconti, di Edith Nesbit. € 11,90, pp. 136 |

Illustrato da Daniele Serra, L'ombra e altri oscuri racconti si è rivelato sorprendente. Nota soprattutto per l'impegno politico e per i romanzi per l'infanzia, l'autrice inglese piace per la penna arguta e per le sequenze nitide come in un film dell'orrore. I suoi cinque racconti sono così inquietanti e romantici da sembrare un'ottima ispirazione per un'eventuale terza stagione della serie antologica di Mike Flanagan. Un gruppetto di ragazze parla di spettri e pettegolezzi dopo una serata danzante: perché non prestare ascolto all'esperienza della governante, che a casa di amici vide una figura informe fondersi con le ombre della stanza? Un marinaio cerca ospitalità presso un amico: avrà trovato la persona giusta, o si sarà imbattuto in un caso di omonimia? In visita a casa dei consuoceri, un giovane vede la fidanzata riversa in una pozza di sangue: dal momento che l'indomani è viva e vegeta, si è trattato di un incubo o di una premonizione? Un vecchio zio racconta al nipote della sua prima innamorata, incontrata al cimitero in una notte di luna piena. Un gruppo di agenti di viaggio, infine, prende alloggio in un albergo dalla fama losca: chi vorrà soggiornare nella camera numero 17, se gli ospiti sono destinati a suicidarsi? Elegantissima, affascinante, ironica, Nesbit ci guida in un mondo d'altri tempi fatto di balli, cripte, scienziati pazzi, filtri per l'immortalità, case costruite su antichi monasteri, narratori inaffidabili. La raccolta ha la favella degli antichi cantastorie e il chiarore delle lampade a olio. Cosa si muove ai margini del nostro campo visivo? Sono più spaventose le cose che vediamo, infatti, o quelle che non vediamo? L'attesa stessa di un'apparizione, di un genuino sobbalzo, creerà dipendenza fino all'ultima pagina.

| Il parassita, di Arthur Conan Doyle. € 10,90, pp. 144 |

Metodo scientifico e mesmerismo si sfidano nel Parassita: il racconto che non ti aspetteresti da qualcuno come Arthur Conan Doyle. Il padre del detective più famoso al mondo, infatti, aveva una passione segreta condivisa dalla maggioranza dell'élite ottocentesca: l'occulto. Come mostra la serie TV Penny Dreadul, nei salotti altolocati non erano infrequenti medium e cartomanti. Invitato a una serata di queste, un professore notoriamente scettico fa la conoscenza dell'enigmatica Miss Penclosa: originaria delle Indie Occidentali, la donna lo sfida. L'occulto esiste, e glielo dimostrerà. L'accademismo esclude in automatico l'esistenza del soprannaturale? Ha inizio così un braccio di ferro giocato tra attrazione malsana e strenua resistenza. Ipnotizzato, il protagonista scoprirà che lo stato di trance perduta anche in altri contesti e stimola, inoltre, i suoi lati più oscuri. Al centro di un deperimento fisico e psicologico, rischierà di perdere la cattedra, l'onore e l'amore. Alla mercé di una fattucchiera che lo manovra alla stregua di una marionetta. Intrappolato nella fitta rete della suggestione, neanche il lettore non ha scampo. Questo racconto – sofisticato, complesso e pungente: peccato per la risoluzione, non all'altezza del genio di Sherlock Holmes – è il diario di un'inquietudine dove il narratore prende nota giorno per giorno della sua perdita di controllo; della sua lucidità destinata sempre più a scemare. Sia per la struttura sia per i risvolti psicologici, gli amanti di Bram Stoker non potranno far altro che pensare a Dracula: il principe delle tenebre che traviava gli uomini tutti d'un pezzo, sabotava i matrimoni annunciati, abitava i pensieri e le esistenze delle vittime. Come il supremo dei parassiti, il più inscalfibile.