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venerdì 21 giugno 2024

Miniserie fatali: L'arte della gioia | Baby Reindeer | Mary and George

Inganno, sesso, omicidio. Ma, al termine di una lunga catena di nefandezze, ecco sopraggiungere un'incontenibile gioia. Sopravvissuta a un'infanzia verghiana, l'orfana Modesta gioca con le vite altrui. Prima accolta in convento, poi ospitata in un asfissiante palazzo nobiliare, si muove, scandalosa, nel buio seducente della miniserie di Valeria Golino. In arrivo su Sky nel 2025, l'adattamento del romanzo omonimo è in sala per farsi ammirare sul grande schermo. I sei episodi traspongono le prime 150 pagine di un cult che ne conta 500. I primi tre mostrano Modesta alle prese con l'infatuazione per suor Jasmine Trinca: l'erotismo è alle stelle. Gli ultimi si spostano nei salotti del cinema di Ivory, dove una Modesta ancora più machiavellica attenta al potere della principessa Valeria Bruni Tedeschi: esilarante e impietosa, l'attrice franco-italiana si conferma la nostra Streep. A palazzo Brandiforti la protagonista bramerà le carezze della principessina Alma Noce, ma vibrerà di passione a cavallo con Guido Caprino. Sontuoso e liberatorio, folle ed erotico, L'arte della gioia arriva dopo Povere creature e Saltburn, ma li precede nel tempo: il romanzo, infatti, è degli anni Settanta. L'antieroina diretta dall'eccezionale Golino diffida della sua stessa ombra ma ammicca allo spettatore. È la progenie di Bella Baxter e cammina, assetata di mare, nella Catania di inizio Novecento: è il primo passo affinché Barry Keoghan, poi, possa ballare nudo sulla scena del delitto. Piromane, mette a ferro e fuoco le convenzioni sociali e ci regala il ritratto di una nuova ragazza in fiamme: (im)modestamente, si chiama Tecla Insolia. Vent'anni, indimenticabile, senza catene. (8,5)

Siamo vittime e carnefici della società che i nostri padri ci hanno lasciato in eredità. Ma essere maschi non ci rende automaticamente figli del patriarcato. Soffocati da una visione machista della mascolinità, sottoposti a standard di prestanza fisica o coraggio irrealizzabili, viviamo anche noi un segreto senso di inadeguatezza. Anche noi ci sentiamo frangibili. E, a volte, fatichiamo a riconoscerci come vittime. Cosa direbbero in questura se un ragazzo forte e in salute denunciasse gli abusi subiti da una donna, per di più in sovrappeso e di mezza età? Cosa direbbero se questo stesso ragazzo, etero a suo dire, aggiungesse di essere stato stuprato da uno sceneggiatore televisivo? Il cromosoma Y non protegge dalla violenza. Baby Reindeer, la miniserie di cui tutti parlano, è una visione inedita della vulnerabilità maschile. Breve e affilata, racconta l'odissea psicologica di un aspirante comico perseguitato da una stalker. Nel passato di lui, però, si nasconde una vicenda di bugie e vergogna che l'ha condotto in una spirale senza ritorno. Può una psicopatica rispondere al nostro disperato bisogno di attenzioni? Può una violenza lacerarci a tal punto da portare alla luce aspetti di noi mai metabolizzati? Breve, scomodissima e dall'epilogo perturbante, la dark comedy autobiografica del sorprendente Richard Gadd non ha paura di mostrare al pubblico le contraddizioni dei protagonisti. Stratificati, contorti, incoerenti, hanno anime fragili e un ego masochista. Sono due facce dello stesso disagio; l'uno lo specchio dell'altra. Per l'orgasmo hanno bisogno del dolore, per amare hanno bisogno di odiarsi. E la tenerezza? Somiglia ai messaggi, ora patetici, ora minatori, che ci intasano la segreteria telefonica. Per scrittura e interrogativi, per coraggio e reticenza, per bile e catarsi, resterà la serie rivelazione del 2024. (8,5)

Una spietata arrampicatrice sociale alleva il suo secondogenito alla seduzione con un solo obiettivo: farne l'amante prediletto dal re d'Inghilterra. In ballo non ci sono soltanto titoli nobiliari e privilegi, ma perfino una potenziale guerra civile. Ispirato alla storia vera della famiglia Villiers e ambientato nella corte dissoluta di re Giacomo, noto sia per le pessime decisioni in materia di politica estera che per le trasgressioni sessuali, Mary & George è un intrigante dramma in costume in cui le prime quattro puntate promettono un'orgia sfrenata a base di sangue, eccessi, nudità. Il sesso è un gioco tra potenti. Il sesso è un'arma. All'inizio irresistibile, finisce purtroppo per appesantirsi negli ultimi episodi: le macchinazioni dei protagonisti abbandonano la camera da letto, minacciano di condurre a una guerra con gli spagnoli per puro capriccio, e i toni diventano più convenzionali; i ritmi più compassati. L'emergenza politica toglie spazio al vizio. Più accurata del previsto senza però rinunciare a una vena rock 'n roll, la miniserie Sky ha i suoi punti di forza nella magnificenza del comparto tecnico e nel cast. È un piacere vedere gigioneggiare Julianne Moore: mai così divertita e crudele, inanella l'ennesima performance magnetica. Ma mentre Tony Curran è un sovrano tormentato e vulnerabile, non convince l'ormai onnipresente Nicholas Galitzine. Bello sì, ma di una bellezza troppo adolescenziale e contemporanea, stona in una ricostruzione seicentesca ed è sprovvisto del sex appeal richiesto al ruolo. Non memorabile, la miniserie mette però a nudo scandali e personaggi: consigliata agli amanti dei period drama più spicy. (6)

mercoledì 17 aprile 2024

Gli snobbati: Estranei | The Iron Claw | May December

È uscito il 29 febbraio. Estranei, rarissimo, somiglia al suo anno bisestile: è un paradosso spazio-temporale, un'eccezione alla regola, una seconda opportunità. L'ultimo Andrew Haigh non fornisce bussole. A guidarci abbiamo solo gli occhi di Andrew Scott: uno sceneggiatore che non ha mai elaborato l'incidente in cui sono morti i genitori, né un'omosessualità vissuta con spavento. Il suo vicino, Paul Mescal, appare invece più disinibito: figlio di un'altra generazione, preferisce definirsi “queer” e usa la sua fisicità come arma di seduzione. I protagonisti si leccano le ferite sulla soglia di un grattacielo vetrato fingendo che il mondo non sia loro precluso; credendosi irraggiungibili. Preferendo infine la vulnerabilità alla solitudine, uno straordinario Scott ci conduce nella casa in cui è cresciuto: per diventare un uomo vero ha bisogno di fare pace con il bambino che è stato; di dichiararsi ai genitori, anche se morti; di mettere il solito angelo in cima all'albero di Natale, anche se gli spettri di mamma e papà non riescono a essere sereni. Il protagonista inconsolabile, chiamato tuttavia a consolare i vivi e i morti, minimizza. Va tutto bene. È acqua passata. Ma intanto ho pianto mentre lui piangeva. L'illusione di ordine interiore è stata spezzata via dalla consapevolezza che alcune mancanze non soltanto restano, ma lasciano voragini che risucchiano tutto: anche l'amore? Alcuni nodi in gola non si sciolgono mai. Alcune lacrime non si asciugano. Sono destinate a seccarsi in faccia e sui cuscini, rendendo scomodissimo un letto da condividere. Non si smette mai di sentirsi orfani. Per fortuna si dividono le notti in bianco con Mescal: queste volta, misterioso come in Aftersun ma meno sfuggente, è disposto a farsi stringere dopo un giro di pista in discoteca. E gli abbracci che finalmente si chiudono ci risarciscono così dei cerchi rimasti a metà, dei nodi insoluti, delle solitudini non fugate, in un capolavoro sull'accettazione che, come un vampiro alla nostra porta, ci svuota per farci sentire più pieni. (9)

Quattro fratelli, educati all'eccellenza dal padre manager, vivono e muoiono di wrestling. Tratta da una vicenda talmente struggente da apparire a tratti frutto d'invenzione, l'epopea sportiva della famiglia Von Erich è una tragedia senza scampo che non romanticizza né i loro trionfi né le loro sciagure. Coperti da una corazza di muscoli, i protagonisti s'illudono che niente potrà colpirli: neanche la presunta maledizione che aveva già ucciso uno di loro, il primogenito, all'età di sei anni. In casa si cresce seguendo i dogmi della religione cattolica e della mascolinità tossica. Sul ring, così come in privato, è vietato piangere. Ogni talento, dalla musica alla pittura, va represso: esistono soltanto lo spirito di competizione e l'agonismo sfrenato. Ormai abituato a raccontarci grandi storie di prigionia fisica e psicologica, Sean Durkin ci mostra la vulnerabilità di quattro lottatori che si immaginavano, a torto, invulnerabili. Ne viene fuori un dramma asciutto, classico, solidamente vecchio stile, in cui Zac Efron è spinto al meglio e all'eccesso: The Iron Claw avrebbe meritato la nomination a Miglior Film ben più di altri candidati. Messo ai margini prima dal genitore ingombrante, poi da quei fratelli minori più intraprendenti e carismatici, Efron si rivela essere il cuore emotivo di una storia in cui non dovrebbe esserci spazio per l'emozione. Non è cosa da uomini tutti d'un pezzo. Per fortuna, The Iron Claw ci racconta anche di una virilità in evoluzione; di una famiglia patriarcale che, dalla crisi nera, uscirà inevitabilmente plasmata. Per fortuna, non sono un uomo tutto d'un pezzo. E nel finale, con mio fratello accanto, mi sono commosso senza vergogna. (8)

A quasi dieci anni da Carol, Todd Haynes torna alle grandi dive, alle relazioni scandalose, al fascino fumoso del melodramma. Benché passato questa volta in sordina, guadagna comunque una nomination agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale e spiazza con un gioco di specchi gustosamente metacinematografico ispirato a un caso di cronaca. Negli anni Novanta, un'insegnante stringe una relazione con un allievo tredicenne: dopo la galera, si sposano ed hanno tre figli, ormai in procinto di diplomarsi. Dall'esterno sembrano il ritratto della felicità. Ma dietro al loro amore, tutt'altro che sano, cosa si nasconde? Ficcanasa l'attrice indipendente Natalie Portman, come sempre leziosa e perfetta: chiamata a interpretare Julianne Moore, qui insolita femme fatale del Sud che sforna torte e maneggia fucili da caccia, minaccia di scoperchiare un vaso di Pandora per la gioia dei tabloid. A pagarne le conseguenze sarà soprattutto uno straordinario e laconico Charles Melton: bambino interrotto, adulto a metà, regala momenti di sincera commozione in un thriller, per il resto, troppo algido per conquistare tutti. Incerto negli intenti, vario nelle citazioni, May December è un elegante ibrido al femminile le cui dive, magnetiche, affascinano come le star della Hollywood degli anni d'oro. Nella società dell'immagine, siamo tutti voyeur. Ci ossessionano i retroscena, i biopic, i true crime. Ma la complessità dei fatti sfugge puntualmente, anche se allo specchio catturiamo i manierismi e il make-up dei soggetti studiati; anche se, nella passione simulata, l'eccitazione si confonde a volte con la finzione scenica. La verità vola via dalle mani, come una farfalla monarca. (7,5)

sabato 10 novembre 2018

I film che leggeremo: Grandi autori, grandi attori

Widows – Eredità criminale
15 novembre 2018
Sono le mogli affrante di un gruppo di criminali colti in flagranza di reato. I loro mariti avevano una doppia vita di cui non le donne non erano a conoscenza e, siccome l'elaborazione pretende spietate simmetrie, adesso hanno diritto a una doppia vendetta raccogliendo fedelmente l'eredità dei compagni. Colpiscono il sistema coalizzandosi e, insieme, le sale cinematografiche di un mese già pieno di uscite. Se lo sviluppo da classico heist movie poco chiama – l'omonimo romanzo di Lynda La Plante ha già ispirato una miniserie degli anni Ottanta –, lo stesso non può dirsi di un cast femminile al tempo del #metoo. Cuore della rapina una Viola Davis sempre e comunque in odore di nomination. Le menti, invece, sono lo Steve McQueen di Shame e 12 anni schiavo e l'onnipresente Gillian Flynn.


Chesil Beach 
15 novembre 2018
Squadra vincente non si cambia. Lo sa bene Ian McEwan che, passato purtroppo in sordina con l'intenso The Children Act di cui si parlerà a breve, quest'anno torna sul grande schermo portandosi dietro una piccola grande interprete a cui devo il mio amore e il mio odio smisurato per Espiazione: maestoso dramma in costume che sempre da un romanzo dell'autore britannico era tratto. Siamo nei primi anni Sessanta, il sesso è tabù. Come se la caveranno a letto due timidi sposini – lei non poteva che essere, allora, l'instancabile Saoirse Ronan – durante una travagliata luna di miele? Il romanzo, a titolo preventivo, mi aspetta sul comodino.


Un piccolo favore
13 dicembre 2018
Una gentilezza tra mamme, una cosa da poco. Soprattutto se tu sei Anna Kendrick, blogger goffa e svampita, e lei al contrario ha le forme statuarie di una Blake Lively affascinante e autoironica. Peccato che l'invidiata moglie trofeo scompaia nel nulla, con una valigia carica di segreti e un compito ingrato per l'altra. Il giallo è dietro l'angolo, nel film campione d'incassi di Paul Feig, ma si tinge a tratti di glamour e sorrisi sardonici come pare succeda nel romanzo di Darcey Bell. Un po' thriller, un po' chick lit: sarà all'altezza dei paragoni con Big Little Lies?


The Little Stranger – L'ospite
31 agosto 2018 (USA)
Nemmeno il tempo di buttare via la zucca intagliata, di chiudere la parentesi dedicata a brividi freddi e salti in poltrona, che mi trovo di nuovo a pretendere una visione a tema Halloween. E che visione! Una villa infestata, l'arrivo di uno straniero, il confine invisibile tra psiche e paranormale. Scrive Sarah Waters, consolidata promessa del mystery. Dirige Lenny Abrahamson, che dopo l'indie si dà al gotico. Ruth Wilson, Domhnall Gleeson e Charlotte Rampling, invece, figurano come eccellenti padroni di casa. I tiepidi pareri d'oltreoceano suggeriscono di non aspettarsi il bis, no, all'indomani dei fasti di The Haunting of Hill House. Male che vada, comunque, cosa pretendere di più british di così?


Wildlife
19 ottobre 2018 (USA)
Ci sono tanti, troppi buoni motivi per cui dovremmo affrettarci a conoscere la storia dei coniugi Brinson. Proviamo a elencarne appena un paio. Si tratta di un dramma neorealista in stile Revolutionary Road che parla di sogni – l'amore per sempre, quello americano – in crisi: a portarlo in libreria è stato l'osannato Richard Ford. È l'esordio alla regia di Paul Dano, attore passato dall'altra parte della macchina da presa fra gli applausi di Cannes e del Sundance. Segna la prima collaborazione tra alcuni dei più grandi e sottovalutati di Hollywood: Jake Gyllenhaal e Carey Mulligan. Abbastanza per diresì, sì, assolutamente sì?


Bel Canto
14 settembre 2018 (USA)
Avrebbe dovuto dirigerlo il nostro Bernardo Bertolucci prima dell'inattività, pare. Lo ha salvato dal cestone delle sceneggiature dimenticate, infine, il volenteroso Paul Weitz. È tratto da un titolo Neri Pozza atteso al varco per una ristampa richiestissima in rete. Ha fra i protagonisti i premi Oscar Julianne Moore, qui splendida cantante lirica, e un Ken Watanabe sotto sequestro. Insomma, quando è così, viva il riciclo. Presi in ostaggio dai terroristi in un paese del Sud America, i due saranno al centro di una storia di suspance, solidarietà e forse amore. Che melodramma vecchio stampo sia, purché appassionato.

lunedì 29 gennaio 2018

Mr. Ciak: Ella e John, La ruota delle meraviglie, Napoli velata, Suburbicon

Lui malato di Alzheimer, lei con tumori dappertutto. Relitti che insieme, suggeriva Michael Zadoorian nel suo bellissimo romanzo, facevano una persona intera. Lui il braccio, lei la mente. Una loquace Mirren fa da navigatore e copilota a un meraviglioso Sutherland nel viaggio della vita. Direzione: la casa di Hemingway. Inseguendo la poesia di un autore immortale, ricordi di famiglia, il mito di un amore che non vuol morire. La meta cambia (tra le pagine si puntava infatti a Disneyland, con un briciolo di nostalgia per quei figli ormai grandi e accasati), si aggiungono segreti e vecchie gelosie strada facendo, ma restano intatti gli equilibri preziosi fra risate e lacrime, la distanza di sicurezza da qualsiasi furberia, certe occhiate tanto sincere da ispirare la commozione. Dopo i fasti della Pazza Gioia, un Virzì sempre in fuga, ma stavolta in trasferta hollywoodiana, ci racconta un altro bel viaggio disperato – l'ultimo, si presuppone – ma di cui, di ritorno dal cinema, non conserveremo né cartoline né ricordi per sempre. Il regista livornese evita i pietismi e il noioso glamour delle Nostre anime di notte, confezionando un romantico Thelma & Louise in cui ogni cosa va, tutto sommato, come dovrebbe. Virzì, regista di cuore e alchimie, dirige però con il pilota automatico. Lascia fare alle sue stelle splendenti. A una storia, comunque assai nelle sue corde, che emoziona da sé, con poco. Si limita perciò a sedere fra il chiacchiericcio irresistibile di Ella e John. Un po' stretto, intimidito ma non troppo, Paolo va in America, e non per fare il logico salto di qualità. Porta con sé uno sguardo sensibile, limpido, ma leggermente spaesato. Parla del mandato di Trump, del melting pot, di minoranze e multiculturalismo. Di una America per sentito dire, con tutti i clichè a fin di bene del caso: quella di chi l'ha vista di passaggio, e soprattutto al cinema – gli sceneggiatori, italianissimi, sono infatti i soliti nomi fidati. Perché meno a suo agio dei colleghi Muccino e Guadagnino in tema di trasferte internazionali, ci si augura per Virzì che The Leisure Seeker – recitato alla perfezione, godibile ma senza sorprese: note di demerito per il montaggio frettoloso e per l'approssimativo doppiaggio italiano – sia stato soltanto una vacanza. Che il biglietto, il suo, preveda un'andata e un ritorno a casa. (6,5)

Allen, il cinema d'autore sotto l'albero di Natale, film belli e brutti ad anni alterni. Cosa ci saremmo dovuti aspettare, lo scorso dicembre, dopo quel Cafè Society che qualcosa di buono l'aveva? Si arriva nella Coney Island di vent'anni dopo, la guerra passata da pochissimo, con un titolo e soprattutto un cast che promettono meraviglie. Ci si aspettava il Blue Jasmine secondo Kate Winslet, l'en plain. La sua Ginny – i mal di testa, la bottiglia sempre vicina, gli abiti di scena rispolverati a ogni piccola occasione – si sognava attrice e, a quarant'anni compiuti, si è svegliata cameriera. Accanto a Belushi, marito giostraio che forse non la merita, e a un bambino piromane. All'interno di un parco divertimenti che mette tristezza profonda suggerendo allegria a tutti i costi. Qualcosa cambia con il ritorno a casa della fatale Juno Temple, figliol prodiga in fuga dall'amante gangster. Qualcosa, nelle speranze di una protagonista illusa ed esasperata, va irrimediabilmente in tilt quando Timberlake – il bagnino/drammaturgo che ce li racconta dal primo all'ultimo – si accorge di quanto carina sia, sotto la pioggia, la sua figliastra. Il cielo minaccia acquazzoni sui caroselli. E un Allen sulle orme di Tennessee Williams, quantomai rigoroso e teatrale, minaccia invece tragedia. Misurato e strabordante insieme, vecchio ma nuovo, Wonder Wheel è un melodramma che scorre leggero pur portandosi appresso il peso di colpe, amarezze, rimpianti. Gli attori lo fan da padroni, su tutti una arcigna Winslet che con i suoi monologhi, con i suoi travasi di bile, ci sta così bene da non sorprendere più. La scrittura si regge – la si fa reggere, soprattutto: merito degli interpreti in parte – ma non resta impressa. Se non alla Winslet, se non a un Allen bravo a metà, la meraviglia è tutta da imputare allora alla fotografia dell'immancabile Storaro: capolavoro di spiagge assiepate e giostre malinconiche, di luci al neon che illuminano diversamente ogni angolo del film, per regalare a una donna sull'orlo di una crisi di nervi squarci di libertà e riflettori fissi. Il tutto, a bordo di una giostra che piace nonostante gli alti e bassi. Di una ruota – come quella della fortuna – che a volte gira, altre ti schiaccia. (7)

Ferzan Ozpetek, isolata certezza di buon gusto quando il cinema italiano puzzava ancora di delusione, torna nella terra che l'ha accolto dopo la pare non riuscitissima parentesi turca. Cambia genere, cambia città. Il regista di Mine Vaganti spegne gli arcobaleni ed esplora la Campania più segreta. Napoli, come l'argentiana Torino, ha i suoi coni d'ombra, i suoi misteri. Se ne accorge il medico legale interpretato da una ritrovata Mezzogiorno – invecchiata negli anni lontano dal set, ma sempre intensa, sempre bella –, che frequenta antiquarie streghe, saltimbanchi, sconosciuti destinati ad andare incontro a morte certa. Dopo una notte di passione, in quella scena lunga e bollente che già fa discutere, il suo fascinoso amante – un Borghi senza accento romano e senza vestiti addosso – viene ritrovato assassinato. La protagonista, che deve aver perso il contatto coi vivi a furia di interrogare cadaveri e di rivangare il passato di una mamma morta d'amore, si spinge insieme al regista fuori dal seminato; nei territori dell'esoterico. Il capoluogo campano, animale notturno e a sangue caldo, offre lo scenario più suggestivo. I protagonisti, nudissimi, si svelano con generosità. Abbiamo il doppio di Ozon, le follie fra sconosciuti di Bertolucci, le scale a chiocciola e i sosia di Hitchcock, le sale autoptiche di Argento. E di Ozpetek, uno chiede, che c'è? Il gusto per il kitsch, che però a piccole dosi piace. La colonna sonora con quel neomelodico tanto orientaleggiante di per sé. La mano di chi manovra meglio la macchina da presa che i fili delle sue troppe trame. Napoli velata ha infatti in una scrittura approssimativa, confusa, a metà fra il melodramma e il mistery, i suoi difetti peggiori. L'autore italo-turco, cantore di storie e sentimenti vecchio stampo, non sa gestitire gli omaggi e la tensione. Certamente nel suo se alle prese con il percorso psicologico di un'amante ossessionata, smarrisce la bussola alla ricerca di un'improponibile dimensione corale – qualche figurante rischierà di risultare ridicolo (la poliziotta Calzone, la medium Santella, il passepartout Barra), qualcuno messo in un angolo (la Ranieri, la Ferrari), pochissimi figure chiave (la teatrale zia di Anna Bonaiuto, solita garanzia di eleganza). Cala un velo nero, insomma, su un mélange di generi che resta parzialmente riuscito. Su un epilogo enigmatico o incompiuto quanto il resto, che però suggestiona. Nonostante le sbavature, insomma, il velo dell'insolito Ferzan non è di quelli troppo pietosi. (5,5)

I favolosi anni Cinquanta, lindi e pinti proprio come nelle réclame. Un quartiere idilliaco, super-esclusivo, che da una réclame sembra saltato fuori. Gli immancabili colori pastello, il giardino curato di tutto punto, le cerimonie d'altri tempi fra buoni vicini di casa. In quel microcosmo, nel cuore della notte, si consuma un delitto nell'indifferenza generale: una rapina finita male e la famiglia Lodge – padre, figlio, cognata – seppellisce la matriarca e in fretta trova una nuova formazione. Le cose non sono come sembrano. Lo capisce presto, e a sue spese, il piccolo di casa. Dirige Clooney, recitano un subdolo Damon e una doppia Moore, soprattutto scrivono i fratelli Coen. Che quasi mai mi piacciono, a onor del vero, ma che indubbiamente brillano per scrittura e ironia. Suburbicon, commedia nera a metà tra Hitchcock e il loro Fargo, delude il Festival di Venezia la scorsa estate e in sala, per quanto curato e godibile, perfino divertente, si rivela un intrattenimento innocuo e senza grande mordente. Purtroppo, negli esiti e nei moventi, prevedibile come immaginate tu e l'assicuratore di un Oscar Isaac baffuto e sopra le righe. Troppo presi a protestare con schiamazzi e vandalismo gratuito contro il trasferimento di una famiglia afroamericana, gli abitanti del quartiere – ipocriti, benpensanti, subito pronti a puntare il dito verso la pagliuzza del diverso – non si accorgono della trave nei loro occhi. Della cattiveria a un passo, nascosta neanche troppo accuratamente sotto la superficie – questione di una sceneggiatura di un nero sbiadito, che non punge, non graffia e purtroppo superficiale resta. Come in Carnage, soltanto i bambini sanno andare oltre: tendere la mano al di là del buio oltre la siepe. Tanto quanto nello sfarzoso ma vacuo Ave,Cesare!, l'omaggio non ha gambe proprie su cui camminare. L'erba del vicino, la linfa dei Coen, in quel di Suburbicon l'avremmo immaginata molto più verde. (6)

giovedì 25 febbraio 2016

Mr. Ciak: Deadpool, Freeheld, Pride and Prejudice and Zombies, La Quinta Onda

Non sono un fan del cinecomic: anzi, nei riguardi del genere mi fingo snob e indifferente. Non sono amico, nella vita di tutti i giorni, di chi gioca a fare lo spiritoso a tutti i costi: detesto in automatico chi tutti trovano simpatico e, nei film, faccio il tifo per i musoni. Almeno hanno una personalità e un vestiario total black, che non guasta. Cosa ci faccio, dunque, un giovedì sera, al primo spettacolo di questo Deadpool, che forse era vietato ai minori e forse no, forse era un fumettone come tanti e forse no, che forse avrebbe potuto sorprendermi e forse no? L'impressione, a pelle, che il mercenario chiacchierone – lo stesso che, pare, non si sappia bene di quale sponda sia; quello che non vuole unirsi all'allegra brigata degli X-Men e che, rompendo la quarta parete, chiacchiera spesso con i suoi spettatori – fosse più come Kick Ass, outsider indipendente e sarcastico, che un personaggio di Stan Lee, inconsueto giusto all'apparenza. Partono i titoli di coda, che hanno sì del geniale, e pian piano conosciamo il pimpante Wade, la sua sexy ragazza e la malattia che l'ha reso un supereroe. Ma guai a chiamarlo così. Perché Deadpool è "antieroe" che si definisce, semmai, e perché tra i suoi compiti – oltre quello di recuperare l'amata rapita e di combattere il crimine organizzato – c'è quello di trovare il folle scienziato dall'accento british e costringerlo a dargli una faccia nuova. Non ha una nobile missione, interessi politici in ballo, una dolce zia da proteggere: con la bellissima Vanessa c'è stato il sesso, tanto e fantasioso, ma solo dopo l'amore vero. Invasioni di spot televisivi, articoli e clip, ci promettevano a questo punto grasse risate, il politicamente scorretto, la Marvel che non ti aspettavi. Il cinecomic finto-alternativo di Tim Miller, invece, riesce a stento a far sorridere: americanissimo, intraducibile, becero. Ci si limita a: oh, ecco le chiappe di Ryan Reynolds: quanto osa. O ancora: oh, ha fatto un'allusione e un'altra ancora: ammazza, com'è trasgressivo. Dalla sua, la sbarazzina colonna sonora anni '80, i comprimari buffi – il tassista dal cuore spezzato, l'amico barista, la coinquilina cieca – e la furbizia degli affabulatori. Sottraetegli, però, le freddure e i fardelli del pessimo doppiaggio italiano – il cattivo chi è, Joe Bastianich in persona? Di un personaggio eccessivo, sboccato e irresistibile su carta, resta allora una dimenticabile oretta e mezza, in cui perlopiù se la cantano e se la suonano: eppure, altrove, mi fanno ridere il nonsense, le citazioni, il triviale. Qui, invece, le brutture e le parolacce lasciano il tempo che trovano, il divieto ai minori non ha motivo d'essere e tutto l'ambaradan pubblicitario, che ci prometteva il sesso e il sangue, si è rivelato il più ingannevole specchietto per le allodole. Quando il trailer, dunque, ha più idee del film in sé. (5)

Nessuno sa come viveva la detective Laurel  prima della malattia. Un tumore ai polmoni, fulminante. L'abbandono di quel lavoro che la appassionava e l'emergere di una persona accanto a lei che né i colleghi, né i concittadini conoscevano bene. Stacy non è semplicemente la sua coinquilina: si sono conosciute un anno prima, hanno messo su una modesta casetta, hanno comprato un cane. Si sono volute bene e adesso, nel momento più buio, continuano a volersene. Ma ecco, con l'emergere di quella doppia verità – il cancro, l'omosessualità -, i retroscena di un ambiente sessista e le falle del sistema giudiziario americano. Un tema quantomai attuale, questo, in giorni di chiacchiere vuote e pubbliche manifestazioni di ignoranza. Il Family Day contro le Unioni Civili, le scritte sul Pirellone che si oppongono alla nuova normalità. E io che mi auguravo che al Circo Massimo aprissero le gabbie, oppure che con una sommossa, con un tranello, si proiettassero in mezzo alle false famiglie felici le sequenze clou del recente Freeheld. Un film sulla fragilità del corpo, l'indissolubilità del pregiudizio, la purezza del sentimento. Anche se il tema – importantissimo – è più grande, questa volta, di un cinema impegnato ma standard. Unioni Civili? Si è favorevoli, inutile dirlo, perché di mezzo c'è l'amore. Magari, Ennis e Jack non facevano quella finaccia lì. Magari, Adele e Emma non si lasciavano così, su due piedi. Ma alcuni l'amore non lo capiscono, e può starci, ma in ballo non c'è solo il matrimonio, il passeggiare alla luce del sole, le adozioni di cui i più parlano e sparlano. In Freeheld, infatti, ci sono anche le scartoffie, i cavilli tecnici, una legge da aggiornare. Per ricevere la pensione di lei, quando Laurel – dopo ventitrè anni di servizio – morirà. Per non dovere abbandonare una casa costruita insieme, come se la giovane Stacy fosse un'estranea qualsiasi. Per poterne farle visita all'ospedale e dire sì, sono una sua familiare: a tutti gli effetti. Tratto da un'intensa e illuminante storia vera, Freeheld scende in piazza e si batte per l'uguaglianza – nei diritti come nei doveri, nell'amore. Visione che mi ha commosso ma che non ricorderò a lungo. Imprescindibile, ma non per uno spumeggiante Carrell, né per uno Shannon ineditamente magnanimo. Non per una Julianne Moore di grande sensibilità e bravura, né per la partner Ellen Page che, dopo l'outing di qualche anno fa, è vittima del cliché. Ma imprescindibile, appunto, a testimonianza che l'amore, anche se a volte deve un po' imbrogliare, smuovere le acque, vince su tutto e tutti. E che l'unica vergogna, ora e per sempre, sarà ostacolarlo. (6,5)

E' cosa universamente nota che i personaggi e, di conseguenza, i romanzi di Jane Austen, a lungo, almeno, non mi abbiano ispirato ammirazione e simpatia. Anzi. Colpa di una conoscenza preliminare iniziata con Emma, leziosa e attaccabrighe, e di storie d'amore e etichetta più indirizzate a un pubblico femminile. Penso, infatti, che i romanzi non abbiano un sesso, e per capire che c'era altro, al di là dei sospiri e dei matrimoni combinati, mi è servito l'esame di Letteratura Inglese, due Sessioni Estive fa. Me ne sono fatto un'idea meno superficiale e la cara Jane l'ho capita, sì, ma ci siamo limitati a incrociarci sul grande o sul piccolo schermo, all'occorrenza. Prendere il suo Orgoglio e pregiudizio e stravolgerlo completamente, operazione blasfema per i più, a me non sembrava dunque cosa chissà quanto azzardata. E se le belle e affiatate sorelle Bennet, un giorno, incontrassero gli zombie? L'idea è passata prima in testa allo scrittore Seth-Smith Grahame, in libreria, e poi in sala. Pride and Prejudice and Zombies, parodia horror dalla gestazione assai travagliata e destinata, negli anni, a una serie sfortunata di rimandi – all'inizio, infatti, Hollywood voleva la Portman nel cast e O'Russell alla regia -, può, pur facendo il verso a un capolavoro intramontabile, lasciarsi guardare con piacere, attenzione e credibilità? Il film di Burr Steers, a sorpresa, è semiserio e curato nei dettagli – truppo e parrucco, dico, ghigni mostruosi e effetti splatter compresi -, con un'impensata accuratezza filologica, soprattutto nella prima ora. La Elizabeth dell'incantevole e fiera Lily James conosce l'etichetta, le arti marziali, il ballo di coppia. E' bene educata, in età da marito, abbastanza istruita per rispondere a tono al Darcy del poco carismatico Sam Riley e per respingere schiere di redivivi. Ma una fanciulla, in sé, quante risorse può avere, di grazia? Può essere elegante e battagliera, preziosa e selvaggia insieme? Le battute sono spesso identiche – si parla di sentimenti, uguaglianza tra sessi, virus mortali – e, alla dichiarazione d'amore più celebre della letteratura, seguono attizzatoi puntati, un corpo a corpo tra lui e lei. Per una volta, dalla mia, avrei gradito più genuina stupidità: Pride and Prejudice and Zombies non vuole far ridere, si dilunga anche un po' e, con il pilota automatico delle più classiche produzioni britanniche, ha poche botte di fantasia – oltretutto, assicurate dalla presenza di un esilarante e esagerato Matt Smith. Per me, che non amo la versione originale, la fin toppa attinenza al testo ha rovinato la pazza idea che c'era alla base. (Quasi) la solita trasposizione, ma dalla chiave di lettura parzialmente inedita. Poteva essere meglio o peggio, be', dipende dai punti di vista, ma questi inglesi – nel cast, gli immancabili Dance, Booth, Houston e Lena Headey – sono fin troppo a modo, glamour, per darsi al trash che cercavo io. (6)

Il mondo che tutti noi conosciamo cambia nel momento in cui un'astronave di altri pianeti oscura i cieli degli Stati Uniti. Se ne sta lì, ferma, e gli alieni non si mischiano agli uomini. Verranno forse in pace? L'invasione, lenta e graduale, è iniziata nel momento in cui i dispositivi elettronici ci hanno abbandonato: si vive al buio, all'indomani della prima onda. Poi i fiumi e i mari si ribellano, rompendo gli argini ed erodendo le coste, e infine i volatili diffondono una pestilenza che stermina la maggioranza degli adulti. L'ultima ondata arriva e trova Cassie, sedici anni, sola e armata fino ai denti. In una mano il fugile, nell'altra un orso di peluche. Due genitori sepolti, un fratello minore da ritrovare, imparare a sparare a bruciapelo: gli invasori, gli altri, sono uguali a noi. Da una parte, la sua ricerca e l'incontro con un misterioso e premuroso coetaneo che vive nei boschi. Dall'altra, la vita del piccolo Sammy in un campo militare. Se gli adulti non ce l'hanno fatta, i bambini devono infatti imparare in fretta l'arte della guerra. Con lui c'è Zombie, un adolescente ferito che nell'invasione ha perso la famiglia e l'identità, e un cattivo tenente che non guarda in faccia a nessuno. I ragazzini uccidono e vengono uccisi, l'innocenza si perde premendo il grilletto e gli extraterrestri, silenziosi e discreti usurpatori, ci ricordano le nostre, di invasioni massive, quando cercavamo terre promesse, posti al sole e nuovi continenti. Sembrerebbe, su carta, l'erede lampo di Hunger Games: una protagonista tenace, la violenza che non fa eccezioni, una trilogia in corso di pubblicazione. Sembrerebbe, con a bordo una giovane attrice che è un cavallo di razza, che lo sci-fi del bravissimo Rick Yancey, al cinema, abbia trovato la sua dimensione ideale. Con il condizionale però. Perché La quinta onda, trasposizione frettolosa e tiratissima di un romanzo che qualche anno fa mi aveva molto sorpreso, racconta una storia che è la stessa del libro che l'ha ispirato, ma che non è la stessa. Banalizzata e ridotta ai minimi termini, diventa un intrattenimento modesto ed essenziale, che lascia a casa i tratti distintivi dei mondi avventuosi di Yancey – l'ironia, la crudeltà, tre punti di vista sapientemente resi – e poco stupisce, con un lato visivo curato a sufficienza e una sceneggiatura ridotta all'osso: un taglio netto ai dialoghi e alla caratterizzazione dei protagonisti, le navicelle di un District 9 e gli amori impossibili post Twilight. Né brutto né bello, rimarrà quasi sicuramente figlio unico e finirà diritto nel mio personale dimenticatoio: un limbo di film visti e scordati senza remore, di occasioni perse in partenza. Quando la logica del guadagno facile vince sul bisogno di una trasposizione, e ci perdono la potenza, la tensione e un po' anche il cinema. (5,5)

domenica 12 aprile 2015

Dear Old Mr. Ciak #1: Once, A Single Man, Il discorso del re, Tra le nuvole

Buona domenica a voi, amici, con una nuova rubrica che tanto nuova non è. Non mi piaceva, quando capitava di parlarvi di un film uscito da più di qualche anno, inserirlo negli stessi post con le novità al cinema o robe sconosciute, viste in rete coi sottotitoli. All'occorrenza, insomma, il solito Mr. Ciak vi parlerà di “care e vecchie” conoscenze. Per quando riguarderò cose che già conosco; o per quando, con lo spirito del rigattiere, pescherò dal cilindro (o dall'hard disk) film che mi ero perso. Si spera soprattutto cose belle.

[2006Once l'ho visto una volta sola; me l'ero fatta bastare. Allora lo avevo trovato bellissimo senza sapere perché: quella bellezza che sfuggiva alle descrizioni aveva una magia particolare, la stessa che pervade questo minuscolo film, e temevo che potesse sparire a una visione rinnovata. Certe emozioni sono un buona la prima, non è destino si ripetano. Sarebbe troppo facile impacchettarle, chiuderle sotto vuoto, respirarle quando se ne ha voglia. Sono passati nove anni, o così dice Internet. Il tempo necessario a rimuovere tutti i dettagli della trama – soprattutto se, come in questo caso, è esilissima – e a rinnovare le cartelle dell'iPod. Pezzi imbarazzanti che spariscono, ma canzoni che restano, come quella Falling Slowly che è il leitmotiv del musical di John Carney e che si ricorda per gli applausi scroscianti agli Oscar e i ripetuti tragitti casa-scuola. Ci mettevo due canzoni e qualcosa per arrivare a destinazione. Ora non le conto, devo camminare sotto un ponte lunghissimo e tenere le orecchie aperte ché non si sa mai, ma quando le tracce partono c'è un duetto piano-chitarra che non può mancare. Scettico davanti all'avventura americana di Carney, ma soddisfatto anche da Being Again, commerciale ma non svenduto, avevo avuto voglia di rivedere Once e poi non più. Finché l'ho beccato su uno di quei canali del digitale che non guarda nessuno, romantico e evocativo come lo ricordavo. Io, a corto di definizioni come la prima volta. Cos'ha di speciale Once non saprei, ma ha qualcosa che incanta – nonostante un direttore della fotografia latitante, un budget esiguo, attori vestiti come gli andava quel giorno, l'immagine slavata da documentario. Sembra vecchio, e lo sembrava già allora. D'altre epoche, d'altro mondo. Non la Dublino dei turisti e della birra dorata. Una città qualsiasi, due persone qualsiasi, per una storia che nasce con la musica e non finisce. Glen Hansard e Marketa Irglova camminano spalla a spalla, si aprono in due il cuore davanti a un pianoforte, vanno a zonzo con la chitarra in spalla e una aspirapolvere scassata al guinzaglio. Lui, aggiustatutto col cuore che non si aggiusta e il sogno della fama. Lei, immigrata con un matrimonio in forse e lavoretti salturi. Potresti incontrarli duranta una passeggiata in una grande città. Chi suona per strada, chi vende rose. Dura pochissimo e quando finisce gli occhi sono lucidi senza apparente motivo e l'iPod peserà di una dozzina di splendide canzoni in più. Quel ragazzo e quella ragazza sprovvisti di un nome di battesimo si cantano in faccia i loro sentimenti – amori distanti che poi arrivano a coincidere, gettando le fondamenta invisibili del loro invisibile amore – e vivono grazie alla musica una delle storie più toccanti degli ultimi anni, nonostante ci sia il sentimento e manchi tutto il resto. Un futuro insieme, un numero di telefono, perfino un bacio. Ma forse è toccante per quello: il cantarsi timidamente l'incoffessabile con la purezza, e le voci, che hanno gli angeli. (8)

[2009] Colin Firth, vittorioso a Venezia, ambiva alla statuetta per il Miglior Attore. Era il tempo in cui non mi prendevo la briga di fare le ore piccole per dare un'occhiata, prima della cerimonia, alle pellicole in lizza e in cui il radical chic era l'equivalente di un grosso segnale di pericolo. Evitavo certi film, pensando non fossero cosa mia. E non sono tutt'ora cosa mia, ma il melodramma di Tom Ford declinato interamente al maschile, col suo suggestivo sposalizio di autorialità e rigorismo, ha fascino - prima volta al cinema di uno stilista di fama mondiale, indiscusso arbiter elegantiae anche per il profano che fa spesa da H&M. Arriva all'anima, e soprattutto agli occhi, attraverso il canale a senso unico dell'eleganza. La storia di George, professore gay di mezza età nella Los Angeles dei primi anni '60, è quella di un uomo solo. Di un vedovo nel cuore che si trascina tra lavoro e vita privata, sfiorando cupi pensieri suicidi e richiamando, con incubi in bianco e nero, l'inizio e l'epilogo della sua storia d'amore. Si sono voluti bene per sedici anni, nella loro casa di vetro da falsi scapoli. Quando Jim è morto, George non ha raccontato a nessuno, se non alla sua migliore amica, lo strazio immane di quella perdita clandestina. Erano gli anni della Guerra Fredda, dei cartelloni che pubblicizzavano Psycho e degli aspiranti sosia di James Dean, ma ci si preoccupava di dare un senso all'amore. Firth, con il suo classico aplomb britannico e un'incredibile somiglianza col nostro Mastroianni, bravissimo per me lo è sempre, ma qui di più. Completi scuri d'alta sartoria e un film intero cucito addosso, in cui si muove con lo sguardo appannato ora dal pianto, ora dal desiderio, e una pistola carica a portata di mano. Rigido, serio, colto si specchia in una trama che assume per osmosi le sue movenze. A Single Man è così, impeccabile ma trattenuto. Si piange addosso solo in una delle prime sequenze, dopo una chiamata che stronca una vita, ma sarebbe una blasfemia dire che non comunica anche a modo suo, col controllo di chi vorrebbe confessarti la sua perdita, ma non può. E incorniciati ad hoc risultano più avvenenti del solito la meravigliosa Julianne Moore, che ha un ruolo breve ma significativo; il giovane Nicholas Hoult, con gli occhi di un azzurro irreale e i tratti scultorei; Matthew Goode, visto sempre qui e lì, ma mai colto impreparato. Le mascelle volitive, le labbra carnose, bellezza semplice e senza inganno, messe in risalto come in pittura. Il nudo, eroico, mostrato con una virilità davvero poco queer, dunque inattesa. Ford, con una fotografia languida e scene acquose, colpisce per lo splendore formale che va ricercando nei dettagli più minuti, mentre con voce spezzata ti racconta il più crudele e nudo dei dolori. Quello che, spaventosamente universale, è vietato svelare. (7,5)

[2010] Come dimenticare la vittoria del Discorso del re che, qualche anno fa, con parecchio sgomento, aveva sbaragliato una concorrenza di tutto rispetto? Alcuni rosicano ancora. Quella che per pigrizia non avevo seguito con l'hype degli ultimi tempi era stata un'annata fortunata: ricordo che c'erano, sul tappeto rosso, esempi di grande cinema, anche se, qualora qualcuno mi avesse chiesto una preferenza, non avrei nascosto il mio entusiasmo per le ballerine folli di Aronofsky. Immancabile, sul podio, il piccolo film in costume. Quest'anno c'era The Imitation Game; quell'anno il più fortunato dramma di Tom Hooper. Il vincitore che ha preso tutto: ha impugnato lo scettro e indossato la corona del Miglior Film. Il discorso del re è una rigorosa commedia british, vicina ai gusti dello spettatore medio e alle preferenze dell'Academy. Ineccepibile e aristocratica, anche se la vicenda del Duca di York, in tempo di guerra e di abdicazione, sa suscitare qualche risata che non ne intacca la sobrietà. Mi è piaciuto. E' dalla parte del popolo ed è di cuore, alla faccia della pellicola d'autore e di reali che non mostrano bontà in pubblico. Però le nominations erano tante e le quattro vittorie troppe. Resta una deliziosa ricostruzione storica senza un comprimario e un dialogo fuori posto, che ha tutta l'aria del polpettone sulla Grande Guerra e un'inaspettata frivolezza. Déjà vu con il successo inspiegato di Shakespeare In Love. Godibile, confezionato con maestria, ma similmente sopravvalutato. Il dato è tratto, inutile piangere sull'Oscar assegnato e impossibile odiarlo. Gli si vuole bene. Si storce il naso nella parte conclusiva, quando un'altra guerra sta per scoppiare e a palazzo ci si preoccupa più di dizione che di questioni di Stato. Un po' come se fuori la gente chiedesse il pane e dentro il sovrano facesse colazione coi cornetti, come disse qualcun altro. Ma Il discorso del re è un prima, il tempo delle lotte di tutti i giorni e sì, anche dei croissant; termina con un lieto fine, prima che il mostro Hitler – con i suoi soldati e i suoi discorsi alla massa senza balbettii – glielo rovini. Colin Firth, con tutta la sicurezza con cui è possibile essere insicuri, è claudicante nel parlare e fragile in maniera convincente. Sua sposa fedele, una Helena Bonham Carter che quando non fa l'idiota è assai capace. Suo allenatore, amico e psicologo-fai-da-te, un Geoffrey Rush al di sopra dei colleghi: spinge il futuro Giorgio VI a canticchiare e a coniare parolacce per superare l'incertezza e nel suo studio, quello con i muri scrostati e spogli che ricordano la piattezza dei fondali teatrali, la macchina da presa dà il meglio e il mestiere dell'istrione si fa ammirare. (7)

[2009] Un protagonista che colleziona miglia e teste per un'altra commedia d'autore che, sempre agli Oscar, con un numero sproporzionato di candidature, si era fatta notare. Quando i film selezionati non sembravano dovere durare per forza dieci ore, la giuria era meno snob, i capricci sentimentali del divo brizzolato facevano sognare le casalinghe. L'era d'oro di Reitman jr. che poco prima aveva lanciato Ellen Page in una commedia indie che è già cult. Ora, meno irriverente e pubblicizzato, trova fredda accoglienza all'estero, ma non ci fa scordare che resta sempre in gamba. In Tra le nuvole sembra un Cameron Crowe piacevolmente imbastardito: dirige una commedia romantica, infatti, che parla del più cinico degli amori. Quello verso sé stessi: il solo a non darci buca. La regia è convenzionale, ma lui ha una cifra stilistica inconfondibile che si nota in uno script arguto e nella semplicità delle intenzioni, elevate grazie a un cast ottimo e a dialoghi che sono il segreto di tanto successo. La trama, solita ma con un retrogusto che turba, segue le vicende di un cinquantenne che non sta fermo. Vive a cavallo dei fusi orari e per il senso di stordimento da jet lag. Lui è quello che, in periodo di crisi, ha licenziato una persona che conosci. Quando l'avvento della modernità minaccia di di renderlo finalmente sedentario, che sarà della sua voglia di vivere sospeso in eterno, nel blu dipinto di blu? La rivelazione Anna Kendrick, squalo in erba, già allora spiccava per quella simpatia che adesso l'ha resa richiestissima. Vera Farmiga, quarantenne di un altro pianeta, sbocciava piano e in ritardo: Reitman l'ha aiutata. Insieme a lei – coppia di romantici coi giorni contati, cuori in scadenza – il George Clooney di cinque anni fa, lo scapolo ambitissimo, con la maturità che ha trovato da poco. Si sa che i film e le sceneggiature, se brillanti, accorciano i tempi. E che le stanze vuote sul lago di Como, se viaggi in solitaria, non si riempiono come per magia. Lui, che mi sta mortalmente antipatico nella vita vera, qui dovrebbe fare altrettanto, e avrebbe davvero il gioco facile, ma il suo vagante Ryan Bingham – sincero come uno mai si aspetterebbe – suscita qualcosa che somiglia all'empatia. A volte, se ti fermassi a pensare a cosa ti rimarrebbe, a chi ci sarebbe per te, ecco... sarebbe la fine. Hai presente la sensazione? Perciò fa' una valigia e via; parti. Vola sul mondo. Senti le lancette scorrere, e ignora: rimanda. Sii passeggero della tua vita, come in Iggy Pop. (7)

martedì 27 gennaio 2015

Recensione [libro e film]: Still Alice - Perdersi, di Lisa Genova

Cari lettori, buongiorno a voi. Oggi post più denso del solito – ma spero solo intenso, non dispersivo – in cui vi parlo della mia ultima lettura. E siccome Still Alice è arrivato anche al cinema e, grazie a un'indimenticabile Julianne Moore anche agli Oscar, mi dedico ai confronti e ai paragoni, parlandovi nel frattempo di un altro film che, nella stagione dei premi, sta facendo meritate conquiste. Questo martedì sono un po' anche Mr. Ciak. Ringraziando le gentili Marina e Cetta per la copia staffetta, vi auguro buona lettura e buona visione. Fatemi sapere la vostra, come sempre: sul film, sul libro, su quello che vi va. 
Sto perdendo i miei ieri.

Titolo: Still Alice – Perdersi
Autrice: Lisa Genova
Editore: Piemme
Numero di pagine: 293
Prezzo: € 16,90
Sinossi: C'è una cosa su cui Alice Howland ha sempre contato: la propria mente. E infatti oggi, a quasi cinquant'anni, è una scienziata di successo, invitata a convegni in tutto il mondo, che ha studiato per anni il cervello umano in tutto il suo mistero. Per questo, quando a una importantissima conferenza, mentre parla davanti a un pubblico internazionale di studiosi come lei, Alice perde una parola - una parola semplice, di cui conosce benissimo il significato - e non riesce più a ritrovarla nel magazzino apparentemente infinito della sua memoria, sa che qualcosa non va. E che nella sua testa sta succedendo qualcosa che nemmeno lei può capire. O fermare. La diagnosi, inimmaginabile fino a un momento prima, è di Alzheimer precoce. Da allora, Alice, perderà molte altre parole. Perderà pian piano i nomi - per primi, quelli delle persone che ama, suo marito, i tre figli ormai adulti. Perderà i ricordi, ciò che ha studiato, ciò che ha fatto di lei la persona che è. In questo viaggio terribile la accompagnerà la sua famiglia: il cui compito straziante sarà di starle vicino, di gioire con lei dei rari momenti, luminosi e fugaci, in cui Alice torna a essere Alice. E, soprattutto, di imparare ad amarla in un altro modo.
                                   La recensione
Mi ero perso Perdersi, anni fa, per pigrizia e non curanza. Immaginavo che dietro quel verbo riflessivo all'infinito ci fosse un manuale, un saggio d'auto aiuto; non un volto, non una storia. Non un nome. Quando hanno annunciato il film, poi sì che ho capito. E per una volta, vi dirò, sono felicissimo di possedere l'edizione che ho io, la più recente, con il poster cinematografico in copertina: io che le ristampe, eppure, non le amo troppo. L'eccezione, da attribuire al titolo originale che accompagna quello italiano, diventato improvvisamente un sottotitolo posto come in secondo piano. La lingua straniera si concentra sulla persona, su quello che durerà per sempre; la nostra, secca e fatalista, su quello che, al contrario, se n'è andato via, nel cuore della notte, per non tornare mai più. Ci si smarrisce, vero, ma resta un nome, un avverbio di tempo, per ritrovarsi... forse. Ho voluto quel romanzo con due titoli e due significati perché è risaputo quanto le storie che tutti evitano, quelle indicibilmente tristi, mi piacciano. Magari uno la scambia per una sensibilità che in realtà non ho; un altro per forza. Ma vi dico, in realtà, che a me che non l'ho mai provato il dolore fa tanta paura. E leggo, mi documento, faccio e dico, in modo che saprò, un giorno, sopportarlo a denti stretti. Non sono affatto coraggioso. Nei romanzi incentrati sulle tematiche più delicate e spinose, quelli di cui ogni pagina è un taglio profondo, la malattia è di contorno, negli spazi vuoti. E' un scusa per parlare d'amore. La classica Big C, di solito, crea il contesto adatto per una storia impossibile; cosa c'è meglio di una relazione che sfida l'evidenza, i capelli che cadono, i polmoni che ci fanno sputare sangue? In Perdersi, la malattia – un'altra, una descritta di rado tanto che è misteriosa - è la vera protagonista. La si guarda in faccia, ed è come un mare che ti travolge, ti soffoca e ti sputa a riva, senza fiato. Miracolo del self publishing, quando anche un cieco avrebbe capito immediatamente di che pasta è fatto, ha perizia, scrupolosità, realismo, grazia. E' un esordio di una potenza a cui non si crede. Complicato, credibile, in movimento costante. Lisa Genova sa quello che dice. Sa come dirlo con lo stile giusto per l'occasione giusta. Sa che ti farà male e ti ringrazia: devi essere pazzo per leggerlo, ma anche per rifiutarti di farlo. L'Alzheimer – il male più bastardo e imprevedibile del mondo – guardalo da vicino e non piangerti addosso, finché hai ancora gli occhi per guardarlo e le parole per dire quanto terrificante è. 
Mi aspettavo che una neoropsichiatra, una donna di scienza, non fosse in grado di scrivere romanzi. Qui, invece, pur non essendoci qualunquismo di nessun tipo, non si cade nell'eccesso. Ho letto trecento pagine scritte benissimo, che non mi spiegavano una storiellina ricattatoria, né lo facevano con i toni distaccati di una cartella clinica. Perdersi è straziante, ma non gratuito. Ha religioso rispetto verso un dolore non messo all'asta; sarà che è il dolore che ci parla di sé stesso. Ti spiega come funziona il cervello, come funziona quando qualcosa si guasta e non si può riparare, e lo fa con il linguaggio universale del cuore. Ma Perdersi è tanto quello, un conto alla rovescia inarrestabile, quanto la storia di una donna come tante e come poche. Ecco perché mi piace il titolo originale: la chiama per nome e, se è un giorno di quelli buoni, lei magari risponde. Siamo al suo fianco, come al capezzale di un malato. Ma peggio. Anche se raccontato in terza persona, il libro è dentro di lei e i suoi pensieri, onesti e brutali, anche per me – ormai dotato di una buccia dura e brutta - sono risultati bocconi difficile da mandare giù. Chi dirà ai suoi tre figli che, solo facendoli nascere, li ha messi in pericolo? Chi controllerà se ha, nelle tasche del cappoto e nei calzini, vedendola vagare per strada, il biglietto con su scritto l'indirizzo di casa? Chi aiuterà John a trovare le chiavi della macchina, quando lei non troverà neppure il bagno? Lei ha i sintomi, ma non le prove concrete sin dall'inizio. C'è sempre un'altra spiegazione. Quindi aspetta, ma lo sa lei e lo sa il lettore. Che la sua storia, dopo cinquant'anni e altrettanti capitoli pieni di gioie e soddisfazioni, parla di Alzheimer presenile. Vive di parole e le parole le sfuggono, d'un tratto, come sabbia tra le dita. A causa di una malattia ereditaria, lasciatale da un padre che sembrava avere fatto solo di lei la superstite del suo egoismo omicida, il morbo si intrufola e ruba. 
Rinnova traumi, dà vita a lotte già perse contro gli specchi traditori, umilia. Il romanzo è ambientato una decina d'anni fa e, istintivamente, ti viene da chiederti cosa sia stato di lei. Quella Alice che, da bambina, piangeva per la vita troppo breve delle farfalle e che avrebbe avuto, poi, la stessa memoria corta di quelle creature volanti; quella che, e commuove nel farlo, confessa che baratterebbe la sua patologia con un cancro distruttore – perché il tumore ti rende agli occhi degli altri un martire, l'Alzheimer matto. Ti toglie la dignità, anche se quella di Alice resta fieramente intatta, precludendoti perfino la possibilità di decidere quel che sarà dei tuoi domani. Di dire voglio farla finita, voglio morire. Il suicidio, come il nome dei figli e il posto del cellulare, è il più fugace tra i pensieri fugaci. Se ti scordi persino di essere così sofferente da desiderare di non svegliarti più, cosa puoi dire ci sia di più spietato e angosciante? Immaginate se un film, con una grande attrice, per una grande competizione, tentasse di dare risposta a queste domande sparse. Sarebbe potentissimo, ci sarebbe da affogare nel pianto. E invece no. La trasposizione cinematografica è tanto rispettosa della malattia, quanto del romanzo da cui è tratta. Triste, ma la metà esatta del libro. Delicata, ma coraggiosa. Spoglia e essenziale, ha una regia convenzionale, non per questo sinonimo di cattiva direzione del cast, e un uso saggio della messa a fuoco, che isola la protagonista dal resto, in una bolla a tenuta stagna. I registi, coppia anche nella vita privata, sono rimasti insieme, nonostante la Sla diagnosticata a Richard Glatzer, e dirigono un prodotto lucido e pieno di dignità. In cui il marito Alec Baldwin, con chili di troppo e difetti umani, pensava di non meritarsela una famiglia perfetta. In cui tra figli carismatici e competitivi, educati al culto della perseveranza, c'è una pecora nera che fa l'attrice, si chiama Kristen Stewart e si rifiuta di sapere quale gene ci sarà nel suo futuro. Una sorpresa la sua Lydia, interpretata con una convinzione che nessuno – fatta eccezione per chi già l'ha vista brava in Camp X-Ray e Sils Maria – si sarebbe aspettato dall'ex stella di Twilight. Gli sceneggiatori avevano a disposizione passaggi forti e scene madri che avrebbero fatto piacere all'Academy e al pubblico in cerca della lacrima facile; peccato che Still Alice non cerchi questo. Manca il pianto, ma c'è verità negli occhi vacui di una protagonista che ti emoziona senza strafare. Julianne Moore è la più brava in gara perché ti scordi che stia recitando, mentre lei si scorda del resto. Dietro la sontuosa Pike di Gone Girl, fino a poco fa la mia favorita, c'è un diabolico lavoro di costruzione: lei scuote, con un personaggio che sembra scritto dal Dio crudele dell'antico testamento. La Moore, controcorrente, fa l'opposto. Still Alice è un'opera di destrutturazione, di lenta demolizione. Come passare da volto che buca lo schermo – e il suo è un volto bello come pochi, anche a cinquantaquattro anni - a comparsa della propria vita; ad attrice di cellophane. Come spieghi a un'interprete cosa non fare? Rari i pianti, trattenuti gli scatti di rabbia, poche le crisi di panico: il film, al contrario del romanzo, non dà indicazioni temporali. Le scene sono brevissime, il montaggio è secco, le connessioni tra le sequenze sono difficili da individuare. Un cancellino spazza via tutto e sulla lavagna di una vita resta una striscia chiara, gesso, che alla prossima passata di spugna andrà via. La storia di Alice ti spolpa, ma si concentra su quello che la malattia lascia, non su quello che la malattia toglie. E' un countdown da incubo, ma finisce con l'amore, per quel che vale. Con l'amore e con l'Alzheimer. Senza sconti, senza inganni. Se l'amore – secondo la leggenda, dalla parola latina “mors”, morte, con un'alfa privativo davanti – davvero è vita eterna. Così, nel bel mezzo dell'amnesia propria di chi, in un anno, legge troppo, croce sul cuore, potrei giurare che io questa storia non la scordo. No.
Il mio voto: ★★★★ {Il film: 7+}
Il mio consiglio musicale: Bastille – Oblivion


"Are you going to age with grace?
Are you going to age without mistakes?
Or only to take wake and hide your face?"