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mercoledì 17 aprile 2024

Gli snobbati: Estranei | The Iron Claw | May December

È uscito il 29 febbraio. Estranei, rarissimo, somiglia al suo anno bisestile: è un paradosso spazio-temporale, un'eccezione alla regola, una seconda opportunità. L'ultimo Andrew Haigh non fornisce bussole. A guidarci abbiamo solo gli occhi di Andrew Scott: uno sceneggiatore che non ha mai elaborato l'incidente in cui sono morti i genitori, né un'omosessualità vissuta con spavento. Il suo vicino, Paul Mescal, appare invece più disinibito: figlio di un'altra generazione, preferisce definirsi “queer” e usa la sua fisicità come arma di seduzione. I protagonisti si leccano le ferite sulla soglia di un grattacielo vetrato fingendo che il mondo non sia loro precluso; credendosi irraggiungibili. Preferendo infine la vulnerabilità alla solitudine, uno straordinario Scott ci conduce nella casa in cui è cresciuto: per diventare un uomo vero ha bisogno di fare pace con il bambino che è stato; di dichiararsi ai genitori, anche se morti; di mettere il solito angelo in cima all'albero di Natale, anche se gli spettri di mamma e papà non riescono a essere sereni. Il protagonista inconsolabile, chiamato tuttavia a consolare i vivi e i morti, minimizza. Va tutto bene. È acqua passata. Ma intanto ho pianto mentre lui piangeva. L'illusione di ordine interiore è stata spezzata via dalla consapevolezza che alcune mancanze non soltanto restano, ma lasciano voragini che risucchiano tutto: anche l'amore? Alcuni nodi in gola non si sciolgono mai. Alcune lacrime non si asciugano. Sono destinate a seccarsi in faccia e sui cuscini, rendendo scomodissimo un letto da condividere. Non si smette mai di sentirsi orfani. Per fortuna si dividono le notti in bianco con Mescal: queste volta, misterioso come in Aftersun ma meno sfuggente, è disposto a farsi stringere dopo un giro di pista in discoteca. E gli abbracci che finalmente si chiudono ci risarciscono così dei cerchi rimasti a metà, dei nodi insoluti, delle solitudini non fugate, in un capolavoro sull'accettazione che, come un vampiro alla nostra porta, ci svuota per farci sentire più pieni. (9)

Quattro fratelli, educati all'eccellenza dal padre manager, vivono e muoiono di wrestling. Tratta da una vicenda talmente struggente da apparire a tratti frutto d'invenzione, l'epopea sportiva della famiglia Von Erich è una tragedia senza scampo che non romanticizza né i loro trionfi né le loro sciagure. Coperti da una corazza di muscoli, i protagonisti s'illudono che niente potrà colpirli: neanche la presunta maledizione che aveva già ucciso uno di loro, il primogenito, all'età di sei anni. In casa si cresce seguendo i dogmi della religione cattolica e della mascolinità tossica. Sul ring, così come in privato, è vietato piangere. Ogni talento, dalla musica alla pittura, va represso: esistono soltanto lo spirito di competizione e l'agonismo sfrenato. Ormai abituato a raccontarci grandi storie di prigionia fisica e psicologica, Sean Durkin ci mostra la vulnerabilità di quattro lottatori che si immaginavano, a torto, invulnerabili. Ne viene fuori un dramma asciutto, classico, solidamente vecchio stile, in cui Zac Efron è spinto al meglio e all'eccesso: The Iron Claw avrebbe meritato la nomination a Miglior Film ben più di altri candidati. Messo ai margini prima dal genitore ingombrante, poi da quei fratelli minori più intraprendenti e carismatici, Efron si rivela essere il cuore emotivo di una storia in cui non dovrebbe esserci spazio per l'emozione. Non è cosa da uomini tutti d'un pezzo. Per fortuna, The Iron Claw ci racconta anche di una virilità in evoluzione; di una famiglia patriarcale che, dalla crisi nera, uscirà inevitabilmente plasmata. Per fortuna, non sono un uomo tutto d'un pezzo. E nel finale, con mio fratello accanto, mi sono commosso senza vergogna. (8)

A quasi dieci anni da Carol, Todd Haynes torna alle grandi dive, alle relazioni scandalose, al fascino fumoso del melodramma. Benché passato questa volta in sordina, guadagna comunque una nomination agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale e spiazza con un gioco di specchi gustosamente metacinematografico ispirato a un caso di cronaca. Negli anni Novanta, un'insegnante stringe una relazione con un allievo tredicenne: dopo la galera, si sposano ed hanno tre figli, ormai in procinto di diplomarsi. Dall'esterno sembrano il ritratto della felicità. Ma dietro al loro amore, tutt'altro che sano, cosa si nasconde? Ficcanasa l'attrice indipendente Natalie Portman, come sempre leziosa e perfetta: chiamata a interpretare Julianne Moore, qui insolita femme fatale del Sud che sforna torte e maneggia fucili da caccia, minaccia di scoperchiare un vaso di Pandora per la gioia dei tabloid. A pagarne le conseguenze sarà soprattutto uno straordinario e laconico Charles Melton: bambino interrotto, adulto a metà, regala momenti di sincera commozione in un thriller, per il resto, troppo algido per conquistare tutti. Incerto negli intenti, vario nelle citazioni, May December è un elegante ibrido al femminile le cui dive, magnetiche, affascinano come le star della Hollywood degli anni d'oro. Nella società dell'immagine, siamo tutti voyeur. Ci ossessionano i retroscena, i biopic, i true crime. Ma la complessità dei fatti sfugge puntualmente, anche se allo specchio catturiamo i manierismi e il make-up dei soggetti studiati; anche se, nella passione simulata, l'eccitazione si confonde a volte con la finzione scenica. La verità vola via dalle mani, come una farfalla monarca. (7,5)

venerdì 21 giugno 2019

Mr. Ciak: Noi, We Have Always Lived in the Castle, Ted Bundy e altri psycho-thriller

Sono una famiglia afroamericana di quelle fortunate. Abbastanza in alto per permettersi una vacanza sull'oceano o tollerare con leggerezza le battute sarcastiche di una coppia di amici bianchi, una sera ricevono una visita: la loro casa viene presa d'assalto da misteriosi invasori. Sono quattro, come loro. E hanno le loro identiche facce. Dopo il successo di Get Out, Jordan Peele ritorna al cinema horror e a sembrarmi tremendamente sopravvalutato. Dotato di uno spunto brillante ma di uno svolgimento tutt'altro che originale, Noi ha un impatto minore del film precedente: l'assunto di base, infatti, viene sperperato in due lunghe ore e nella confusione di risvolti mai spiegati. I doppi dei protagonisti sono le loro ombre infernali, o le loro controparti sfortunate? Siamo americani, dicono. Vogliono gli stessi diritti e gli stessi doveri. Reclamano sogni, pretese e ore d'aria. In questa Invasione degli Ultracorpi al tempo di Trump, sfugge il punto della situazione. Bastian contrario benché appartenga alla schiera dei privilegiati, Peele fa antipatia: arraffone e ammiccante, attacca i soliti conservatori con una verve che, al secondo giro, rischia di annoiare. Per fortuna c'è un epilogo meno didascalico, in cui si confondono vittime e carnefici. Per fortuna c'è Lupita Nyong'o, scream queen che piacerà anche all'Academy. Ma, per godersi meglio l'alta tensione, consigliabile abbassare le aspettative. (6)

Anno fortunato per Shirley Jackson. Dopo il successo di The Haunting of Hill House, la maestra spirituale di King è tornata sugli schermi. Anche se ormai non è più tra noi da un po'. Anche se Abbiamo sempre vissuto nel castello, letto lo scorso autunno, va per i sessant'anni. Passato in sordina in patria, accolto tiepidamente dalla critica, il film tratto dal suo romanzo di culto è, a dispetto delle scarse speranze, una trasposizione esemplare dove perfino i difetti vengono dal romanzo. La casa delle orfane Blackwood, interpretate dalle convincenti Taissa Farmiga e Alexandra Daddario, è la copia di quella immaginata: bella e decadente, sembra una novella dimora Addams che non disdegna i colori pastello, la raffinatezza del mobilio, la fantasia della carta da parati. Le sorelle trascorrono lì, in una gabbia dorata, una routine destabilizzante. Isolate dal mondo, fantasticano di trasferirsi sulla luna. Ma la Daddario, tentata dal cugino Stan, minaccia di mandare tutto a rotoli puntando all'Italia. Della Jackson, la trasposizione si tiene stretta i ritmi lenti, le situazione piuttosto trascinate e quel climax finale di grande cattiveria, qui con un tocco di violenza aggiunta. Lo immaginavo a torto televisivo. Inscenato sullo sfondo di una campagna lussureggiante, risulta essere invece una parafrasi fedelissima dalla fotografia cristallina e con un guardaroba che farà l'invidia delle spettatrici. We Have Always Lived in the Castle è una fiaba nera che anche in questa veste funziona a metà, non facendomi cambiare idea su un romanzo sopravvalutato. Ma anche l'occhio vuole la sua parte e qui, fra malie e stranezze, ha il suo bel da vedere. (6,5)

Era un uomo bello e un abile oratore. Era un serial-killer. Ted Bundy, negli anni, Settanta frequentava Giurisprudenza e si difendeva da un'accusa inequivocabile: l'omicidio barbaro di oltre diciotto donne. Le prove erano tutte contro di lui, ma la giustizia americana rende tutto spettacolo. Interpretato da un Efron al di sopra delle aspettative, con la giusta faccia da schiaffi e una parlantina sorprendente, il caso Bundy rivive in un'arringa accurata e un po' televisiva, convincente ma non sempre coinvolgente. Senza mostrare sangue, più attento alla dimensione processuale che al marciume, il documentarista Berlinger scongiura ogni tentazione voyeuristica e mette in scena un gioco retorico per sospettare di tutto e di tutti. Perfino di una verità universalmente accettata: la colpevolezza dell'accusato, messa in dubbio da un carisma di star navigata. La compagna Collins, che all'inizio lo segue come una groupie innamorata, si stanca presto della bugie e di un triangolo amoroso che culmina in una farsesca proposta di matrimonio. Il verdetto? La scelta di preferire gli aspetti pubblici e privati potrebbe far storcere il naso agli amanti dell'horror, ma i protagonisti – a torto giudicati troppo glamour per i ruoli – mettono comunque i brividi nel faccia a faccia finale. La nausea vera, di terrore e ingiustizia, arriva durante i titoli di coda. Con la sfilza delle donne martirizzate. Con la consapevolezza che l'incubo, con tanto di fughe picaresche e schiaffi morali alle forze dell'ordine, sia pura verità. (6,5)

Quali sono i segni particolari di uno psicopatico in erba? Una timidezza a confine con la sociopatia, il pallino per gli animali investiti in strada, una famiglia poco convenzionale. Avevano personalità agli antipodi ma, in quanto a spietatezza, Ted Bundy e Jeffrey Dahmer rivaleggiavano: quest'ultimo, dagli anni Settanta in poi, terrorizzò in particolare la comunità gay di Milwaukee. Alle origini, però, era soltanto un adolescente in cerca di sé stesso. Si estraniava di frequente ma sapeva dissimulare. Amico di tutti e di nessuno, indossava i panni di buffone del liceo pur di far pace con la propria testa e, soprattutto, con la propria sessualità. Ispirati a una graphic novel, i dolori di un giovane serial-killer sono raccontati anche stavolta con un approccio poco convenzionale. Rinunciando allo splatter, My friend Dahmer sperimenta toni diversi fino a somigliare a un dramma adolescenziale alla Van Sant. Senza sporcarsi, il magnetico Ross Lynch – un caso sia uscito anche lui da Disney Channel? – si trascina torvo e ingobbito in una dissacrante pagina di diario che ricerca con successo i primi passi di un folle che non ha ancora sperimentato il sesso, né fatto i conti con le macchie di una coscienza sporca: la banalità del male. (7)

Ne hanno fatto prima un film per la TV, poi una miniserie in otto puntate. A un appuntamento romantico, Mrs Maisel andava a vedere perfino un musical ispirato alle sue gesta efferate. L'assassina Lizzie Borden, simbolo di un femminismo estremo, non smette di affascinare la settima arte. A nemmeno cinque anni di distanza dal film con Christina Ricci, le vicende della donna – riassumiamola: uccise padre e matrigna a colpi d'ascia, e fu scagionata per assenza di prove – torna a farsi raccontare dal cinema indipendente, attento alle questioni di genere e alla verosimiglianza dei fatti. La Borden di Chloe Sevigny va a teatro da sola, rifiuta il matrimonio, scontenta i genitori con una lingua sferzante e una relazione con Kristen Stewart, domestica sul punto di rottura. Come una trionfale Medea, nuda e insanguinata, la protagonista si aggiunge ai nemici del padre – viscido e temutissimo – e giunge a soluzioni deleterie per liberarsi dell'orribile famiglia. Cupo e lentissimo, Lizzie è una tragedia teatrale di zii usurpatori e passioni clandestine che, classe a parte, poco aggiunge tuttavia a un ritratto di donna già approfondito in precedenza. L'acqua cheta logora i ponti. Ma all'ennesimo rimaneggiamento, centoventi anni dopo il massacro, non fa notizia. (5,5)

La trama è quella di un thriller di Rai Due. Una ragazza di buon cuore restituisce a una vedova la borsetta dimenticata in metropolitana. La prima non ha più una madre, l'altra non ha più una figlia: l'amicizia intergenerazionale, quando si fa ossessione, diventa stalking. Classico, più che vecchio stile, Greta rilegge un canovaccio di sicuro fascino. Non corre mai il rischio di rinnovarlo, eppure sorprende per la freschezza di Neil Jordan: settant'anni e l'ultimo film, Byzantium, risalente a ormai sette anni fa. L'autore conosce bene le regole del gioco, e lo stesso può dirsi del suo cast di attrici bravissime: Chloe Grace Moretz, scream queen per eccellenza delle nuove generazioni, e soprattutto Isabelle Huppert, straniera dal fascino stregonesco. A metà tra Norman Bates e Annie Wilkes, la sua cattiva è un cane rabbioso che non vuole essere abbandonato. Manipolatrice e onnipresente, conosce vini pregiati, suona il pianoforte e si apposta negli angoli. È in ogni squillo, in ogni messaggio, in ogni ombra. A cosa spinge la solitudine? Se tutto va esattamente come dovrebbe, due protagonisti in forma smagliante sanno farsi comunque ricordare grazie a una perfetta alchimia e qualche dettaglio raccapricciante. Greta è in cerca di un'amica, o forse di un'altra vittima? Ha borse identiche a quella perduta. Ha usato già quelle stesse parole, letto da quello stesso copione. Non siamo speciali, no, e lei non si è presa la briga di ordine un inganno su misura. L'esca è la solita, il canovaccio abusato. Ma, intanto, abbocchiamo. (7)

Christopher Abbott, noto tanto la serie Catch 22 quanto per la somiglianza innegabile con il collega Kit Harrington, ha l'aria di un verginello alle prese con l'ansia della prima volta. Guardate quant'è impacciato mentre fa le prove, prende appunti, coreografa nel dettaglio parole e movimenti. Nella sua camera d'albergo aspetta l'arrivo di una prostituta e questa, puntualissima, non si fa attendere: è Mia Wasikowska, irriconoscibile tutta impellicciata e con un caschetto aggressivo. Lui è un sociopatico che vuole darsi all'omicidio, lei una provocante autolesionista. Il piano sfugge di mano. Quella che a una prima occhiata sembrerebbe una coppia di disadattati da commedia indie si pone al centro di un rapporto sfuggente e perverso, che giunge picchi di goduria indicibili quando Nicolas Pesce – giovane regista da tenere d'occhio – inizia a scherzare con lo split screen di Brian De Palma o la colonna sonora di Dario Argento. Guilty pleasure di cinefili e feticisti, Piercing è un gioco delle parti stilizzato e intriso di cose – sangue, umorismo caustico, citazioni alte – che funziona, sì, ma esclusivamente nella dimensione dell'omaggio. Per il resto, è troppo strano e troppo aperto. Ha personaggi troppo esagerati e troppo tagliati con l'accetta. Ipnotizza e diverte, stilosissimo dall'inizio alla fine, ma lascia violenza in quantità, qualche ottima interpretazione, cicatrici semipermanenti e un pugno di mosche. (6)

Quattro ingenui amici in sella a una bici: aspiranti Sherlock Holmes con alle spalle famiglie in crisi, una cotta comune per la bella del quartiere e il coprifuoco fisso. Un vicino di casa poliziotto, insospettabile ma non troppo. Tutto è un gioco. Tutto ha una fine, anche l'estate del cuore. Perché tutti i serial killer, in fondo, sono i dirimpettai di qualcun altro. Partita a nascondino classica e sdoganatissima, Summer of 84 fa leva su quell'effetto nostalgia venuto francamente a noia da un po' e su misteri feroci ma intuibili, che non conoscono nessun colpo di scena ma a sorpresa, nel finale, minacciano di strappare brividi duraturi. Amaro e spietato, sbucato non a caso dal preziosissimo circuito del Sundance, in realtà ha poco a che spartire con il candore pop di Stranger Things. I Perdenti di Stephen King, qui, conoscono la cattiveria: quella umana, quella vera. La loro perdita dell'innocenza appassiona e stordisce più delle rivelazioni mancate, più di un canovaccio che con la scusa dell'omaggio poco s'inventa di sana pianta. E questa estate di metà anni Ottanta, stagione per eccellenza di scottature, ci brucerà per sempre. (7)

lunedì 18 luglio 2016

Mr. Ciak: Io prima di te, The Legend of Tarzan, Mon Roi, Cattivi Vicini 2, Sleeping With Other People

Ci sono casi sporadici in cui le trasposizioni rendono meglio della carta stampata: vedasi la lucidità del Green più logorroico e distaccato, quello di Colpa delle stelle, che - per ben due volte – mi aveva fatto piangere fior di lacrime. Da lettore, mi faccio abbindolare sì e no. Ma da spettatore, evviva le pellicole ricattatorie e un po’ ruffiane; pollice insù per le famose lacrime strappate. Poteva il bestseller di Jojo Moyes compensare alla mancata commozione, alla vaga superficialità di fondo, passando dall’altra parte? Con un conciliante Ed Sheeran, l’attenzione quasi filologica al testo e due protagonisti che più perfetti non si poteva ero sicuro di sì. Io prima di te, invece, si segue a occhi asciutti e con un sorriso tirato sulle labbra. Meno furbo del previsto? Addirittura, stravolto? Il lavoro di Thea Sharrock è calzante, rispettoso e puntuale – tralasciando i riferimenti, per me necessari però, ai traumi di lei e mandando avanti veloce le glorie collezionate in salute da lui. La sceneggiatura glissa sui loro tormenti e ammorbidisce gli attimi romantici e le scelte di un epilogo coraggioso, che già fa chiacchierare i benpensanti d’oltreoceano. Come in libreria, però, Io prima di te e i suoi decorosi protagonisti sono a proprio agio con la leggerezza e i buoni sentimenti, meno con la tragedia in agguato: lacrime di coccodrillo da parte dell’adorabile Emilia, secche le spiegazioni di Claflin. E gli inglesi, solitamente sciolti se il politicamente scorretto incontra un tema di spessore (pensiamo all’inedito Miss You Already o allo scanzonato Altruisti si diventa, che british non era, ma adorabile sì), questa volta sono divertenti, ma per nulla struggenti. Tanto negativi quanto inevitabili, gli influssi di una Hollywood che da lontano uniforma, smussa e trova compromessi scontati: i cuori spezzati, le tasche rigonfie di banconote e infermiere che, se belle come la Khaleesi di Games of Thrones, promettono  miracoli – risvegliare i Jon Snow e far camminare i tetraplegici non sono forse abilità contemplate nel suo curriculum? Emilia Clarke, frivola, mora e sbadata, è una deliziosa Lou; Sam Claflin, che interpreta senza grande sforzo il ruolo di un uomo di successo ferito nel corpo, rende piuttosto bene i musi lunghi e l’umorismo sprezzante di Will, senza stravolgere la sua faccia da bravo ragazzo. Espressivi, fin troppo, i due si abbandonano a una recitazione sopra le righe e a sguardi languidi: bellissimi “quasi amici” dai sorrisoni contagiosi, che finiranno per innamorarsi e piangersi addosso, senza però farci innamorare e piangere, con disappunto di chi aveva buoni propositi, aspettative parzialmente infrante e kleenex a portata di mano. (6)

Abbandonava l’Africa, l’uomo cresciuto dalle scimmie, nell’ultima scena del capolavoro Disney – a sua volta ispirato al ciclo di romanzi di Edgar Rice Burroughs. Al suo fianco, Jane; la Londra vittoriana all’orizzonte. Dopo un lungo viaggio di ritorno, Tarzan è diventato marito amorevole e mancato padre di famiglia, attentissimo al destino della casa che ha lasciato. Dopo otto anni, ritorna in Congo in missione umanitaria e la vita in città non l’ha impigrito: da ambasciatore a esca, il passo è breve. Re Leopoldo minaccia di ridurre tutti in schiavitù e il ritorno a casa dell’ex bambino del miracolo, architettato dal perfido Leon, mira a farlo cadere nella tela di un capo tribù in cerca di vendetta. The Legend of Tarzan, variazione sul tema diretta dall’ormai esperto David Yates, è stato accolto con un discreto successo di pubblico e critica, pare. Lo spunto: cos’è stato del personaggio amato da generazioni vicine e lontane? Una leggenda, trapiantata nell’Inghilterra civilizzata, smette forse di essere tale? L’avventura secondo Yates ha coloriture politiche, una cornice storica stranamente accurata e l’impegno che non ti aspetteresti, tra abolizione della schiavitù, riflessioni naturalistiche, messaggi ambientali. Serio e onesto film per famiglie, però, che talora sceglie il linguaggio dei moderni cinecomic e una computer grafica efficace ma onnipresente, mi ha trovato sordo dinanzi al richiamo dell’avventura. Il caratteristico urlo di Tarzan è quello di sempre, un ricordo d’infanzia, ma mi è parso lungo e faticoso – nonostante la canonica ora e quaranta complessiva – e l’impressione di un Io vi troverò d’epoca, con Jane rapita e il fedele sposo sulle sue tracce, non ha giovato. Ben realizzato e coinvolgente il minimo, si affida alla bellezza del lato visivo – e in tale bellezza sono inclusi Skarsgard e la Robbie, mai tanto adagiati sugli allori della loro gran prestanza fisica – e ai siparietti di un pessimo Waltz, che sgrana rosari e scimmiotta se stesso, e di un Samuel L. Jackson senza gloria. Manca la magia, ci si dimentica dei cuori: ci si stanca presto, lo si dimentica subito e, in fretta, ci si aggrappa alla prima liana di strada. Questa giungla mi distrugge. Soprattutto, non mi invoglia a restare. (5,5)

In francese, “ginocchio” si dice “genoux”. In sé, la parola ha i pronomi personali je e nous, che significano io e te. Che l’incidente in montagna di Toni sia perciò una richiesta d’aiuto? Che il ginocchio sia proporzionale a un cuore che ancora soffre? Mentre fa fisioterapia, la protagonista rievoca il tormentato amore con Georgio: lui fascinoso, inaffidabile, pieno di vizi; lei, avvocato di grido e presto mamma, sempre più spossata da una passione che non dà pace e da un uomo che non cresce. Mon Roi è un melodramma lungo e intimo, consueto nella resa, sui frammenti di una coppia scoppiata: in mezzo, un bambino, una ex che si ferisce a morte per cercare attenzioni, gli alti e bassi e le nevrosi di un duo contemporaneo, composto da un uomo impossibile e da una donna irascibile, che non si sente alla sua altezza. Se la canaglia Vincent Cassel risulta più seducente, in parte e, addirittura, più simpatico del solito – quando io non gli invidio i tratti affilati, i ruoli e, inutile dirlo, il caratteraccio –, sarà merito della sceneggiatura o forse della partner, una Emmanuel Bercot sincera, ma insopportabile? Tanto schietta nel portare in scena gli isterismi e le insicurezze del suo personaggio quanto irritante nei modi, l’eppure premiatissima Bercot ha messo in ottima luce lo spigoloso Vincent – che non mi è sembrato così manipolatore, così padre padrone, in relazione a un personaggio femminile antipatico come nessuno – e, se c’è un neo non da poco, è che in un copione scritto da una donna per le donne, contro la dipendenza affettiva e il maschilismo, attenzioni e aghi della bilancia pendano curiosamente verso il monarca capriccioso del titolo. Quello che, nella coppia, spicca per lingua sciolta e ironia. Quello che, soffocato da proteste e scenate plateali, non ha la possibilità di migliorarsi. E la volontà? Mon Roi, umorale e appassionato, traduce in francese quello che Cianfrance ha detto in inglese, quello che Castellitto e la Mazzantini hanno poi ribadito in italiano: il desiderio è una fiamma, e non puoi alimentarlo a forza quando muore, né confidare di maneggiarlo senza scottarti. Quello, con la crudezza del cinema d’oltralpe, gli intraducibili giochi di parole, tanta pesantezza e una sensibilità, questa volta, distante dalla mia. (6,5)

La famiglia Radner, con un altro bebè in arrivo e una bambina che è lì lì per muovere i primi passi (e giocare coi dildo di mamma) è in crescita e sta cambiando casa. Li avevamo conosciuti, un’estate fa, con la ricerca della tranquillità e l’incubo di una confraternita: con Teddy, leader festaiolo e vendicativo, era finita, poi, tarallucci e vino. Ritorna, però, mentre gli amici crescono e lui resta indietro, in quella casa sfitta. E aiuta tre ragazze in cerca della propria indipendenza a mettere su la prima sorellanza del quartiere: il quartetto si amplia presto, però, e nuovi rumori, nuove canzoni e palla e nuovi dispetti sono dietro l’angolo. Soprattutto se c’è da nascondere agli inquirenti la ragione di quel vicinato sexy e turbolento... Sulla scia delle grasse risate e del successo del primo, torna prevedibilmente un nuovo capitolo di Cattivi vicini: da me, che in estate non ho mai abbastanza di comicità spiccia e pensieri lievi, perfino un po’ atteso. Seth Rogen e Zac Efron, agli antipodi ma già affiatati, regalano doppi sensi, pance ballonzolanti contro addominali al vento; Chloe Grace Moretz, di solito abituata a ben altri impegni, si scopre spensierata, ribelle e bellissima, sempre di più. Tra le righe, questa volta, tocchi di serietà a sorpresa: il femminismo secondo le matricole – perché i maschi fanno feste e le femmine no? –, le nozze gay del “compagnone” Dave Franco e un esame di coscienza, a proposito dell’essere mamme e padri. Quasi per scusarsi, però, della piacevole scorrettezza del primo. E, in parte, dare il poco promesso, senza spostarsi d’un passo dal vecchio vicinato - o dal già visto. (6)

Lui si chiama Jake: ha trent’anni e passa, si è arricchito facendo ciò che più gli piace e a mettere la testa a posto non ci pensa proprio. Come sistemarsi, se ha partner occasionali e continue tentazioni? Lei, invece, è Lainey: maestra d’asilo di poco più giovane, ha dato il benservito al ragazzo perfetto per una relazione adulterina e, traditrice patologica, allergica alla serietà, ha deciso di passare a vedere cosa insegnano ai raduni per sex addicted. E’ lì che s’incontrano. Ma è un ehi, guarda chi c’è, non un colpo di fulmine. Loro si sono conosciuti anni prima: hanno perso insieme la verginità. Che in quella prima volta sia possibile rintracciare le cause dei cuori freddi e dei letti caldi? Che Jake sia stato la rovina di Lainey, e viceversa? Si studiano, si stuzzicano: si piacciono. Promettono, però, di essere solo amici e di rimediare fianco a fianco ai classici errori. Qual è il problema, nella monogamia? Qual è il pregio della solitudine? E mentre si danno a lunghi, lunghissimi tête-à-tête e parlano di masturbazione femminile, usando un barattolo di vetro come metafora, si scoprono gli innamorati recalcitranti di una gran bella storia d’amore e i protagonisti delle romcom indipendenti di cui non si ha mai abbastanza. In Sleeping with other people tutti parlano di sesso, qualcuno lo fa, ma la volgarità non è contemplata e c’è da penare, per avvicinarsi al lieto fine tanto sperato. Rilettura, quasi, di Harry ti presento Sally, ha una scrittura briosa, ritmi seducenti e protagonisti dolci ed esilaranti – Sudeikis, verso cui eppure non nutro molta stima, ha una perfetta faccia da suola; la Brie, sfacciata e fragile, è una meraviglia di ragazza, e la cosa non mi era mai saltata all’occhio prima d’ora. Solita storia, sì: ma la commedia osé è più gustosa, se viene dal Sundance, ha toni femministi e, al posto di divi inarrivabili, propone le imprese amorose di due così, che dimostrano che la simpatia è sexy, e non è un bugiardo cliché. (7)

giovedì 28 aprile 2016

Mr. Ciak: The VVitch, Nonno scatenato, Il cacciatore e la Regina di ghiaccio, The Boy, The Night Before

Allontanata dalla comunità di appartenenza, una famiglia puritana si sposta in una fattoria del New England. Fuori, il granaio e un bosco in cui è vietato inoltrarsi. La sorella maggiore, Thomasin, gioca sul prato con il più piccolo dei suoi fratelli: bubù-settete, e il neonato scompare in un lampo. Le continue sparizioni e i misteri che si rinnovano conducono proprio all'adolescente, pallida e seducente. La madre è sospettosa, il padre pende dalle sue labbra, i gemelli chiacchierano con un caprone nero e accusano la sorella di adorare il Maligno, il fratello in pubertà è segretamente attratto dalle sue scollature profonde. Stregoneria? The Witch, acclamatissimo e subito annunciato come horror dell'anno, ha più di qualche falla nelle trame, colmata però dal potere della fascinazione – che risulta, in definitiva, immensa – e da una colonna sonora che si concede picchi agghiaccianti. Cupissimo, ha una fotografia impeccabile e la quiete apparente del cinema che più stupisce da queste parti: quello indipendente. Pensato come racconto per non dormire, oscilla tra il dramma domestico e la fiaba nera. I quadri sapientemente cesellati di una famiglia che cresce all'ombra di un Dio vendicativo, di un Medievo che ritorna, mi hanno ricordato i quattordici piani sequenza che componevano l'interessantissimo Kreuzweg – Le stazioni della fede e la suggestione di un The Village: ascetismo, superstizione, follia. Flash onirici, brutture, incubi ad occhi aperti. Leggenda o verità? Angoscioso e ambiguo, pretenzioso giusto un po', The Witch è una tragedia a tinte fosche, febbricitante ma preoccupantemente verisimile. Psicologicamente infallibile, anche se già proposta altrove. Comunque, mai così. Nella maniera personale, e forse troppo greve, del cinema di nicchia. Si rimangia la promessa della paura, dunque, ma attrae e destabilizza: meno emotivo di un The Babadook, più sensato di quel buco nell'acqua di It Follows. Per tutto il tempo, così, ti domandi: cosa sto guardando? Ed è così ben realizzato, recitato con tanta di quella naturalezza, che il dubbio è un piacere scellerato. Non il capolavoro annunciato a gran voce, proprio no, ma l'opera prima di un esordiente di razza. Uno di quei rari horror per palati fini, che in sala non troveranno mai posto, d'estate. (7)

Vedovo di fresco, un pensionato convince il più giovane dei suoi nipoti a seguirlo in uno spensierato viaggio verso una landa tropicale piena di sole, alcolici e modelle in bikini. Non è forse un paradiso la lontana Daytona, durante lo spring break? Di certo non per il responsabile Jason, trascinato dal nonno in una delle sue ultime missioni: istruire il nipote sui miracoli del carpe diem e, soprattutto, darsi al sesso riparatore con un'universitaria a caccia di facoltosi attempati. Dirty Grandpa è stato definito, e non a caso, un trito, sboccato e spiccio cinepanettone statunitense: sbronze, doppi sensi, chiappe al vento, peti fragorosi e chi ne ha più ne metta. Zac Efron viene spogliato, deriso, croficisso: gioca al meglio le sue carte – fisico scolpito e karaoke che ricordano a quelli della mia generazione, con un moto di vergogna sottile, i duetti di High School Musical – e, a sorpresa, si rivela una buona spalla comica. Con lui, parte fondamentale della strana coppia, il nonno sporcaccione del titolo: un Robert De Niro trashissimo, al meglio del suo peggio, che in camicia hawaiana e in una libera interpretazione dei ruoli di Boldi, rischia di mettere una pesante pietra tombale sopra i capolavori che costellano la sua carriera; piace di più, tuttavia, che nei panni di vecchi mafiosi o, ancora, dell'antipatico feticcio di David O. Russel. Meglio fermarsi, caro Bob, prima di un altro passo falso che somiglia preoccupantemente a un'altra commedia da poco come questa? Per alcuni, non c'è dubbio: la risposta è sì. Per me, che lo reputo autoironico e furbissimo, non proprio: come dicevano i latini, “pecunia non olet”. Condiscono qualche gag politicamente scorretta, trivialità e mercanzia in mostra, tre bellezze: l'adorabile Zoey Deutch, la leziosa Julianne Hough e, su tutte, una maialissima Aubrey Plaza. La commedia demenziale su un demente per patriarca è ritrita e spiccia, becera. E, qui e lì, mi son proprio ma proprio divertito. (6)

"Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?" Quattro anni fa, lo specchio dava ben due risposte – le punte kitsch di Mirror Mirror, l'epos non per palati fini di Biancaneve e il Cacciatore – e, a lasciare stupiti, era quella che vedeva vincere, in una gara di bellezza e acume, la principessa guerriera di una Kristen Stewart che non aveva ancora preso lezioni di recitazione. Come poteva, inespressiva e mascolina, sconfiggere la splendida Charlize Theron? Serviva un prequel/sequel, con il per sempre felici e contenti già agguantato, la strega assassinata e l'ex Bella Swan che, nel frattempo, si è data con stupore generale ai film da festival? Scontata la risposta, esile il pretesto. Lo specchio di Ravenna, all'interno del quale è imprigionata la sua anima, rende folle chiunque vi sia vicino. Come l'anello per Frodo, porta tormenti e avventure alla squadra che, seguendo gli ordini di un Sam Claflin di passaggio, devono distruggerlo. L'impresa è nelle mani di Eric, ancora una volta impersonato da un Chris Hemsworth che si destreggia discretamente tra martelli e scuri: cos'è successo alla sposa del Cacciatore e dove è stato allevato per diventare chi doveva diventare? Si introduce, allora, la storia della Regina di ghiaccio: una variante psicotica e fragile della Elsa di Frozen, interpretata da una buona Emily Blunt in lotta, però, con l'ancor più b(u)ona Theron. Nonostante la presenza di un'altra rossa da me amatissima, quella Jessica Chastain qui troppo sprecata, a vincere la disputa è la modella sudafricana, che, senza l'accigliata Kristen nei dintorni, non solo tiranneggia ma porta questo secondo capitolo dalla dubbia utilità a risultare un po' più coinvolgente del precedente. Perché, sì, a me Il cacciatore e la Regina di ghiaccio ha regalato due ore che non richiederei indietro: movimentato, dark e, complice la presenza del nano di Nick Frost, spassosissimo. Una scatola di star infiocchettata con stile, con un terzetto di prime donne che sono una gioia per gli occhi - e per i costumisti di ogni dove. (6)

Greta trova lavoro nella casa sbagliata. Cosa c'è di meglio di una villa nella campagna inglese, di un ruolo da tata che comprende vitto e alloggio e di due padroni di casa affabili e generosi? Gli Heelshire nascondono un segreto: il bambino di cui Greta dovrà prendersi cura è un fantoccio. Ci sono regole ferree da seguire, e una di queste prevede che la protagonista tratti Brahms come fosse un bambino di carne e ossa. The Boy, thriller d'atmosfera firmato da un giovane regista che già ha fatto danni nel mondo dell'horror, è trascurabile ma non pessimo. Spiccano una regia stranamente raffinata, gli interni labirintici della villa, sprazzi affascinanti. Ha un'idea bella, ma mal gestita. L'incipit, canonico ma citazionista, ricorda le prime pagine dei romanzi d'appendice ottocenteschi: giovane di belle speranze in un mausoleo di misteri. Le scenografie, allo stesso modo, strizzano un po' l'occhio ai deliziosi orpelli gotici di un Del Toro e il tentativo di fare del silenzioso Brahams la nuova Bambola assassina, per fortuna, non è stato azzardato. The Boy, così com'è, ma spostato al passato, sarebbe stato un prodotto gotico senz'altro più accattivante. Mancano la volontà e la consapevolezza, mancano le eroine di Henry James. Lauren Cohan, che ha un sorriso bellissimo e poco altro, interpreta un personaggio dalla psicologia spiccia. In lei, reduce da una gravidanza interrotta, il senso materno si risveglia bruscamente e per caso. I comprimari, inservibili, non hanno la scintilla. Tra ricercati cliché, un andamento prevedibile e qualche spauracchio non andato a buon fine, questo The Boy né bello né brutto, ma scritto troppo di fretta, tenta l'effetto sorpresa con un twist ad effetto, anche se già visto in un horror piccino, australiano, che però non vi svelo... Annacquato il finale, furbastra l'idea di lasciarsi aperta la porta di un sequel che vedrei aspettandomi solo il peggio. L'inanimato Brahms, spettrale e maestro degli sguardi in camera, offre comunque la performance migliore. (5)

La festività per eccellenza che prevede imbarazzanti reunion e tradizioni familiari da cui mettersi in fuga, a volte, presenta delle costanti che fanno eccezione, perché non infastidiscono e, miracolo, non vengono a noia. Qual è il segreto di tre amici che si prendono un notte per rinforzare il loro legame e tornare per un po' i ragazzini brilli e leggeri dei bei tempi andati? Essenzialmente, ci dice The Night Before, droghe libere, cicchetti a volontà e feste blindatissime. Trentenni ed eterni Peter Pan, i protagonisti danno il via a un alcolico amarcord che sembra qui e lì una riscrittura demenziale (ma non troppo) di A Christmas Carrol. C'è chi si prepara a diventare papà; chi, giocatore di basket, non si rassegna al pensionamento a suon di anabolizzanti; chi, musicista senza arte e senza legami, rivive il trauma della morte dei genitori. Per fortuna, ci sono le sostanze stupefacenti – e le risate assicurate. Destinato all'homevideo e ribattezzato Sballati per le feste, The Night Before, con quel popò di cast e alla regia lo stesso autore del toccante 50 e 50, da noi non passa in sala – quando invece il mio spirito del Natale agonizzante avrebbe assai gradito – e viene bollato come un The Hangover a tema. Me lo aspettavo dai neuroni affumicati e caricaturale, sconclusionato, e da amante della comicità di un The Interview la cosa mi andava pure a genio: i cameo che non ti aspetti, le battute antisemite e un politicamente scorretto che si tempra con il romanticismo, però, non mancano. L'esilarante Seth Rogen e un Joseph Gordon-Levitt dai tempi comici a me sconosciuti formano un affiatato terzetto insieme ad Anthony Mackie, e inseguono Lizzy Caplan, Mindy Kaling e il destino, in una barzelletta sotto sotto un po' vera in cui Miley Cyrus fa da damigella d'onore, un bicurioso James Franco invia foto oscene al solito "compare" Rogen, e Michael Shannon, mai così inedito, fa da pusher e angelo custode. (6,5)