Ci sono casi
sporadici in cui le trasposizioni rendono meglio
della carta stampata: vedasi la lucidità del Green più logorroico e
distaccato, quello di Colpa delle stelle, che - per ben due volte – mi aveva fatto piangere fior di lacrime. Da lettore, mi faccio
abbindolare sì e no. Ma da spettatore, evviva le pellicole
ricattatorie e un po’ ruffiane; pollice insù per le famose lacrime
strappate. Poteva il bestseller di Jojo Moyes compensare alla mancata
commozione, alla vaga superficialità di fondo, passando dall’altra
parte? Con un conciliante Ed Sheeran, l’attenzione quasi filologica
al testo e due protagonisti che più perfetti non si poteva ero
sicuro di sì. Io prima di te, invece, si segue a occhi
asciutti e con un sorriso tirato sulle labbra. Meno furbo del
previsto? Addirittura, stravolto? Il lavoro di Thea Sharrock è
calzante, rispettoso e puntuale – tralasciando i riferimenti, per
me necessari però, ai traumi di lei e mandando avanti veloce le
glorie collezionate in salute da lui. La sceneggiatura glissa sui
loro tormenti e ammorbidisce gli attimi
romantici e le scelte di un epilogo coraggioso, che già fa
chiacchierare i benpensanti d’oltreoceano. Come in libreria, però,
Io prima di te e i suoi decorosi protagonisti sono a proprio
agio con la leggerezza e i buoni sentimenti, meno con la tragedia in
agguato: lacrime di coccodrillo da parte dell’adorabile Emilia,
secche le spiegazioni di Claflin. E gli inglesi, solitamente sciolti
se il politicamente scorretto incontra un tema di spessore (pensiamo
all’inedito Miss You Already o allo scanzonato Altruisti
si diventa, che british non era, ma adorabile sì), questa volta
sono divertenti, ma per nulla struggenti. Tanto negativi quanto
inevitabili, gli influssi di una Hollywood che da lontano uniforma,
smussa e trova compromessi scontati: i cuori spezzati, le tasche
rigonfie di banconote e infermiere che, se belle come la Khaleesi di
Games of Thrones, promettono miracoli – risvegliare
i Jon Snow e far camminare i tetraplegici non sono forse abilità
contemplate nel suo curriculum? Emilia Clarke, frivola, mora e sbadata,
è una deliziosa Lou; Sam Claflin, che interpreta senza grande sforzo
il ruolo di un uomo di successo ferito nel corpo, rende
piuttosto bene i musi lunghi e l’umorismo sprezzante di Will, senza
stravolgere la sua faccia da bravo ragazzo. Espressivi, fin troppo, i
due si abbandonano a una recitazione sopra le righe e a
sguardi languidi: bellissimi “quasi amici” dai sorrisoni
contagiosi, che finiranno per innamorarsi e piangersi addosso, senza
però farci innamorare e piangere, con disappunto di chi aveva buoni
propositi, aspettative parzialmente infrante e kleenex a portata di
mano. (6)

Abbandonava
l’Africa, l’uomo cresciuto dalle scimmie, nell’ultima scena del
capolavoro Disney – a sua volta ispirato al ciclo di romanzi di
Edgar Rice Burroughs. Al
suo fianco, Jane; la Londra vittoriana all’orizzonte. Dopo un lungo
viaggio di ritorno, Tarzan è
diventato marito amorevole e mancato padre di famiglia, attentissimo
al destino della casa che ha lasciato. Dopo otto anni, ritorna in
Congo in missione umanitaria e la vita in città non l’ha
impigrito: da ambasciatore a esca, il passo è breve. Re Leopoldo
minaccia di ridurre tutti in schiavitù e il ritorno a casa dell’ex
bambino del miracolo, architettato dal perfido Leon, mira a farlo
cadere nella tela di un capo tribù in cerca di vendetta.
The Legend of Tarzan, variazione sul tema diretta dall’ormai
esperto David Yates, è stato accolto con un discreto successo di
pubblico e critica, pare. Lo spunto:
cos’è stato del personaggio amato da generazioni vicine e lontane?
Una leggenda, trapiantata nell’Inghilterra civilizzata, smette
forse di essere tale? L’avventura secondo Yates ha coloriture
politiche, una cornice storica stranamente accurata e l’impegno che
non ti aspetteresti, tra abolizione della schiavitù, riflessioni
naturalistiche, messaggi ambientali. Serio e onesto film per
famiglie, però, che talora sceglie il linguaggio dei moderni
cinecomic e una computer grafica efficace ma onnipresente, mi ha
trovato sordo dinanzi al richiamo dell’avventura. Il caratteristico
urlo di Tarzan è quello di sempre, un ricordo d’infanzia, ma mi è
parso lungo e faticoso – nonostante la canonica ora e quaranta
complessiva – e l’impressione di un Io vi troverò
d’epoca, con Jane rapita e il fedele sposo sulle sue tracce, non ha
giovato. Ben realizzato e coinvolgente il minimo, si affida alla bellezza del lato visivo – e in tale
bellezza sono inclusi Skarsgard e la Robbie, mai tanto adagiati sugli
allori della loro gran prestanza fisica – e ai siparietti di un pessimo
Waltz, che sgrana rosari e scimmiotta se stesso, e di un Samuel L. Jackson
senza gloria. Manca la magia, ci si dimentica dei cuori: ci si stanca
presto, lo si dimentica subito e, in fretta, ci si aggrappa alla
prima liana di strada. Questa giungla mi distrugge. Soprattutto, non
mi invoglia a restare. (5,5)
In
francese, “ginocchio” si dice “genoux”. In sé, la parola ha
i pronomi personali je e nous, che significano io
e te. Che l’incidente in montagna di Toni sia perciò una richiesta d’aiuto? Che il ginocchio sia proporzionale
a un cuore che ancora soffre? Mentre fa fisioterapia, la protagonista
rievoca il tormentato amore con Georgio: lui fascinoso, inaffidabile,
pieno di vizi; lei, avvocato di grido e presto mamma, sempre più
spossata da una passione che non dà pace e da un uomo che non
cresce. Mon Roi è un melodramma lungo e intimo,
consueto nella resa, sui frammenti di una coppia scoppiata: in mezzo,
un bambino, una ex che si ferisce a morte per cercare attenzioni, gli
alti e bassi e le nevrosi di un duo contemporaneo, composto da un
uomo impossibile e da una donna irascibile, che non si sente alla sua altezza. Se la canaglia Vincent Cassel risulta
più seducente, in parte e, addirittura, più simpatico del solito –
quando io non gli invidio i tratti affilati, i ruoli e, inutile
dirlo, il caratteraccio –, sarà merito della sceneggiatura o forse
della partner, una Emmanuel Bercot sincera, ma insopportabile? Tanto
schietta nel portare in scena gli isterismi e le insicurezze del suo
personaggio quanto irritante nei modi, l’eppure premiatissima
Bercot ha messo in ottima luce lo spigoloso Vincent – che non mi è
sembrato così manipolatore, così padre padrone, in relazione a un
personaggio femminile antipatico come nessuno – e, se c’è un neo
non da poco, è che in un copione scritto da una donna per le donne,
contro la dipendenza affettiva e il maschilismo, attenzioni e aghi
della bilancia pendano curiosamente verso il monarca capriccioso del
titolo. Quello che, nella coppia, spicca per lingua sciolta e
ironia. Quello che, soffocato da proteste e scenate plateali, non ha
la possibilità di migliorarsi. E la volontà? Mon Roi, umorale e
appassionato, traduce in francese quello che Cianfrance ha detto in
inglese, quello che Castellitto e la Mazzantini hanno poi ribadito in
italiano: il desiderio è una fiamma, e non puoi alimentarlo a forza
quando muore, né confidare di maneggiarlo senza scottarti. Quello,
con la crudezza del cinema d’oltralpe, gli intraducibili giochi di
parole, tanta pesantezza e una sensibilità, questa volta, distante dalla mia. (6,5)
La
famiglia Radner, con un altro bebè in arrivo e una bambina che è lì
lì per muovere i primi passi (e giocare coi dildo di mamma) è
in crescita e sta cambiando casa. Li avevamo conosciuti, un’estate
fa, con la ricerca della tranquillità e l’incubo di una
confraternita: con Teddy, leader festaiolo e vendicativo, era finita, poi, tarallucci e vino. Ritorna, però, mentre gli amici crescono e
lui resta indietro, in quella casa sfitta. E aiuta tre ragazze in
cerca della propria indipendenza a mettere su la prima sorellanza del
quartiere: il quartetto si amplia presto, però, e nuovi rumori,
nuove canzoni e palla e nuovi dispetti sono dietro l’angolo.
Soprattutto se c’è da nascondere agli inquirenti la ragione di
quel vicinato sexy e turbolento... Sulla scia delle grasse risate e del
successo del primo, torna prevedibilmente un nuovo capitolo di
Cattivi vicini: da me, che in estate non ho mai abbastanza di
comicità spiccia e pensieri lievi, perfino un po’ atteso. Seth
Rogen e Zac Efron, agli antipodi ma già affiatati, regalano doppi
sensi, pance ballonzolanti contro addominali al vento; Chloe Grace Moretz,
di solito abituata a ben altri impegni, si scopre spensierata,
ribelle e bellissima, sempre di più. Tra le righe, questa volta,
tocchi di serietà a sorpresa: il femminismo secondo le matricole –
perché i maschi fanno feste e le femmine no? –, le nozze gay del
“compagnone” Dave Franco e un esame di coscienza, a proposito
dell’essere mamme e padri. Quasi per scusarsi, però, della piacevole scorrettezza del primo. E, in parte, dare il poco promesso,
senza spostarsi d’un passo dal vecchio vicinato - o dal già visto.
(6)
Lui
si chiama Jake: ha trent’anni e passa, si è arricchito facendo ciò
che più gli piace e a mettere la testa a posto non ci pensa proprio.
Come sistemarsi, se ha partner occasionali e continue tentazioni?
Lei, invece, è Lainey: maestra d’asilo di poco più giovane, ha
dato il benservito al ragazzo perfetto per una relazione adulterina
e, traditrice patologica, allergica alla serietà, ha deciso di
passare a vedere cosa insegnano ai raduni per sex addicted. E’ lì
che s’incontrano. Ma è un ehi, guarda chi c’è, non un colpo di
fulmine. Loro si sono conosciuti anni prima: hanno perso insieme la verginità. Che in
quella prima volta sia possibile rintracciare le cause dei cuori
freddi e dei letti caldi? Che Jake sia stato la rovina di Lainey, e
viceversa? Si studiano, si stuzzicano: si piacciono. Promettono,
però, di essere solo amici e di rimediare fianco a fianco ai
classici errori. Qual è il problema, nella monogamia? Qual è il
pregio della solitudine? E mentre si danno a lunghi, lunghissimi
tête-à-tête
e parlano di masturbazione femminile, usando un barattolo di vetro
come metafora, si scoprono gli innamorati recalcitranti di una gran
bella storia d’amore e i protagonisti delle romcom indipendenti di
cui non si ha mai abbastanza. In Sleeping with
other people tutti parlano di sesso, qualcuno lo fa, ma la volgarità
non è contemplata e c’è da penare, per avvicinarsi al lieto fine
tanto sperato. Rilettura, quasi, di Harry ti presento
Sally, ha una scrittura briosa, ritmi seducenti e protagonisti dolci
ed esilaranti – Sudeikis, verso cui eppure non nutro molta stima,
ha una perfetta faccia da suola; la Brie, sfacciata e fragile, è una
meraviglia di ragazza, e la cosa non mi era mai saltata all’occhio
prima d’ora. Solita storia, sì: ma la commedia osé è più
gustosa, se viene dal Sundance, ha toni femministi e, al posto di
divi inarrivabili, propone le imprese amorose di due così, che
dimostrano che la simpatia è sexy, e non è un bugiardo cliché.
(7)