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giovedì 17 giugno 2021

Recensione: Il buio non fa paura, di Pier Lorenzo Pisano

 
| Il buio non fa paura, di Pier Lorenzo Pisano. NN Editore, € 16, pp. 176 |

Sembrerebbe lo scenario di una favola d'altri tempi, fumoso ed indefinito, se non ci fossero piccole indicazioni a dare un passato a quel luogo: per il resto, un presepe in rovina con ancora i segni delle bombe lungo le strade crepate e una paura diffusa verso il nemico tedesco. Gli uomini, incorniciati dalle finestre, osservano tutto e tutti con sospetto. I fucili sempre a portata di mano, per ogni evenienza. Laggiù c'è violenza. Ma c'è anche tanta tenerezza, tantissima. Di questo si sono nutriti i protagonisti: tre fratellini di età diverse che condividono il letto a castello, le storie della buonanotte, le arrampicate su un vecchio faggio e le corse a perdifiato nei campi di granturco. Il loro idillio è guastato all'improvviso da un colpo di vento; dal sopraggiungere di un'oscurità così fitta da avere corpo, e mani. Il buio inghiotte la donna di casa, che sparisce all'improvviso senza lasciare traccia. L'hanno uccisa i lupi? I simpatizzanti nazisti? Il suo stesso marito? Pier Lorenzo Pisano, finalista presso quel Premio Calvino che sforna talenti su talenti, cerca le risposte sulle rive del ruscello; nel folto del bosco. Il suo è un esordio convenzionale, ad altezza bambino, caratterizzato da una lingua colta e infantile allo stesso tempo, intessuta di onomatopee, vezzeggiativi e incanto. A dispetto del linguaggio originalissimo, è la storia in sé a non serbare grandi sorprese. A sembrare già raccontata altrove, in variazioni sul tema ora più entusiasmanti, ora più deludenti. C'è una presenza mostruosa in paese. Gli animali vengono trovati barbaramente uccisi, le campane suonano a morto, i capifamiglia hanno conti in sospeso con il bosco.

Gabriele è quasi sotto le braccia nere, che gli si avvolgono attorno e lo sollevano piano, ma non ha più paura, non sente più nemmeno il freddo, e adesso che sono così vicini gli sembra di riconoscerla. Sussurra: ma’. 

Mentre il papà si sfoga accumulando cataste di legna, i piccoli si stringono in unico giaciglio e si fanno coraggio. Guidati da Gabriele, il fratello di mezzo, giungono presto a una conclusione tanto spiazzante quanto dolorosa: e se il mostro cacciato da tutti fosse proprio la loro mamma? Se il buio l'avesse fatta sua – un tutt'uno indistinguibile? Dalle parti di Sette minuti dopo la mezzanotte (senza la stessa devastante carica metaforica) e del film La madre (senza sprazzi horror), Il buio non fa paura racconta la goffa convivenza tra quattro piccoli uomini, impreparati all'elaborazione del lutto. E di una creatura alta come un albero, nera come la notte, che tuttavia ha le braccia accoglienti di un genitore. Si respira aria di fiaba e di tragedia. Ma non tutto, anzi quasi niente, viene chiarito in un epilogo che giunge troppo in fretta ma lascia sensazioni più durature del previsto. Sono i misteri della vita e della morte. E di alcune opere prime dalle ginocchia sbucciate, in cui l'originalità non è di casa, ma l'emozione – dei legami familiari, delle narrazioni di matrice orale – è un prezioso lumicino a cui affidarsi.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Roberto Vecchioni – I colori del buio

sabato 26 dicembre 2020

Recensione: Se i gatti scomparissero dal mondo, di Kawamura Genki

| Se i gatti scomparissero dal mondo, di Kawamura Genki. € 10, pp. 176 |

Cosa faresti se avessi pochi giorni di vita? Un mite postino giapponese dalla routine incolore, in seguito alla scoperta di un tumore, inizia a scrivere una lista delle dieci cose che vorrebbe fare. Ma è un uomo semplice, senza fantasia, e quel cliché da film lo porta a buttare giù luoghi comuni su luoghi comuni. A dargli uno scossone è la comparsa di Aloha, un diavolo dalle sgargianti camicie hawaiane che, nel bel mezzo di una disputa millenaria col Padreterno, lo tenta con una mela avvelenata: qualche giorno in più sulla Terra. Il patto faustiano, chiaramente, presenta un inghippo. Per ogni giorno guadagnato il protagonista dovrà rinunciare a qualcosa. E con lui il resto dell'umanità. E se i cellulari scomparissero dal mondo? E se scomparissero i film, gli orologi o, ancora, i gatti? Chiamato a scegliere, il postino scoperchia un vaso di Pandora di rimpianti, nostalgie, bivi mancati. La sua presa di coscienza è una fiaba decisamente natalizia che somiglia a un testamento morale. Scritto sotto forma di lettera – a chi è indirizzata e il protagonista, soprattutto, avrà il coraggio di consegnarla di persona al destinatario? –, l'apprezzato romanzo di Kawamura Genki parte da uno spunto surreale ma poi lascia spazio alle riflessioni esistenzialiste del personaggio principale. La proposta indecente di Aloha, infatti, è una scintilla che alimenta continui flashback.

La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo.

I telefoni gli fanno tornare in mente la prima fidanzatina: attraverso gli SMS hanno imparato a conoscersi e attraverso gli SMS si sono lasciati, incapaci di vincere l'incomunicabilità. Il cinema, al pari della lettura, è la migliore soluzione al mal di vivere: camminando lungo i corridoi di una videoteca per otaku, così, il protagonista medita sull'ultimo film in assoluto che vorrebbe vedere. Gli orologi gli ricordano il padre, orologiaio ligio al dovere, e come il tempo – insieme alle classificazioni, alle etichette, alle nostalgie – sia un'invenzione tipicamente umana. Infine ci sono i gatti: padroncino di Cavolo, una palla di pelo grigia eredita dalla defunta madre, il protagonista ritiene che coccole e fusa siano la testimonianza migliore per ricordarci che siamo ancora vivi. Tutto è indispensabile: anche l'oggetto più minuscolo, anche la vita più oscura. La morale insomma è sempre la stessa, e in tempi recenti già mi aveva fatto storcere parecchio il naso con La biblioteca di Mezzanotte: la vita è bella, non importa quanto duri, ma come la si spenda. Troppo cinico per prestare fede a frasi fatte di queste, ho comunque apprezzato il tocco orientale dell'autore: grazie a uno stile semplice e delicato, forse un po' freddo, riesce per fortuna a non essere melenso neanche quando la retorica è immancabilmente dietro l'angolo. Gattini adorabili (a casa ne ho tre) e citazioni cinematografiche (Chaplin, Fellini, Wong Kar-wai) mi hanno rabbonito qui e lì.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: U2 - Beautiful Day

martedì 8 dicembre 2020

Recensione: L'Ickabog, di J.K. Rowling


| L’Ickabog, di J.K. Rowling. Salani, € 19,80, pp. 307 |

C'era una volta una scrittrice che allevò un'intera generazione di lettori. Una zia, una madrina, una maestra. Una di quelle che avrebbero fatto meglio a investire le proprie energie sui libri, anziché su Twitter, per non perdere la credibilità e per non sottrarci la magia dei nostri ricordi migliori. J.K. Rowling è tornata in libreria, ma quest'anno se ne sono accorti in pochi: rischiano di parlare più forte le sue considerazioni sui social rispetto a una storia come questa, di cui io stesso non sapevo di avere bisogno prima di leggerla. Peccato, perché è davvero una storia bella: soprattutto da scartare sotto l'albero a Natale. Avevo immaginato una lettura innocua e piacevole. Una favoletta per bambini per riempire il tempo, con più illustrazioni – quelle all'interno sono state realizzate dai piccoli lettori durante il lockdown – che parole. A sorpresa, questo libro dalla copertina verde smeraldo comprende trecento pagine fittissime di avvenimenti, dettagli e atrocità. Nella migliore tradizione dei fantasy medievali, infatti, propone al lettore la topografia di un regno particolareggiato e una densa serie di andirivieni condita da efferatezze di varia natura. Perché c'è del marcio a Cornucopia, proprio come nella Danimarca del Bardo.

Quando mi mangerai, Ickabog, lascia il cuore per ultimo. Vorrei mantenere i miei genitori in vita il più possibile.

Regno idilliaco dilaniato da cospirazioni e lotte intestine, è governato da un sovrano sprovvisto di qualsivoglia fermezza. Vanitoso, sciocco e volubile, re Teo si lascia consigliare da due serpi che fingono di avere a cuore i suoi interessi ma che, lavorando inosservati alle loro trame, rischiano di trasformare la monarchia in tirannide. Per nascondere i segni della corruzione, hanno fatto dell'Ickabog la causa di tutti i mali: il mostro leggendario vive nella nebbia e negli acquitrini dello spaventoso Nord, e le diatribe sulla sua effettiva esistenza hanno portato alla formazioni di eserciti di fortuna, tasse alle stelle, omicidi brutali poi imputati puntualmente alla creatura. C'è qualcosa di soprannaturale nella palude, oppure è un'invenzione a tavolino per distrarre il re dai misfatti dei sottoposti? L'allarmismo si ingigantisce passando di voce in voce. Il mostro è una suggestione crescente; un capro espiatorio per celare traffici mossi da opportunismo e omertà. I cattivi dell'ultima Rowling sono realmente cattivi. Uccidono atrocemente i genitori, minacciano gli orfani dei supplizi più brutali, spargono sangue e illazioni.

In tutti quegli anni, non era mai riuscita a convincere Marta che l’Ickabog non esisteva. Quella sera però avrebbe voluto credere anche lei nel mostro, invece che nella malvagità umana che aveva visto negli occhi di Lord Scaracchino.

Scorretto e un po' crudele, con una vena grottesca che ricorda Roald Dahl, il romanzo parla il linguaggio semplice dell'infanzia ma nasconde un cuore politico. Chi non si allinea alle idee dei consiglieri del re è percepito come un nemico pubblico. Gli eversivi sono destinati a scomparire nel nulla. I popolani cadono sotto il peso degli stenti e dei dazi. I bambini, chiamati a sbrigare cose da grandi, sfuggono a orfanotrofi dickensiani per coalizzarsi. Guidati da Robi e Margherita – il primo figlio di un soldato assassinato, la seconda di una sarta morta di stanchezza appresso alle richieste del sovrano –, i piccoli protagonisti rappresentano la speranza delle nuove generazioni. La purezza dei loro sguardi mette in moto timide rivoluzioni e marce pacifiste. E quando giungerà, l'immancabile lieto fine sembrerà il trionfo della democrazia. Intelligente e grazioso, cos'è L'Ickabog se non lo svelamento di un'ingannevole fake new? J.K. Rowling non ha perso il tocco. Tra una polemica e l'altra, purtroppo, ne avevo dubitato anch'io. Insomma: c'era una volta, in realtà, una scrittrice che per fortuna c'è ancora.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Coldplay – Magic

lunedì 5 agosto 2019

Recensione: Favola di New York, di Victor LaValle

Favola di New York, di Victor LaValle. Fazi, € 20, pp. 510 |

C’erano una volta, in una metropoli non troppo lontana, i membri della famiglia Kagwa. Una casa in graduale espansione  - con una coppia di piacenti trentenni alle prese con le gioie e i dolori della convivenza coniugale – in un quartiere della Grande Mela consacrato puramente allo splendore decadente dei negozi d’antiquariato o alla polvere luccicante dei rigattieri. Apollo ed Emma, anime gemelle dagli hobby e dalle tragedie coincidenti, si sono incontrati al bancone della biblioteca pubblica: galeotti, al solito, i libri. 
Lui, chiamato così da due genitori che hanno visto Rocky al primo appuntamento, è un antiquario dallo spirito avventuroso: dotato di un eccezionale fiuto per gli affari, salva i libri dal macero trovando nelle cantine altrui almanacchi di insospettabili satanisti e copie autografate del capolavoro di Harper Lee. 
Lei, unica superstite insieme alla sorella al rogo della famiglia, è una libraia con l’animo hippy: partita per il Brasile all’inizio del romanzo, torna da Apollo con un po’ di esperienza in più – c’è un suo nudo, pensate, esposto in un museo di Amsterdam – e con un cordino rosso legato al dito. Quando si spezzerà, dice, si realizzeranno tre dei suoi maggiori desideri. Ha un marito splendido. Sulla linea A della metropolitana, durante un blackout, partorisce il primogenito: Brian. Cos’altro potrebbe volere per essere completa? La felicità è una cosa misteriosa. L’infelicità, peggio. La famiglia degna di una fiaba moderna, allora, si ritrova al centro di un incubo da cronaca nera quando una serie di messaggi anonimi, i seni doloranti e le notti bianche spingono la fragile neomamma sull’orlo della follia. Tutto dovrebbe finire così, nel sangue. E invece, magicamente, comincia.

Le fiabe non sono pensate per i bambini. In origine si trattava di storie che i contadini raccontavano attorno al fuoco la sera, dopo una giornata di duro lavoro. Erano adulti che si rivolgevano ad altri adulti. Le fiabe sono diventate storie per bambini soltanto nel Settecento, quando un nuovo ceto sociale molto particolare ha cominciato a diffondersi in Europa. […] Le regole di comportamento dovevano cambiare, sia per gli adulti sia per i bambini, perciò anche le fiabe cambiarono. Dovevano avere una morale, qualcosa che spiegasse le nuove regole ai più piccoli. Fu quello il momento in cui le fiabe divennero una grande stronzata. Una fiaba stupida ha una morale semplicistica, una bella fiaba dice semplicemente la verità.

Li chiamano genitori elicottero. Quelli che sorvegliano i bambini come sentinelle iperprotettive – si spera a fin di bene –  e li aiutano un passo alla volta nelle difficoltà della crescita. La strega di Raperonzolo, tanto legata alla ragazza da isolarla in una torre irraggiungibile, era una di loro. Come proteggere, infatti, un figlio impreparato alle brutture dell’esterno? Se lo domanda anche Apollo: papà moderno con un profilo Facebook pieno di scatti di Brian, che inconsapevolmente, in rete, semina briciole di pane a favore del lupo cattivo. All’indomani di una tragedia scioccante, in liberta vigilata, gira per una New York inedita con un bagaglio pesante: un piccone, una lapide, un cambio di vestiti, un libro per l’infanzia ereditato dal genitore prima che desse forfait. Cerca Emma, mosso da sentimenti che oscillano dall’ira alla tenerezza. Visita gruppi per l’elaborazione del lutto. Pagaia lungo le nove isole che galleggiano nell’East River, scoprendone una popolata soltanto da fanciulli e mamme armate fino i denti. Si perde e si ritrova in una foresta nascosta in pieno Queens, sotto gli occhi di tutti, dove c’è una caverna da sorvegliare dal tramonto all’alba. Tutto pur di non affrontare quell’appartamento sfitto in cui adesso risulta difficile entrare; tutto per non varcare la porta della stanzetta di Brian, chiusa dai nastri rossi della polizia. Se un genitore dichiara resa – ha fallito, non è stato l’angelo custode del suo bambino come si era prefissato – meglio soccombere ai morsi del dolore e o credere nell’impossibile; nei mostri?

Sopravvivere all’infanzia è un miracolo.

Immaginifico, struggente e splatter, Favola di New York – adattamento dall’inglese The Changeling, che sin dal titolo preferisce dichiarare il suo debito verso le creature del folklore europeo – resterà la lettura più sorprendente in cui vi imbatterete quest’anno. Le angosce di Rosemary’s Baby incontrano le inquietanti tecnologie di Black Mirror, all’ombra dei miti dolci e tenebrosi dello svedese Border. Sullo sfondo, un ventunesimo secolo che si fa fatica a riconoscere raccontato con questi stessi toni sospesi; l’America odierna – quella degli afroamericani nell’occhio del ciclone, dei pirati informatici e della presidenza Trump, del melting pot ormai a rischio – trasformata con fantasia invidiabile in una labirintica terra selvaggia. I luoghi, eppure, sono reali: li ho cercati con Street View nel mentre, per il piacere di smarrirmi a distanza. Oggi i cavalieri senza macchina né paura sono i librai e i creatori di start-up, la principessa da salvare una mamma accusata dell’assassinio più terribile; la magia nera, invece, è l’arte oscura di un odierno leone da tastiera con un computer irrintracciabile dietro cui farsi scudo. Sono più profonde le caverne dell’ignoto, infatti, o i meandri del deep web? 
Fra troll di ieri e troll di oggi, i protagonisti brandiranno iPad, non spade; schermi luminosi grazie a un’apposita funzione, non torce infuocate. Aperti fino all’ultimo all’impossibile, gli ultimi romantici di LaValle garantiscono un viaggio senza precedenti un una metropoli che talora sembra un mare aperto, e in un cuore dove si protrae ininterrottamente un’inimmaginabile burrasca. Favola di New York sfocia presto nell’assurdo, perfino nell’horror nudo e crudo, ma basta affidarsi alla sensibilità dell’autore per innamorarsene perdutamente. Questa è la storia di tante storie. Generazioni di immigrati che hanno attraversato l’Atlantico su una bagnarola pericolante, con il timore verso i pericoli del Nuovo Mondo e bestie secolari per angeli custodi; afroamericani reduci dalla galera che, dando nell’occhio, si aggirano in quartieri residenziali con il rischio che un poliziotto dal grilletto facile li ammazzi a sangue freddo; padri a ogni costo, che farebbero di tutto per il bene dei figli – anche uccidere, anche ucciderli.

«E vissero per sempre felici e contenti», sussurrò Apollo.
Emma appoggio la testa alla sua spalla. «E vissero felici, almeno per oggi».
«È abbastanza?», chiese Apollo.
«È tutto, amore mio».

Meglio di un romanzo realistico, a sorpresa, a raccontarci il razzismo al tempo dei repubblicani, il lutto al tempo di Facebook, le mele avvelenate e i fusi letali sparsi in certi angoli della rete, è questa fantasmagoria dalle fitte coloriture politiche la cui morale, in definitiva, è una riflessione importantissima sulla ricchezza dell’integrazione. Chiudendo i porti, erigendo muri su muri, come potremmo spulciare nell’apparato leggendario di paesi lontani – in questo caso, la Norvegia – e fare nostri i loro sogni e i loro incubi, le loro storie? Quanto saremmo aridi senza? E vissero per sempre felici e contenti, d’un tratto, appare una formula necessaria: non più lo stratagemma di qualche genitore troppo pigro o troppo codardo per proseguire ulteriormente con la lettura della buonanotte. 
Oltre l’ultima riga delle favole, ci sono gli infanticidi e gli altri orrori secondo LaValle. Ma anche gli amori rafforzati da una distanza forzata, le mamme che nel momento del bisogno sollevano tanto le automobili quanto i coltellacci insanguinati, le attese insieme sotto le pensiline in plexiglass. Al lieto fine – questa volta, quanto mai sperato – si arriva forse con i mezzi pubblici. E il cordino rosso legato prima al dito di Emma, poi a quello di Apollo, può essere fatto cadere a chiusura del percorso. Nella recensione manterrò segreti i loro desideri ma il mio, quello di leggere almeno un romanzo straordinario, è stato esaudito: grazie a Favola di New York, rinuncio a cuor leggero agli altri due.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: M83 – Midnight City

venerdì 7 giugno 2019

Mr. Ciak in musica: Rocketman | Aladdin

Quanto devono essere state belle quelle vite che approdando al cinema si fanno musical? La riflessione valeva tanto per i circensi di The Greatest Showman – spettacolo spettacolare per tutta la famiglia – quanto per Sir Elton John, idolo generazionale con un cinquantennio di carriera alle spalle. Non è tutto oro quel che luccica. Spesso, dietro la musica leggera, si nascondono i fardelli. In Rocketman lo dimostra bene un incipit che è tutto un programma: insaccato in una tutina rosso fuoco, il protagonista marcia come un drago nel corridoio di una clinica. Elton, a un bivio, sceglie di disintossicarsi. Scenografico anche nel momento del bisogno, lava i panni sporchi in una seduta psicoanalitica che nella sequenza successiva si è trasformata già in fiaba. E c’è più personalità in poche immagini che in due ore di Bohemian Rhapsody. Benché non eguaglierà al botteghino l’agiografia di Mercury, il biopic di Fletcher – sostituto di Singer nelle ultime fasi del film sui Queen – è superiore per resa e impegno. La storia del grassoccio Reginald, brutto anatroccolo che raggiunge la vetta ma perde sé stesso, non ci risparmia l’alcol, le pasticche, un rimpinzarsi di sesso e cibo che portarono alla bulimia. Conta numeri ispiratissimi – il piano sequenza con Saturday Night’s Alright, le struggenti Your song o Sorry seems to be the hardest word,  il tentato suicidio sulle note della canzone eponima –, qualche caratterista bidimensionale – Bryce Dallas Howard e Richard Madden, troppo antipatici per essere veri: tenerezza infinita, al contrario, per l’amico fraterno Jamie Bell – e un’ampia gamma di emozioni, in un evento all’altezza di una carriera di cui in verità poco sapevo. Come il regista di Dolor y Gloria, il cantante inglese si nutre d’affanni e d’applausi. Si perde nel passato, sperando di venirne a capo. A metà tra una seduta degli alcolisti anonimi e una baraonda colorata, Fletcher attinge direttamente al vangelo secondo John: c’è un po’ di autocelebrazione, vero, ma per fortuna compensano tanta brutale onestà e il contrappunto vincente dell’umorismo britannico. Non cronaca scolastica, ma commedia musicale in tutto è per tutto, ha una scrittura semplice e parabolica, ma risulta comunque innovativo. Sono le canzoni dello stesso artista, come fu per i Beatles in Across the universe, a raccontarne gli alti e i bassi e non si respira l’aria viziata, insincera, delle commemorazioni postume. Vivissimo, onnipresente e fiero, il vero Elton può godersi in vita un tributo trascinante che emozionerà fan e non. Dietro gli occhiali da sole, sotto le piume di struzzo, battono il cuore e il talento puri di un Egerton da Oscar. Tragico e festoso, di un’allegria ora malinconica e ora isterica, l’attore indovina il ruolo della vita e non lo spreca. Canta, balla, recita senza diventare mai macchietta. Piccolo, anagraficamente e di statura, è un razzo sul punto di esplodere. Fa fumo, rumore, e la gioia di chi ama la bella musica e soprattutto il cinema solido. Il suo film, che gli è affine, è un razzo. Non puoi che smarriti nella sua scia, e fra gli applausi. (7,5)

Le premesse sono le stesse del recente Dumbo. Ci si aspettava poco. Dall’ennesimo live action stimato non necessario. Dal nuovo film di Guy Ritchie, regista mai apprezzato particolarmente. Ma mi hanno portato in sala il giusto stato d’animo e il biglietto ridotto, insieme a un’adorazione viscerale per il capolavoro di ventisette anni fa. Avrebbe potuto essere uno sfacelo: gli appassionati di lunga data, si sa, sono una brutta bestia. Ma dopo un prologo goffo, a sorpresa, Aladdin ingrana e appassiona. Un diesel che, contro tutti i pronostici, aspettava proprio l’ingresso del Genio Will Smith per superare l’empasse iniziale: criticato a priori sui social, l’attore afroamericano strappa risate a scena aperta grazie ai pezzi scoppiettanti (su tutti, Un amico come me) e alle mosse riciclate dal successo di Hitch, con cui conquistare l’altrettanto buffa ancella di Jasmine o trasformare il protagonista in principe durante una colorata parata trionfale. La seconda metà, con un intermezzo a palazzo tutto nuovo – il culmine, un’esilarante scena di breakdance – e un epilogo che, per quanto fedele, mi sono goduto più del previsto avendone scarsi ricordi, riesce a far digerire la scelta di uno Jafar lontano dal cattivo viscido e sornione della versione originale e quel briciolo di delusione per Il mondo è tuo, duetto compromesso da una fotografia sin troppo cupa. Ritchie, contenuto il giusto, può concedersi rallenty e volteggi in libertà  grazie al fisico atletico dell’azzeccato Mena Massoud e a una trama già di per sé molto frenetica. Poco deve inventare: per essere un cartone, l’originale era pieno zeppo di intrighi. Lì, al solito, si annidano i difetti e i pregi di operazioni simili a questa. Copie stinte che nulla aggiungono ai capostipiti e, se tutto fila liscio, come in questo caso, nel bene nulla tolgono. L’avventura di Aladdin resta magica anche con attori in carne e ossa, sebbene meno incisiva, e al contrario di ciò che succedeva nel pessimo La bella e la bestia poco si ha da dire contro il decoroso adattamento italiano, il casting perfetto dei protagonisti principali e l’inserimento di un’immancabile dimensione femminista che, complice la potenza della splendida Naomi Scott, non risulta mai stucchevole – certo, quanti luoghi comuni nel testo di Speechless, novella Let it go con acuti da pelle d’oca. Il confronto è inevitabile. E, inevitabilmente, questo nuovo adattamento lo perderebbe. Ma approcciato con basse aspettative, per via dell’aria kitsch e posticcia dei trailer, la riscrittura in salsa Bollywood del classico Disney mi ha sinceramente divertito e, su un tappeto volante, ha fatto volare via due ore di visione e i pregiudizi che portavano con sé. (7)

lunedì 6 maggio 2019

Recensione: L'inverno di Giona, di Filippo Tapparelli

| L'inverno di Giona, di Filippo Tapparelli. Mondadori, € 17, pp. 190 |

Non ha che un maglione rosso, presumibilmente un modello femminile, per ripararsi dai rigori dell'alta montagna. Giona, quindici anni, vive in un villaggio senza nome e senza tempo. Per lui non esistono né il passato né il futuro. Soltanto un eterno presente, fatto di temperature in picchiata, terribili violenze – fisiche e psicologiche – e pochi ripari contro un gelo che pian piano ha messo radici anche nel cuore. Questa è la storia di un convivenza insostenibile: da qualche parte, in una casupola buia che sormonta tutto e tutti, il protagonista condivide i pochi spazi vitali con il nonno Alvise. Un vecchio dalle mani ferme e pesanti, dagli occhi di un azzurro impenetrabile, che con la stessa meticolosità con cui intreccia rami di castagno per fare gerle si ostina a tormentare il nipote: quintessenza della virilità, esempio di durezza e cattiveria, risulta elegante anche nel pestaggio. Nelle nocche lucide di sangue, nelle suole delle scarpe che calciano e spezzano le ossa. Questa è la storia del paese di Alvise: un microcosmo di case nude e argilla, di cieli dello stesso colore dell'orzata, che si regge a malapena su un ciottolo e sta perdendo misteriosamente il suo centro. Come sopravviverà senza il suo leader, e senza la complicità delle nebbie perenni?

Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Non sono tue le mani che mi spezzano la carne quando il vecchio mi punisce. Non è il tuo volto che mi tocco quando il freddo d'autunno mi congela le guance. Non sono volto, non sono labbra, non sono dita, denti, né altro. Io sono figlio del niente, senza padre né madre. Ma lei, a differenza tua, me la ricordo a ogni colpo che arriva, perché è il suo nome che invoco nella gola quando il male diventa più grande di me. Tu invece non sei mai esistito. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Ricordo la tua assenza, quando invece vorrei poter dimenticare la tua presenza inconsistente. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Sei vecchio come Alvise. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno. Le tue schegge non sono dolci, sono vetriolo che scende nello stomaco. Bruciano tutto quello che trovano, anche le grida.

Vincitore del premio Calvino sulla scia del bellissimo L'animale femmina, L'inverno di Giona racconta di un fragile universo che un singolo atto di ribellione minaccia di ridurre in polvere. Anche se niente è quel che sembra. L'ordine è rigoroso, il silenzio di tomba. Le case hanno le porte aperte e le scatole, che all'interno nascondono indizi indicibili, rifiutano lucchetti: lo spietato Alvise, sicuro della propria autorità, è infatti il peggiore deterrente. Suo nipote è nel fiore dell'adolescenza, ma al cospetto del vecchio sembra un bambino sperduto. Logoro e infreddolito, sozzo di sangue, nella prima parte mette alla prova le resistenze del lettore descrivendo una routine che fa impallidire: l'apice, quando è costretto a scegliere fra il passare una notte all'addiaccio o gettare nella fornace il suo maglione – già rattoppato alla bell'e meglio, per tutte le volte in cui Alvise lo ha strappato e bucherellato all'indomani di qualche sgarro. Solo al mondo, a digiuno di abbracci, Giona ha dato un nome di battesimo ai dodici gradini che conducono in cantina e ben presto sperimenta l'orrore delle strade vuote, dei boschi labirintici, come nella versione amara di Hansel e Gretel. La seconda parte, un soliloquio dai toni lisergici ma poetici, tratta di un doppio affrancarsi; di una fuga tanto letterale quanto metaforica, lontano da un villaggio giunto al collasso.

Sai come nasce un albero che sa fare i frutti? Non in modo spontaneo, non secondo natura. Non da solo. Scegli una pianta selvatica resistente, gli spacchi il legno e gli innesti dentro un ramo buono, con le gemme. Poi la mutili per anni con la potatura, lasci solo i rami più forti e li deformi per renderli adatti alla raccolta. Con il dolore, Giona. Solo con il dolore si impara.

Lì dove libertà fa rima con redenzione, l'animo smarrito del protagonista punta a mete sconosciute con lo spirito dei classici viaggi dell'eroe: gli fanno compagnia la spettrale Norina, una coetanea seguita a ruota da uno sfuggente gatto nero; la dolcezza di Anna, che mette in ordine una canonica rimasta purtroppo senza prete; i litigi aspri fra Attilio e Anna, che sparlano della figlia sciagurata che ha osato voltare loro le spalle. La terza parte invece, forse intuibile attraverso indizi ben seminati ma comunque agghiacciante, è la riflessione a ruota libera sulle fate e i demoni della nostra fantasia: qualche volta salva, qualche volta ammazza.
Sorretto da una scrittura dalla bellezza perturbante, vibrante com'è delle angosce e del candore delle infanzie di ogni dove, il premiato esordio di Filippo Tapparelli è un'allegoria esistenzialista consigliata a chi ha amato e sofferto con Sette minuti dopo la mezzanotte e Vita di Pi. Una strada senza uscita, che gira in tondo e porta sempre al punto di partenza. Tutto, pur di affrontare una scomoda verità. L'andamento perciò sarà di quelli vari e frastagliati. Ancorati a una prosa ispirata e scabrosa, piace tuttavia fidarsi a occhi chiusi. Non sapendo in principio dove porterà, il viaggio dell'autore veronese.

Non ci sono cose più fragili della verità. Per questo motivo va detta a bassa voce. Le parole la sporcano e la confondono, non sanno riportarla in modo fedele. La verità è fatta di silenzio. Un silenzio che riesce a rendere sordo il mondo, quando ciò che cela è troppo grande per essere compreso.

Seguiamo allora i sentieri di un microcosmo sdrucciolevole e impermeabile al divenire, che si sbriciola come un biscotto raffermo – le parole che diciamo a voce alta costruiscono, infatti, mentre quelle che tacciamo distruggono. Seguiamo, ancora, la bussola di un maglione rosso: tratto distintivo su una sagoma che sfreccia, si sporca, e infine ti coglie alla sprovvista alle spalle. Cosa accade quando un cane, spezzato il guinzaglio, si rivolta contro il padrone? Dove il tempo è relativo quanto mai e i freddi, interminabili, possono fiorire in gemme primaverili sotto le palpebre abbassate degli instancabili sognatori, un sacchettino con cinque pietre e la sagoma di una porta ci regaleranno il miraggio del sole all'insegna degli epilogo evocativi perché sospesi nel mezzo dei nostri forse. La fantasia è una catena. La fantasia è una liberazione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - Ho visto Nina volare 

giovedì 8 novembre 2018

In pre-ordine dal 12 novembre: Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe

Lunedì ho condiviso con voi annuncio e agitazione. Leggere i vostri commenti mi ha messo il cuore in pace e, abbiate fede, fra una lassa di Filologia da tradurre e qualche altro preparativo da ultimare, prometto di rispondervi uno a uno, piano piano.
Domani mi apriranno le porte sia Pensieri Cannibali con un'intrigante playlist a tema, sia Un libro per amico con un assaggio dell'incipit nella rubrica Chi ben comincia.
Il 12 novembre, invece, il lancio ufficiale previsto per il tardo pomeriggio: una volta online sul sito Bookabook, ve lo ricorderò sui social e con un piccolo banner nella colonna laterale del blog. Vi ho parlato di date, cifre e scadenze. Delle mie immancabili ansie da tenere a freno e del progetto di crowdfounding, gradino poco convenzionale che a tratti spaventa. Resta, a questo punto, la cosa più importante: il romanzo da presentarvi. Con tanto di nota biografica e quarta di copertina, che ritroverete nel mezzo della campagna, e un'immagine promozionale. Essendo la pubblicazione in forse non ho una copertina da diffondere, ma l'editore mi ha dato carta bianca e libero accesso a quell'immenso archivio di scatti che è il sito Unsplash. Avevo in mente un unico dettaglio fondamentale – una lampadina incandescente nel buio – e il tocco magico della mia amica Sara, eccezionale padrona di casa di My Caffè Letterario, ha trasformato poi una semplice foto in una meraviglia. Avrete senz'altro modo di sentirmi parlare qui e lì di Malanotte, di com'è nato, quando o perché. Potrete chiedermi di leggere o sfogliare una bozza del romanzo non appena lo avrò riletto e impaginato – sarà compito di un editor professionista, in caso venga raggiunto il goal dei 250 lettori, ma da perfezionista insicuro quale sono preferisco avere l'ultima parola e, soprattutto, il tempo di tirare di nuovo le fila. Mi eclisso lasciando la parola al mio Milo: un taglio netto del cordone ombelicale. Spero vogliate avere cura di lui. E attraverso di lui, così, anche di me.

| Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe. Cartaceo, € 16.00. Ebook, € 5,99. pp. 280 |

SINOSSI
Cronometro alla mano per lavarsi i denti, i lacci delle Converse a far pendant con gli stati d'animo e corde del bucato su cui sventolano i capolavori di Beethoven. Milo Jenkins, sedici anni, è un virtuoso del pianoforte, ha mille nevrosi e il fantasma di un pesce farfalla per migliore amico. I suoi lunghi silenzi e un candore senza età hanno reso sicura la diagnosi: è affetto da una forma di autismo ad alto funzionamento. Un ragazzo speciale, lo definirebbe qualcuno. Se vivi in una città che somiglia alla cupa Eureka, però, non ci sono parole gentili per un orfano di madre con gli occhiali a fondo di bottiglia, la schiena ricurva sotto il peso dei libri e gli incisivi a zappa. La svolta tanto sperata ha la gonna troppo corta e le occhiaie viola di Iris, forestiera bella come un film di Tim Burton. Sulla tela della loro adolescenza, uno schizzo rosso sangue. Sotto una coltre di foglie secche, cadaveri innocenti. Corre, Milo. Ma verso Iris o lontano da lei? Un diario ritrovato, un'eredità improrogabile, due storie parallele che si incontrano seguendo il filo conduttore della musica. Truce e dolce, Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe è una fiaba splatter dove i baci hanno un retrogusto segreto e tra sogno e delirio, amore e morte, non c'è grado di separazione.

L'AUTORE 
Michele Del Vecchio (Palermo,1994) nasce su un'isola, passa le estati della sua infanzia all'ombra del Vesuvio e a otto anni si trasferisce nella regione che, stando a torto alla pagina Facebook, non esiste. Vive tra Termoli e Pescara con quel che resta della sua famiglia e l'irresistibile Ciro, un tigrato europeo che odia tutti e in cui spera fermamente di reincarnarsi in un’altra vita. Fondatore nel 2012 del blog Diario di una dipendenza e plurifinalista ai Macchianera Internet Awards nella categoria Miglior sito letterario, sta lavorando a una tesi magistrale in Letteratura teatrale italiana.

venerdì 11 agosto 2017

Recensione a basso costo: Il giardino delle farfalle, di Dot Hutchison

| Il giardino delle farfalle, Dot Hutchison. Newton Compton, € 9,90, pp. 336 |

Le chiama così, le Farfalle. Giovani, leggere, bellissime. Hanno vestiti eleganti lunghi fino ai piedi, come ninfe di un quadro di Botticelli, e uno scollo vertiginoso sulla schiena a rivelare enormi ali d'inchiostro, dipinte durante sedute lunghe e dolorose. Sono tante, e hanno dai sedici ai ventuno anni. Poi muiono. Quella è la loro natura: spegnersi in fretta, all'acme dello splendore. Sono prigioniere in una serra di dimensioni straordinarie, in cui zampillano cascate e ruscelli. Nei corridoi, intrappolate sotto un vetro e cristallizzate nella resina, le Farfalle assassinate al compimento del ventunesimo anno d'età. Il loro aguzzino, detto Il Giadiniere, le tatua e ne abusa, spartendo il suo harem segreto con i figli – il primogenito, ormai fuori controllo, e un giovane violinista combattuto tra giustizia e senso di appartenenza.

Le creature bellissime hanno vite molto brevi, così mi aveva detto al nostro primo incontro. Lui se ne assicurava e si sforzava di dare alle sue Farfalle una strana specie di immortalità.

A capo del gruppo, Maya. Che è abbastanza forte per tutte. Che ha dimenticato il suo nome e, all'esterno, viveva un'esistenza non meno malsicura e angosciante (due genitori litigiosi, un'appariscente nonna tassidermista, le attenzioni degli adulti da schivare). Che, all'inizio del romanzo, siede nella sala interrogatori di una stazione di polizia. Le mani bendate, i modi accattivanti e una storia da raccontare al poliziotto buono e al poliziotto cattivo: una storia che, a pagina uno, sappiamo essersi già conclusa. Come si scappa dal labirinto di un ricchissimo Minosse? Qual è il ruolo della sopravvissuta, elusiva e seducente? Se non fosse stato per il consiglio mirato della mia amica Susi, Il giardino delle farfalle mi sarebbe sfuggito. Colpa dei romanzi Newton Compton che, con il copia-incolla, promettono tutti “Un grande thriller”. Colpa di un altro retro di copertina che, senza fantasia, annuncia “Il thriller più terrificante dell'anno”. Nel romanzo della sorprendente Dot Hutchison – una prosa affascinantissima e tutto un mondo di orrori da architettare – c'è del buono davvero, nonostante gli strilloni esagerati e tutt'altro che attraenti delle fascette promozionali. Insolito romanzo di genere, ha una costruzione impeccabile e una scrittura che regala immagini memorabili, di violenza e armonia: vedo nitidamente davanti agli occhi, a distanza di giorni, questa corte di ragazze in cattività, che rispettano le gerarchie del Racconto dell'ancella e si danno alle confidenze intime di un film di Sofia Coppola. Artefice dell'incantesimo, una narratrice che sembra non raccontarla giusta.

I miei segreti sono vecchi amici; mi sentirei una pessima amica se li abbandonassi ora.

Maya pettina, rassicura, coordina. Recita a mente Edgar Allan Poe e i tragediografi greci, se sottomessa alle voglie del Giardiniere. Irretisce Desmond, erede da plasmare. Confonde gli agenti di Polizia e il suo lettore. Cosa non dice? Le risposte non sono delle più impensate: in ballo, a un certo punto, sembra esserci meno del previsto. Ai colpi di scena – canonici ma indispensabili, stando a me – Il giardino delle farfalle preferisce infatti una narrazione convoluta e un epilogo risolutivo, dalla morale femminista, in cui le donne oppongono ostinata resistenza. Le farfalle premono contro la teca e l'eventuale schianto, la pioggia di vetri in frantumi, fa meno rumore del resto – così scenografico, così originale nel suo dire e non dire. Restano le schegge insanguinate. L'inchiostro già penetrato sottopelle. La crisalide, lasciata sfitta per un volo lungo più di un giorno soltanto.
Il mio voto: ★★★★ -
Il mio consiglio musicale: Cloves - Don't Forget About Me

lunedì 20 marzo 2017

Recensione [Bancarella 2017]: La locanda dell'Ultima Solitudine, di Alessandro Barbaglia

Ci sono tre motivi per cui vale la pena andare. Il primo è perché si mangia bene. Il secondo è perché ci si può andare solo in due. Il terzo è perché laggiù ci impari a vivere. E quindi, anche, a morire. 

Titolo: La locanda dell'Ultima Solitudine
Autore: Alessandro Barbaglia
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 163
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Libero e Viola si stanno cercando. Ancora non si conoscono, ma questo è solo un dettaglio. Nel 2007 Libero ha prenotato un tavolo alla Locanda dell'Ultima Solitudine, per dieci anni dopo. Ed è certo che lì e solo lì, in quella locanda arroccata sul mare costruita col legno di una nave mancata, la sua vita cambierà. L'importante è saper aspettare, ed essere certi che "se qualcosa nella vita non arriva è perché non l'hai aspettato abbastanza, non perché sia sbagliato aspettarlo". Anche Viola aspetta: la forza di andarsene. Da anni scrive lettere al padre, che lui non legge perché tempo prima, senza che nessuno ne conosca la ragione, è scomparso, lasciandola sola con la madre a Bisogno, il loro paese. Ed è a Bisogno, dove i fiori si scordano e da generazioni le donne della famiglia di Viola, che portano tutte un nome floreale, si tramandano il compito di accordarli, che lei comincia a sentire il peso di quell'assenza e la voglia di un nuovo orizzonte. Con ironia leggera, tra giochi linguistici, pennellate surreali e grande tenerezza, Alessandro Barbaglia ci racconta una splendida storia d'amore.
                                            La recensione
In equilibrio su uno scoglio sperduto tra cielo e mare sorge una locanda che più esclusiva non si può: il posto più bello del mondo. Da quel legname un manipolo di soldati avrebbe dovuto intagliare una nave per scappare in America. Un bambino assennato, però, aveva preferito la terra ferma al rischio dell'alta marea. Adesso ci lavorano il fondatore, Enrico, e un ometto baffuto. Ci si può soggiornare in pochissimi per una cena romantica. Il locale non ha che un tavolino con due sedie. Possono prenotare solo due persone. O due persone sole. Il telefono squilla e sì, si accettano prenotazioni. Ma la voce dall'altro capo del filo è di un giovane uomo, Libero, che riserva un posto con dieci anni d'anticipo. E' il 2007 e lui, inghiottito da un'anonima e tentacolare metropoli, non ha ancora nessuno con cui andare. Confida nel tempo e nella venuta dell'anima gemella. Libero di nome ma, nei fatti, prigioniero del suo stesso senso di attesa. Nel mentre divide un appartamento vuoto e dipinto di blu con un cane, Vieniquì, e un baule con un singolo biglietto sul fondo. 
Al di là delle colline, in un posto incantato che si chiama Bisogno, c'è l'irrequieta Viola. Vive in una casa preclusa al sesso maschile ed è l'ultima di un albero genealogico in cui, oltre ai nomi floreali, ci si tramanda l'arte di accordare i fiori scordati. Nel caminetto imbuca lettere a un padre che si è allontanato per non mostrarsi sofferente e l'arrivo del nuovo parroco, Piter, accresce in lei il connaturato desiderio di altrove. Libero e Viola sono i protagonisti principali di un esordio italiano subito candidato al Premio Bancarella. Sappiamo che la storia parla di loro, ed è una storia d'amore. Però, a lungo, vivono lontanissimi e in capitoli alterni. Quanti chilometri li separano, quali scelte, se lui va a convivere con un'altra donna e lei rischia di abbracciare passivamente un destino prestabilito? Come ci cambiano dieci anni? Soprattutto, si può avere nostalgia delle cose che non sono mai accadute? In un attimo lungo una vita ci si trova protagonisti di una relazione sbagliata, della routine, di un rapporto affettivo che non sa emozionare. Della pianificazione di una fuga perfetta che, dopo mille tentativi vani, diventa frustrante. 
Sono un lettore impaziente, facilmente annoiabile, d'indole poco poetica. Non ho mai apprezzato fino in fondo, per dirvi, le rose e le volpi del Piccolo principe: letto forse quando era troppo presto o forse no. Precisazione doverosa se si parla di un romanzo leggero, onirico e delicatissimo come questo. Se, come ho fatto io, si entra nel favoloso mondo di Alessandro Barbaglia con un vago scetticismo di fondo. La locanda dell'Ultima Solitudine non era la mia tazza di tè. Lo prendo nero, meno zuccherato possibile. Centocinquanta pagine dopo i miei gusti non sono cambiati. Però Alessandro e i suoi innamorati sui generis, che si cercano ma non lo sanno, sono davvero dei bei tipi. Surreali ma belli, come diceva qualcuno nella commedia in cui il libraio s'innamorava della principessa di Hollywood. Anche se alle perle di patate preferisco una saporitissima carbonara. Anche se alle fiabe e alle prose così mi abbandono in ritardo, ma de gustibus. Nella Locanda dell'Ultima Solitudine, fatto sta, c'è una serenità straordinaria: ti disturbano solo le onde e il vento. Servito e riverito, attorniato da un interessante cicaleggio, ne guadagni in ottimismo e buonumore. Ti godi le sensazioni lievi, le suggestioni sparse, gli spunti. La tintarella di luna di un gioco immaginifico ed esistenzialista. Il menu è semplice, la compagnia è buona, lo scenario affascinante. Il pernottamento confortevole e, al mattino, il tremolar della marina invoglia a fare il bagno nudi. Lasci una mancia abbondante alla cassa. Arrivi solo e riparti in coppia. Magari, ti dici, prima o poi ci torno.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ermal Meta – Ragazza Paradiso