Sembrerebbe
lo scenario di una favola d'altri tempi, fumoso ed indefinito, se non
ci fossero piccole indicazioni a dare un passato a quel luogo: per il
resto, un presepe in rovina con ancora i segni delle bombe lungo le
strade crepate e una paura diffusa verso il nemico tedesco. Gli
uomini, incorniciati dalle finestre, osservano tutto e tutti con
sospetto. I fucili sempre a portata di mano, per ogni evenienza.
Laggiù c'è violenza. Ma c'è anche tanta tenerezza, tantissima. Di
questo si sono nutriti i protagonisti: tre fratellini di età diverse
che condividono il letto a castello, le storie della buonanotte, le
arrampicate su un vecchio faggio e le corse a perdifiato nei campi di
granturco. Il loro idillio è guastato all'improvviso da un colpo di
vento; dal sopraggiungere di un'oscurità così fitta da avere corpo,
e mani. Il buio inghiotte la donna di casa, che sparisce
all'improvviso senza lasciare traccia. L'hanno uccisa i lupi? I
simpatizzanti nazisti? Il suo stesso marito? Pier Lorenzo Pisano,
finalista presso quel Premio Calvino che sforna talenti su talenti,
cerca le risposte sulle rive del ruscello; nel folto del bosco. Il
suo è un esordio convenzionale, ad altezza bambino, caratterizzato
da una lingua colta e infantile allo stesso tempo, intessuta di
onomatopee, vezzeggiativi e incanto. A dispetto del linguaggio
originalissimo, è la storia in sé a non serbare grandi sorprese. A
sembrare già raccontata altrove, in variazioni sul tema ora più
entusiasmanti, ora più deludenti. C'è una presenza mostruosa in
paese. Gli animali vengono trovati barbaramente uccisi, le campane
suonano a morto, i capifamiglia hanno conti in sospeso con il bosco.
Gabriele
è quasi sotto le braccia nere, che gli si avvolgono attorno e lo
sollevano piano, ma non ha più paura, non sente più nemmeno il
freddo, e adesso che sono così vicini gli sembra di riconoscerla.
Sussurra: ma’.
Mentre
il papà si sfoga accumulando cataste di legna, i piccoli si
stringono in unico giaciglio e si fanno coraggio. Guidati da
Gabriele, il fratello di mezzo, giungono presto a una conclusione
tanto spiazzante quanto dolorosa: e se il mostro cacciato da tutti
fosse proprio la loro mamma? Se il buio l'avesse fatta sua – un
tutt'uno indistinguibile? Dalle parti di Sette minuti dopo la mezzanotte (senza la stessa devastante carica metaforica) e del film
La madre (senza sprazzi horror), Il buio non fa paura racconta la
goffa convivenza tra quattro piccoli uomini, impreparati
all'elaborazione del lutto. E di una creatura alta come un albero,
nera come la notte, che tuttavia ha le braccia accoglienti di un
genitore. Si respira aria di fiaba e di tragedia. Ma non tutto, anzi
quasi niente, viene chiarito in un epilogo che giunge troppo in
fretta ma lascia sensazioni più durature del previsto. Sono i
misteri della vita e della morte. E di alcune opere prime dalle
ginocchia sbucciate, in cui l'originalità non è di casa, ma
l'emozione – dei legami familiari, delle narrazioni di matrice
orale – è un prezioso lumicino a cui affidarsi.
Il
mio voto: ★★★ Il
mio consiglio musicale: Roberto Vecchioni – I colori del buio
Cosa
faresti se avessi pochi giorni di vita? Un mite postino giapponese
dalla routine incolore, in seguito alla scoperta di un tumore, inizia
a scrivere una lista delle dieci cose che vorrebbe fare. Ma è un
uomo semplice, senza fantasia, e quel cliché da film lo porta a
buttare giù luoghi comuni su luoghi comuni. A dargli uno scossone è
la comparsa di Aloha, un diavolo dalle sgargianti camicie hawaiane
che, nel bel mezzo di una disputa millenaria col Padreterno, lo tenta
con una mela avvelenata: qualche giorno in più sulla Terra. Il patto
faustiano, chiaramente, presenta un inghippo. Per ogni giorno
guadagnato il protagonista dovrà rinunciare a qualcosa. E con lui il
resto dell'umanità. E se i cellulari scomparissero dal mondo? E se
scomparissero i film, gli orologi o, ancora, i gatti? Chiamato a
scegliere, il postino scoperchia un vaso di Pandora di rimpianti,
nostalgie, bivi mancati. La sua presa di coscienza è una fiaba
decisamente natalizia che somiglia a un testamento morale. Scritto
sotto forma di lettera – a chi è indirizzata e il protagonista,
soprattutto, avrà il coraggio di consegnarla di persona al
destinatario? –, l'apprezzato romanzo di Kawamura Genki parte da
uno spunto surreale ma poi lascia spazio alle riflessioni
esistenzialiste del personaggio principale. La proposta indecente di
Aloha, infatti, è una scintilla che alimenta continui flashback.
La
vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo
lungo.
I
telefoni gli fanno tornare in mente la prima fidanzatina: attraverso
gli SMS hanno imparato a conoscersi e attraverso gli SMS si sono
lasciati, incapaci di vincere l'incomunicabilità. Il cinema, al pari
della lettura, è la migliore soluzione al mal di vivere: camminando
lungo i corridoi di una videoteca per otaku, così, il protagonista
medita sull'ultimo film in assoluto che vorrebbe vedere. Gli orologi
gli ricordano il padre, orologiaio ligio al dovere, e come il tempo –
insieme alle classificazioni, alle etichette, alle nostalgie – sia
un'invenzione tipicamente umana. Infine ci sono i gatti: padroncino
di Cavolo, una palla di pelo grigia eredita dalla defunta madre, il
protagonista ritiene che coccole e fusa siano la testimonianza
migliore per ricordarci che siamo ancora vivi. Tutto è
indispensabile: anche l'oggetto più minuscolo, anche la vita più
oscura. La morale insomma è sempre la stessa, e in tempi recenti già
mi aveva fatto storcere parecchio il naso con La biblioteca di Mezzanotte: la vita è bella, non importa quanto duri, ma come
la si spenda. Troppo cinico per prestare fede a frasi fatte di
queste, ho comunque apprezzato il tocco orientale dell'autore: grazie
a uno stile semplice e delicato, forse un po' freddo, riesce per
fortuna a non essere melenso neanche quando la retorica è
immancabilmente dietro l'angolo. Gattini adorabili (a casa ne ho tre)
e citazioni cinematografiche (Chaplin, Fellini, Wong Kar-wai) mi
hanno rabbonito qui e lì.
Il
mio voto: ★★★ Il mio consiglio musicale: U2 - Beautiful Day
|
L’Ickabog, di J.K. Rowling. Salani, € 19,80, pp. 307 |
C'era
una volta una scrittrice che allevò un'intera generazione di
lettori. Una zia, una madrina, una maestra. Una di quelle che
avrebbero fatto meglio a investire le proprie energie sui libri,
anziché su Twitter, per non perdere la credibilità e per non
sottrarci la magia dei nostri ricordi migliori. J.K. Rowling è
tornata in libreria, ma quest'anno se ne sono accorti in pochi:
rischiano di parlare più forte le sue considerazioni sui social
rispetto a una storia come questa, di cui io stesso non sapevo di
avere bisogno prima di leggerla. Peccato, perché è davvero una
storia bella: soprattutto da scartare sotto l'albero a Natale. Avevo
immaginato una lettura innocua e piacevole. Una favoletta per bambini
per riempire il tempo, con più illustrazioni – quelle all'interno
sono state realizzate dai piccoli lettori durante il lockdown – che
parole. A sorpresa, questo libro dalla copertina verde smeraldo
comprende trecento pagine fittissime di avvenimenti, dettagli e
atrocità. Nella migliore tradizione dei fantasy medievali, infatti,
propone al lettore la topografia di un regno particolareggiato e una
densa serie di andirivieni condita da efferatezze di varia natura.
Perché c'è del marcio a Cornucopia, proprio come nella Danimarca
del Bardo.
Quando
mi mangerai, Ickabog, lascia il cuore per ultimo. Vorrei mantenere i
miei genitori in vita il più possibile.
Regno
idilliaco dilaniato da cospirazioni e lotte intestine, è governato
da un sovrano sprovvisto di qualsivoglia fermezza. Vanitoso, sciocco
e volubile, re Teo si lascia consigliare da due serpi che fingono di
avere a cuore i suoi interessi ma che, lavorando inosservati alle
loro trame, rischiano di trasformare la monarchia in tirannide. Per
nascondere i segni della corruzione, hanno fatto dell'Ickabog la
causa di tutti i mali: il mostro leggendario vive nella nebbia e
negli acquitrini dello spaventoso Nord, e le diatribe sulla sua
effettiva esistenza hanno portato alla formazioni di eserciti di
fortuna, tasse alle stelle, omicidi brutali poi imputati puntualmente
alla creatura. C'è qualcosa di soprannaturale nella palude, oppure è
un'invenzione a tavolino per distrarre il re dai misfatti dei
sottoposti? L'allarmismo si ingigantisce passando di voce in voce. Il
mostro è una suggestione crescente; un capro espiatorio per celare
traffici mossi da opportunismo e omertà. I cattivi dell'ultima
Rowling sono realmente cattivi. Uccidono atrocemente i genitori,
minacciano gli orfani dei supplizi più brutali, spargono sangue e
illazioni.
In
tutti quegli anni, non era mai riuscita a convincere Marta che
l’Ickabog non esisteva. Quella sera però avrebbe voluto credere
anche lei nel mostro, invece che nella malvagità umana che aveva
visto negli occhi di Lord Scaracchino.
Scorretto
e un po' crudele, con una vena grottesca che ricorda Roald Dahl, il
romanzo parla il linguaggio semplice dell'infanzia ma nasconde un
cuore politico. Chi non si allinea alle idee dei consiglieri del re è
percepito come un nemico pubblico. Gli eversivi sono destinati a
scomparire nel nulla. I popolani cadono sotto il peso degli stenti e
dei dazi. I bambini, chiamati a sbrigare cose da grandi, sfuggono a
orfanotrofi dickensiani per coalizzarsi. Guidati da Robi e Margherita
– il primo figlio di un soldato assassinato, la seconda di una
sarta morta di stanchezza appresso alle richieste del sovrano –, i
piccoli protagonisti rappresentano la speranza delle nuove
generazioni. La purezza dei loro sguardi mette in moto timide
rivoluzioni e marce pacifiste. E quando giungerà, l'immancabile
lieto fine sembrerà il trionfo della democrazia. Intelligente e
grazioso, cos'è L'Ickabog se non lo svelamento di
un'ingannevole fake new? J.K. Rowling non ha perso il tocco. Tra una
polemica e l'altra, purtroppo, ne avevo dubitato anch'io. Insomma:
c'era una volta, in realtà, una scrittrice che per fortuna c'è
ancora.
Il
mio voto: ★★★ Il
mio consiglio musicale: Coldplay – Magic
C’erano
una volta, in una metropoli non troppo lontana, i membri della
famiglia Kagwa. Una casa in graduale espansione - con una
coppia di piacenti trentenni alle prese con le gioie e i dolori della
convivenza coniugale – in un quartiere della Grande Mela consacrato
puramente allo splendore decadente dei negozi d’antiquariato o alla
polvere luccicante dei rigattieri. Apollo ed Emma, anime gemelle
dagli hobby e dalle tragedie coincidenti, si sono incontrati al
bancone della biblioteca pubblica: galeotti, al solito, i libri. Lui,
chiamato così da due genitori che hanno visto Rocky al
primo appuntamento, è un antiquario dallo spirito avventuroso:
dotato di un eccezionale fiuto per gli affari, salva i libri dal macero trovando nelle cantine altrui almanacchi di insospettabili
satanisti e copie autografate del capolavoro di Harper Lee. Lei,
unica superstite insieme alla sorella al rogo della famiglia, è una
libraia con l’animo hippy: partita per il Brasile all’inizio del
romanzo, torna da Apollo con un po’ di esperienza in più – c’è
un suo nudo, pensate, esposto in un museo di Amsterdam – e con un
cordino rosso legato al dito. Quando si spezzerà, dice, si
realizzeranno tre dei suoi maggiori desideri. Ha un marito splendido.
Sulla linea A della metropolitana, durante un blackout, partorisce il
primogenito: Brian. Cos’altro potrebbe volere per essere completa?
La felicità è una cosa misteriosa. L’infelicità, peggio. La
famiglia degna di una fiaba moderna, allora, si ritrova al centro di
un incubo da cronaca nera quando una serie di messaggi anonimi, i
seni doloranti e le notti bianche spingono la fragile neomamma
sull’orlo della follia. Tutto dovrebbe finire così, nel sangue. E
invece, magicamente, comincia.
Le
fiabe non sono pensate per i bambini. In origine si trattava di
storie che i contadini raccontavano attorno al fuoco la sera, dopo
una giornata di duro lavoro. Erano adulti che si rivolgevano ad altri
adulti. Le fiabe sono diventate storie per bambini soltanto nel
Settecento, quando un nuovo ceto sociale molto particolare ha
cominciato a diffondersi in Europa. […] Le regole di comportamento
dovevano cambiare, sia per gli adulti sia per i bambini, perciò
anche le fiabe cambiarono. Dovevano avere una morale, qualcosa che
spiegasse le nuove regole ai più piccoli. Fu quello il momento in
cui le fiabe divennero una grande stronzata. Una fiaba stupida ha una
morale semplicistica, una bella fiaba dice semplicemente la verità.
Li
chiamano genitori elicottero. Quelli che sorvegliano i
bambini come sentinelle iperprotettive – si spera a fin di bene –
e li aiutano un passo alla volta nelle difficoltà della crescita. La
strega di Raperonzolo, tanto legata alla ragazza da isolarla in una
torre irraggiungibile, era una di loro. Come proteggere, infatti, un
figlio impreparato alle brutture dell’esterno? Se lo domanda
anche Apollo: papà moderno con un profilo Facebook pieno di scatti
di Brian, che inconsapevolmente, in rete, semina briciole di pane a
favore del lupo cattivo. All’indomani di una tragedia scioccante,
in liberta vigilata, gira per una New York inedita con un bagaglio
pesante: un piccone, una lapide, un cambio di vestiti, un libro per
l’infanzia ereditato dal genitore prima che desse forfait. Cerca
Emma, mosso da sentimenti che oscillano dall’ira alla tenerezza.
Visita gruppi per l’elaborazione del lutto. Pagaia
lungo le nove isole che galleggiano nell’East River, scoprendone
una popolata soltanto da fanciulli e mamme armate fino i denti. Si
perde e si ritrova in una foresta nascosta in pieno Queens, sotto gli
occhi di tutti, dove c’è una caverna da sorvegliare dal tramonto
all’alba. Tutto pur di non affrontare quell’appartamento sfitto
in cui adesso risulta difficile entrare; tutto per non varcare la
porta della stanzetta di Brian, chiusa dai nastri rossi della
polizia. Se un genitore dichiara resa – ha fallito, non è stato
l’angelo custode del suo bambino come si era prefissato – meglio
soccombere ai morsi del dolore e o credere nell’impossibile; nei
mostri?
Sopravvivere
all’infanzia è un miracolo.
Immaginifico,
struggente e splatter, Favola di New York –
adattamento dall’inglese The Changeling, che sin dal
titolo preferisce dichiarare il suo debito verso le creature del
folklore europeo – resterà la lettura più
sorprendente in cui vi imbatterete quest’anno. Le angosce
di Rosemary’s Babyincontrano le inquietanti
tecnologie di Black Mirror, all’ombra dei miti dolci e
tenebrosi dello svedese Border. Sullo sfondo, un
ventunesimo secolo che si fa fatica a riconoscere raccontato con
questi stessi toni sospesi; l’America odierna – quella degli
afroamericani nell’occhio del ciclone, dei pirati informatici e
della presidenza Trump, del melting pot ormai a rischio –
trasformata con fantasia invidiabile in una labirintica terra
selvaggia. I luoghi, eppure, sono reali: li ho cercati con Street
View nel mentre, per il piacere di smarrirmi a distanza. Oggi i
cavalieri senza macchina né paura sono i librai e i creatori di
start-up, la principessa da salvare una mamma accusata
dell’assassinio più terribile; la magia nera, invece, è l’arte
oscura di un odierno leone da tastiera con un computer
irrintracciabile dietro cui farsi scudo. Sono più profonde le
caverne dell’ignoto, infatti, o i meandri del deep web? Fra troll
di ieri e troll di oggi, i protagonisti brandiranno iPad, non spade;
schermi luminosi grazie a un’apposita funzione, non torce
infuocate. Aperti fino all’ultimo all’impossibile, gli ultimi
romantici di LaValle garantiscono un viaggio senza precedenti un una
metropoli che talora sembra un mare aperto, e in un cuore dove si
protrae ininterrottamente un’inimmaginabile burrasca. Favola
di New York sfocia presto nell’assurdo, perfino
nell’horror nudo e crudo, ma basta affidarsi alla sensibilità
dell’autore per innamorarsene perdutamente. Questa è la storia di
tante storie. Generazioni di immigrati che hanno attraversato
l’Atlantico su una bagnarola pericolante, con il timore verso i
pericoli del Nuovo Mondo e bestie secolari per angeli custodi;
afroamericani reduci dalla galera che, dando nell’occhio, si
aggirano in quartieri residenziali con il rischio che un poliziotto
dal grilletto facile li ammazzi a sangue freddo; padri a ogni costo,
che farebbero di tutto per il bene dei figli – anche uccidere,
anche ucciderli.
«E
vissero per sempre felici e contenti», sussurrò Apollo.
Emma
appoggio la testa alla sua spalla. «E vissero felici, almeno per
oggi».
«È
abbastanza?», chiese Apollo.
«È
tutto, amore mio».
Meglio
di un romanzo realistico, a sorpresa, a raccontarci il razzismo al
tempo dei repubblicani, il lutto al tempo di Facebook, le mele
avvelenate e i fusi letali sparsi in certi angoli della rete, è
questa fantasmagoria dalle fitte coloriture politiche la cui morale,
in definitiva, è una riflessione importantissima sulla ricchezza
dell’integrazione. Chiudendo i porti, erigendo muri su muri, come
potremmo spulciare nell’apparato leggendario di paesi lontani –
in questo caso, la Norvegia – e fare nostri i loro sogni e i loro
incubi, le loro storie? Quanto saremmo aridi senza? E vissero per
sempre felici e contenti, d’un tratto, appare una formula
necessaria: non più lo stratagemma di qualche genitore troppo pigro
o troppo codardo per proseguire ulteriormente con la lettura della
buonanotte. Oltre l’ultima riga delle favole, ci sono gli
infanticidi e gli altri orrori secondo LaValle. Ma anche gli amori
rafforzati da una distanza forzata, le mamme che nel momento del
bisogno sollevano tanto le automobili quanto i coltellacci
insanguinati, le attese insieme sotto le pensiline in plexiglass. Al
lieto fine – questa volta, quanto mai sperato – si arriva forse
con i mezzi pubblici. E il cordino rosso legato prima al dito di
Emma, poi a quello di Apollo, può essere fatto cadere a chiusura
del percorso. Nella recensione manterrò segreti i loro desideri ma
il mio, quello di leggere almeno un romanzo straordinario, è stato
esaudito: grazie a Favola di New York, rinuncio
a cuor leggero agli altri due.
Quanto devono essere state belle quelle vite che approdando al cinema si fanno musical? La riflessione
valeva tanto per i circensi di The Greatest Showman –
spettacolo spettacolare per tutta la famiglia – quanto per Sir
Elton John, idolo generazionale con un cinquantennio di carriera alle
spalle. Non è tutto oro quel che luccica. Spesso, dietro la musica
leggera, si nascondono i fardelli. In Rocketman lo
dimostra bene un incipit che è tutto un programma: insaccato in una
tutina rosso fuoco, il protagonista marcia come un drago nel
corridoio di una clinica. Elton, a un bivio, sceglie di
disintossicarsi. Scenografico anche nel momento del bisogno, lava i
panni sporchi in una seduta psicoanalitica che nella sequenza
successiva si è trasformata già in fiaba. E c’è più personalità
in poche immagini che in due ore di Bohemian Rhapsody.
Benché non eguaglierà al botteghino l’agiografia di Mercury, il
biopic di Fletcher – sostituto di Singer nelle ultime fasi del film
sui Queen – è superiore per resa e impegno. La storia del
grassoccio Reginald, brutto anatroccolo che raggiunge la vetta ma
perde sé stesso, non ci risparmia l’alcol, le pasticche, un
rimpinzarsi di sesso e cibo che portarono alla bulimia. Conta numeri
ispiratissimi – il piano sequenza con Saturday Night’s
Alright, le struggenti Your song o Sorry
seems to be the hardest word, il tentato suicidio
sulle note della canzone eponima –, qualche caratterista
bidimensionale – Bryce Dallas Howard e Richard Madden, troppo
antipatici per essere veri: tenerezza infinita, al contrario, per
l’amico fraterno Jamie Bell – e un’ampia gamma di emozioni, in
un evento all’altezza di una carriera di cui in verità poco sapevo. Come il
regista di Dolor y Gloria, il cantante inglese si nutre d’affanni
e d’applausi. Si perde nel passato, sperando di venirne a capo. A
metà tra una seduta degli alcolisti anonimi e una baraonda colorata,
Fletcher attinge direttamente al vangelo secondo John: c’è un po’
di autocelebrazione, vero, ma per fortuna compensano tanta brutale onestà e il
contrappunto vincente dell’umorismo britannico. Non cronaca
scolastica, ma commedia musicale in tutto è per tutto, ha una
scrittura semplice e parabolica, ma risulta comunque innovativo. Sono
le canzoni dello stesso artista, come fu per i Beatles in Across the universe, a raccontarne gli alti e i bassi e non si respira
l’aria viziata, insincera, delle commemorazioni postume. Vivissimo,
onnipresente e fiero, il vero Elton può godersi in vita un
tributo trascinante che emozionerà fan e non. Dietro gli occhiali da
sole, sotto le piume di struzzo, battono il cuore e il talento puri
di un Egerton da Oscar. Tragico e festoso, di un’allegria ora
malinconica e ora isterica, l’attore indovina il ruolo
della vita e non lo spreca. Canta, balla, recita
senza diventare mai macchietta. Piccolo, anagraficamente e di
statura, è un razzo sul punto di esplodere. Fa fumo, rumore, e la
gioia di chi ama la bella musica e soprattutto il cinema solido. Il
suo film, che gli è affine, è un razzo. Non puoi che smarriti nella
sua scia, e fra gli applausi. (7,5)
Le
premesse sono le stesse del recente Dumbo. Ci si
aspettava poco. Dall’ennesimo live action stimato non necessario.
Dal nuovo film di Guy Ritchie, regista mai apprezzato
particolarmente. Ma mi hanno portato in sala il giusto stato d’animo e
il biglietto ridotto, insieme a un’adorazione viscerale per
il capolavoro di ventisette anni fa. Avrebbe potuto essere uno
sfacelo: gli appassionati di lunga data, si sa, sono una brutta
bestia. Ma dopo un prologo goffo, a sorpresa, Aladdin ingrana
e appassiona. Un diesel che, contro tutti i pronostici, aspettava
proprio l’ingresso del Genio Will Smith per superare l’empasse
iniziale: criticato a priori sui social, l’attore afroamericano
strappa risate a scena aperta grazie ai pezzi scoppiettanti (su
tutti, Un amico come me) e alle mosse riciclate dal successo di Hitch, con cui
conquistare l’altrettanto buffa ancella di Jasmine o trasformare
il protagonista in principe durante una colorata parata trionfale. La
seconda metà, con un intermezzo a palazzo tutto nuovo – il
culmine, un’esilarante scena di breakdance – e un epilogo che,
per quanto fedele, mi sono goduto più del previsto avendone scarsi
ricordi, riesce a far digerire la scelta di uno Jafar lontano dal
cattivo viscido e sornione della versione originale e quel briciolo
di delusione per Il mondo è tuo, duetto compromesso da
una fotografia sin troppo cupa. Ritchie, contenuto il giusto, può
concedersi rallenty e volteggi in libertà grazie al
fisico atletico dell’azzeccato Mena Massoud e a una trama già di
per sé molto frenetica. Poco deve inventare: per essere un cartone,
l’originale era pieno zeppo di intrighi. Lì, al solito, si
annidano i difetti e i pregi di operazioni simili a questa. Copie stinte che
nulla aggiungono ai capostipiti e, se tutto fila liscio, come in
questo caso, nel bene nulla tolgono. L’avventura di Aladdin resta
magica anche con attori in carne e ossa, sebbene meno incisiva, e al
contrario di ciò che succedeva nel pessimo La bella e la bestiapoco si ha da dire contro il decoroso adattamento
italiano, il casting perfetto dei protagonisti principali e
l’inserimento di un’immancabile dimensione femminista che,
complice la potenza della splendida Naomi Scott, non risulta mai
stucchevole – certo, quanti luoghi comuni nel testo di Speechless,
novella Let it go con acuti da pelle d’oca. Il
confronto è inevitabile. E, inevitabilmente, questo nuovo
adattamento lo perderebbe. Ma approcciato con basse aspettative, per
via dell’aria kitsch e posticcia dei trailer, la riscrittura in
salsa Bollywood del classico Disney mi ha sinceramente divertito e,
su un tappeto volante, ha fatto volare via due ore di visione e i
pregiudizi che portavano con sé. (7)
Non
ha che un maglione rosso, presumibilmente un modello femminile, per
ripararsi dai rigori dell'alta montagna. Giona, quindici anni, vive
in un villaggio senza nome e senza tempo. Per lui non esistono né il
passato né il futuro. Soltanto un eterno presente, fatto di
temperature in picchiata, terribili violenze – fisiche e
psicologiche – e pochi ripari contro un gelo che pian piano ha
messo radici anche nel cuore. Questa è la storia di un convivenza
insostenibile: da qualche parte, in una casupola buia che sormonta
tutto e tutti, il protagonista condivide i pochi spazi vitali con il
nonno Alvise. Un vecchio dalle mani ferme e pesanti, dagli occhi di
un azzurro impenetrabile, che con la stessa meticolosità con cui
intreccia rami di castagno per fare gerle si ostina a tormentare il
nipote: quintessenza della virilità, esempio di durezza e
cattiveria, risulta elegante anche nel pestaggio. Nelle nocche lucide
di sangue, nelle suole delle scarpe che calciano e spezzano le ossa.
Questa è la storia del paese di Alvise: un microcosmo di case nude e
argilla, di cieli dello stesso colore dell'orzata, che si regge a
malapena su un ciottolo e sta perdendo misteriosamente il suo centro.
Come sopravviverà senza il suo leader, e senza la complicità delle
nebbie perenni?
Non
ti ho mai conosciuto davvero, padre. Non sono tue le mani che mi
spezzano la carne quando il vecchio mi punisce. Non è il tuo volto
che mi tocco quando il freddo d'autunno mi congela le guance. Non
sono volto, non sono labbra, non sono dita, denti, né altro. Io sono
figlio del niente, senza padre né madre. Ma lei, a differenza tua,
me la ricordo a ogni colpo che arriva, perché è il suo nome che
invoco nella gola quando il male diventa più grande di me. Tu invece
non sei mai esistito. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Ricordo
la tua assenza, quando invece vorrei poter dimenticare la tua
presenza inconsistente. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Sei
vecchio come Alvise. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte
al giorno. Le tue schegge non sono dolci, sono vetriolo che scende
nello stomaco. Bruciano tutto quello che trovano, anche le grida.
Vincitore
del premio Calvino sulla scia del bellissimoL'animale femmina,
L'inverno di Giona racconta
di un fragile universo che un singolo atto di ribellione minaccia di
ridurre in polvere. Anche se niente è quel che sembra. L'ordine è
rigoroso, il silenzio di tomba. Le case hanno le porte aperte e le
scatole, che all'interno nascondono indizi indicibili, rifiutano
lucchetti: lo spietato Alvise, sicuro della propria autorità, è
infatti il peggiore deterrente. Suo nipote è nel fiore
dell'adolescenza, ma al cospetto del vecchio sembra un bambino
sperduto. Logoro e infreddolito, sozzo di sangue, nella prima
parte mette alla prova le resistenze del lettore descrivendo una
routine che fa impallidire: l'apice, quando è costretto a scegliere
fra il passare una notte all'addiaccio o gettare nella fornace il suo
maglione – già rattoppato alla bell'e meglio, per tutte le volte
in cui Alvise lo ha strappato e bucherellato all'indomani di qualche
sgarro. Solo al mondo, a digiuno di abbracci, Giona ha dato un nome
di battesimo ai dodici gradini che conducono in cantina e ben presto
sperimenta l'orrore delle strade vuote, dei boschi labirintici, come
nella versione amara di Hansel e Gretel.
La seconda parte, un soliloquio dai toni lisergici ma poetici, tratta
di un doppio affrancarsi; di una fuga tanto letterale quanto
metaforica, lontano da un villaggio giunto al collasso.
Sai
come nasce un albero che sa fare i frutti? Non in modo spontaneo, non
secondo natura. Non da solo. Scegli una pianta selvatica resistente,
gli spacchi il legno e gli innesti dentro un ramo buono, con le
gemme. Poi la mutili per anni con la potatura, lasci solo i rami più
forti e li deformi per renderli adatti alla raccolta. Con il dolore,
Giona. Solo con il dolore si impara.
Lì
dove libertà fa rima con redenzione, l'animo smarrito del
protagonista punta a mete sconosciute con lo spirito dei classici
viaggi dell'eroe: gli fanno compagnia la spettrale Norina, una
coetanea seguita a ruota da uno sfuggente gatto nero; la dolcezza di
Anna, che mette in ordine una canonica rimasta purtroppo senza prete;
i litigi aspri fra Attilio e Anna, che sparlano della figlia
sciagurata che ha osato voltare loro le spalle. La terza parte
invece, forse intuibile attraverso indizi ben seminati ma comunque
agghiacciante, è la riflessione a ruota libera sulle fate e i demoni
della nostra fantasia: qualche volta salva, qualche volta ammazza.
Sorretto
da una scrittura dalla bellezza perturbante, vibrante com'è delle
angosce e del candore delle infanzie di ogni dove, il premiato
esordio di Filippo Tapparelli è un'allegoria esistenzialista
consigliata a chi ha amato e sofferto con Sette minuti dopo la mezzanotteeVita
di Pi. Una
strada senza uscita, che gira in tondo e porta sempre al punto di
partenza. Tutto, pur di affrontare una scomoda verità. L'andamento
perciò sarà di quelli vari e frastagliati. Ancorati a una prosa
ispirata e scabrosa, piace tuttavia fidarsi a occhi chiusi. Non
sapendo in principio dove porterà, il viaggio dell'autore veronese.
Non
ci sono cose più fragili della verità. Per questo motivo va detta a
bassa voce. Le parole la sporcano e la confondono, non sanno
riportarla in modo fedele. La verità è fatta di silenzio. Un
silenzio che riesce a rendere sordo il mondo, quando ciò che cela è
troppo grande per essere compreso.
Seguiamo
allora i sentieri di un microcosmo sdrucciolevole e impermeabile al
divenire, che si sbriciola come un biscotto raffermo – le parole
che diciamo a voce alta costruiscono, infatti, mentre quelle che
tacciamo distruggono. Seguiamo, ancora, la bussola di un maglione
rosso: tratto distintivo su una sagoma che sfreccia, si sporca, e
infine ti coglie alla sprovvista alle spalle. Cosa accade quando un cane,
spezzato il guinzaglio, si rivolta contro il padrone? Dove il tempo è
relativo quanto mai e i freddi, interminabili, possono fiorire in
gemme primaverili sotto le palpebre abbassate degli instancabili
sognatori, un sacchettino con cinque pietre e la sagoma di una porta ci regaleranno il miraggio del sole
all'insegna degli epilogo evocativi perché sospesi nel mezzo dei nostri forse.
La fantasia è una catena. La fantasia è una liberazione.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - Ho visto Nina volare
Lunedì ho condiviso con voi annuncio e agitazione.
Leggere i vostri commenti mi ha messo il cuore in pace e,
abbiate fede, fra una lassa di Filologia da tradurre e qualche altro preparativo
da ultimare, prometto di rispondervi uno a uno, piano piano.
Domani
mi apriranno le porte sia Pensieri Cannibali con
un'intrigante playlist a tema, sia Un libro per amico con
un assaggio dell'incipit nella rubrica Chi ben comincia.
Il
12 novembre, invece, il lancio ufficiale previsto per il tardo pomeriggio: una volta online sul sito Bookabook, ve lo ricorderò sui social e con
un piccolo banner nella colonna laterale del blog. Vi ho
parlato di date, cifre e scadenze. Delle mie immancabili ansie da
tenere a freno e del progetto di crowdfounding, gradino poco
convenzionale che a tratti spaventa. Resta, a questo punto, la cosa
più importante: il romanzo da presentarvi. Con tanto di nota
biografica e quarta di copertina, che ritroverete nel mezzo della
campagna, e un'immagine promozionale. Essendo la
pubblicazione in forse non ho una copertina da diffondere, ma l'editore
mi ha dato carta bianca e libero accesso a quell'immenso archivio di scatti che è il sito Unsplash. Avevo in mente un unico dettaglio
fondamentale – una lampadina incandescente nel buio – e il tocco
magico della mia amica Sara, eccezionale padrona di casa di My Caffè Letterario, ha trasformato poi una semplice foto in una meraviglia. Avrete
senz'altro modo di sentirmi parlare qui e lì di Malanotte,
di com'è nato, quando o perché. Potrete chiedermi di leggere o
sfogliare una bozza del romanzo non appena lo avrò riletto e
impaginato – sarà compito di un editor professionista, in caso venga raggiunto il goal dei 250 lettori, ma da perfezionista insicuro quale sono preferisco avere l'ultima parola
e, soprattutto, il tempo di tirare di nuovo le fila. Mi eclisso lasciando la parola al mio Milo: un taglio netto del cordone
ombelicale. Spero vogliate avere cura di lui. E attraverso di lui,
così, anche di me.
|
Malanotte.
Lettera aperta a una cara catastrofe.
Cartaceo, € 16.00. Ebook, € 5,99. pp. 280 |
SINOSSI
Cronometro
alla mano per lavarsi i denti, i lacci delle Converse a far pendant
con gli stati d'animo e corde del bucato su cui sventolano i
capolavori di Beethoven. Milo Jenkins, sedici anni, è un virtuoso
del pianoforte, ha mille nevrosi e il fantasma di un pesce farfalla
per migliore amico. I suoi lunghi silenzi e un candore senza età
hanno reso sicura la diagnosi: è affetto da una forma di autismo ad
alto funzionamento. Un ragazzo speciale, lo definirebbe qualcuno. Se
vivi in una città che somiglia alla cupa Eureka, però, non ci sono
parole gentili per un orfano di madre con gli occhiali a fondo di
bottiglia, la schiena ricurva sotto il peso dei libri e gli incisivi
a zappa. La svolta tanto sperata ha la gonna troppo corta e le
occhiaie viola di Iris, forestiera bella come un film di Tim Burton.
Sulla tela della loro adolescenza, uno schizzo rosso sangue. Sotto
una coltre di foglie secche, cadaveri innocenti. Corre, Milo. Ma
verso Iris o lontano da lei? Un diario ritrovato, un'eredità
improrogabile, due storie parallele che si incontrano seguendo il
filo conduttore della musica. Truce e dolce, Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe è una fiaba splatter
dove i baci hanno un retrogusto segreto e tra sogno e delirio, amore
e morte, non c'è grado di separazione.
L'AUTORE
Michele
Del Vecchio (Palermo,1994) nasce su un'isola, passa le estati della
sua infanzia all'ombra del Vesuvio e a otto anni si trasferisce nella
regione che, stando a torto alla pagina Facebook, non esiste. Vive
tra Termoli e Pescara con quel che resta della sua famiglia e
l'irresistibile Ciro, un tigrato europeo che odia tutti e in cui
spera fermamente di reincarnarsi in un’altra vita. Fondatore nel
2012 del blog Diario di una dipendenza e plurifinalista ai
Macchianera Internet Awards nella categoria Miglior sito letterario,
sta lavorando a una tesi magistrale in Letteratura teatrale italiana.
Le
chiama così, le Farfalle. Giovani, leggere, bellissime. Hanno
vestiti eleganti lunghi fino ai piedi, come ninfe di un quadro di
Botticelli, e uno scollo vertiginoso sulla schiena a rivelare enormi
ali d'inchiostro, dipinte durante sedute lunghe e dolorose. Sono
tante, e hanno dai sedici ai ventuno anni. Poi muiono. Quella è la
loro natura: spegnersi in fretta, all'acme dello splendore. Sono
prigioniere in una serra di dimensioni straordinarie, in cui
zampillano cascate e ruscelli. Nei corridoi, intrappolate sotto un
vetro e cristallizzate nella resina, le Farfalle assassinate al
compimento del ventunesimo anno d'età. Il loro aguzzino, detto Il
Giadiniere, le tatua e ne abusa, spartendo il suo harem segreto con i
figli – il primogenito, ormai fuori controllo, e un giovane
violinista combattuto tra giustizia e senso di appartenenza.
Le
creature bellissime hanno vite molto brevi, così mi aveva detto al
nostro primo incontro. Lui se ne assicurava e si sforzava di dare
alle sue Farfalle una strana specie di immortalità.
A
capo del gruppo, Maya. Che è abbastanza forte per tutte. Che ha
dimenticato il suo nome e, all'esterno, viveva un'esistenza non meno
malsicura e angosciante (due genitori litigiosi, un'appariscente
nonna tassidermista, le attenzioni degli adulti da schivare). Che,
all'inizio del romanzo, siede nella sala interrogatori di una
stazione di polizia. Le mani bendate, i modi accattivanti e una
storia da raccontare al poliziotto buono e al poliziotto cattivo: una
storia che, a pagina uno, sappiamo essersi già conclusa. Come si
scappa dal labirinto di un ricchissimo Minosse? Qual è il ruolo
della sopravvissuta, elusiva e seducente? Se non fosse stato per il
consiglio mirato della mia amica Susi, Il giardino delle farfalle
mi sarebbe sfuggito. Colpa dei romanzi Newton Compton che, con il
copia-incolla, promettono tutti “Un grande thriller”. Colpa di un
altro retro di copertina che, senza fantasia, annuncia “Il thriller
più terrificante dell'anno”. Nel romanzo della sorprendente Dot
Hutchison – una prosa affascinantissima e tutto un mondo di orrori
da architettare – c'è del buono davvero, nonostante gli strilloni
esagerati e tutt'altro che attraenti delle fascette promozionali.
Insolito romanzo di genere, ha una costruzione impeccabile e una
scrittura che regala immagini memorabili, di violenza e armonia: vedo
nitidamente davanti agli occhi, a distanza di giorni, questa corte di
ragazze in cattività, che rispettano le gerarchie del Racconto
dell'ancella e si danno alle
confidenze intime di un film di Sofia Coppola. Artefice
dell'incantesimo, una narratrice che sembra non raccontarla giusta.
I
miei segreti sono vecchi amici; mi sentirei una pessima amica se li
abbandonassi ora.
Maya
pettina, rassicura, coordina. Recita a mente Edgar Allan Poe e i
tragediografi greci, se sottomessa alle voglie del Giardiniere.
Irretisce Desmond, erede da plasmare. Confonde gli agenti di Polizia
e il suo lettore. Cosa non dice? Le risposte non sono delle più
impensate: in ballo, a un certo punto, sembra esserci meno
del previsto. Ai colpi di scena – canonici ma indispensabili,
stando a me – Il giardino delle farfalle preferisce
infatti una narrazione convoluta e un epilogo risolutivo, dalla morale
femminista, in cui le donne oppongono ostinata resistenza. Le
farfalle premono contro la teca e l'eventuale schianto, la pioggia di
vetri in frantumi, fa meno rumore del resto – così scenografico,
così originale nel suo dire e non dire. Restano le schegge
insanguinate. L'inchiostro già penetrato sottopelle. La crisalide,
lasciata sfitta per un volo lungo più di un giorno soltanto.
Il
mio voto: ★★★★ -
Il
mio consiglio musicale: Cloves - Don't Forget About Me
Ci sono tre motivi per cui vale la pena andare. Il primo è perché si mangia bene. Il secondo è perché ci si può andare solo in due. Il terzo è perché laggiù ci impari a vivere. E quindi, anche, a morire.
Titolo:
La locanda dell'Ultima Solitudine
Autore:
Alessandro Barbaglia
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 163
Prezzo:
€ 17,00
Sinossi:
Libero
e Viola si stanno cercando. Ancora non si conoscono, ma questo è
solo un dettaglio. Nel 2007 Libero ha prenotato un tavolo alla
Locanda dell'Ultima Solitudine, per dieci anni dopo. Ed è certo che
lì e solo lì, in quella locanda arroccata sul mare costruita col
legno di una nave mancata, la sua vita cambierà. L'importante è
saper aspettare, ed essere certi che "se qualcosa nella vita non
arriva è perché non l'hai aspettato abbastanza, non perché sia
sbagliato aspettarlo". Anche Viola aspetta: la forza di
andarsene. Da anni scrive lettere al padre, che lui non legge perché
tempo prima, senza che nessuno ne conosca la ragione, è scomparso,
lasciandola sola con la madre a Bisogno, il loro paese. Ed è a
Bisogno, dove i fiori si scordano e da generazioni le donne della
famiglia di Viola, che portano tutte un nome floreale, si tramandano
il compito di accordarli, che lei comincia a sentire il peso di
quell'assenza e la voglia di un nuovo orizzonte. Con ironia leggera,
tra giochi linguistici, pennellate surreali e grande tenerezza,
Alessandro Barbaglia ci racconta una splendida storia d'amore.
La recensione
In
equilibrio su uno scoglio sperduto tra cielo e mare sorge una locanda
che più esclusiva non si può: il posto più bello del mondo.
Da quel legname un manipolo di soldati avrebbe dovuto
intagliare una nave per scappare in America. Un bambino
assennato, però, aveva preferito la terra ferma al rischio dell'alta marea.
Adesso ci lavorano il fondatore, Enrico, e un ometto baffuto.
Ci si può soggiornare in pochissimi per una cena
romantica. Il locale non ha che un tavolino con due sedie. Possono
prenotare solo due persone. O due persone sole. Il telefono squilla e sì, si accettano prenotazioni. Ma la voce dall'altro capo del filo è di
un giovane uomo, Libero, che riserva un posto con dieci anni
d'anticipo. E' il 2007 e lui, inghiottito da un'anonima e tentacolare
metropoli, non ha ancora nessuno con cui andare. Confida nel tempo e
nella venuta dell'anima gemella. Libero di nome ma, nei fatti,
prigioniero del suo stesso senso di attesa. Nel mentre divide un
appartamento vuoto e dipinto di blu con un cane, Vieniquì, e un
baule con un singolo biglietto sul fondo.
Al di là delle colline, in
un posto incantato che si chiama Bisogno, c'è l'irrequieta Viola.
Vive in una casa preclusa al sesso maschile ed è l'ultima di un
albero genealogico in cui, oltre ai nomi floreali, ci si tramanda
l'arte di accordare i fiori scordati. Nel caminetto imbuca lettere a
un padre che si è allontanato per non mostrarsi sofferente e
l'arrivo del nuovo parroco, Piter, accresce in lei il connaturato
desiderio di altrove. Libero e
Viola sono i protagonisti principali di un esordio italiano subito candidato
al Premio Bancarella. Sappiamo che la storia parla di loro, ed è una storia d'amore. Però, a lungo, vivono lontanissimi e in
capitoli alterni. Quanti chilometri li separano, quali scelte, se lui
va a convivere con un'altra donna e lei rischia di abbracciare
passivamente un destino prestabilito? Come ci cambiano dieci anni?
Soprattutto, si può avere nostalgia delle cose che non sono
mai accadute? In un attimo lungo una vita ci si trova protagonisti di una
relazione sbagliata, della routine, di un rapporto affettivo che non
sa emozionare. Della pianificazione di una fuga perfetta che, dopo
mille tentativi vani, diventa frustrante.
Sono un lettore impaziente,
facilmente annoiabile, d'indole poco poetica. Non ho mai apprezzato fino in fondo, per dirvi, le rose e le volpi del Piccolo principe: letto
forse quando era troppo presto o forse no. Precisazione doverosa se
si parla di un romanzo leggero, onirico e delicatissimo come questo. Se, come ho
fatto io, si entra nel favoloso mondo di Alessandro Barbaglia con un
vago scetticismo di fondo. La locanda dell'Ultima
Solitudine non era la mia tazza
di tè. Lo prendo nero, meno zuccherato possibile. Centocinquanta
pagine dopo i miei gusti non sono cambiati. Però Alessandro e i suoi
innamorati sui generis, che si cercano ma non lo sanno, sono davvero
dei bei tipi. Surreali ma belli, come diceva qualcuno nella commedia
in cui il libraio s'innamorava della principessa di Hollywood.
Anche se alle perle di patate preferisco una saporitissima carbonara.
Anche se alle fiabe e alle prose così mi abbandono in ritardo, ma de gustibus. Nella Locanda dell'Ultima Solitudine,
fatto sta, c'è una serenità straordinaria: ti disturbano solo le
onde e il vento. Servito e riverito, attorniato da un interessante
cicaleggio, ne guadagni in ottimismo e buonumore. Ti godi le
sensazioni lievi, le suggestioni sparse, gli spunti. La tintarella di
luna di un gioco immaginifico ed esistenzialista. Il menu è
semplice, la compagnia è buona, lo scenario affascinante. Il
pernottamento confortevole e, al mattino, il tremolar della marina invoglia a fare il bagno nudi. Lasci una mancia abbondante
alla cassa. Arrivi solo e riparti in coppia. Magari, ti dici, prima o
poi ci torno.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Ermal Meta – Ragazza Paradiso