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lunedì 31 marzo 2025

Recensione: Gotico salentino, di Marina Pierri

Gotico salentino, di Marina Pierri. Einaudi, € 17, 50, pp. 240 | 

Cosa ci fanno Mary Shelley, Shirley Jackson e una giornalista in crisi creativa nella stessa casa infestata? Con una lingua onomatopeica e barocca, capace all'occorrenza di coloriture dialettali sorprendentemente divertenti, ce lo spiega Marina Pierri: come la sua protagonista, una salentina trapiantata a Milano, qui alle prese con il suo romanzo d'esordio. Di ritorno all'ovile dopo la morte del padre, Filomena Quarta, quarant'anni, non ha né soldi né un marito né un lavoro. Aspirante scrittrice, albergatrice apprendista, medium presunta, vorrebbe trasformare la residenza di famiglia in un B&B: peccato che il suggestivo casolare, ormai abbandonato a sé stesso in un intrico di pini marittimi e gramigna, sia considerato vittima della “malumbra”. I compaesani superstiziosi si segnano, e non hanno tutti i torti. Le finestre, infatti, si spalancano all'improvviso; i muri strillano sotto il trapano dei manovali; i corridoi vibrano di nenie inquietanti e il bosco ama confondere i viandanti.

Non devo avere timore di me stessa, né di questo luogo. È la ma famiglia ed è la mia storia. Ho letto abbastanza racconti del terrore per sapere come funziona.

Sardonica e sfrontata, Filomena si fa coraggio ospitando Alba, l'esilarante migliore amica non binaria, e Antonio, un tenero agricoltore in fuga dal cliché del maschio meridionale. Con loro, come già preannunciato, gli spettri delle autrici di Frakenstein e L'incubo di Hill House: chi meglio di loro potrebbe giudicare il manoscritto di Filomena e, soprattutto, fare i conti con le apparizioni agghiaccianti di una suora in cerca di vendetta? La resa dei conti, immancabilmente, avverrà la notte di Halloween. Erudita, brillante, citazionista, Pierri si rifà ai capostipiti del gotico senza prendersi troppo sul serio e confeziona un gioco metaletterario assolutamente delizioso, in cui Dimora Quarta diventa un rifugio per diseredati — noi, la generazione dei “se” — e una cassa di risonanza per l'orrore delle violenze di genere. L'amorevole Mary, curiosamente dipendente dai reel di Instagram, ricorda l'amore tossico con Shelley, gli aborti, i giorni della vedovanza a Lerici; Shirley, invece, anestetizza con l'alcol l'astio verso un marito editor che la considerava in primis una casalinga, poi un'autrice.

Scrivere non è un mestiere per vigliacchi.

Loro e altre donne senza voce, così, tornano sotto forma di fantasime per invadere le nostre stanze e le nostre coscienze. Il rombare della loro rabbia, mista però a una tenerezza disarmante, sormonterà per intensità il lugubre cigolio di qualsivoglia porta. Sullo sfondo: una Puglia autentica e lontana dal mare; la stessa in cui si è trasferita mia madre all'indomani di una separazione che, per anni, mi ha voluto rancoroso verso una regione che da qualche estate a questa parte, infine, ospita le mie vacanze. Gotico salentino è un prontuario per famiglie infestate perfetto anche per chi, come me, troppo pavido per elaborare, a lungo ha nutrito un'ingiustificata paura verso i propri fantasmi.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Doechii – Anxiety

martedì 1 ottobre 2024

Recensione: Elizabeth, di Ken Greenhall

| Elizabeth di Ken Greenhall. Adelphi, € 19, pp. 173 |

Seduta in soffitta, a gambe incrociate, studia il suo riflesso allo specchio. Bellissima, mostra più dei suoi quattordici anni. La minigonna mette in mostra le gambe tornite e una ferita ancora fresca: è il morso di un ragno. Dall'altra parte della finestra New York è una foresta di grattacieli. All'improvviso sullo specchio si proietta l'immagine di un'altra donna: proviene da un'altra epoca, il Cinquecento, e da un'altra dimensione. Ha inizio, così, un dialogo strano e perturbante tra due generazioni lontane; tra un'allieva e la sua guida. Come si diventa una strega? Elizabeth è un'alunna provetta. Responsabile della tragica morte dei genitori, ha uno zio per amante e un'istitutrice inglese che pende dalle sue labbra. Nessuno — lettore compreso — può resistere ai suoi desideri mostruosi e alla sua oscura libidine. La seduzione è un'arma. Fin dove si spingerebbe per imparare a tracciare formule magiche con il suo rossetto scarlatto?

Tutti abbiamo diritto ai nostri segreti. Potremo forse affrontare il mondo con un minimo di sicurezza, senza la giusta dose di conoscenza non condivisa? La conoscenza di ciò che succede tra due persone nel buio di una stanza?

Accolta in un'antica famiglia di armatori navali, vivrà un soggiorno da brividi nella casa di Coenties Slip: vi seminerà turbamento e scompiglio. Come in ogni gotico degno di questo nome, non possono mancare all'appello stanze piene di specchi; feroci animali domestici contro cui accucciarsi per prendere sonno; un omicidio consumato con un candelabro d'argento. Ken Greenhall, contemporaneo di Shirley Jackson, debutta in Italia a dieci anni dalla sua morte con un teen horror esile ma dalle atmosfere suggestive, delirante nel contenuto ma elegantissimo nella forma. Al di sopra del bene e del male, contorto e sessualmente ambiguo, il romanzo è un covo di desideri inconfessabili su una ninfetta irrequieta: dietro il fare provocante, però, come ogni adolescente, sogna di vivere una vita straordinaria o un amore che appaia meno soffocante dell'odio. Abbraccerà la sua eredità o la avverserà? L'epilogo, frettoloso, lascia con la sensazione che nella giovinezza della protagonista ci saranno altri misfatti, altri colpi di fulmine, altre scoperte. Quanto sarebbe soddisfacente saperne di più, leggerla ancora? Come l'antieroina di Goliarda Sapienza, costi quel che costi, Elisabeth punterà a ottenere la sua personale parte di gioia. Sarà, però, la dannazione dei più. La lettura del vostro prossimo Halloween è presto servita.

Il mio voto: ★★★

Il mio consiglio musicale: Rettore – Il Cobra

lunedì 30 agosto 2021

Recensione: Sorelle, di Daisy Johnson


| Sorelle, di Daisy Johnson. Fazi, € 17, pp. 200 |

Classe 1990, l'inglese Daisy Johnson vanta primati storici e paragoni illustri. È stata la più giovane finalista al Man Booker Prize e, stando ai commenti della stampa internazionale, il suo stile la renderebbe l'anello di congiunzione tra Shirley Jackson e Stephen King. Davanti a un curriculum come questo, ci ero già cascato con l'esordio. Ma Nel profondo tragedia di mostri e incesti, tanto affascinante quanto nebulosa – non mi aveva convinto affetto. Avrei cambiato idea con Sorelle, incentrato questa volta sul legame viscerale e inquietante tra consanguinee?

Mia sorella è un buco nero. Mia sorella è un tornado. Mia sorella è il capolinea mia sorella è la porta chiusa a chiave mia sorella uno sparo nel buio. Mia sorella mi sta aspettando.

Luglio e Settembre sono nate a soli dieci mesi di distanza. Si completano le frasi a vicenda, mangiano dallo stesso piatto, dormono su un unico cuscino. Perdono la verginità all'unisono. Benché diciassettenni, non sembrano voler abbandonare le sicurezze dell'infanzia. Rifugiate in un microcosmo di fiocchi colorati, giochi proibiti e segreti da svelare, tagliano deliberatamente fuori il resto del mondo: perfino la madre Sheela, scrittrice gravemente depressa, che si limita a essere una custode discreta e a immortalarle talora nei propri libri illustrati. Il romanzo prende avvio con un trasferimento repentino. Dopo essersi lasciate Oxford alle spalle, si stabiliscono nella casa di una zia paterna: un relitto fatiscente, eretto nell'impervia brughiera, occupato da ragni, falene e piante urticanti. Pian piano il lettore si renderà conto della differenza che passa tra le due adolescenti. Mentre Luglio è romantica e fedele, Settembre è dispotica e prevaricatrice. Sottopone continuamente la sorella a crudeli prove di coraggio, a insostenibili riti di iniziazione. Cosa le ha portate a rifugiarsi laggiù? Quella casa che scricchiola nella notte è forse infestata? O il problema sono proprio le due sorelle, con i loro non detti, con i loro traumi da elaborare? Tutte le spiegazioni trovano posto, per fortuna, nelle ultime trenta pagine: meritevoli, anche se prevedibili, stringono il cuore in una morsa d'angoscia.

La Casa ha i muri portanti. Ecco cosa portano: l'infinita tristezza di mamma, gli scatti d'ira di Settembre, la mia muta incapacità di fare tutto quello che gli altri mi chiedono di fare, le stagioni, la morte dei piccoli animali nella macchia qui intorno, ogni parola d'amore o di rabbia che ci diciamo l'un l'altra.

Abbracciando le immagini del genere body horror, Daisy Johnson parla di bullismo e revenge porn, d'identità e malattia mentale. A lasciare dubbi sono le centottanta pagine precedenti; i capitoli brevi e frammentari, simili a schegge fuggevoli o poco più; la mancanza di discorsi diretti; una scrittura lisergica ed evanescente, tutta lazzi e frasi a effetto, che ben presto finisce per annoiare. Si ha l'impressione di conoscere la storia a menadito. Luglio e Settembre, nomi bislacchi e atteggiamenti sibillini a parte, non hanno niente di nuovo da condividere e si muovono stancamente in un immaginario orrorifico già fitto di affinità elettive, parentele mortifere, simmetrie inquietanti. A Halloween si vestono come le gemelline di Shining e, a zonzo, chiedono dolcetto o scherzetto. Nella routine di tutti i giorni scelgono l'isolamento e gli outfit delle protagoniste di Abbiamo sempre vissuto nel castello. E somigliano un po' perfino alle italiane Sorelle Soffici, sottovalutatissimo romanzo di Pierpaolo Vettori uscito ormai dieci anni fa, o a alle protagoniste di uno dei romanzi più memorabili dell'anno, Il valore affettivo, che similmente scandagliava il sangue e i panni sporchi. Confermo a malincuore l'impressione iniziale: Daisy Johnson non fa per me e non la leggerò oltre. Troppo abbozzate le sue trame, troppo evanescente il suo stile. Gira terribilmente a vuoto. Se avete apprezzato il romanzo precedente, andate pure a trovare Luglio e Settembre nel cuore della brughiera. Se, come me, lo avevate già mal sopportato di vostro, sappiate che qui non cambierete idea: leggete i titoli da me citati piuttosto, prendete appunti, e andate a giocare a rimpiattino con altri disagi, con altre sorelle.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Sergio Endrigo - La casa

giovedì 24 giugno 2021

Recensione: I buoni vicini, di Sarah Langan

 
| I buoni vicini, di Sarah Langan. Sem, € 18, pp. 392 |

È il quattro luglio. Un buon giorno per sentirsi americani. Siamo a Maple Street, un ridente quartiere di Long Island in cui tutto sembra essere al posto giusto: tranne gli ultimi arrivati in città, i Wilde, che con i loro accento di Brooklyn faticano a integrarsi. I classici festeggiamenti per il giorno dell'Indipendenza, così, li colgono tagliati fuori. In disparte, spiano dalle tapparelle i rituali dei vicini. Perché non li hanno invitati al loro barbecue; si saranno forse dimenticati di avvisare? L'apertura di una dolina, durante un'estate talmente torrida da non avere precedenti, semina il caos in quel luogo perbene. Dalla voragine, un taglio purulento nel cuore della terra, fuoriesce un bitume nauseabondo. Lampante metafora del marcio annidato sotto gli occhi di tutti, l'evento lascerà emergere mostri terrificanti. Il romanzo di Sarah Langan, erede di Shirley Jackson e Ira Levin stando ai plausi della critica statunitense, parte in medias res. Senza indorare la pillola.

I residenti di Maple Street si vestivano business casual. Avevano impieghi affidabili che raggiungevano a bordo di auto affidabili. Erano sempre di fretta, anche se dovevano andare solo al supermercato o in chiesta. Riversavano il senso di inquietudine, insieme a ogni altra cosa, sui figli. I Wilde erano diversi.

Ambientato in un futuro tutt'altro che lontano, minacciato dai mali dell'inquinamento e da continui sconvolgimenti politici, ha un piglio cinematografico e una struttura varia, che anticipa le tragedie che verranno tramite trafiletti di giornali e interviste ai diretti testimoni. I cronisti di di nera parlano di un massacro. Gli psicologici si interrogano sui traumi delle nuove generazioni. A Broadway ne hanno tratto perfino uno spettacolo teatrale. Sappiamo che tutto è partito dalla morte di Shelley, precipitata nella dolina. Si è trattato di un incidente? La dodicenne fuggiva forse da qualcosa, da qualcuno? Se state pensando a un novello It, in attesa di carne fresca proprio sotto la superficie, avete sbagliato storia. I mostri in questione sono il conformismo, l'intolleranza, il pettegolezzo. Il quartiere punta il dito contro Arlo Wilde accusandolo di pedofilia. Il rocker ha un passato di dipendenze, ha le braccia tatuate, è marito di Gertie (benché incinta, veste in maniera troppo sexy), è papà di Julia (adolescente sfacciata) e di Larry (fragilissimo, probabilmente autistico). Comincia una caccia alle streghe che include aggressioni, vandalismo, calunnie, irruzioni notturne. A reggere fiaccola e forcone è il capogruppo, Rhea Shroeder: madre di quattro figli all'apparenza perfetta, custodisce gelosamente un lato oscuro che in passato ha già mietuto una vittima. Gli abitanti del quartiere sono eroi o assassini?

A volte mi immagino di essere un gigante, di spappolare la mia famiglia nel palmo della mano. Vorrei che morissero per poter essere libera. Non posso lasciarli, sono la loro madre, non mi è permesso. E quindi li odio. È una cosa orribile, vero? Dio, sono un mostro?

Mentre gli adulti perdono il controllo, i soli innocenti sono i giovanissimi, capaci di coraggio e solidarietà in un epilogo talmente catartico da commuovere. Al pari di Them, agghiacciante serie Amazon Prime Video che raccontava le disavventure di una famiglia afroamericana in un sobborgo degli anni Cinquanta, I buoni vicini non va per il sottile, ma ha l'insolito pregio di non prendersi troppo sul serio. Macabramente divertente, adotta un filtro grottesco che rende un po' difficile affezionarsi ai personaggi e sceglie i sentieri della satira per raccontare, in quattrocento pagine zeppe di efferatezze, una verità indigeribile. In questo microcosmo corrosivo, fatto di passati desolanti, futuri effimeri e reazioni spropositate, quali ruoli avremmo preso pur di sentirci membri attivi della comunità? E se il nostro dovere civico, in una società alla deriva, fosse scagliare la prima pietra?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Maneskin – Zitti e buoni

venerdì 27 novembre 2020

Recensione: Distanza di sicurezza, di Samanta Schweblin

 
| Distanza di sicurezza, di Samanta Schweblin. Sur, € 15, pp. 108 |

Per la prima volta mi è successo di mettere in pausa un romanzo a otto pagine dalla fine. In preda ai sudori freddi, vittima di una paura immotivata, l'ho chiuso e poggiato sulle ginocchia. Temevo di scoprire cosa sarebbe successo alla fine. Temevo, soprattutto, di saperlo già. Fulmineo, logorante, febbricitante, il secondo romanzo che leggo dell'argentina Samanta Schweblin – pubblicato in passato da Rizzoli – è stato riproposto con la classica eleganza minimalista dopo il successo di Kentuki. In un dialogo a punti di vista alterni, fitto e intricato, l'autrice dà voce a una donna e a un bambino. Lui, seduto sul letto di un pronto soccorso che sembra parte di un inquietante limbo, incalza l'interlocutrice con domande continue costringendola a ricordare cosa le sia capitato. Il tempo scarseggia: le ripete così, la allarma. Cosa c'è davvero in ballo? Per vincere l'oblio, Amanda racconta. Di una vacanza in campagna con la figlioletta Nina, lontano da tutto e da tutti. Della quiete del soggiorno, così diversa dall'insopportabile trantran cittadino, tra fiori profumati e limonate rinfrescanti. Delle chiacchiere a bordo piscina con la dirimpettaia, Carla, che indossa un bikini dorato e parla con tormento del figlio David: un bambino con qualcosa fuori posto all'indomani di un piccolo incidente al fiume, che in giardino tumula anatre stecchite con paletta e secchiello. Influenzata dalle ansie dell'altra madre, Amanda vorrebbe partire prima del previsto per la capitale, ma qualcosa va storto nel momento del congedo. Qual è l'attimo in cui ha abbassato la guardia? Quando ha lasciato che i vermi e l'irreparabile prendessero il sopravvento?

Prima o poi succederà qualcosa di brutto”, diceva mia madre, “e quando sarà, voglio averti vicino”.

Inscenato su un sfondo all'apparenza innocuo, il romanzo ci ricorda che la tranquillità perfetta talora implica anche il totale isolamento. In una campagna alla fine del mondo, la protagonista non perde mai di vista quella sua bambina dai modi di principessa – educatissima, stringe un topolino di peluche e siede con la cintura di sicurezza agganciata sul sedile posteriore. Amanda anticipa, calcola i rischi, di notte setaccia la campagna circostante con una torcia. Surreale ma plausibile, la sua è la storia di un genitore che nonostante le accortezze ha perso il controllo. Stranissima, al contempo poetica e delirante, la vicenda garantisce la costruzione di una suspance palpabile e di un microcosmo da un lato appena accennato, dall'altro perfettamente compiuto. Sulla meta scelta da Amanda e Nina – una novella Terra dei fuochi – grava forse una specie di maledizione. Il silenzio è innaturale. Non c'è bestiame. In mancanza di medici, ci si rivolge alla strega che vive coi suoi sette figli nella casa verde. L'acqua ha un cattivo odore, i campi di soia frusciano, radioattivi; i liquami che bagnano le mani non sono rugiada; all'orizzonte si sollevano i pennacchi di fumo delle industrie pesanti. E come non confessare i brividi alla vista dei bambini del luogo: chiazzati di macchie, mutilati, orribilmente deformi?

Strana può essere anche la più normale delle cose. Strano può essere anche solo sentirsi ripetere ogni volta “non è importante” a ogni domanda. Ma se tuo figlio non ha mai risposto prima in quel modo, la quarta volta che gli chiedi perché non mangia, o se ha freddo, o lo mandi a letto, e lui risponde, come balbettando, come se ancora stesse imparando a parlare, “non è importante”, io ti giuro, Amanda, che ti tremano le gambe.

L'incubo bucolico della bravissima Samanta Schweblin ricorda i redivivi del migliore Stephen King e le paranoie di Shirley Jackson, ma allo stesso tempo non è uguale a nient'altro. Con le sue sole 108 pagine, è poco più che un racconto. Il genere d'appartenenza, su carta, sarebbe la fantascienza. Ambientato in un futuro che forse è già qui, contiene infatti una riflessione tutt'altro che sottile sui mali dell'inquinamento, che stravolgono il volto della natura e mettono in pericolo il destino delle generazioni future. Ma non è quello il punto. Ipnotizzato, più lo sfogliavo e più sentivo montare una tensione crescente: sul chi va là, dovevo respirare profondamente, farmi coraggio e proseguire. Perché la distanza di sicurezza del titolo, rubando la definizione all'autrice, è quella che passa tra una mamma e il suo bambino per assicurarsi che stia bene. È un prolungamento del cordone ombelicale, è il filo rosso che li lega. Nel corso della lettura, questo filo si tende, si tende, si tende... E la preoccupazione che stritoli i protagonisti fino all'asfissia o, peggio, che dopo l'ennesimo strattone possa spezzarsi, fa sentire vulnerabili. Fa sentire, indipendentemente dalla biologia, madri.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Cranberries – Animal Instinct

venerdì 21 giugno 2019

Mr. Ciak: Noi, We Have Always Lived in the Castle, Ted Bundy e altri psycho-thriller

Sono una famiglia afroamericana di quelle fortunate. Abbastanza in alto per permettersi una vacanza sull'oceano o tollerare con leggerezza le battute sarcastiche di una coppia di amici bianchi, una sera ricevono una visita: la loro casa viene presa d'assalto da misteriosi invasori. Sono quattro, come loro. E hanno le loro identiche facce. Dopo il successo di Get Out, Jordan Peele ritorna al cinema horror e a sembrarmi tremendamente sopravvalutato. Dotato di uno spunto brillante ma di uno svolgimento tutt'altro che originale, Noi ha un impatto minore del film precedente: l'assunto di base, infatti, viene sperperato in due lunghe ore e nella confusione di risvolti mai spiegati. I doppi dei protagonisti sono le loro ombre infernali, o le loro controparti sfortunate? Siamo americani, dicono. Vogliono gli stessi diritti e gli stessi doveri. Reclamano sogni, pretese e ore d'aria. In questa Invasione degli Ultracorpi al tempo di Trump, sfugge il punto della situazione. Bastian contrario benché appartenga alla schiera dei privilegiati, Peele fa antipatia: arraffone e ammiccante, attacca i soliti conservatori con una verve che, al secondo giro, rischia di annoiare. Per fortuna c'è un epilogo meno didascalico, in cui si confondono vittime e carnefici. Per fortuna c'è Lupita Nyong'o, scream queen che piacerà anche all'Academy. Ma, per godersi meglio l'alta tensione, consigliabile abbassare le aspettative. (6)

Anno fortunato per Shirley Jackson. Dopo il successo di The Haunting of Hill House, la maestra spirituale di King è tornata sugli schermi. Anche se ormai non è più tra noi da un po'. Anche se Abbiamo sempre vissuto nel castello, letto lo scorso autunno, va per i sessant'anni. Passato in sordina in patria, accolto tiepidamente dalla critica, il film tratto dal suo romanzo di culto è, a dispetto delle scarse speranze, una trasposizione esemplare dove perfino i difetti vengono dal romanzo. La casa delle orfane Blackwood, interpretate dalle convincenti Taissa Farmiga e Alexandra Daddario, è la copia di quella immaginata: bella e decadente, sembra una novella dimora Addams che non disdegna i colori pastello, la raffinatezza del mobilio, la fantasia della carta da parati. Le sorelle trascorrono lì, in una gabbia dorata, una routine destabilizzante. Isolate dal mondo, fantasticano di trasferirsi sulla luna. Ma la Daddario, tentata dal cugino Stan, minaccia di mandare tutto a rotoli puntando all'Italia. Della Jackson, la trasposizione si tiene stretta i ritmi lenti, le situazione piuttosto trascinate e quel climax finale di grande cattiveria, qui con un tocco di violenza aggiunta. Lo immaginavo a torto televisivo. Inscenato sullo sfondo di una campagna lussureggiante, risulta essere invece una parafrasi fedelissima dalla fotografia cristallina e con un guardaroba che farà l'invidia delle spettatrici. We Have Always Lived in the Castle è una fiaba nera che anche in questa veste funziona a metà, non facendomi cambiare idea su un romanzo sopravvalutato. Ma anche l'occhio vuole la sua parte e qui, fra malie e stranezze, ha il suo bel da vedere. (6,5)

Era un uomo bello e un abile oratore. Era un serial-killer. Ted Bundy, negli anni, Settanta frequentava Giurisprudenza e si difendeva da un'accusa inequivocabile: l'omicidio barbaro di oltre diciotto donne. Le prove erano tutte contro di lui, ma la giustizia americana rende tutto spettacolo. Interpretato da un Efron al di sopra delle aspettative, con la giusta faccia da schiaffi e una parlantina sorprendente, il caso Bundy rivive in un'arringa accurata e un po' televisiva, convincente ma non sempre coinvolgente. Senza mostrare sangue, più attento alla dimensione processuale che al marciume, il documentarista Berlinger scongiura ogni tentazione voyeuristica e mette in scena un gioco retorico per sospettare di tutto e di tutti. Perfino di una verità universalmente accettata: la colpevolezza dell'accusato, messa in dubbio da un carisma di star navigata. La compagna Collins, che all'inizio lo segue come una groupie innamorata, si stanca presto della bugie e di un triangolo amoroso che culmina in una farsesca proposta di matrimonio. Il verdetto? La scelta di preferire gli aspetti pubblici e privati potrebbe far storcere il naso agli amanti dell'horror, ma i protagonisti – a torto giudicati troppo glamour per i ruoli – mettono comunque i brividi nel faccia a faccia finale. La nausea vera, di terrore e ingiustizia, arriva durante i titoli di coda. Con la sfilza delle donne martirizzate. Con la consapevolezza che l'incubo, con tanto di fughe picaresche e schiaffi morali alle forze dell'ordine, sia pura verità. (6,5)

Quali sono i segni particolari di uno psicopatico in erba? Una timidezza a confine con la sociopatia, il pallino per gli animali investiti in strada, una famiglia poco convenzionale. Avevano personalità agli antipodi ma, in quanto a spietatezza, Ted Bundy e Jeffrey Dahmer rivaleggiavano: quest'ultimo, dagli anni Settanta in poi, terrorizzò in particolare la comunità gay di Milwaukee. Alle origini, però, era soltanto un adolescente in cerca di sé stesso. Si estraniava di frequente ma sapeva dissimulare. Amico di tutti e di nessuno, indossava i panni di buffone del liceo pur di far pace con la propria testa e, soprattutto, con la propria sessualità. Ispirati a una graphic novel, i dolori di un giovane serial-killer sono raccontati anche stavolta con un approccio poco convenzionale. Rinunciando allo splatter, My friend Dahmer sperimenta toni diversi fino a somigliare a un dramma adolescenziale alla Van Sant. Senza sporcarsi, il magnetico Ross Lynch – un caso sia uscito anche lui da Disney Channel? – si trascina torvo e ingobbito in una dissacrante pagina di diario che ricerca con successo i primi passi di un folle che non ha ancora sperimentato il sesso, né fatto i conti con le macchie di una coscienza sporca: la banalità del male. (7)

Ne hanno fatto prima un film per la TV, poi una miniserie in otto puntate. A un appuntamento romantico, Mrs Maisel andava a vedere perfino un musical ispirato alle sue gesta efferate. L'assassina Lizzie Borden, simbolo di un femminismo estremo, non smette di affascinare la settima arte. A nemmeno cinque anni di distanza dal film con Christina Ricci, le vicende della donna – riassumiamola: uccise padre e matrigna a colpi d'ascia, e fu scagionata per assenza di prove – torna a farsi raccontare dal cinema indipendente, attento alle questioni di genere e alla verosimiglianza dei fatti. La Borden di Chloe Sevigny va a teatro da sola, rifiuta il matrimonio, scontenta i genitori con una lingua sferzante e una relazione con Kristen Stewart, domestica sul punto di rottura. Come una trionfale Medea, nuda e insanguinata, la protagonista si aggiunge ai nemici del padre – viscido e temutissimo – e giunge a soluzioni deleterie per liberarsi dell'orribile famiglia. Cupo e lentissimo, Lizzie è una tragedia teatrale di zii usurpatori e passioni clandestine che, classe a parte, poco aggiunge tuttavia a un ritratto di donna già approfondito in precedenza. L'acqua cheta logora i ponti. Ma all'ennesimo rimaneggiamento, centoventi anni dopo il massacro, non fa notizia. (5,5)

La trama è quella di un thriller di Rai Due. Una ragazza di buon cuore restituisce a una vedova la borsetta dimenticata in metropolitana. La prima non ha più una madre, l'altra non ha più una figlia: l'amicizia intergenerazionale, quando si fa ossessione, diventa stalking. Classico, più che vecchio stile, Greta rilegge un canovaccio di sicuro fascino. Non corre mai il rischio di rinnovarlo, eppure sorprende per la freschezza di Neil Jordan: settant'anni e l'ultimo film, Byzantium, risalente a ormai sette anni fa. L'autore conosce bene le regole del gioco, e lo stesso può dirsi del suo cast di attrici bravissime: Chloe Grace Moretz, scream queen per eccellenza delle nuove generazioni, e soprattutto Isabelle Huppert, straniera dal fascino stregonesco. A metà tra Norman Bates e Annie Wilkes, la sua cattiva è un cane rabbioso che non vuole essere abbandonato. Manipolatrice e onnipresente, conosce vini pregiati, suona il pianoforte e si apposta negli angoli. È in ogni squillo, in ogni messaggio, in ogni ombra. A cosa spinge la solitudine? Se tutto va esattamente come dovrebbe, due protagonisti in forma smagliante sanno farsi comunque ricordare grazie a una perfetta alchimia e qualche dettaglio raccapricciante. Greta è in cerca di un'amica, o forse di un'altra vittima? Ha borse identiche a quella perduta. Ha usato già quelle stesse parole, letto da quello stesso copione. Non siamo speciali, no, e lei non si è presa la briga di ordine un inganno su misura. L'esca è la solita, il canovaccio abusato. Ma, intanto, abbocchiamo. (7)

Christopher Abbott, noto tanto la serie Catch 22 quanto per la somiglianza innegabile con il collega Kit Harrington, ha l'aria di un verginello alle prese con l'ansia della prima volta. Guardate quant'è impacciato mentre fa le prove, prende appunti, coreografa nel dettaglio parole e movimenti. Nella sua camera d'albergo aspetta l'arrivo di una prostituta e questa, puntualissima, non si fa attendere: è Mia Wasikowska, irriconoscibile tutta impellicciata e con un caschetto aggressivo. Lui è un sociopatico che vuole darsi all'omicidio, lei una provocante autolesionista. Il piano sfugge di mano. Quella che a una prima occhiata sembrerebbe una coppia di disadattati da commedia indie si pone al centro di un rapporto sfuggente e perverso, che giunge picchi di goduria indicibili quando Nicolas Pesce – giovane regista da tenere d'occhio – inizia a scherzare con lo split screen di Brian De Palma o la colonna sonora di Dario Argento. Guilty pleasure di cinefili e feticisti, Piercing è un gioco delle parti stilizzato e intriso di cose – sangue, umorismo caustico, citazioni alte – che funziona, sì, ma esclusivamente nella dimensione dell'omaggio. Per il resto, è troppo strano e troppo aperto. Ha personaggi troppo esagerati e troppo tagliati con l'accetta. Ipnotizza e diverte, stilosissimo dall'inizio alla fine, ma lascia violenza in quantità, qualche ottima interpretazione, cicatrici semipermanenti e un pugno di mosche. (6)

Quattro ingenui amici in sella a una bici: aspiranti Sherlock Holmes con alle spalle famiglie in crisi, una cotta comune per la bella del quartiere e il coprifuoco fisso. Un vicino di casa poliziotto, insospettabile ma non troppo. Tutto è un gioco. Tutto ha una fine, anche l'estate del cuore. Perché tutti i serial killer, in fondo, sono i dirimpettai di qualcun altro. Partita a nascondino classica e sdoganatissima, Summer of 84 fa leva su quell'effetto nostalgia venuto francamente a noia da un po' e su misteri feroci ma intuibili, che non conoscono nessun colpo di scena ma a sorpresa, nel finale, minacciano di strappare brividi duraturi. Amaro e spietato, sbucato non a caso dal preziosissimo circuito del Sundance, in realtà ha poco a che spartire con il candore pop di Stranger Things. I Perdenti di Stephen King, qui, conoscono la cattiveria: quella umana, quella vera. La loro perdita dell'innocenza appassiona e stordisce più delle rivelazioni mancate, più di un canovaccio che con la scusa dell'omaggio poco s'inventa di sana pianta. E questa estate di metà anni Ottanta, stagione per eccellenza di scottature, ci brucerà per sempre. (7)

mercoledì 5 dicembre 2018

Recensione: Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson

| Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson. Adelphi, € 18, pp. 182 |

Tanto tempo fa, ai margini di un paese piccolo e infido quanto una punta di spillo, vivevano due sorelle nel totale isolamento. Era un cancello di ferro battuto, non un intrico di rovi magici, a tagliarle fuori dal resto del mondo. Il sentiero di ghiaia, percorso in un anno dalle auto di pochissimi eletti e chiuso all'andirivieni del pubblico di curiosi, conduceva alla loro casa: antica, sì, ma abbastanza ben tenuta da fare ancora sincera invidia ai compaesani. Qualcuno, da lontano, avrebbe potuto distrattamente scambiare Mary Katherine e Constance per una coppia di malinconiche principesse afflitte dalla stessa sorte avversa dei loro avi. In realtà, del famoso castello di Shirley Jackson – autrice di nuovo sulla cresta dell'onda a cinquant'anni dalla sua scomparsa per il meritato successo della trasposizione Netflix dell'Incubo di Hill House –, sono più le streghe cattive.

Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della nostra famiglia sono tutti morti.

Quando la minore di loro sconfina due volte alla settimana per fare la spesa o prendere i libri in biblioteca, l'avventurarsi nel mondo esterno ci viene descritto con le stesse mosse di un gioco da tavolo. Merricat compra beni di prima necessità non senza concedersi qualche capriccio, s'intasca a prestito manuali di cucina o fiabe per la buonanotte, e immaginando dolcissimi sogni da fine del mondo torna in fretta sui propri passi. L'incantevole Constance, che indossa abiti da bambola di porcellana e fa faville in cucina, al contrario non si allontana mai dall'uscio. Immancabilmente, però, la raggiungono anche lì pettegolezzi, insulti e cantilene infantili. Dei Blackwood superstiti si mormora che servano pranzi luculliani, in barba alle modeste condizioni del circondario; che siano troppo tronfi per mischiarsi alla feccia, e questo spiegherebbe la loro spasimata reclusione; che saggia cosa sia rifiutare i loro inviti a entrare. Hanno sempre vissuto nel castello e, durante un'indimenticata cena di famiglia, hanno spolverato i mirtilli di arsenico. Restano uno zio disabile di cui prendersi cura e le protagoniste ormai adulte, prosciolte dalle accuse ma non dal pregiudizio altrui. Poco male: le sorelle si accontentano dei regali spontanei dell'orto e del giardino, fanno deliziose conserve per l'inverno e spolverano con impegno le stanze disabitate, stanno bene come stanno. Sole contro un mondo vendicativo e ignorante. Finché la primavera nell'aria non porta un cambiamento destabilizzante e un quarto coinquilino, Charles: cugino seducente e arrivista, per scoraggiare il quale non bastano talismani o inquietanti parole magiche. L'usurpatore fruga nei vestiti, nelle carte notarili, nei lasciti. Siede a capotavola come un fantasma molesto e intanto escogita il colpo di stato. Lieve ed elegantissima, forse un po' prevedibile negli esiti, la lettura della mia seconda Shirley Jackson non ha riservato sorprese.

Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni.

In rete lo descrivono già come un classico intramontabile, ma personalmente qualche difetto l'ho scorto: se non fosse per il fascino di una narratrice irresistibile, infatti, le 180 pagine complessive – in generale poche – apparirebbero in eccesso. La voce dirompente di Merricat – misantropa, ladra, piromane – elenca veleni mortali, si auspica danze sfrenate sui cadaveri degli estranei e ci turba con un apologo nerissimo a cui sarebbe stata meglio la dimensione ridotta del racconto. Da confortevole nido, la casa diventa prigione. Da scelta, la solitudine si fa infine obbligata. La crudeltà vandalica del prossimo, in un capitolo che mi ha ricordato l'assedio commovente di Edward mani di forbice, potrebbe rendere le protagoniste ancora più disperate, naufraghe, scollate dalla realtà. Con un film di prossima uscita in cui a impersonarle ci saranno Taissa Farmiga e Alexandra Daddario, a mezzo secolo di distanza dai loro chiacchierati e ambigui misfatti, le sorelle Blackwood vivono sempre. Sorvegliano, ci spiano, ridono di noi nel loro linguaggio segreto. Le troviamo inquietanti dall'esterno, ma forse sono soltanto felici. 
Come successo a Shirley Jackson, narratrice di fiabe gotiche, diventata regina del brivido grazie all'incoronazione postuma di un adorante Stephen King. 
Come successo, appunto, a due principesse decadute che non mangiavano bambini, non attentavano alle coppiette innamorate né custodivano sotto il materasso fortune straordinarie, ma di bocca in bocca diventavano leggenda metropolitana.
 Qui, in una chicca oscura e agrodolce da rispolverare. Lì, nel loro castello costruito sulla luna, dove ci si veste di foglie secche, i pionieri non s'avventurano senza i debiti scongiuri e gli extraterresti non fanno paura.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Birdy – Strange Birds

mercoledì 24 ottobre 2018

I ♥ Telefilm - Speciale Halloween: The Haunting of Hill House

Da bambino mi è capitato spesso di cambiare casa. È per questo che tutt'ora mi scopro sottilmente invidioso nel sentire parlare molti dei miei coetanei, che magari hanno avuto la fortuna di nascere e crescere fra le stesse quattro mura – per quanto monotone fossero, per quanto strette gli stessero –, anziché scoprirsi fra i cinque e gli otto anni maestri di scatoloni da fare e disfare, di addii impacciati. Ho vissuto in appartamenti grandi e piccoli, ho dormito in stanze con poche tracce del mio passaggio. Case con ricordi altrui, al pari di vestiti smessi – e ogni graffio nella carta da parati era una toppa sui jeans, ogni tacca sugli stipiti per segnare gli impercettibili cambiamenti di altezza un orlo da rimboccare. Il mio trasloco più recente risale all'aprile di due anni fa – no, purtroppo non sarà quello definitivo – e ricordo molto bene, da bravo nostalgico quale resto, l'ultima volta nei cento metri quadri che per un decennio abbondante avevano custodito i nostri litigi, le nostre chiacchiere a tavola o sul divano, le nostre sortite a tradimento. A quel domicilio ho lasciato le immagini del mio cane, Gerry, un bastardino morto dieci anni fa; il profilo di mia madre, affaccendata in qualche compito dei suoi, che dal dicembre di tre anni fa incontro ormai soltanto in ambienti neutrali; i giorni neri di mio padre, le porte ammaccate dalla rabbia di mio fratello, la consapevolezza che la famiglia al completo che ricordavo non mi avrebbe mai accompagnato altrove. La nostra storia privata, i segni del nostro tempo insieme, adesso appartengono a qualcun altro: nuovi affittuari che hanno ritinteggiato, buttato via il superfluo, non riuscendo però a scacciare completamente le tracce del soggiorno lì. Nei primi tempi, sapete, guidando sovrappensiero mi è successo perfino questo: di imboccare la solita curva, di fermarmi nel parcheggio di sempre, prima di ricordare di non appartenere più a quella modesta via del centro. È per questo che, se qualcuno mi chiedesse se credo nei fantasmi, risponderei di no. Nelle case infestate, invece, sì.
The Haunting of Hill House, terza trasposizione del romanzo dell'intramontabile Shirley Jackson – autrice di nuovo sulla cresta dell'onda, con all'orizzonte un biopic con Elisabeth Moss e la versione cinematografica di Abbiamo sempre vissuto nel castello –, è una serie horror che, più che infondere paura, vorrebbe parlare a sorpresa di questo: eredità genetiche, memorie irrinunciabili, genitori e figli. Dimenticate presto, infatti, l'esperimento antropologico a cui erano sottoposti gli eterogenei sconosciuti delle pellicole precedenti: questa è né più né meno la storia di una famiglia disfunzionale. Cos'è stato degli sciagurati Crane, che avrebbero dovuto passare a Hill House soltanto un'estate e che invece, a distanza di trent'anni, non riescono ancora a venire a patti con i misteri e i dolori di quella dimora maledetta? Si è trattato di suicidio o assassinio per quella mamma un po' fata – la sempre bellissima Carla Gugino –, della cui morte si continua ad accusare il gelido capofamiglia Timothy Hutton? Abbiamo cinque protagonisti per dieci episodi: la metà di questi, se in una serie lunga e introspettiva, saranno dedicati perciò all'indagine psicologica dei singoli personaggi. Ciascuno con i propri mostri personalizzati, ciascuno con le proprie colpe davanti alla tomba della fragile Nell: sorella minore che, come la loro madre, ha scelto infine il cappio al collo. Abbiamo lo scrittore scettico e senza scrupoli che ha fatto la cresta sulla tragedia, la proprietaria di un'azienda di pompe funebri in crisi coniugale, una psicologa omosessuale terrorizzata dal contatto umano, un tossicodipendente – il gemello della defunta Nell – che da novanta giorni ha rinunciato all'aiuto delle droghe. Molto semplicemente, ci si rincontra per un'occasione spiacevole: il funerale. E con una scrittura dall'inattesa potenza teatrale, fra monologhi struggenti e confessione amare, abbonderanno i faccia a faccia furenti e i salti temporali a cui un Mike Flanagan qui al suo meglio ci aveva già abituati con Oculus (troverete gli stessi raffinati raccordi di montaggio) e Il gioco di Gerald (innumerevoli comunque le influenze kinghiane, con i ritorni all'ovile di It e l'elaborazione soprannaturale secondo Pet Sematary).
Le puntate, a mio dire troppo dense per darsi al binge watching, andrebbero viste una al giorno: meditando sulla qualità della scrittura, sugli equilibri di un cast raccolto in cui si eccelle senza mettersi in ombra – un plauso alla scelta delle interpreti femminili, somigliantissime fra loro, e alla versatilità di Michiel Huisman, non più il bello che non balla di Game of Thrones – e ai guizzi della regia, che impressiona per l'alto livello tecnico nei piani sequenza del sesto episodio. Le voci infondate che parlano di spettatori in stato di shock, colti in preda ad attacchi di vomito o insonnia, andrebbero sfatate: l'inquietudine di The Haunting of Hill House è infatti suggerita appena, attraverso i cattivi presagi disseminati qui e lì e gli eterni ritorni del poetico A Ghost Story, mentre scarseggiano il sangue e i sobbalzi gratuiti. I fantasmi patiscono l'abbandono, l'ergersi dei muri ha un significato tanto letterale quanto metaforico, la casa ha non un cuore ma un segreto apparato digerente. Il soggiorno somiglierà dunque a una lunga trance della quale i protagonisti, suscettibili ai mormorii degli antichi tenutari, tentano per tutto il tempo di svegliarsi. Si confondono realtà e immaginazione nelle nebbie del dormiveglia. Si viene a patti, in una seduta di ipnosi che fra le righe ha del terapeutico, con la delusione di cinque bambini impreparati al mondo esterno. Non si può che crescere a metà, allora: nel mito delle promesse divorate poi dalla notte; cercando invano nelle proprie relazioni l'idillio improponibile fra una mamma trasognata e un papà monolitico – lei un aquilone, lui il suo rocchetto. Prigionieri prima di quelle stanze buie, poi del ricordo, i giovani Crane spergiurano, falliscono, commuovono e perdonano, su una via per l'elaborazione che porta in conclusione dove tutto ha avuto inizio. Ci viene richiesta un'identica assenza di logica per prestare fede all'amore, per credere all'orrore. Il resto, direbbe Nell, sono coriandoli. (9)

lunedì 17 settembre 2018

I film che leggeremo [a puntate]

L'amica geniale
30 ottobre 2018
È l'autrice italiana più letta nel mondo. È già stata al cinema in passato, grazie a Martone e Faenza. La sua celebratissima serie di romanzi non poteva né doveva essere da meno, no; non poteva non farsi serie TV. A sobbarcarsi l'incarico, allora, c'è il buon Saverio Costanzo, con la nostra Rai e l'infallibile HBO a produrre otto puntate che andranno così a coprire il primo romanzo – quello a cui sono purtroppo fermo, al momento, in attesa dell'incentivo perfetto. I primi due episodi, presentati già in Laguna tra gli applausi degli addetti ai lavori, passeranno anche al cinema all'inizio di ottobre. Per gli altri, basterà rispolverare il telecomando e sintonizzarsi di lì a poco su Rai Uno.



The Truth About the Harry Quebert Affair
4 settembre 2018
La verità, a proposito della Verità sul caso Harry Quebert, è che il caso editoriale di Joel Dicker, da quel che leggo amato o odiato senza vie intermedie, non mi ha mai fatto suo. Sono passati gli anni, è venuta meno l'insistenza esagerata delle voci di corridoio, sono arrivate le edizioni economiche che fan sempre gola e, ultima ma non ultima, un'omonima miniserie di cui nessuno parla in giro. Nonostante lo zampino del regista Jean-Jacques Annaud, l'idolo delle mamme Patrick Dempsey e una fama, ormai, che lo precede ovunque vada. Con la scusa, con il pilot già sul mio hard disk, che sia l'occasione buona per farmene un'idea mia?



You – Tu
9 settembre 2018
Una ragazza entra nella libreria sbagliata, durante il giorno sbagliato, rivolgendosi al commesso sbagliato. Che le sorride gentile, le consiglia il miglior libro di Paula Fox, la segue sin sotto casa. Si parla di stalking e ossessioni amorose: temi quanto mai attuali, ma in un thriller Lifetime tutt'altro che insolito. Potrebbe non aiutare su carta neppure la presenza di Penn Badgley – l'indimenticato Ragazzo Solitario di Gossip Girl –, e invece You, ispirato all'omonimo romanzo di Caroline Kepnes, prende in contropiede e diverte da morire. Con le citazioni letterarie da appuntarsi seduta stante, i protagonisti belli e sinistri e, soprattutto, la voce narrante di uno psicopatico nella stagione degli amori che racconta piantonamenti e omicidi con il brio di una commedia romantica a tinte sexy.



Le terrificanti avventure di Sabrina
26 ottobre 2018
Per chi è stato bambino negli anni Novanta era semplicemente un must, e il sottoscritto non fa eccezione. Prima in carne e ossa in formato sit-com, poi a cartoni animati con un petulante gatto nero al seguito, l'amichevole Sabrina – streghetta in erba ispirata alle storie a fumetti di Archie Comics – ha accompagnato per tutta l'infanzia i miei pomeriggi, tra i compiti per casa e la merenda delle cinque. La moda del reboot, ovvio, non poteva fare a meno di corteggiarla. E così torna su Netflix, e c'è poco da storcere il naso, questa volta, sapendola eccezionalmente cupa e violenta. Magica è, cantava la sigla, la tua vita Sabrina. Da Halloween in poi, sarà anche spaventosa.



The Haunting of House Hill
12 ottobre 2018
L'autrice, Shirley Jackson, è stata la maestra spirituale di Stephen King. Il suo romanzo più famoso, L'incubo di House Hill, è stato al cinema prima con Gli invasati, poi con Haunting. A vent'anni dall'ultimo rifacimento, Mike Flanagan – reduce dal successo del Gioco di Gerald, con al seguito la fedelissima Carla Gugino – lo riadatta in dieci episodi, in chiave contemporanea. Squadra vincente non si cambia. E, con le premesse di partenza degnamente rispettate, con l'horror non sbaglia.



A Discovery of Witches
14 settembre 2018
Vampiri, streghe e company. Li credevamo tutti sorpassati, e di certo non ci mancavano. Quest'anno ci hanno riprovato prima al cinema con Dark Hall, poi su Netflix con il delicato The Innocents. Ultima ma non ultima, inattesa, ecco sbucare dai pittoreschi vicoli di Oxford una nuova storia di poteri paranormali e relazioni proibite, che a scatola chiusa farà senz'altro meglio dell'indesiderato reboot di Charmed. Vuoi i nomi di Teresa Palmer e Matthew Goode, lei strega e lui vampiro coltissimi, che in passato hanno scelto con intelligenza i progetti in cantiere. Vuoi l'aria british del tutto. Vuoi, ancora, la saga ben recensita di Deborah Harkness, eppure da me mai bramata in whishlist.



The Passage
Gennaio 2019
Lo leggevo per la prima volta, adorandolo, qualcosa come sette anni fa. Quando questo blog non era nei miei programmi, i mondi post-apocalittici non ci erano ancora venuti a noia e, sulle fascette promozionali, si parlava già di una trasposizione a opera di Ridley Scott. E poi, cos'è andato storto strada facendo? Cos'è successo a Justin Cronin, ai progetti di trarne un film, all'ultimo capitolo mai arrivato in Italia dell'ennesima trilogia interrotta – è forse un caso che io abbia preferito non leggere il secondo romanzo, eppure acquistato poco dopo l'uscita? Sparito dai miei radar, Il passaggio tornerà a far parlare di sé dal prossimo gennaio, si spera. Se sono scarsissime le aspettative riposte sulla serie Fox – colpa di un cast non proprio di primo taglio –, c'è speranza che l'arrivo sugli schermi smuova qualcosa in casa Mondadori. Leggeremo finalmente The City of Mirrors?



Quello che non uccide
31 ottobre 2018 (USA)
Non è un telefilm, l'ultimo della rassegna, vero, ma sempre in ambito di produzioni in serie rimaniamo. Qualsiasi presentazione sarebbe superflua. Millennium ritorna, dopo la trilogia svedese e l'esemplare rimaneggiamento di David Fincher, con un quarto capitolo. Purtroppo cambiano il cast, cambia il regista e, nonostante le ambientazioni, non ci si smuove dagli Stati Uniti. Ancora, si potrebbe lamentare più di qualche spettatore? La presenza di "Sua Altezza" Claire Foy, nel ruolo che fu già di Noomi Rapace e Roney Mara, il promettente Fede Alvarez dietro la macchina da presa e Steven Knight alla sceneggiatura, ricordano che c'è del buono; come del buono, d'altronde, c'era anche nel romanzo apocrifo di David Lagercrantz.


lunedì 30 ottobre 2017

Recensione: La lotteria, di Shirley Jackson

| La lotteria, di Shirley Jackson. Adelphi, € 10, pp. 82 |

Giugno significa lotteria, e lotteria significa l'intero paese radunato in piazza con il fiato sospeso per l'estrazione finale. I bambini giocano coi sassi, le bambine si stringono pudiche alle sottane delle mamme, gli adulti parlottano scambiandosi ricordi e aneddoti sulle origini di quel rito diventato ormai tradizione irrinunciabile. Cosa si vince, se la (mala) sorte è dalla tua? Soprattutto, cosa si perde?
Una donna si fa bella il giorno delle nozze. Va verso i quaranta e, non più fresca come in gioventù, si preoccupa maniacalmente del trucco e dell'abito giusto. Tutto è pronto, ma manca lo sposo. Gli lascia un biglietto in cucina, semmai non dovesse trovarla a casa rientrando, e si mette in cerca. Un uomo alto e biondo, con un completo blu da scrittore e un mazzolino di crisantemi in mano. Qualcuno l'ha visto? Dov'è, chi è?
Un medico apre il suo studio a una paziente sull'orlo di una crisi di nervi. Agitata, mette in discussione il suo matrimonio, una società bella che votata alla spersonalizzazione e la realtà stessa. Il medico presta ascolto, serio. Chi aveva bisogno di un consulto più urgente: la donna, suo marito, o il dottore stesso?
Due attempate signore vanno a cena da sole, lasciando a casa i consorti. Parlano dei figli all'università e spettegolano degli altri commensali. Si godono le portate principali e l'intrattenimento in sala. Non soltanto orchestra e ballerini, ma anche un sinistro spettacolo di ventriloqui. Perché trattare un fantoccio come fosse vero?

Una volta c'era un detto, "Lotteria di giugno, spighe grosse in pugno".

Quattro racconti brevi o brevissimi per avvicinarsi al mondo misterioso e grottesco di Shirley Jackson: scomparsa presto, con pochi romanzi a carico, eppure considerata maestra di vita e scrittura dal sommo Stephen King. Apprezzarne a primo impatto lo stile inappuntabile, il senso di attesa, il modo graduale – soprattutto nei primi due racconti, i migliori: gli altri, infatti, mi sono parsi esercizi stilistici senza strascichi e bivi – in cui la trama si snoda in vista del finale. Questa conoscenza preliminare intriga, ma non soddisfa un lettore da sempre poco attratto dal formato esiguo del racconto. Non fa eccezione la Jackson, eppure esemplare come dicono i suoi eredi spirituali. I racconti contenuti in La lotteria sono sottilissimi, inspiegabili, strani. Non tornano. L'irritazione è da indirizzare alla sola Adelphi, allora. A un'edizione troppo costosa per il poco che offre, che rifiuta i preamboli e le prefazioni. Sfugge infatti il senso della silloge, che attualmente è la sola della Jackson in commercio – fuori catalogo, pare, una raccolta Mondadori molto più ricca di storie e dettagli. Come sono stati scelti questi racconti, pubblicati in momenti e luoghi diversi? Qual è la cornice pensata dai curatori? Se sgradite e simili domande incalzano per tutto il tempo, finiscono con l'intaccare l'illusione e la suggestione. Togliendo forza, purtroppo, agli interrogativi posti dalle quattro singole trame. A volte destinate a un bagno di violenza, altre un elegantissimo nulla di fatto. In cui, ancora una volta – ed è una volta di troppo, per sole ottanta pagine –, le risposte ci si negano.
Il mio voto: ★★★