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Kentuki, di Samanta Schweblin. Sur, € 16, pp. 230 |
Sono
a forma di animali, come i peluche che preferivi quando eri bambino.
Pesano due chili scarsi e sono fatti soprattutto di plastica e piume.
Costano un po’, 279 dollari, ma è il prezzo ragionevole delle
tecnologie all’avanguardia. Dietro i loro occhi deliziosi –
biglie non così inespressive, non così inconsapevoli – i kentuki
nascondono microcamere che ci collegano tutti in tempo reale. Nessuna
brutta sorpresa: acquistandoli sai già in anticipo che accoglierne
uno in casa significa aprire le porte a un perfetto
estraneo. Che può spiare la tua routine, e qualche volta intervenire
a gamba tesa. Le possibilità sono due: avere un kentuki o
esserlo. Preferiresti accogliere uno sconosciuto, infatti, o
al contrario essere lo sconosciuto nell’esistenza del prossimo? La
scelta è personale, dettata dalla tua generosità o dalla tua
perversione, da quanto tu ti senta solo al mondo. Qualcuno cerca di
scoprire l’identità dell’utente oltre il visore, che da remoto
controlla le ruote del peluche. Qualcuno si diverte invece a
scandalizzarlo con il sesso, le torture, la pubblica umiliazione.
Il romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di una copertina bellissima, può contare anche su tematiche e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror: quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare, nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire nell’arco di un solo capitolo.
Spiccano allora le vicende di Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva, studentessa che si sta concedendo al ragazzo sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per scorrazzare sulla neve in libertà.
Il romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di una copertina bellissima, può contare anche su tematiche e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror: quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare, nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire nell’arco di un solo capitolo.
Spiccano allora le vicende di Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva, studentessa che si sta concedendo al ragazzo sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per scorrazzare sulla neve in libertà.
Non
sapeva nemmeno in quale città si trovasse, né come fosse il suo
padrone. Ai suoi amici aveva raccontato della neve, ma la cosa non li
aveva colpiti più di tanto. Dopo averlo deriso perché un culo da
principessa e un appartamento a Dubai erano meglio della neve, avevano
detto che tanto la neve non la si poteva mica toccare. Marvin sapeva
che sbagliavano: se riuscivi a trovare la neve, e spingevi abbastanza
forte il tuo kentuki contro un cumulo alto e soffice, ci lasciavi il
segno. Ed era come toccare con le dita l’altro capo del mondo.
Le
modalità sono sterminate e casuali. A scatola chiusa potresti
trovarti nell’appartamento di una figlia dei fiori con tendenze
nudiste, in una famiglia disfunzionale, perfino in un covo criminale.
A spasso fra le noie della routine, i segreti torbidi o le avventure
pericolose, meglio non perdere di vista il punto della situazione:
quello che sembra un innocuo videogioco di ruolo, in verità, è
reale. Troppo tardi per guardare altrove fingendo indifferenza? E per
denunciare? I kentuki sono dappertutto. Una moda che impazza, e fa
impazzire. In queste storie grottesche che oscillano dalla tenerezza
infantile alla cattiveria più disturbante, ci sono novelli
animalisti che formano autentiche squadre di liberazione, informatici
poveri in canna che fanno la cresta sulle vendite, teppisti dal cuore
d’oro che promettono di accessoriare i pupazzi – pensate alle
macchine truccate, per farvene un’idea – o di acquistarli non più
alla cieca. L’autrice ha dimenticato di darci il libretto delle
istruzioni. E nel corso della lettura tendiamo spesso a vedere il
bicchiere mezzo pieno, scordandoci che dietro queste adorabili
tecnologie ci sono persone in carne e ossa: permalose, umorali,
vendicative. A volte oggetto di devozione, altre di perversione.
C’era
davvero più gente interessata a guardare che a essere guardata? Non
c’era bisogno di sofisticate analisti di marketing, a Grigor
bastava un po’ di buon senso per trarre le sue conclusioni. Ma i
pro e i contro della scelta tra l’essere padrone o essere kentuki
non spiegavano mai in modo esauriente i vantaggi di ciascuna
posizione. Pochi erano disposti a esporre la propria intimità agli
occhi di uno sconosciuto, mentre a tutti piaceva guardare. Comprare
un dispositivo significava portarsi a casa un oggetto tangibile che
avrebbe occupato uno spazio reale, quanto di più simile a un robot
di compagnia il mercato potesse offrire; comprare un codice di
accesso, invece, voleva dire spendere una bella somma in cambio di
diciotto misere cifre virtuali, senza contare che alla gente piace da
pazzi tirare fuori cose nuove da scatole dal design sofisticato. La
parità di prezzo avrebbe mantenuto per un po’ una certa parità
nella domanda, ma secondo Grigor presto o tardi il rapporto si
sarebbe invertito a favore dei codici di accesso.
Possiamo
forse giudicare le loro scelte sbagliate? Chi non ha mai ricercato
una valvola di sfogo? Chi non vorrebbe sentirsi Dio per un giorno
soltanto? Da adolescenti, quando i peluche avevano già perso la loro
attrattiva su di noi, abbiamo preteso prima il Tamagotchi e poi The
Sims. Volevamo sentirci responsabili di qualcuno. Volevamo essere
onnipotenti.
A
morte il Tamagotchi allora: per dispetto, lasciavamo agonizzare
quell’animaletto immaginario in preda ai morsi della fame.
Al via l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Al via l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Depeche Mode – I Feel You
La curiosità è uno dei sette peccati capitali, ma con i libri purtroppo non posso farci proprio niente... Smaltiró qualche lettura, e lo leggerò 🤗🤗🤗
RispondiEliminaÈ un'ottima lettura fuori porto. Felice di tentarti.
EliminaSembra veramente bello e inquietante *^*
RispondiEliminaSuper inquietante. Ma in maniera sottile, alla Shirley Jackson.
EliminaMi intriga e mi inquieta questo Kentuky. Questo è un libro che leggerei volentieri!
RispondiEliminaUna riflessione attualissima e amara, ogni tanto ci vuole.
EliminaCopertina, sinossi, tua recensione.
RispondiEliminaOk caro Mr. Ink: lo recupero e lo leggo.
Grazie!!, Marina
Ahahahah, grazie mille!
EliminaCombo letale.