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martedì 12 dicembre 2023

Recensione: Il nemico - Foe, di Iain Reid


| Il nemico, di Iain Reid. Rizzoli, € 18, pp. 256 |

Non sono un lettore che ama la fantascienza. Rifuggo le navicelle spaziali e le guerre intergalattiche, preferisco le atmosfere intime agli effetti speciali. C'è una fantascienza, però, che mi piace. Quella che parla non degli extraterrestri, ma di noi: alieni, spesso, gli uni per gli altri. Fa parte di questo filone, purtroppo meno nutrito di quanto spererei, anche il nuovo romanzo di Iain Reid. Dopo il cervellotico thriller psicologico che ha ispirato l'ultimo capolavoro di Charlie Kaufman, l'autore canadese torna in libreria e presto anche al cinema con la storia di un'invasione. Junior e Hen, sposati da sette anni, vivono immersi nelle campagne del Midwest quando un paio di fari verdi squarciano la notte. Alla loro porta bussa un burocrate vestito di tutto punto, Terrance, che comunica alla coppia l'esito di una misteriosa lotteria. Penseremmo subito a Shirley Jackson, se non fosse per la svolta avveniristica in agguato: il marito, infatti, è fra i fortunati prescelti per le colonizzazione di un nuovo pianeta: la moglie resterà a casa, in compagnia di un rimpiazzo robotico ancora da mettere a punto. Precipitiamo, a questo punto, in un episodio degno delle migliori stagioni di Black Mirror: perché a dispetto della narrazione pacata, delle atmosfere placide e sonnacchiose, l'inquietudine serpeggia sottopelle. E scricchiola, dietro le pareti di una casa improvvisamente violata.

Non riceviamo visite. Non qui.

Costretti a tenere il segreto, resi partecipi di uno stadio successivo dell'evoluzione umana, i protagonisti sono formiche sotto la lente di ingrandimento di Terrance. Logorati dall'invadenza dell'ospite, sono monitorati notte e giorno tramite interviste che lentamente diventano interrogatori. Han diventa sospettosa, distante. Junior, confuso, stringe i pugni per difendere la loro vecchia routine. Ma cos'è, in fondo, la normalità? Prima di Terrance erano davvero così felici? Con una prosa sommessa e senza fronzoli, vicina alla narrativa di frontiera, Reid scrive una storia ambigua sulla solitudine, sui rapporti di genere, sul terrore del cambiamento. Isola i suoi personaggi in un limbo snervante, fatto di campi di colza e pollai, e mette a punto un esperimento antropologico che pone tutto in discussione. Il colpo di scena c'è, vero, ma non sconvolge. A spiazzare è piuttosto il risveglio delle coscienze di uomini e donne guidati dal senso pratico, senza ricordi né desideri, che si affacciano angosciosamente sul futuro e per la prima volta si soffermano sul presente. Con la consapevolezza di essere, nonostante le tutto, incontrovertibilmente vivi. Serve allora un'altra lotteria, un'altra missione, per conquistare il proprio “spazio”?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Baby, It's Cold Outside

venerdì 7 febbraio 2020

And the Oscar goes to Mr. Ciak: 1917 | Jojo Rabbit | Piccole donne | Le Mans '66

Ogni anno tra i registi in lizza si disputa una gara alternativa: chi ce l’ha più lungo, il piano sequenza? Dopo i recenti vincitori Chezelle e Cuaròn, Mendes alza ulteriormente l’asticella girando un intero film in piano sequenza – anche se, per essere precisi, due stacchi di montaggio dichiarati ci sarebbero. La trama è presto detta. Una coppia di soldati inglesi, di stanza in una bellissima Francia assediata, sono incaricati di portare una lettera a un superiore per scongiurare un attacco già pianificato: il nemico, infatti, ha un segreto asso nella manica. Sempre di corsa, i giovani tagliano in due una terra di nessuno: tra cadavere rosicchiati dai ratti, aerei a picco e ruderi invasi dai fiori di ciliegio, la macchina da presa non li perderà d’occhio. L’Oscar alla regia è presto servito. E meritano lo stesso trattamento fotografia e scenografie, che soprattutto nella fuga notturna del protagonista ci regalano un incubo di fuoco degno di un dipinto espressionista. Ma se visivamente il film si conferma una delle cose più splendide e pirotecniche del cinema contemporaneo, dal punto di vista narrativo non aggiunge niente di nuovo al filone. L’emozione scarseggia. Godibile e appassionate, ha più tecnica che cuore, e dal regista di American Beauty e Revolutionary Road sarebbe stato lecito aspettarsi un’impronta maggiormente autoriale. Troppo esile nella scrittura, la guerra di trincea secondo Mendes è una parentesi piena di orrore e meraviglia, ma lo spettatore è così occupato ad ammirare i volteggi della macchina da presa da non importarsene del resto. Baciato dalla fortuna, tuttavia, il film riesce a non inciampare, a non affannarsi né ad affannare, grazie a figuranti d’eccezione e a una magnificenza che distrae dai vizi di forma sparsi. L’effetto videogioco, per quanto esaltante, è dietro l’angolo come una mina antiuomo. (6,5)

L’antisemitismo raccontato come in una fiaba: vent’anni fa, con risultati indimenticabili, lo aveva fatto il nostro Benigni. Il vulcanico Taika Waititi, reduce dai successi dell’ultimo blockbuster, punta a un target simile: i toni restano leggeri e trasognati, ma il cambiamento avviene nel punto di vista. La voce narrante, infatti, appartiene a un aspirante nazista. Al centro di una prova da applausi, che ne fanno presto il migliore di un cast di stelle, il piccolo protagonista è una contraddizione: un condensato di rabbia e dolcezza, che studia la morte ma cerca un amore da farfalle allo stomaco. Semplicemente adorabile, fantasticherie prive di logica a parte, si scopre confuso e perduto in un mondo in cui il Fuhrer non è il migliore degli amici. La maturazione passa dalle parole di una mamma coraggiosa, che sfoggia le scarpine da ballo e i lineamenti incantevoli della Johansson, e attraverso l’apertura verso il diverso – un’ebrea da nascondere –. I temi: l’insensatezza dell’odio, il candore degli innocenti, la forza dei pavidi. Più che a Benigni, ci si ispira allora ai mondi di Chaplin e dei Monthy Pyton. La commistione di sorrisi e barbarie regalerà risvolti shock nel finale. Ma dov’è l’innovazione di cui si legge, se i colori appartengono ad Anderson e la colonna sonora comprenderà la solita Heroes? Checché se ne dica, Jojo Rabbit è proprio la favola satirica che immaginavamo a scatola chiusa, arrivata in tempo per gli Oscar e la Giornata della memoria. Ma è un difetto non risultare né inferiore né superiore alle attese? Essere più grazioso che bello? In ogni caso gli si vuol bene, anche se come l’altrettanto edificante Green Book dovesse spuntarla ai premi. (7)

È una storia che conosco in tutte le salse, sarà che a casa mia le sorelle March sono state un’istituzione. In particolare di Jo, scrittrice indomita e ribelle, ho sentito parlare abbastanza da considerarla una di famiglia. Giunta all’ennesima trasposizione non richiesta, la storia di formazione firmata dalla Alcott non aveva segreti per me. E  qualcos’altro da dirmi? Rifacimento guardato all’inizio con scetticismo, dal momento che il sopravvalutato esordio della Gerwig non mi aveva convinto, Piccole donne avrebbe potuto farmi storcere il naso o annoiarmi, ma non me ne ha dato il tempo. Travolgente e gioioso, sempre scapigliato e di corsa, ha la stessa indole della sua eroina: è rumoroso, caotico e logorroico, e nella fretta si mangia purtroppo situazioni (l’attrazione verso per Garrel), personaggi (la cagionevole Beth), scene madri (il lieto fine sotto l’ombrello, qui rimaneggiato con intelligenza). Insomma: non è il period drama perfettino che ci si aspetterebbe. Rimodernato a dovere senza però mai tradirsi, il film accentua la vena femminista del romanzo. Indipendenza e amore sono inconciliabili? Se lo domanda una superba Ronan, e durante la visione le fa da controcanto la Pugh: sorella minore non così capricciosa, non così sciocca, che si rende protagonista di una maturazione inattesa. Se il cast è inappuntabile, il difetto è il montaggio frammentario. Lungo e un po’ raffazzonato, il secondo lungometraggio di Greta si muove su due piani temporali che confonderanno gli spettatori neofiti e anticiperanno le relazioni tra i personaggi – soprattutto il due di picche dato a Chalamet, con un ruolo che gli calza a pennello –, rischiando di far perdere interesse strada facendo. I difetti potrebbero battere i pregi. La trasposizione non è né la più fedele né la più coerente. Eppure, complice la bella atmosfera, è la più passionale, disordinata e sincera. Come solo certi rapporti di sangue, tra donne soprattutto, sanno essere. (6,5)

Il titolo originale, al solito, dice tutto con poco. Si parla di una storia vera, di una sfida all’ultima accelerata. Da un lato abbiamo la Ferrari, che colleziona vittorie innumerevoli sulle piste da corsa. Dall’altro la Ford, marchio che fa ancora fatica a imporsi nell’ambiente dei circuiti. Fino a quando la casa automobilistica, spinta dal desiderio di stare al passo, non ingaggia la strana coppia composta da Damon e Bale: amici-nemici, i due lavoreranno a un’auto da portare in Francia. Se il primo è misurato e perbene, il secondo è un meccanico attaccabrighe che non conosce freni: soprattutto al volante. Si punta a Le Mans; a una gara lunga ben ventiquattr'ore, in cui si battono gli avversi per sfinimento. Guida Bale, sempre camaleontico a dispetto di un copione che questa volta lo vorrebbe più naturale che altrove, ma dirige James Mangold: regista di pellicole solidissime e fortemente americane – l’ultima fu Logan –, qui è purtroppo lontano dal mio genere. Annoiato dalle gare automobilistiche e dai film d’azione, spossato da lunghezze che si aggirano intorno alle due ore e trenta, non sono andato d’accordo con la sua ultima fatica. Tralasciando la mia ignoranza in materia, però, non posso fare a meno di domandarmi cosa ci faccia nella lista dei Miglior film la versione politicamente corretta di Fast and Furious. Furbetto, lungo e disneyano, Le Mans '66 è un intrattenimento inferiore ad aspettative già scarse di per sé. Mediocre, nel senso di tremendamente nella norma, ha antagonisti da cartone animato – vedasi il pessimo Girone – e scarsa presa emotiva, a differenza dell’incredibile tour de force che fu Rush. Da spettatore italiano, per altro, per tutto il tempo ho tifato invano per una rimonta della Ferrari. Qual è il colmo per un film sulla velocità? Non schiacciare sull’acceleratore. Non uscire mai dal tracciato, seguendo le mosse di una guida tutt’altro che sportiva. (5,5)

sabato 24 agosto 2019

I film che leggeremo: grandi classici

Little Women
25 dicembre 2019 (USA)
Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Laura Dern, Meryl Streep, Timothée Chalamet, Louis Garrel. Dirige Greta Gerwig, ormai regista a tempo pieno. Sceneggia Sarah Polley, regista di gioielli come Away from Her e Take This Waltz. Su carta, sembrerebbe tutto così indie; tutto così perfetto. Ma questo connubio, purtroppo, è ben più convenzionale del previsto. Attesissimo dai più, è la nuova – be', si fa per dire – trasposizione di Piccole donne, classico di Louisa May Alcott di cui i miei coetanei ricorderanno la trasposizione del 1994 o la miniserie BBC di appena due anni fa. Se ne sentiva davvero il bisogno? A giudicare dal trailer, fedele alle atmosfere originali e senza guizzi, la risposta è negativa. Mi porterà in sala il cast, trainato da una Ronan con un personaggio – l’indimenticabile Jo – che potrebbe facilmente avere le simpatie dell’Academy.


Pinocchio
25 dicembre 2019
Sono cresciuto con il cartone targato Disney e, da bambino, in biblioteca, avevo preso in prestito la videocassetta dello sceneggiato di Luigi Comencini: insuperabile, se chiedete agli spettatori di qualche generazione fa. Negli anni delle elementari, poi, in gita con la classe in completo siamo corsi a vedere la trasposizione di Roberto Benigni: uno sfacelo ad alto budget, che tale mi era parso anche alla tenera età di otto anni. Ci riprova il fidatissimo Matteo Garrone, nonostante Guillermo Del Toro ne abbia già annunciato da un po’ la sua personale versione. E lo aiutano un cast interessante – questa volta, per fortuna, Benigni è passato dall’altra parte: interpreterà Geppetto – e un’estetica burtoniana, che rendono l’attesa spasmodica. Soltanto a fine visione, magari, ci faremo la classica domanda: l’ennesimo live action, a che pro?


Cats
Natale 2019
È uno dei musical più fortunati e longevi di Broadway. Ma in pochi, forse, sanno che a ispirare il genio di Andrew Lloyd Weber – anche autore del Fantasma dell’opera, Evita e Jesus Christ Superstar – c’è una raccolta di poesie firmata dall’insospettabile T.S . Elliot: Il libro dei gatti tutto fare. In scena dagli anni Ottanta, noto anche ai profani del musical grazie alla struggente Memory, è diventato un film a quasi quarant’anni dalla prima. Pronto a conquistare le sale sotto Natale – e la stagione dei premi, a giudicare dal regista e dal cast: Tom Hooper dirige, infatti, le stelle Judi Dench, Idris Elba, Ian McKellen e Jennifer Hudson –, sta facendo già chiacchierare per l’aspetto dei suoi gatti antropomorfi. Secondo voi, sono affascinanti o soltanto spaventosi? Creepy con sentimento, lo si andrà a vedere.


Ophelia
28 giugno 2019 (USA)
Essere o non essere, questo è il problema. Folle e affranto, con un teschio in mano, immaginiamo il Principe di Danimarca così: solo su un palcoscenico buio. Protagonista di infinite trasposizioni, trova un nuovo punto di vista nell’era del novello femminismo: quello della sua fidanzata nell’ombra, Ofelia. A rubare la scena al giovane George MacKay (mentre i ruoli infidi della madre e dello zio spetteranno a Naomi Watts e Clive Owen) sarà la bellissima Daisy Ridley. Lontana dai mondi di Star Wars, come se la caverà con un personaggio pensato dal Bardo e immortalato in un capolavoro di Millais? La sua tragedia finirà allo stesso modo, sott’acqua? Discretamente accolto al Sundance e in cerca di una data di distribuzione italiana, potrebbe essere un rimodernamento di cui aver fiducia.


Vita & Virginia
13 febbraio 2019 (USA)
Purtroppo non l’ho mai letta, ma ho imparato a conoscerla e stimarla grazie alla visione di The Hours. Interpretata da una Nicole Kidman da Oscar, Virginia Woolf appariva geniale e sfuggente. Infelice, accanto a un marito di facciata, ma già anticonformista. Se nel film di Stephen Daldry si parlava della stesura di Mrs. Dalloway, nel più modesto Vita & Virginia si ricordano la pubblicazione di Orlando – caposaldo della narrativa LGBTQ – l’appassionata storia d’amore fra la donna e la poetessa Vita Sackville-West. Entrambe sposate, costrette ad amarsi di nascosto, ci hanno regalato un epistolario recentemente pubblicato in Italia dall’editore Donzelli. Ma il film, che attinge in parte alla loro corrispondenza, interessa soprattutto per la performance di Elizabeth Debicki: da applausi, pare, al contrario del taglio televisivo del tutto.


Martin Eden
4 settembre 2019
Dici Jack London e pensi immediatamente ai romanzi d’avventura, a Zanna Bianca. Istruzioni per farcela in situazioni difficili, al limite della sopravvivenza. Dici Jack London e, ti accorgi, lo conosci poco e superficialmente. Il suo romanzo più apprezzato, finito subito in whishist, è Martin Eden: la storia di un marinaio che durante una rissa difende il rampollo giusto e, accolto in casa sua come ospite d’onore, finisce per innamorasi della sorella di lui, Ruth. Ci si sposta eccezionalmente in Italia, prima al Festival di Venezia e poi al cinema. Cambia qualche nome, vero, ma non il messaggio di fondo: la riflessione amareggiata su un sentimento messo in dubbio dalle disparità sociali del primo Novecento. Il film di Piero Marcello, liberamente tratto da London, schiera in campo Luca Marinelli. Uno che non sbaglia un colpo, uno con lo sguardo malinconico adatto al ruolo dell'eroe del titolo. 


Mademoiselle
29 agosto 2019
Non è un classico, no, eppure non sfigura affatto in questa carrellata d’abiti d’epoca e nomi altisonanti. Ispirato a Ladra, straordinario romanzo gotico di Sarah Waters letto prima della fondazione del blog, trasferisce l’intreccio sensuale e pericoloso della scrittrice britannica nella Corea invasa dai giapponesi. Presentato al Festival di Cannes, raggiunge scandalosamente le sale soltanto a fine agosto. Com’è possibile che un film di Park Chan-wook passi così in sordina? Come giustificare, inoltre, un clamoroso ritardo di quattro anni – si tratta infatti di una produzione del 2016? La storia, per fortuna, distrarrà i fedelissimi con misteri ancora più grandi e scene di sesso bollenti. 

venerdì 10 agosto 2018

I film che leggeremo: Oscar-Friendly

Il primo uomo 
31 ottobre 2018
Dalle stelle di City of Stars alla luna. Dal musical al biopic a tinte action, sempre facendo tappa presso quel Festival di Venezia, a fine agosto, che già aveva portato fortuna la prima volta. Ryan Gosling è Neil Armostrong, nel film ispirato all'omonimo bestseller di James R. Hansen. La curiosità, onestamente, questa volta vola bassa. Genere abbastanza consolidato da essere venuto a noia, cast che poco osa – la moglie di Armstrong è Claire Foy: guarda caso, compagna di vita del sofferente Andrew Garfield in Ogni tuo respiro – e, unico grandissimo pro, un instancabile Chazelle che punta al firmamento e all'en plein.


Se la strada potesse parlare
30 novembre 2018
Chazelle e Jenkins sono destinati ancora a incontrarsi. Dopo la clamorosa gaffe di due anni fa, si spera vivamente che a fare da arbitri non saranno Beatty e Faye Dunaway. Il regista di Moonlight torna, e un trailer montato ad arte lascia intuire che in ballo abbia stile, impegno e forti emozioni. Adatta un romanzo di James Baldwin, prossimamente in ristampa grazie a Fandango Libri, ma abbandona il mondo LGBT – lo scrittore afroamericano, eppure, è noto soprattutto per il cult gay La stanza di Giovanni – senza tralasciare il razzismo, gli amori proibiti, le strade. Che parlano, sì, e in anteprima al Festival di Toronto forse ci racconteranno una storia destinata a far breccia.


Suspiria
2 novembre 2018 (USA)
In principio c'era Suspiria De Profundis. Romanzo-confessione del giornalista Thomas de Quincey che da un viaggio nell'Italia dell'Ottocento portava con sé un lungo incubo e la conoscenza delle tre Madri. Dario Argento aveva dedicato un film a ognuna di loro. Il primo, a cui avrebbero seguito gli imperfetti Inferno e La terza madre, era Suspiria: cult irripetibile, pronto a farsi remake. Non si storce il naso, però, se a occuparsene è l'esteta Guadagnino. I personaggi mantengono i nomi originali, il cameo di Jessica Harper appare quanto mai doveroso ma, titolo a parte, i due film sembrano avere poco altro in comune. Cambia il taglio – freddissimo, alla Von Trier –, cambia la durata – sfiorerà, pare, le tre ore complessive – e cambia il pubblico, se le streghe di Suspiria sono pronte non troppo a sorpresa a infestare festival solitamente chiusi al genere. Getterà un incantesimo sulla Laguna? E sull'Academy, pronta nel 2019 a mettersi in gioco con una categoria aggiuntiva: quella dei film popolari?


Beautiful Boy
12 ottobre 2018 (USA)
Com'è che si dice? Stagione dei premi che vai, Timothée Chalamet che trovi. Lo straordinario Elio di Chiamami col tuo nome, vincitore morale agli Oscar, non vuole diventare una meteora di passaggio. Tanti progetti nel cassetto – Allen, Villeneuve, Gerwig – e altrettanta voglia di lasciarsi nuovamente stupiti e commossi davanti al primo film americano del regista dello struggente Alabama Monroe. Una storia vera, di padri figli e dipendenze da stupefacenti, in cui Chalamet è il bellissimo (e problematico) ragazzo del titolo, mentre il versatile Carrell è il genitore imperturbabile che vorrebbe ricondurlo sulla retta via: quella che porta a casa. I fortunati lo vedranno sempre a Toronto. Gli altri, aspettando l'uscita italiana, lo leggeranno in libreria con Sperling Kupfer.


Mary Queen of Scots
8 novembre 2018
Si sono incrociate in tempi recenti sul Red Carpet: nominate l'una per Lady Bird, l'altra per Tonya. Bionde, giovani e bravissime, Saoirse Ronan e Margot Robbie condividono il set e la corona nel dramma in costume Mary Queen of Scots. Cugine, amiche-nemiche, rivaleggiano per il regno e per l'Oscar: si trasformano. Se a Soirse donano la treccia rossa e la fierezza dell'appassionata Mary, la bellissima Margot raccoglie il testimone di Cate Blanchett, s'imbruttisce e diventa Elisabetta I. Il romanzo di John Guy porta il nome della prima, ma a giudicare almeno dall'intensità del trailer – con quella sovrana inedita: stempiata, incompresa, sterile – potrebbero spuntarla a sorpresa le fragilità della Non protagonista.


Boy Erased
22 novembre 2018
Adolescenti omosessuali da convertire in nome della fede nell'Altissimo. Se ne era già parlato in The Miseducation of Cameron Post, coming of age vincitore dell'ultimo Sundance Film Festival. Il tema shock sarà lo stesso nel ritorno alla regia dell'attore-regista Joel Edgerton, che per l'occasione adatta di proprio pugno le memorie di Garrard Conley in uscita per le Edizioni Black Coffee e guida un cast stellare con Nicole Kidman e Russel Crowe, gentitori preoccupati, e un Lucas Hedges che alla verde età di ventidue anni indovina come un rabdomante ruoli su ruoli. Teniamolo d'occhio anche nel dramma Ben is Back, in cui è diretto dal padre John e affiancato da una ritrovata Julia Roberts.


The Wife - Vivere nell'ombra
4 ottobre 2018
Le proverbiali donne dietro i grandi uomini. Le attrici fuori classe, sfortunatamente nell'ombra. Colpa dell'età che avanza e di Hollywood che fa di conseguenza marcia indietro, o semplicemente dei progetti sbagliati? Glenn Close e Joan, la protagonista dell'omonimo romanzo di Meg Wolitzer a ottobre in libreria per Garzanti, hanno più di qualche tratto in comune. Che The Wife, un Big Eyes ambientato tuttavia nello spietato mondo della letteratura, possa essere il loro canto del cigno come giura già qualche bookmaker? 

mercoledì 14 febbraio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Lady Bird | The Greatest Showman

Christine, non particolarmente fortunata, non particolarmente brillante, non particolarmente graziosa, vive dalla parte sbagliata delle rotaie nella sonnacchiosa Sacramento dei primi anni Duemila. Ha diciassette anni, quasi diciotto, e tutto sembra essere possibile. La fine del liceo – un'intransigente scuola cattolica con divise inamidate, il crocifisso in aula e una rigida divisione fra maschi e femmine – significa allontanarsi da casa, scegliersi da sé il destino e l'università. Invia così domande disperate a college fuori mano e fuori dalle sue modeste possibilità. Si barcamena fra l'allestimento di un musical scolastico in cui no, non ha il ruolo principale, e la scelta del vestito per il ballo di primavera. Si divide fra l'amore per Lucas Hedges, represso rampollo di buona famiglia, e quello per il chitarrista Timothée Chalamet, le cui pose da ribelle romantico sono un'illusione. Aspetta la perdita della verginità, l'ultima campanella, le risposte a tutti i suoi perché. Da un lato: l'amara realtà dei fatti. Dall'altro: il desiderio di allontanarsi a ogni costo da una provincia che le sta stretta. Come fare, senza però avere un talento particolare o il viso giusto? Irritante, difficile da voler bene, Christine si sente dappertutto fuori posto: come me. Ha un rapporto conflittuale con l'apprensiva Laurie Metfcalf, madre a digiuno di scene madri: come me. Fa di tutto per piacere agli altri, perfino fingere, per poi tornare a scegliere la vecchia migliore amica e la fidata compagnia della solitudine: come me. La protagonista, che si firma “ragazza uccello” per quel suo naturale desiderio di spiccare il volo, sfortunatamente somiglia alla gemella che non ho soltanto su carta. Manca per tutto il tempo l'empatia e, ogni tanto, ho rischiato di trovare questa Saoirse Ronan col rimmel sbavato – più leggera di quanto siamo abituati a vederla, non necessaria più brava – antipatica e basta. Succede il tutto e il niente di un certo cinema indie e l'acclamato Lady Bird, spesso, sembra girare a vuoto. Abbozzando situazioni e personaggi per poi troncarli malamente nel finale. Dirige e scrive Greta Gerwig, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, ma la musa dell'indigesto Noah Baumbach non cancella in novanta minuti le arie hipster che si porta dietro; gli strascichi del mio fondato pregiudizio. Una nomination per la miglior regia che sa tanto, troppo di politicamente corretto. Una miglior sceneggiatura originale che brillerà forse per onestà e freschezza, ma che originale proprio non sembra. Perché Lady Bird sì, mi domando infatti, e il sottovalutato The Edge of Seventeen, con una Steinfeld altrettanto intensa e scostante, no? Perché se lo avessi scoperto sottotitolato e misconosciuto su un sito streaming, senza grandi speranze, probabilmente lo avrei consigliato anch'io sottovoce? Commedia generazionale con una vetrina d'eccezione – quella del cinema d'autore – che non penso le spetti, la piccola Lady Bird vorrebbe puntare troppo in alto. Ho seguito il suo volo per un po', ma l'ho persa di vista. Mi sono perso io, forse. Non lasciando che, in cerca di un'altra casa, dell'ennesimo plauso scontato, facesse nido nel mio cuore scettico. (6)

Che belle, ho pensato con un briciolo d'invidia, quelle vite che sanno trasformarsi in musical. Quante possono? Quelle che devi inventare a tavolino, altrimenti sarebbero troppo simili alle nostre: senz'arte né senza colore. Quelle di chi visse un'avventura, una favola, che non poteva che diventare spettacolo spettacolare. P.T. Barnum, professione amabile canaglia, affabulava, ingannava e incantava. Imprenditore nella disincantata New York del tardo Ottocento, cacciatore instancabile di sogni nel cassetto, investì il denaro che neppure aveva prima in un museo delle cere, poi in un circo all'avanguardia, infine per salvaguardare il talento della cantante svedese Jenny Lind. Hugh Jackman – bello nella sua divisa da domatore, sorridente e nel suo – canta e balla sui tetti, e fra le lenzuola appese ad asciugare e le stelle vede un destino alternativo per due bambine che non dovrebbero crescere a digiuno di speranza; per una Michelle Williams non troppo convinta, non troppo convincente, strappata a una famiglia facoltosa e condannata a un'esistenza approssimativa in nome dell'amore. Sempre cantando, sempre ballando, si convince quel Zac Efron di cui, dopo High School Musical, è proprio un piacere risentire la voce a fare a metà. Si cerca fra i reietti, i diseredati, i diversi, e si dà loro la libertà di esprimersi. Di farsi deridere, ma da un pubblico pagante: mostri con un cuore e un talento tutto da svelare. Se romantici ma osteggiati, ed è il caso di un Efron vittima del fascino esotico di Zendaya, ci si innamora di una trapezista di colore anche a costo di riscrivere le stelle – il loro coreografico duetto a mezz'aria è forse il momento musicale più emozionante e riuscito assieme a This is me, commovente inno di una donna barbuta che diventa un po' anche il nostro. Se accecati dai riflettori, e invece è il caso di un Jackman non senza macchie, si pretende di più: perdendo di vista gli obiettivi iniziali e la magia che tutto muove. Vagamente disneyano, The Greatest Showman non convince proprio allora. Quando scopre una punta di disincanto, i matrimoni messi in crisi da una Ferguson capricciosa (e doppiata), la vita vera che a un musical conciliante proprio perché leggerissimo poco si addice. Fluido nei volteggi della macchina da presa e dei corpi, nel montaggio, orecchiabilissimo e sfarzoso ma tutt'altro che memorabile, il film dell'esordiente Gracey non è un ritorno al Moulin Rouge né sa bissare il miracolo del novello La La Land. Però poco importa: che scenografie, che luci, che facce, che voci. Quanta gentilezza, quanto incanto, in questo freak show. Posso farne parte anch'io?, domandi. Trovandolo grande comunque, anche se non all'altezza del superlativo del titolo: una bugia bianca, con stile, come quelle di mastro Barnum. (6,5)

venerdì 29 gennaio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Steve Jobs, Joy, Brooklyn

Migliore attore, Migliore attrice non protagonista
Faccio parte di una generazione recente, quella cresciuta con un computer in casa. Era il 2001 e avevo più o meno sette anni, quando mio padre tirò fuori dagli scatoloni il primo monitor, la prima tastiera e il primo mouse con cui, pian piano, avrei imparato a interagire. Ma, stranezza grande per un blogger, alla tecnologia non sto granché appresso. Mi basta un portatile con tutti i tasti al posto giusto e una connessione internet decente. Mi basta un cellulare che riceva chiamate e invii SMS. Non ho un solo prodotto Apple, tra le mie quattro mura, né sento il bisogno di averlo: sono belli ma cari e, per il modesto uso che ne faccio, hanno fin troppe funzioni. Che farci? E perché guardare l'ultimo film su Steve Jobs, se non sono tra coloro che l'hanno fatto arricchire e se, in passato, avevo accuratamente evitato al cinema I pirati della Silicon Valley e il pare evitabile biopic con Ashton Kutcher? Più che altro, per dovere: sono stato guidato dalla presenza di un grande cast e dal lavoro di un grande regista; soprattutto, dal bisogno di arrivare preparato alla notte degli Oscar. Del padre della Apple, ricordo i funerali di qualche anno fa: se l'era mangiato un brutto male e, su Facebook, in tanti avevano voluto ricordarlo con il maglione a collo alto, gli occhiali sottili e il tormentone che faceva: “Stay hungry, stay foolish". Mi hanno incuriosito, poi, le polemiche che non conoscevo e le questioni burocratiche in cui non mi addentrerò: qualcuno gli dava del genio – parlano di un moderno Leonardo Da Vinci, qui e lì – e qualcuno del ladro senza scrupoli. Sullo Steve Jobs di Danny Boyle, ingiustificato fiasco al botteghino, ne dicevano di cotte e di crude ma, solo da poco, blogger fidati hanno detto tutto quello che c'era da dire a riguardo, senza spaccare in quattro il capello. Jobs, nel privato, era così o non era così? Sorkin, mirabile drammaturgo, per il suo ritratto si è preso più di qualche licenza poetica? Francamente, non mi interessa. Francamente, non m'interessava neanche guardarlo, l'ennesimo film su Steve Jobs. In due ore, ho conosciuto meglio l'uomo? Ho capito finalmente cos'ha fatto e cosa no? So riassumervi così, su due piedi, perché lo si venera e perché lo si scredita? No, no e no. Ho assistito a due ore di gran cinema, però, e posso dirmi in paradiso. Come in La teoria del tutto – in cui, tra i tanti randez vouz dei due ottimi protagonisti, questa benedetta teoria non l'avevo mica capita -, in Steve Jobs non ci si addentra nel tecnicismo, ma nel lato umano (e disumano) dell'uomo e dell'inventore. Biopic atipico, parziale, per nulla agiografico: non in ordine cronologico. Tre atti, come a teatro, e quindici anni in pillole: il lancio Macintosh, la fondazione di quella NeXt dalla vita assai breve, l'iMac. I backstage, tutto ciò che non sapevamo, giochi di simmetrie perfette: Steve, negli anni, alle prese con gli amici (Seth Rogen), i nemici (Jeff Daniels) e una figlia che cresce lontano da lui. A cordinare affari e affetti, la fedele assistente dell'adorabile Kate Winslet, che gli fa da segretaria, manager e coscienza part-time. Il tutto, verso un finale toccante, all'insegna dei flash, degli applausi scrocianti, delle parziali riconciliazioni. Quanta invidia, diciamolo, per questo attore impegnato e versatile, che è addirittura più bravo che bello – alla faccia mia? La somiglianza non è così forte, ma è questione di approccio al ruolo, di spirito. Fassbender, tra i miei preferiti nella competizione, dal reale Jobs prende lo spirito d'onnipotenza, il cuore freddo, la cura maniacale. Non perde neanche una battuta, prende fiato come un rapper battagliero. O un sommozzatore. C'è chi suona gli strumenti, dice Jobs ai collaboratori che lo accusano di essersi appropriato delle loro idee, e c'è chi dirige l'orchestra. Al direttore manca forse il talento? Un impianto fortemente teatrale, dunque, dialoghi pazzeschi e un personaggio dalla levatura shakespeariana. I personaggi non sputano una parola e, grossomodo, parlano, parlano, parlano. Non c'è il tempo, però, per la noia: la scrittura fiume di Aaron Sorkin, più che una garanzia, è una goduria. Acuta, travolgente, di classe. E ho capito perché, agli scorsi Golden Globes, una vittoriosa Winslet si era detta, nel discorso di ringraziamento, tanto ammirata dalla tempra d'acciaio e dallo sterminato copione di Michael Fassbender: d'acciaio e sterminato, appunto, per essere all'altezza. (7,5)

Miglior attrice protagonista
Una casa che ospita quattro generazioni di donne e la voce dell'anziana matriarca che le descrive, incantate davanti alle soap opera in tivù: ora alla ricerca ora del principe azzurro, ora di un piano di riserva. Come in una favola anni novanta. A inorgoglirla, quella nipote bella e intraprendente che è giovane ancora, ma ha un vissuto intenso – due figli piccoli, una doppia ipoteca sulla casa e, ospiti nel seminterrato, un ex marito e un padre tornato all'ovile – e che, sin da bambina, si muoveva in quella cornice di signore e guai con lo spirito dell'inventrice. L'immaginazione fervida e le mani miracolose. L'ultimo film dell'incensato David O'Russell, tornato appositamente per prendere posto a sedere durante la stagione dei premi, con l'immancabile cast di fedelissimi, è una strana commedia che ci racconta la vita e i miracoli di Joy Mangano, casalinga disperata a cui si deve la prodigiosa scoperta della Miracle Mop. Chi? E, soprattutto, cosa? Un incipit interessantissimo, da saga familiare, apre la fiaba a lieto fine di una donna che, dal nulla, si costruisce un nome, una solida notorietà, una pagina su Wikipedia e un biopic sui generis che – con le sue straordinarie presenze – non è sfuggito alla critica e al pubblico. Sebbene, questa volta, il regista non abbia replicato il successo o i calorosi consensi di Il lato positivo, pellicola da me non particolarmente apprezzata. La domanda, spontanea e quantomai ragionevole, è una sola: a chi interessa la fortunata ascesa di questa Joy, lontana parente di Giorgio Mastrota? O'Russell, con toni pimpanti ma discontinui e, a lungo andare, stancanti, firma l'ennesima vicenda sul sogno americano. Una storia piccina, ma dalla morale universalmente valida, con una Lawrence sempre in tiro che tenta di essere abbastanza grande per tutto e tutti. Ma non ha l'età – i rimpianti, la disillusione e i sogni alternativi lasciamoli agli adulti, per favore – e, nel tentativo di riempire i vuoti di comprimari sottotono, mette un'irrealistica grinta nella sua performance, fin troppo carica. Non manca infatti il momento topico in cui la nostra eroina, disperata, impugna un paio di forbici per dare un taglio netto alla chioma – e scoprirsi più figa di prima. E, nella scena finale, eccola lì che marcia, con il vento tra i capelli e gli occhiali da sole; a latitare, giusto una macchina che esplode sullo sfondo. Fa sorridere sotto i baffi, ma involontariamente, il parlare di moci e scope rotanti con toni tanto enfatici e solenni. C'è in ballo la pulizia dei pavimenti, la lotta allo sporco ostinato. La Mangano non ha mica debellato la peste bubbonica, no? Di lodevole, gli scenari natalizi e le punte kitsch degli interni domestici: l'arredamento un po' pacchiano e, nella prima parte, gli incubi e i sogni di Joy in formato telenovela; la scrittura personale di un professionista del campo, che ci parla di televendite, brevetti e casi giudiziari da poco, come se fossero davvero cosa importante. Nella seconda parte, invece, con più adesione ai fatti che ai colori del surreale, Joy diventa una specie di prodottotino Lifetime. Una versione in rosa di La ricerca della felicità, in cui si segue una protagonista sull'onda del successo: da inventrice a presentatrice, fino a ritrovarsi a capo di una discreta impresa indipendente – il tutto, ovvio, senza sconciarsi un singolo boccolo biondo. Come per magia. (5,5)

Miglior film, Miglior attrice, Miglior sceneggiatura
Dovete sapere che, in anni e anni di film condivisi, in famiglia abbiamo coniato generi cinematografici su misura. Pensavate che i romanzi che, nel dubbio, definisco boh, né belli né brutti, oscuri, fossero una mia invenzione? Nello specifico, oggi, vi dirò di un'etichettà inventata da papà che, ancor prima di vederla, pensavo stesse bene a una pellicola come Brooklyn: dal cartone Lovely Sara, che forse conoscerete meglio per uno dei primi film di Cuaròn, La piccola principessa, nascono i prodotti del cosiddetto filone “Povera Sara”. Quelli vagamente dickensiani, su orfane spiantate e pure d'animo, a cui ne succedono di cotte e di crude, in città di altri tempi, prima del lieto fine desiderato. Brooklyn, su una giovane migrante di buon cuore nella New York dei primi anni cinquanta, fortunatamente – con sorpresa mia e del genitore pieno di inventiva - non racconta la vicenda accidentata, angosciosa e, in fondo, buonista che s'immaginava in partenza. Cosa c'è nella valigia di cartone di Eilis, fanciulla di sani principi e dalla bellezza ancora acerba, che lascia mamma e sorella, in una Irlanda non così religiosa o bigotta, all'insegna della terra promessa? Una punta di malinconia, che è inevitabile, positività e umorismo. Ovviamente, nel bagaglio a mano, viaggiano i sentimenti: ben riposti, trattati con garbo, essenziali e puliti, come in una commedia retrò con Audrey Hepburn. Il cuore che galleggia tra due mari e due terre, a metà strada, perché negli Stati Uniti c'è l'accogliente Tony – italiano che incarna il meglio di noi – e, nei pressi di Dublino, quel Jim che le ricorda chi non c'è più. Richiamata in patria per un imprevisto, Eilis dovrà capire, adesso, dov'è che è casa sua. Una Saoirse Ronan sempre più donna, sempre più brava – anche se equilibrio e giusta misura, in Eilis, si fanno meno ricordare della detestabile Briony di Espiazione, o della tribolata Susie di Lovely Bones – ci ospita, insieme ai caratteristi Jim Broadbent e Julie Christie, in un mondo in cui le ragazze, in pista, aspettavano che i ragazzi le invitassero a ballare e in un'epoca in cui, dopo le due guerra, c'era voglia infinita di vivere. I grandi magazzini, simbolo della modernità, luogo clou delle prime commedie a colori, e il fascino dai colori pastello degli anni cinquanta, in un romanzo dolceamaro, perciò, delicato e ironico, con un Hornby molto in forma, alla sceneggiatura, e due parti speculari. Nella prima, romantica e solare, i siparietti umoristici che nascono in un appartamento di giovani donne e l'insicurezza della protagonista – le sue prove, ad esempio, su come mangiare gli spaghetti, per non sporcare tutto di sugo in casa Fiorello – fanno bene alla testa e al cuore; nella seconda, con un ritorno forzato e un cenno di triangolo sentimentale, si rischia spesso di non comprendere le scelte amorose di un personaggio che, in corner, poi sa rimediare agli errori di percorso. Quanti drammi struggenti, nella storia del cinema, hanno descritto la condizione degli immigrati in terra straniera? Quanti sogni illusi nel bruciante In America, quante sofferenze nel tradizionale C'era una volta a New York? In Brooklyn, più lieto e coinvolgente del previsto, non ci sono i tipici fazzoletti bianchi, sventolati quando si parte o quando si arriva; non c'è la morsa allo stomaco. Il melò di John Crowley, autore del triste e intenso Boy A, ha la joie de vivre che non pensavi e che, eppure, gli si addice: come un costume nuovo, col sole, in un pomeriggio al mare. (7)