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lunedì 30 dicembre 2024

La mia top 10: Le migliori serie TV del 2024

10. Rivals – Disney Plus

Il sesso, gli scandali, la TV. Umorismo britannico e un trio in stato di grazia. Il guilty pleasure è servito.

9. Storia della bambina perduta – Rai Play

Lila e Lenù ci dicono addio. Con loro, si chiude una delle pagine più importanti della TV italiana.

8. Qui non è Hollywood – Disney Plus

Un agghiacciante caso di cronaca diventa una miniserie di impensata empatia, ingiustamente criticata dall’opinione pubblica. I tre protagonisti offrono le migliori interpretazioni dell’anno: altro che Hollywood.

7. Dostoevskij – Sky

I Fratelli D’Innocenzo dividono anche a puntate, con una serie di asfissiante cupezza, ma con un Timi talmente tormentato da ereditare a pieno titolo il distintivo dagli sbirri di True Detective.

6. Hanno ucciso l’Uomo Ragno – Sky

La leggendaria storia degli 883 per raccontare la provincia, gli anni Novanta, l’amicizia. Un feel-good movie lungo otto ore, perfetto anche per i non fan.

5. Kaos – Netflix

Gli dei, oggi. Intrighi, sesso e potere, per una trasposizione audace come nella tradizione di Luhrmann. Non eravamo pronti a questa ventata d’originalità: l'hanno cancellata dopo una sola stagione.

4. The Bad Guy – Amazon Prime Video

La serialità italiana e la mafia: storia di una lunga relazione. Mettete tutto in discussione, però, davanti a questa commedia nera che fa tramare lo Stato e le vene dei polsi. Lo Cascio è il Conte di Montecristo che né Niney né Claflin potranno eguagliare.

3. Baby Reindeer – Netflix

Una miniserie shock per svelare il più grande dei tabù: la vulnerabilità maschile.

2. Expats – Amazon Prime Video

Siete stanchi di vedere la solita Kidman – algida, manierata, noiosamente perfetta? Ammiratela qui, in un dramma lacerante tutto al femminile, in cui smarrisce il suo bambino a Hong Kong. Ma ritrova l’immensità di cui l’avevamo scordata capace.

1. L’arte della gioia – Prossimamente su Sky

È arrivata al cinema la scorsa estate, ma è attesa sul piccolo schermo al principio dell’anno nuovo. Preparatevi a essere sedotti. Spregiudicate e machiavellica, Golino conquista Cannes e consacra il talento di Tecla Insolia: è nata una star. 

mercoledì 11 settembre 2024

La letteratura in streaming: Kaos | Dostoevskij | Feud: Capote vs. The Swans

Cospirazioni, tradimenti coniugali, sangue, famiglie. Esiste forse intrattenimento più contemporaneo e accattivante di quello offerto dalla mitologia greca? A partire da una intuizione elettrizzante, Kaos porta in scena i personaggi più amati del mito calandoli nella Creta odierna. Gli dei esistono, sono tra noi e, come sempre, mettono lo zampino negli affari mortali. C'è chi, però, ha smesso di temerli. Il Zeus di un esilarante Jeff Goldblum trema di rabbia e frustrazione, con la segreta paura di essere esautorato. Chi sta tramando contro di lui? Come può gestire la convivenza forzata tra cretesi e troiani, se ha difficoltà perfino a farsi obbedire dalla gelosissima moglie Era o da Dioniso, il più spiantato dei suoi figli? Saga familiare ultraterrena, eccezionalmente raccontata da un Prometeo già prigioniero, questa prima stagione (confidiamo, per favore, in un tempestivo rinnovo) tira in ballo anche un trio di mortali dal ruolo cruciale: Arianna, figlia del Presidente Minosse, che questa volta non ha bisogno di nessun Teseo; Euridice, stanca di essere cantata dall'egoista musicista Orfeo; Ceneo, ex amazzone con disforia di genere. Profondamente umani nella caratterizzazione, toccanti e in crisi esistenziale, i nostri eroi si muovono tra le Moire e le Erinni, la terra e l'aldilà, con una domanda: si può cambiare un destino già profetizzato? Corali, spassosi, kitsch con gusto, gli episodi non ha bisogno di effetti speciali per incantarci: la magia è nella scrittura di Charlie Covell, che brilla di equilibri indovinati e di un irresistibile humour inglese. Dopo tanti passi falsi, Netflix tira dal cilindro una serie finalmente all'altezza delle aspettative. Kaos, chicca imperdibile, fa con la mitologia quello che Romeo + Giulietta fece con Shakespeare. (7,5)

Dopo il successo di Valeria Golino, anche Fabio e Damiano D'Innocenzo tornano al cinema con una serie TV. Lenti, sgradevoli, più oscuri che mai, i gemelli romani ci mettono alla prova con un crime in due atti in cui qualcuno potrebbe vedere la risposta italiana a True Detective. Sono cinque ore di cinema d'autore. Di quello lento, pesante, disperato, tipico di alcuni festival di nicchia. La scena clou della prima parte? La colonscopia particolareggiata a cui viene sottoposto il protagonista: un cattivo detective, colpito dalle dipendenze e dal fallimento familiare, di cui sondare le viscere per sincerarsi del marcio. Sbirro e assassino, infatti, condividono gli stessi demoni. Il serial killer, ribattezzato Dostoevskij per le lettere nichiliste seminate sulla scena del delitto, diventa l'ossessione del nostro antieroe. La morte può diventare una ragione di vita? Nei polizieschi c'è sempre il momento in cui la polizia si muove nel buio. I D'innocenzo immortalano quel brancolare: i tentennamenti, le ipotesi, i buchi nell'acqua. E in quel buio si scavano la tana, inventando una sfumatura di nero che prima non c'era. L'ultimo atto vola, più spedito, più corale, più incalzante, ma non ci sono notti bianche all'orizzonte. Non sarebbe stato possibile condensare tutto in un film? Sì, ma sarebbero venute meno le sequenze descrittive in cui il Lazio sembra il Midwest; l'amicizia sincera di un commovente Vanni e la hybris di Montesi, giovane leva con tutto da da perdere. Condannato a un'oscurità eterna, Dostoevskij si rivela il nostro Prisoners: un delitto senza castigo in cui la voce bellissima e cavernosa di Timi, qui in stato di grazia, risuona tra le bettole della povera gente, nelle memorie del sottosuolo, nel nostro buio più inconfessabile. (8)

Le parole possono tutto. Perfino uccidere. Lo sapeva bene Truman Capote: reduce dal successo di A sangue freddo, cercava ispirazione per il suo prossimo bestseller tra i salotti e i ristoranti dell'alta borghesia. Cinico e pettegolo, lo scrittore omosessuale era la mascotte di un gruppo di donne facoltose ma infelici: le chiamava i cigni. A conoscenza dei loro più sordidi segreti, lo scrittore le sburgiarderà per scrivere Preghiere esaudite: una di loro, disperata, si toglierà la vita. In cambio della gloria, Capote perderà la loro amicizia. E l'anima. Dopo averci raccontato la lotta tra Crawford e Davis, due dive sul viale del tramonto, la serie antologica torna con la consueta classe a svelarci un altro scandalo americano: questa volta si passa dal cinema all'editoria. Splendidamente diretta da Gus Van Sant, pur contando su un eccezionale cast femminile, la serie è una vetrina per mettere in luce il genio e la sregolatezza dello scrittore in confidenza con James Baldwin e in contrasto con Gore Vidal: già portato al cinema più volte, trova nell'interpretazione di un irriconoscibile Tom Hollander la sua incarnazione più spumeggiante. La qualità è alle stelle. Ma, a differenza della prima stagione, questa appare più rigorosa e meno fruibile dai profani; più un biopic, l'ennesimo, che un prodotto corale e femminista. Splende la sola Naomi Watts, l'amica prediletta, che ci regala una delle performance migliori della sua carriera con il personaggio di una donna divorata dal cancro e dalla nostalgia, ma pur sempre piena di decoro; degno di nota il cameo spettrale di mamma Jessica Lange. Questi cigni vittima della monotonia incantano per eleganza, ma hanno un becco che non morde. Lontani dall'orbita di Capote, con una faida già persa in partenza, faticano a volare. (6)

martedì 29 dicembre 2020

[2020] Top 10: Il mio cinema, nell'anno che il cinema ce l'ha tolto

10. His House: Presentato in anteprima al Sundance, un horror indipendente che racconta con i toni della ghost story la tragedia dell'immigrazione clandestina. Per riflettere, nello stile del cinema di Ken Loach, ma con qualche brivido in più.

9. Shirley: Un po' biopic, un po' thriller, purtroppo inedito in Italia, è un faro acceso sulla vita oscura di un'autrice famosissima – anzi famigerata – interpretata qui dalla camaleontica Elisabeth Moss. Per chi è affascinato dai meccanismi del parto creativo, soprattutto quando genera mostri.

8. Ema: L'ultima fatica del cileno Pablo Larraìn, all'indomani di innumerevoli film politici, si dedica anima e corpo a una storia controversa e passionale su una ballerina pansessuale e sul suo desiderio di maternità nonostante tutto. Contro natura, oltre natura. 

7. Il buco: Poetico, politico, claustrofobico, è uscito nel clou del primo lockdown. Qualcuno lo ha amato, qualcuno lo ha odiato, qualcun altro ha amato odiarlo. Ma questa distopia spagnola a tinte forti – ambientata in un carcere verticale dove vige la legge del più forte – è forse il film più rappresentativo dell'anno.

6. Favolacce: Sono giovani, sono belli, sono volenterosi. Soprattutto, sono il futuro che il cinema italiano non sapeva di meritare. Fabio e Damiano D'Innocenzo, premiati in pompa magna per la miglior sceneggiatura allo scorso Festival di Berlino, sono infine giunti a seminare turbamento anche su Amazon Prime Video.


5. Swallow: Si chiama picacisco, ed è una compulsione che spinge a inghiottire oggetti di varia forma e natura per dar voce a un disagio interiore. È questo il tema di un esordio shock – un horror originale, elegante, femminista –, con una Bennett in fuga dalla sua gabbia dorata.

4. Soul: Lo abbiamo visto un po' tutti sotto Natale ed è stato il regalo più bello che il 2020 potesse farci. È l'ultimo capolavoro Disney-Pixar. Per me il film più maturo, adulto e profondo del filone.

3. Jojo Rabbit: Ai tempi non mi era piaciuto in realtà. Lo avevo definito innocuo, una favoletta più graziosa che bella. Però ci ripenso spesso e con emozione, e vorrei che il 2020 finisse proprio come finisce il film del premiato Waititi: ballando, con David Bowie in sottofondo.

2. Sto pensando di finirla qui: In pole position non poteva mancare lui, Charlie Kaufman, con un viaggio al termine della notte e della ragione folle, destabilizzante, logorante. Riempie prima di orrore, poi di nostalgia.

1. Sound of Metal: Negli anni Venti c'era il cinema muto. È possibile, oggi, un cinema sordo? Da quest'idea difficoltosa ma coraggiosissima parte un piccolo dramma disposto a farsi valere alla prossima stagione dei premi. Un'odissea lunga due ore interpretata da un incredibile Riz Ahmed, nel ruolo di un batterista che perde l'udito e sperimenta, così, un nuovo mondo. Quel mondo diventa anche il nostro. In un cinema che è esperienza umana, e condivisione.

sabato 4 luglio 2020

La paura resta a casa: Favolacce, The Lodge, Vivarium, The Room, Gretel and Hansel, The Turning

Un gruppo di bambini in preda alla noia dell'estate. I rispettivi genitori: disincantati, volgari, maneschi. Una ragazza incinta, né piccola né grande, che vorrebbe chiamare sua figlia Sara: come la canzone di Paolo Meneguzzi. Intorno a loro, una provincia romana talmente sonnacchiosa da sembrare, a torto, rassicurante: presto comparirà in tutti i telegiornali. Ritratto tragico e disturbante, talora un po' gratuitamente, il secondo film dei D'Innocenzo mescola stilemi fiabeschi e cronaca nera. Ma nella forma ammicca ai grandi maestri – Haneke, Lanthimos, Coppola, perfino l'Ari Aster del recente Hereditary –, affascinando grazie a una confezione minimalista ed elegante. Rispetto all'esordio, il più compiuto ma prevedibile La terra dell'abbastanza, i registi mettono meglio a fuoco la loro poetica e alzano l'asticella con un film ambizioso. Come i piccoli protagonisti, costruiscono bombe come compito per casa ma non le fanno mai esplodere. Preferiscono innervosire lo spettatore, accumulando tensione fino all'ultimo; allettarlo con una fotografia incantevole e tematiche – sesso, depravazione, omicidio –, al contrario, respingenti. Ne viene fuori un dramma irresistibile nella sua complessità, con una chiusa shock e un Elio Germano, nonostante il ruolo marginale, indimenticabile nella sua fragilità. I bambini sembrano usciti da un film di Sean Baker. Ma i campi lunghi, i quadretti familiari stranianti e grotteschi, li rendono imprevedibili. A raccontarceli è la voce di Tortora, che legge un diario scritto a penna verde: è verità o fantasticheria? Nel dubbio, ben vengano favolacce di queste. Che ti fanno svegliare di soprassalto, anziché andare a dormire sereno. La morale arriverà forte come uno schiaffo. (7,5)

Due bambini, la nuova fidanzata di papà, una convivenza forzata durante prima di Natale. Potrebbe sembrare l'inizio di una commedia anni Novanta, sull'armonia delle feste e le famiglie allargate, ma fuori c'è una tempesta di neve che ricorda i tracolli emotivi di Shining. È l'avvio di un incubo che si addice agli autori di Goodnight Mommy: come questo, un horror psicologico ad altezza bambino sulla maternità, l'isolamento, l'elaborazione. Mentre i bambini hanno da poco seppellito la madre suicida, la giovane matrigna è reduce da un passato traumatico che combatte ingollando pillole. In quella casa, per quanto grande, c'è spazio per un unico disagio.The Lodge resterà uno dei prodotti di genere migliori dell'anno. Scomodo e destinato a dividere, destabilizza con i suoi personaggi odiosi e un epilogo esemplare nel suo essere beffardo. Snervante dall'inizio alla fine, è un logorio interiore che non ha nulla da invidiare al cinema di Aster o Eggers: anzi, a differenza dei registi citati, Severin Fiala e Veronika Fanz non peccano mai di inutile manierismo. Qui, affiancati dal direttore della fotografia di Lanthimos, non tradiscono né la loro poetica né il loro disagio e convincono ancora più che in passato grazie a una straordinaria Keough, attrice su cui scommettere in futuro. The Lodge è un infernale notte bianca presso una meta frequentatissima – l'alta montagna –, che a sorpresa ci regala un incubo che non avevamo ancora sognato. (8)

Una coppia in cerca di una sistemazione si rivolge a un'agenzia. L'impiegato propone un quartiere residenziale fatto di villette a schiera tutte uguali e di vicini talmente silenziosi da sembrare invisibili. I cieli sono dipinti di un azzurro perenne e, solcati da nuvole paffutelle, sembrano sbucati da un dipinto surrealista. Una volta entrati nel quartiere, però, sarà impossibile uscirne. Non fatevi ingannare da due protagonisti solitamente solari e simpatici, qui sull'orlo di una crisi di pianto. Non fidatevi dell'incantevole poster alla Dalì. Vivarium è un esperimento sociale che ha poco di commerciale, poco di accomodante, poco di colorato. L'idea di partenza, abbastanza strana da risultare buffa, si rivela lo spunto di un loop amaro e claustrofobico. Visivamente e narrativamente affascinante, il film ricorda il Polanski della Trilogia del Condominio e i deliri di Lynch; conferma il talento poliedrico della sottovalutata Imogene Potts, inoltre, e piace anche senza indicazioni relative a come uscire incolumi. Il difetto è che si perde in un dedalo spaventoso, anche a costo di girare un po' a vuoto. Di amareggiare chi si aspettava una spiegazione razionale, lo scioglimento moraleggiante di quest'apparante metafora sul conformismo fatale della vita di provincia. Con l'uomo che sgobba e la donna che si fa angelo del focolare. Con entrambi che restano intrappolati nelle gabbie dei ruoli di potere. Con entrambi morti, ma di noia e routine. (7)

Ricordate la Stanza delle necessità della saga di Harry Potter? È realtà per una coppia di sposi novelli, partiti dall'Europa per vivere il loro sogno americano. L'acquisto di una casa nuova, al solito decadente e dal passato losco, con una camera segreta non indicata nella planimetria: all'interno tutti i sogni diventano realtà. Dal denaro alle opere d'arte, dagli abiti ai gioielli. Cosa succederebbe se chiedessero qualcos'altro, ad esempio il bambino che manca per essere felici davvero? A dispetto dell'incipit canonico, The Room – ennesimo omaggio alle atmosfere della Twilight Zone – si difende bene con uno sviluppo fascinoso e interessante, giocato nei territori dell'etica. Radunate pochi mezzi e una buona idea, ingaggiate una manciata di attori convincenti, aggiungete scenografie favolose – cupe, opulente e immaginifiche, capaci di ricreare perfino un bosco innevato tra le pareti domestiche. Rielaborazione moderna della favola di Pinocchio e del mito di Edipo, il film – dalla forte matrice europea, per fortuna – si mostra interessato non tanto all'aspetto paranormale quanto al lato umano, e indaga così le tensioni crescenti nella coppia anziché i misteri della casa maledetta. Peccato: in un anno diverso da quello corrente, avrebbe trovato anche un meritato angolino nelle sale cinematografiche. (7)

C'erano una volta due bambini, un bosco e una strega cattiva. L'epilogo, ovviamente lieto, lo conoscono anche le pietre. In tempo di rifacimenti in chiave contemporanea e femminismo, però, lasciate ogni speranza voi ch'intrate nella famigerata casa di marzapane. Riletta dal talentuoso Oz Perkins, la favola dei Grimm diventa un horror iniziatico sotto funghetti allucinogeni – imperfetto ma affascinantissimo – che ricorda nello stile e nelle riflessioni The Witch e The Neon Demon. Portentoso dal punto di vista visivo e anticonformista nel messaggio, pone al centro del titolo e dell'avventura – senza forzature – il personaggio di Gretel. Alla scoperta della propria identità, l'eroina si libera dai legami e dalle convenzioni dei generi. Tra lei e la strega, questa volta, ci sono simmetrie inquietanti. Che il fratellino, il terzo incomodo, sia sacrificabile? Film dalle atmosfere conturbanti, nonostante la sceneggiatura confusa, è un racconto allegorico che potrebbe fare la gioia degli esteti e dei cultori del genere. Il regista è il figlio di Psycho, la protagonista è la Beverly dell'ultimo It, la strega cattiva era già l'indimenticabile villain della trasposizione di Silent Hill. Venghino signori, venghin. Questo vaneggiamento è un incubo lisergico da cui non vorremo svegliarci. (6,5)

Una bambinaia lascia la città per un incarico dell'ultimo minuto. Badare a una coppia di ragazzini inquieti e inquietanti, che vivono in una magione dall'aria infestata. Se la trama non vi è nuova, è perché ispirata al classico di Henry James: Giro di vite, gotico proposto e riproposto in remake a volte dichiarati, altre meno. A prendere le mosse da qui sono stati anche due capolavori come The Innocents e The Others. La pescarese Floria Sigismondi traspone il romanzo in chiave moderna. Purtroppo, com'era prevedibile, l'operazione non trova né la forza né il coraggio di abbandonare l'archetipo. Anacronistico, il film si lascia guardare in ogni caso con piacere grazie al fascino indiscreto delle sue suggestioni. Ma tra bambole, manichini e ombre minacciose, non manca proprio niente a un repertorio di cliché lontano dall'essere rinnovato. Scontato, superfluo e stiracchiato, The Turning non si lascia neanche rivalutare alla luce del confusissimo colpo di scena finale. Mackenzie Davis è sempre incantevole, Finn Wolfhard e Brooklyn Prince sono sempre insopportabili. Lo zampino della DreamWorks si noterebbe anche a occhi chiusi. Durante la visione, ho pensato vagamente ai vecchi Haunting e Le verità nascoste. E quest'ultimo tassello, ambientato vent'anni fa, per ironia della sorte finisce per sembrare proprio un figlio dei 90s abbastanza tradizionale da risultare sorpassato. (5)

lunedì 9 luglio 2018

Mr. Ciak - Flaiano Film Festival: Figlia mia, La terra dell'abbastaza, Sono tornato, Youtopia

Dal 29 giugno al 6 luglio, con una cerimonia finale sullo sfondo di Piazza della Rinascita, si è tenuto a Pescara il quarantacinquesimo Flaiano Film Festival. Il primo per cui ho timbrato il biglietto. Diciotto film divisi in quattro categorie, Riccardo Milani come direttore artistico e un red carpet aperto ad alcuni fra i migliori volti di casa nostra: il tre volte Premio Oscar Vittorio Storaro, Ferzan Ozpetek, Elena Sofia Ricci, Monica Guerritore, Greta Scarano, Filippo Timi, Massimo Popolizio, Francesco Montanari, Ennio Fantastichini, Rolando Rovello, il trio Ward-Conticini-Muniz, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, Alessandro Cattelan.

La Sardegna è quella brulla e ancestrale di Michela Murgia. Lì si raccontano leggende e bugie. Ci si scambia i figli. Si vive di quel che porta a riva la benevolenza del mare. Valeria Golino, con una tinta scura che le fa più bella e i vestiti dei giorni di festa, ha affidato le sue preghiere prima alla Madonna, poi ai lombi della Rohrwacher: tanto bene integrata la prima, quanto sciagurata la seconda, non avrebbero in comune niente, se non un segreto con i capelli rossi; un patto da violare nel momento in cui la derelitta Angelica, tutta abitini inguinali e lingua impastata, non avanza una pretesa prima di lasciare l'isola per sempre. Conoscere un po' per capriccio, un po' per desiderio, la bambina che ha partorito e subito ceduto a una genitrice migliore di lei. La piccola Vittoria non conosce la verità sulla propria nascita, ma è troppo selvatica, troppo curiosa in fatto di baci e imprese impossibili, per appartenere a una famiglia dalle discrete possibilità economiche che le impone gli abiti da signorina, il costume intero in spiaggia, gli orecchini meno appariscenti e animali domestici che non somiglino a scrofe, galline o cavalli. Il sangue chiama. La bussola interiore porta sempre e comunque alla fattoria fuori mano dell'irresponsabile madre biologica; mentre colei che l'ha cresciuta, in paese, si strugge per diritti che non le spettano, la torta di compleanno intonsa, un letto vuoto. Dopo Vergine giurata, Laura Bispuri torna al cinema con un melodramma al femminile con i colori accesi, la telecamera a mano impegnata a seguire le protagoniste in piani sequenza impressionanti, una storia di maternità salveggia. Figlia mia è una carnale romanzo di formazione fra due fuochi, sotto il sole a picco, con affascinanti sprazzi kitsch e interpreti al loro meglio. Disarmante per immediatezza e generosità, è il rito iniziatico di una bambina contesa, voluta allo stesso tempo da tutti e da nessuno. Come succede alle anguille, stando ai racconti dei padri pescatori, viene partorita al largo per poi raggiungere il punto di partenza. Perché le bestie dalla natura acquatica e le figlie della Bispuri, tagliato il cordone, trovano sempre la strada di casa: a guidare le due litiganti, colei che dall'alto del suo sfacciato metro e trenta se ne frega della buona educazione e delle leggi degli uomini. In terre, in film, in cui raddoppiano l'emozione, le mamme, l'amore. (7,5)

Mirko e Manolo frequentano la scuola alberghiera, ma non vogliono essere camerieri. Proprio non se ne parla, di servire. Si desiderano padroni. All'inizio pensavano a un'attività in proprio, ma il destino ha piani alternativi. Hanno avuto la fortuna di investire l'uomo giusto: ricercato da un clan del posto, il latitante è stato freddato per caso da due ventenni su di giri, che fanno di quell'omicidio preterintenzionale una merce di scambio; un modo per svoltare. Il clan vuole sdebitarsi, li vuole a bordo. Perché se uccidere viene loro sorprendentemente facile, il malaffare è la via. Siamo nell'immancabile provincia romana di Garrone, Sollima, Caligari: volgare, stagnante, miserabile. Le femmine sognano i talent show alla TV; i maschi di continuare a giocare alla guerra. Qualche mamma nel frattempo fa i salti mortali per sbarcare il lunario e qualche padre – un inedito Tortora – liquida la morte come fosse un hobby. Applaudito all'unanimità al Festival di Berlino e vincitore della Migliore opera prima ai Nastri d'argento, l'esordio dei fratelli D'Innocenzo è una tragedia urbana pesantissima e potente. A sangue freddo. Non lascia scampo con i suoi schiaccianti primi piani e una scrittura in caduta libera, che da candida si fa efferata. Nuovo capitolo da inserire con successo nel filone dei drammi criminali, quelli che più ci riescono ma che più annoiano, La terra dell'abbastanza racconta sempre la stessa storia, sì; mostra sempre il solito sesso squallido e i soldi sporchi; tutto già detto, tutto già visto. Eppure, guardandolo, ho avuto la sensazione di assistere alla nascita di qualcosa di significativo: sentiremo parlare presto dei D'Innocenzo, che hanno un taglio indie come marcia in più, e degli scapestrati Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, che ricordano Marinelli e Borghi (amici-nemici al limite nello speculare Non essere cattivo) non solo per la fisicità o gli accenti. Anche se tra te e te credevi in fondo di averne avuto abbastanza, di spari a tradimento e ragazzi interrotti. (7)

Dici Miniero, e pensi subito ai remake su misura d'italiano. Dici Sono tornato, e ti vengono in mente il best-seller tedesco che non sei riuscito ad avere o la trasposizione che non ti ha mai interessato troppo. Vedi Popolizio, con una voce e una presenza sceniche straordinarie, e pensi che sia perfetto per il ruolo di colui che ingannava e incantava il gregge. Vedi Matano, ancora, e ti domandi cosa ci faccia in un film semiserio, e pensi che peccato: ti è sempre stato simpatico, sì, ma non che come attore convinca granché. Comunque poco male. Perché combattuto tra pro e contro, tra il desiderio di recuperare l'originale e la consapevolezza che questo aggiornamento potesse cogliere più nel (nostro) segno, sono andato a vedere la commedia satirica in cui a tornare non è il famigerato baffone, bensì il socio. Letteralmente piovuto dal cielo, si fa seguire da un aspirante documentarista – e a Matano, con il ruolo giusto, male non si può volere – in giro per uno Stivale da riconquistare. Gli extracomunitari, le unioni civili, la destra e la sinistra che non esistono più: a detta sua, il nostro disonore. Gli italiani lo trovano spassoso e affascinante, lo scambiano per un comico: gli danno un programma che fa ascolti, e tutte le ragioni. Miniero prende senz'altro il meglio dal film originale, sferza e smuove, ma il politicamente corretto resta – a sorpresa, direi, se parte di un Paese di spettatori permalosi, di gente più colpita dall'uccisione di un cagnolino in CGI che dalle persecuzioni razziali. Si ride dunque moltissimo, ma a denti serrati. Si ha paura, sotto sotto. Lo share, la popolarità, dicono come i più trovino il Duce non soltanto simpatico, ma una soluzione necessaria. Voce della ragione, una nonna smemorata che mette la pelle d'oca con i suoi ricordi shock. Al suo arrivo in sala, eppure, Sono tornato non ha fatto gran rumore. Troppo intelligenti gli italiani, o troppo punti sul vivo per proferire verbo?  Si ride nerissimo, ci si guarda indietro e avanti. Dove eravamo. Dove andremo. In una Italia su ruote, sui canali della TV trash, che spererebbe di riprendere tutto ciò che è suo. Un nulla di fatto, sublimato dalla peggiore forma di nostalgia. (6,5)

Si è riso più che con Favola. Si è storto il naso più che per la mancanza di carattere di Dopo la guerra. La soglia della credibilità, abbassata più che nella fiaba Tito e gli alieni. Ma non parliamo di una commedia grottesca, di un dramma politico che non sa bene che pesci prendere, di fantascienza per bambini; piuttosto della disperazione per la crisi economica, di sesso e potere, del lato sporco di internet. Di una ragazza che a diciott'anni mette all'asta la propria verginità per salvare la casa dal pignoramento. Lei è una De Angelis tutta tette a vista e bronci, che nella sua cameretta chatta con il romantico avatar doppiato dall'attore di Mommy e si concede un paio di topless davanti alla webcam. Donatella Finocchiaro, qui mesta e avvinazzata, è sua madre: ci prova anche lei a spogliarsi, a un certo punto, ma alla fine cuce alla figlia un vestito da Cenerentola per la temutissima notte con Haber: farmacista pescarese vizioso e repellente, con un improbabile sottoposto che conosce il Deep Web e una schiera di prostitute a cui proporre i peggiori giochi di ruolo. Vuole la carne fresca, adesso, di un'adolescente che non contempla altra via, che un lavoro non sembra mai cercarlo davvero, che ha fatto del proprio status la versione sozza di Ready Player One. Vorrebbe essere un dramma di denuncia ma ha gli scivoloni delle commedie sexy, questo Youtopia. Indifendibile su ogni fronte, brutto e immorale, ridicolo per sbaglio – vedasi i ben poco ammiccanti pruriti anali di una escort impegnata a flirtare col farmacista sbagliato o un annuncio che, nonostante le lacrime esagerate della Finocchiaro, genera l'ilarità in sala. Di cattivo gusto, senza uno sguardo o un briciolo di sex appeal, Youtopia è risate incerte a scena aperta e una bella De Angelis che, purtroppo, si perde nelle maglie della rete, e della bruttezza. (4)

Ho rivisto: Favola (7,5); Tito e gli alieni (7,5).