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giovedì 27 luglio 2023

Il sesso (Made in Italy), il sogno (Made in Italy), le serie TV (Made in Italy)

Zerocalcare torna, dopo aver conquistato anche il piccolo schermo. Questa volta è sulla soglia dei quaranta, ironizza sul suo accento e, immaturo, si ostina a non prendere il carrello al supermercato ma a portare la spesa in equilibrio tra le braccia. Il ritorno di Cesare, amico d'infanzia, e le polemiche intorno a un centro d'accoglienza per immigrati lo porteranno a riflettere sulle cattive compagnie, sul destino, sui mostri dell'ignoranza. In una Tor Bella Monaca sotto assedio, Zero porterà alla luce contraddizioni finora nascoste sotto il tappeto. Pop, poetico, politico, il fumettista presta penna, cuore e voce ai personaggi a cui ormai abbiamo imparato a volere bene. Ma mentre Secco propone il gelato come cura di ogni male, a questo giro è Sarah a farci meditare amaramente: quale idealismo può permettersi una docente vittima del precariato e dell'immobilismo? Tutto fila in fretta; forse troppo? Questa nuova stagione, meno filosofeggiante e più satirica, non riesce a sottrarsi a un diffuso didascalismo. Ho pensato che la proporrei ai miei alunni per Educazione civica. A loro piacerebbe parecchio questo bignami travestito da guerriglia civile. Ma dall'autore della struggente Strappare lungo i bordi mi srei aspettato qualcosa di più personale, più sincero, più mio. (6,5)


Un'adolescente cerca la madre scomparsa. Due madri cercano un futuro migliore per i loro figli. Una pm caparbia e spietata, invece, cerca una breccia per introdursi nei covi della Ndrangheta. La forza delle donne – ora vittime della violenza delle famiglie, ora della solitudine insopportabile dell'isolamento – farà crollare il sistema dall'interno. Commovente, epica, tesissima, The Good Mothers è una storia vera che racconta la cronaca con i mezzi e l'emozione del cinema di impegno civile. Il pensiero va alle donne che non ce l'hanno fatta. In ogni caso, non hanno perso la battaglia. L'hanno lasciata in eredità a Gaia Gerace, che con il suo fare ancora acerbo conferisce innocenza a Denise Cosco; a Valentina Bellè, camaleontica come la migliore delle trasformiste hollywoodiane, che ruba le sigarette e l'accento alla vera Giuseppina Pesce; a Barbara Chicchiarelli, sbirra gelida, che comunica fermezza e acume in ogni sguardo. Dirigono Fellowes e Amoruso, tra Regno Unito e Italia. E in sei episodi, con asciuttezza e onestà, vincono al Festival di Berlino e conquistano plausi ben più del patinato Ti mangio il cuore. (7,5)

Avevo letto il romanzo ai tempi della pubblicazione. Scritto divinamente, mi aveva lasciato poco, se non il ricordo di una prosa sanguigna e il ritratto di un'adolescenza contraddittoria. Troppo esile e lineare per una miniserie di sei ore, diventa in realtà un intrattenimento di altissimo livello grazie alla libertà creativa che Netflix ha concesso a Edoardo De Angelis. La vita bugiarda degli adulti è una parabola eccezionalmente “grunge”, maleducatissima, dal look anni Novanta e dal comparto tecnico da applausi: il quinto episodio – piccolo capolavoro – ricorda il meglio di Euphoria. Giordana Marengo, bella ma troppo acerba, viene condotta nel lato oscuro da una Valeria Golino in stato di grazia: chi se le scordano che ballano Edith Piaf in terrazza e immaginano di volare? Forse, come accaduto con il romanzo, scorderò il resto. Ma la musica, le luci al neon, il sangue negli occhi e i dialoghi sputati fuori come noccioli di ciliegia garantiscono ai cinefili momenti di memorabile lirismo. No, non è L'amica geniale. Giovanna non è né Lila né Lenù e non sempre si comprende facilmente. È una protagonista imperfetta. Ma anche lei, come quei genitori che tanto biasima, ci incanta con le bugie dei suoi ribelli sedici anni: van dette, a volte, perché sono più belle del resto. (7,5) 

Non era il romanzo più giusto da cui aspettarsi una trasposizione impeccabile. Storia di chi fugge e di chi resta, terzo capitolo della tetralogia dei record di Elena Ferrante, è un'opera di transizione: con il senno di poi, il romanzo che ho meno apprezzato fra i quattro. Come sempre fedelissima al materiale di partenza, la coproduzione Rai e HBO ne trae pregi e difetti. Il risultato sono otto episodi meno accattivanti dei precedenti, in cui la metamorfosi fiorentina dell'irrequieta Lenù – ormai moglie, madre, scrittrice in crisi – sottrae spazio vitale alle vicende del rione e, dunque, alla ben più carismatica Lila. A pagarne caro il prezzo è soprattutto Margherita Mazzucco: una Lenù esemplare – nell'apatia, nell'antipatia, nei silenzi, negli sguardi giudicanti –, ma anagraficamente e professionalmente troppo acerba per sostenere il peso della serie: a volte, appare una ragazzina vestita da adulta e specialmente nelle scene di sesso con Matteo Cecchi – un Pietro bravissimo – semina disagio nello spettatore. Gaia Girace, invece, si conferma incandescente. Dispiacerà non rivederle, il prossimo anno, ma saggia è l'idea di preferire loro attrici più mature. Bocciata la regia di Lucchetti: dopo i picchi di Costanzo e Rohrwacher, appare piatta, televisiva e con dissolvenze imperdonabilmente kitsch. (7)

Sullo sfondo della mia bellissima Torino, la storia in salsa pop della prima avvocata italiana. Radiata dall'ordine in quanto donna, Lidia Poet viene riscattata su Netflix in una serie che cavalca prevedibilmente e facilmente l'onda del femminismo. La sua storia, a puntate e rigorosamente romanzata per ammiccare ai più giovani, diventa quella di una sexy Signora in giallo con il pallino della disobbedienza civile e dei gialli da risolvere. Questa Lidia impreca, si barcamena i triangoli sentimentali, indossa abiti straordinari e si muove a ritmo su una colonna sonora modernissima. I discendenti dell'avvocata e gli amanti del period drama rigoroso, però, borbottano. Piacevole e nulla più, già confermata per una seconda stagione, La legge di Lidia Poet strizza l'occhio a Dickinson e The Great, ma la vecchiezza della scrittura tradisce in parte le buone premesse di partenza. Nota di demerito a Matilda De Angelis: richiesta anche oltreoceano e solitamente in parte, l'attrice bolognese indossa a meraviglia gli abiti d'epoca confezionati dai costumisti, ma non è mai parsa così forzata e sospirosa nella recitazione. Potrebbero urgere i sottotitoli per decriptare suoi mille, inutili sussurri e venire a capo, così, della risoluzione del caso. (6)

Chi non vorrebbe lavorare al servizio delle star? Provatelo a chiedere agli agenti cinematografici di questa serie TV, remake – riadattato in chiave italiana e assolutamente vincente nella scrittura – dell'omonima produzione francese: sempre di corsa, competitivi e stremati, rimediano ai maggiori divi di casa nostra sacrificando vita privata e sanità mentale. Paola Cortellesi deve girare con Brad Pitt un ambizioso dramma storico, ma per i produttori americani è troppo vecchia per affiancare l'attore hollywoodiano: botox sì, botox no? Sorrentino pensa alla terza stagione di The Young Pope, ma sogna una papessa con il volto di Ivana Spagna: Madonna e Lino Banfi reciteranno nel ruolo dei genitori. Favino, alle prese con l'ennesima trasformazione fisica, non riesce ad abbandonare l'ultimo personaggio interpretato per un biopic internazionale: come ci si libera dell'accento di Che Guevara? Matilda De Angelis deve fare pubblicamente ammenda per un tweet frainteso: vietata l'ironia, ai tempi del politicamente corretto a tutti i costi. Accorsi deve destreggiarsi su due set agli antipod e, infine, e Guzzanti andare d'accordo con Emanuela Fanelli. Brillante, personale e autoironica, Call My Agent è un tuffo nel metacinema che delizierà gli appassionati di Boris. (7)

giovedì 17 dicembre 2020

Il cinema al tempo del Covid-19: Mank, Elegia americana, L'incredibile storia dell'isola delle Rose, Uncle Frank, Il processo ai Chicago 7

Acclamato dalla critica come il film dell’anno, lo si attendeva con ansia. Mank, l’ultima fatica di David Fincher, sbancherà ai prossimi Oscar soprattutto nelle categorie secondarie. Prodigio di tecnica, con il suo bianco e nero pastoso e un audio leggermente gracchiante, sembra sbucato dagli anni Quaranta. Ci si poteva aspettare forse qualcosa di meno da un biopic che racconta la genesi dell’intramontabile Quarto potere? Seppur meno funambolico e barocco del capolavoro originale, Mank è una visione perfino più godibile del previsto grazie ai dialoghi scoppiettanti e a un personaggio sopra le righe. Il cuore, però, dov’è? Il sempre impeccabile Oldman interpreta l’eponimo sceneggiatore: erano anni di crisi. Con ancora i postumi della Grande Depressione, il cinema faceva il passo dal muto al sonoro e assoldava drammaturghi per attirare nuovo pubblico. C’erano l’avanzata di Hitler, inoltre, e le elezioni del 1934 da sabotare al suon di falsi cinegiornali. Chiamato a scrivere un film su commissione per Welles, il protagonista sceglierà un soggetto inusuale: la vita di un ricco magnate perso dietro gli intrighi del subdolo Mayer. Accompagnato dall’incantevole Amanda Seyfried, moglie trofeo ingiustamente bollata come bella e stupida, Oldman si muove tra i labirinti, le fontane e gli animali esotici della reale Candalù. In un puzzle costruito su diversi piani temporali, Fincher – con una sceneggiatura del defunto padre Jack – lavora al ritratto di un malinconico giullare destinato a farsi sempre terra bruciata per via della lingua lunga. Sbronzo e caracollante, Oldman punta il dito contro i miti e i mostri della MGM; scandalizza i figuranti della fitta corte dei miracoli di Charles Dance; menziona attori, addetti ai lavori, politicanti sconosciuti. Pieno di rimandi com’è, Mank affascina per la foggia bellissima ma lascia spesso indifferenti per il contenuto: quando Hollywood parla di sé, infatti, dovrebbe farlo con un linguaggio alla portata di tutti. Ripiegato su sé stesso, invece, il film va incontro a un controsenso. La fabbrica dei sogni ci svela dall’interno il proprio funzionamento. E, come dopo lo svelamento di un trucco, perde parte della magia. (7)

Su carta aveva tutto per piacermi. Le atmosfere rurali dei romanzi di Haruf, un regista classico ma solidissimo, due protagoniste che sin dal trailer facevano a gara di bravura. Le recensioni avevano presto frenato le aspettative. Elegia americana, tratto dal romanzo biografico di J.D. Vance, era il disastro preannunciato? Storia di tre generazioni a confronto, il film racconta il sogno americano del solito self-made man: uno scrittore partito dal nulla e giunto con successo al prestigio, che tuttavia non ha dimenticato l'importanza delle radici. Diviso tra dovere e famiglia, deve fare i conti con il richiamo del proprio sangue e con i guai ereditati da una genitrice perennemente sull'orlo dell'abisso. Articolato in una serie di lunghi flashback, Elegia americana si concentra sui bracci di ferro tra la madre e la nonna di Vance: più che a lui, infatti, si lascia spazio agli strepiti di due donne al centro di un rapporto di amore-odio. Amy Adams, imbolsita e fuori parte, esagera con i pianti, le urla e le salopette sformate: così sopra le righe da risultare involontariamente comica, offre purtroppo la prova peggiore della sua carriera a causa di un personaggio che segue tutti i cliché delle donne autodistruttive. Molto meglio Glenn Close, nonna dolcissima nonostante i modi spicci, che sotto il suo mascherone posticcio e l'andatura caracollante riesce comunque a lasciar trapelare una grande commozione: sarà la volta buona per l'Oscar? Dopo gli eccessi melodrammatici della prima parte, le cose si aggiustano nella seconda, dedicata al riscatto personale del protagonista. Moralmente edificante, vittima dei luoghi comuni e di un'intensità variabile, il film  è sin troppo caricaturale per apparire veritiero e la sceneggiatura – scritta a tavolino per strizzare l'occhio all'Academy – viene presto a noia: il tocco di un Clint Eastwood, più schietto del patinatissimo Howard, avrebbe fatto la differenza. Ciò che resta è una puntata di This is us lunga e dimenticabile, che riesce nell'impossibile: deludere, nonostante la presenza delle sue stelle. (6)

Dopo aver raccontato dei ricercatori al verde di Smetto quando voglio, criminali per necessità, il talentuoso Sibilia confeziona un’altra ode spassionata alla follia e al coraggio dei sognatori; a coloro che inventano e si reinventano. Ispirato a una vicenda talmente assurda da essere realmente accaduta, L’incredibile storia dell’isola delle Rose segue le avventure picaresche di un sempre ottimo Elio Germano. Ingegnere di belle speranze, più volte segnalato alle autorità per le sue invenzioni strampalate, a un certo punto progetta un’isola a largo di Rimini. In acque internazionali, nel 1968, sorge una piattaforma sorretta de sei piloni d’acciaio: sembra un lido o poco più, una discoteca. Invece era un’utopia galleggiante con le pretese di diventare uno Stato indipendente dall’Italia. Come acquisire la giusta credibilità, se accusato di contribuire al malcostume del Paese con la sua concezione di dolce vita? Rifugio felice per naufraghi, apolidi, reduci e neomamme, l’esistenza dell’isola insospettirà i piani alti – Zingaretti e Bentivoglio, esilaranti – e sarà discussa a Strasburgo, nel consiglio d’Europa. Accompagnati da una romantica De Angelis, Sibilia e il suo Germano ci rendono partecipi di una pagina di cronaca dal forte valore emblematico. Perfetto nel cast, nella CGI e nei colori sfavillanti, il film Netflix non è esente dalle lungaggini della seconda metà ma si riscatta con un epilogo emozionantissimo, che propone una catena di mani intrecciate e una morale sempreverde: i sogni non li abbattono neanche le cannonate. Il regista convince anche a ritmo di twist e con accento bolognese: artefice di prodotti giovani, ambiziosi e rinvigorenti, fatti di intuizioni e soprattutto di idee. Può esistere un’isola che non c’è? E un cinema che non c’era? (7+)

Hanno tutti un parente che si distingue dagli altri. Quello colto e distinto, seduto in disparte a leggere Flaubert, che per un motivo imprecisato non piace a nessun membro della famiglia. Quello diverso, in una maniera di cui da bambini non si capisce bene il perché. Ma Frank non è poi così diverso da Betty: la sua nipote prediletta, che nonostante le origini campagnole ha puntato alla Grande Mela per studiare letteratura. Lì scopre che lo zio professore ha una doppia vita: omosessuale, nasconde un compagno amorevole e amici strampalati. Costretti a tornare a casa per un funerale, nipote e zio viaggiano in macchina da New York a Creekville sulle scene di un passato doloroso. Quale trattamento ha ricevuto Frank? Cosa lo ha reso disincantato e omertoso? Alan Ball, autore premio Oscar per American Beauty, torna su Amazon. E scrive e dirige una commedia drammatica vagamente autobiografica, con un immediato effetto benefico. Ora spensierato, ora malinconico, Uncle Frank risulta leggerissimo nonostante i temi luttuosi. Riuscito tanto nelle ambientazioni anni Sessanta quanto per la caratterizzazione interiore dei personaggi, si ricorderà soprattutto per la bravura insospettabile di Paul Bettany: dolente e spiegazzato, elegantissimo, emoziona per la piega amara della bocca e per il tremore impercettibile delle mani. Con lui la giovane Sophia Ellis, un volto su cui puntare. Tra confronti, funerali e coming out, Uncle Frank è la rimpatriata agrodolce sull'orgoglio di essere pecore nere. (7)

Non amo i film d’inchiesta, ma per Aaron Sorkin ho fatto un’eccezione. Lo sceneggiatore e drammaturgo americano, qui anche regista, ci porta nell’estate turbolenta del 1968. Alle porte dell’Hotel Hilton, dove in previsione di una convention di democratici si riuniscono a pretestare tre gruppi di sinistra: uguali ma diversi, hanno intenti pacifisti – correva l’epoca del Vietnam – ma lo scontro con la polizia è inevitabile. Chi ha colpito per primo? Il film, un puro dramma processuale, racconta del processo per stabilire se la colpa spetti ai dimostranti o alle forze dell’ordine. Concitatissimo, parte con i migliori auspici e un montaggio serrato, ma si perde in un prosieguo caotico man mano che il caso diventa più logorante. Profondamente americano, il dramma di Sorkin strizza l’occhio con incertezza all’attualità e pecca di una caratterizzazione molto semplicistica, indulgente verso gli indagati e impietosa contro la polizia. Per me non al suo meglio, lo sceneggiatore riesce a essere comunque sorprendentemente piacevole a tratti, ma per me la sua ricostruzione non centra il punto. Nel cast, popoloso ma dispersivo, inoltre non spicca nessuno in particolare fatta eccezione per Sacha Baron Cohen e Jeremy Strong: due spassosi hippy, che rispondono a tono e con ironia. Peccato che nulla possano contro un epilogo alla Spielberg, altamente retorico, che vorrebbe stillare lacrime e miele in quantità, ma finisce soltanto per far sbuffare. Probabilmente non ne ho compreso l’urgenza. Non amo i film d’inchiesta, e Aaron Sorkin non è stato l’eccezione. (5,5)

venerdì 11 dicembre 2020

Best-seller sul piccolo schermo: The Undoing | Us

Lei psicologa, lui chirurgo, compongono una coppia perfetta. Nonostante la frenesia della vita newyorkese, dedicano tutto il tempo che serve alla famiglia e alle pubbliche relazioni. Il loro dramma inizia all'indomani di una cena di beneficenza: una delle partecipanti, una giovane mamma di modeste origini, viene trovata massacrata sul retro del proprio laboratorio d'arte. Alla festa spiccava come un pesce fuor d'acqua, perché bella e procace. E, soprattutto, perché profondamente triste. Quale sofferenza nascondeva? Come mai i protagonisti sono i principali sospettati? Nicole Kidman e Hugh Grant, divi intramontabili che tutti avremmo sognato di vedere insieme in una commedia romantica degli anni Novanta, sono finalmente uniti da un'anonima Susanne Bier in una miniserie attesissima. Glamour e invidiabili, anche se spiegazzati, vengono torchiati dalla polizia: qual era il loro legame con la nostra Matilda De Angelis, attrice italiana al centro di una grande produzione internazionale e di un giallo modesto ispirato all'omonimo romanzo di Jean Hanff Korelitz? Non nuova al piccolo schermo, Nicole Kidman torna al ramato e nella sigla canta come fece in Moulin Rouge: superba al solito, regala al personaggio occhi sbarrati per lo shock e rossori. La sua reazione al nudo integrale della De Angelis, insieme a un breve bacio saffico in ascensore, sono già cult. Il migliore, però, è Hugh Grant: un uomo imprevedibile e sornione, nell'occhio del ciclone, a cui l'attore inglese aggiunge la sua naturale faccia da schiaffi, fascinosa anche con qualche ruga in più. È semplicemente un marito infedele, o anche un assassino? Se la prima metà di The Undoing è un patinato thriller erotico con un intrigo che promette scintille, la seconda diventa un dramma processuale senza grandi guizzi narrativi o stilistici. Più lineare del previsto e inutilmente dilungata, la storia avrebbe avuto bisogno della metà delle puntate o di un film di due ore per funzionare meglio. Mentre l'ultimo episodio è necessario per tirare le fila – c'è anche il colpo di scena, dignitoso ma non a effetto –, la maggior parte degli altri sembra voluta soltanto per far spazio al popoloso cast. Peccato che il patriarca Sutherland, il detective Ramirez e l'amica pettegola Lily Rabe abbiano ruoli minuscoli, e a spuntarla a sorpresa sia l'avvocato difensore di un'ottima Noma Dumezweni. Nel complesso senza infamia né lode, per quanto recitata ad arte, The Undoing si segue con curiosità costante. Ma in giro ne parleranno più per il look alla Eyes Wide Shut della ritrovata Nicole o per le forme da capogiro della prezzemolina Matilda. (6,5)

L'ho letto sei anni fa di questi tempi. Quando eravamo ancora una famiglia ma, lo scrivevo nella recensione, mostravamo già le prime crepe preoccupanti. Grande ritorno in libreria dell'autore di Un giorno, Noi era un romanzo diversissimo dal precedente ma non meno struggente. Soprattutto per me, che in fatto di dissapori domestici la sapevo già lunga... Qualche anno dopo avrei avuto la fortuna di incontrare David Nicholls a Milano e di raccontargli di me disturbandolo su una panchina: lui era al cellulare, stava correggendo una sceneggiatura che di lì a poco sarebbe diventata questa miniserie della BBC. Ancora inedita in Italia, Us traspone in quattro episodi il romanzo del 2016. Come appare questa storia oggi, se nel frattempo la mia famiglia si è sfaldata ufficialmente ed è arrivato il Covid-19 a proibire gli spostamenti? La trama segue tappa dopo tappa il grand tour della facoltosa famiglia Petersen: mamma, padre e figlio ormai ai ferri corti, che prima di separarsi tentano di salvare il salvabile in un lungo viaggio per l’Europa. Protagonista assoluto è uno straordinario Tom Hollander, caratterista inglese capace di slanci e patetismi: capofamiglia ansioso e razionale, intrappolato nella grigia routine del mestiere di scienziato, si improvvisa supereroe per recuperare l’amore della moglie Saskia Reeves – odiosissima – e del figlio ribelle, il promettente Tom Taylor. Tra passato e presente, tra Parigi e Venezia, Hollander ripercorre i luoghi nostalgici della luna di miele e bracca il fuggitivo Taylor, adolescente alla ricerca della propria identità sessuale, in lungo e in largo: il protagonista sta inseguendo il figlio o scappando dal responso, ossia la rottura definitiva? Ironico e delicato, inguaribilmente British, Nicholls ci spezza il cuore come soltanto lui sa fare. E ci offre il ritratto agrodolce di una coppia al capolinea, sopravvissuta con difficoltà alla fine della giovinezza e alla morte della primogenita, di cui ormai restano soltanto pochi ricordi in una scatola. Cosa rende una famiglia tale? Le carte di un eventuale divorzio ne sancirebbero la fine? Ogni giorno, soprattutto sotto le feste, me lo domando a proposito della mia. Ci ho ripensato con commozione con questa produzione inglese estranea al lockdown. Il prezioso promemoria di quand'eravamo uniti, spensierati, in viaggio: noi, prima persona plurale. (7)

lunedì 9 luglio 2018

Mr. Ciak - Flaiano Film Festival: Figlia mia, La terra dell'abbastaza, Sono tornato, Youtopia

Dal 29 giugno al 6 luglio, con una cerimonia finale sullo sfondo di Piazza della Rinascita, si è tenuto a Pescara il quarantacinquesimo Flaiano Film Festival. Il primo per cui ho timbrato il biglietto. Diciotto film divisi in quattro categorie, Riccardo Milani come direttore artistico e un red carpet aperto ad alcuni fra i migliori volti di casa nostra: il tre volte Premio Oscar Vittorio Storaro, Ferzan Ozpetek, Elena Sofia Ricci, Monica Guerritore, Greta Scarano, Filippo Timi, Massimo Popolizio, Francesco Montanari, Ennio Fantastichini, Rolando Rovello, il trio Ward-Conticini-Muniz, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, Alessandro Cattelan.

La Sardegna è quella brulla e ancestrale di Michela Murgia. Lì si raccontano leggende e bugie. Ci si scambia i figli. Si vive di quel che porta a riva la benevolenza del mare. Valeria Golino, con una tinta scura che le fa più bella e i vestiti dei giorni di festa, ha affidato le sue preghiere prima alla Madonna, poi ai lombi della Rohrwacher: tanto bene integrata la prima, quanto sciagurata la seconda, non avrebbero in comune niente, se non un segreto con i capelli rossi; un patto da violare nel momento in cui la derelitta Angelica, tutta abitini inguinali e lingua impastata, non avanza una pretesa prima di lasciare l'isola per sempre. Conoscere un po' per capriccio, un po' per desiderio, la bambina che ha partorito e subito ceduto a una genitrice migliore di lei. La piccola Vittoria non conosce la verità sulla propria nascita, ma è troppo selvatica, troppo curiosa in fatto di baci e imprese impossibili, per appartenere a una famiglia dalle discrete possibilità economiche che le impone gli abiti da signorina, il costume intero in spiaggia, gli orecchini meno appariscenti e animali domestici che non somiglino a scrofe, galline o cavalli. Il sangue chiama. La bussola interiore porta sempre e comunque alla fattoria fuori mano dell'irresponsabile madre biologica; mentre colei che l'ha cresciuta, in paese, si strugge per diritti che non le spettano, la torta di compleanno intonsa, un letto vuoto. Dopo Vergine giurata, Laura Bispuri torna al cinema con un melodramma al femminile con i colori accesi, la telecamera a mano impegnata a seguire le protagoniste in piani sequenza impressionanti, una storia di maternità salveggia. Figlia mia è una carnale romanzo di formazione fra due fuochi, sotto il sole a picco, con affascinanti sprazzi kitsch e interpreti al loro meglio. Disarmante per immediatezza e generosità, è il rito iniziatico di una bambina contesa, voluta allo stesso tempo da tutti e da nessuno. Come succede alle anguille, stando ai racconti dei padri pescatori, viene partorita al largo per poi raggiungere il punto di partenza. Perché le bestie dalla natura acquatica e le figlie della Bispuri, tagliato il cordone, trovano sempre la strada di casa: a guidare le due litiganti, colei che dall'alto del suo sfacciato metro e trenta se ne frega della buona educazione e delle leggi degli uomini. In terre, in film, in cui raddoppiano l'emozione, le mamme, l'amore. (7,5)

Mirko e Manolo frequentano la scuola alberghiera, ma non vogliono essere camerieri. Proprio non se ne parla, di servire. Si desiderano padroni. All'inizio pensavano a un'attività in proprio, ma il destino ha piani alternativi. Hanno avuto la fortuna di investire l'uomo giusto: ricercato da un clan del posto, il latitante è stato freddato per caso da due ventenni su di giri, che fanno di quell'omicidio preterintenzionale una merce di scambio; un modo per svoltare. Il clan vuole sdebitarsi, li vuole a bordo. Perché se uccidere viene loro sorprendentemente facile, il malaffare è la via. Siamo nell'immancabile provincia romana di Garrone, Sollima, Caligari: volgare, stagnante, miserabile. Le femmine sognano i talent show alla TV; i maschi di continuare a giocare alla guerra. Qualche mamma nel frattempo fa i salti mortali per sbarcare il lunario e qualche padre – un inedito Tortora – liquida la morte come fosse un hobby. Applaudito all'unanimità al Festival di Berlino e vincitore della Migliore opera prima ai Nastri d'argento, l'esordio dei fratelli D'Innocenzo è una tragedia urbana pesantissima e potente. A sangue freddo. Non lascia scampo con i suoi schiaccianti primi piani e una scrittura in caduta libera, che da candida si fa efferata. Nuovo capitolo da inserire con successo nel filone dei drammi criminali, quelli che più ci riescono ma che più annoiano, La terra dell'abbastanza racconta sempre la stessa storia, sì; mostra sempre il solito sesso squallido e i soldi sporchi; tutto già detto, tutto già visto. Eppure, guardandolo, ho avuto la sensazione di assistere alla nascita di qualcosa di significativo: sentiremo parlare presto dei D'Innocenzo, che hanno un taglio indie come marcia in più, e degli scapestrati Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, che ricordano Marinelli e Borghi (amici-nemici al limite nello speculare Non essere cattivo) non solo per la fisicità o gli accenti. Anche se tra te e te credevi in fondo di averne avuto abbastanza, di spari a tradimento e ragazzi interrotti. (7)

Dici Miniero, e pensi subito ai remake su misura d'italiano. Dici Sono tornato, e ti vengono in mente il best-seller tedesco che non sei riuscito ad avere o la trasposizione che non ti ha mai interessato troppo. Vedi Popolizio, con una voce e una presenza sceniche straordinarie, e pensi che sia perfetto per il ruolo di colui che ingannava e incantava il gregge. Vedi Matano, ancora, e ti domandi cosa ci faccia in un film semiserio, e pensi che peccato: ti è sempre stato simpatico, sì, ma non che come attore convinca granché. Comunque poco male. Perché combattuto tra pro e contro, tra il desiderio di recuperare l'originale e la consapevolezza che questo aggiornamento potesse cogliere più nel (nostro) segno, sono andato a vedere la commedia satirica in cui a tornare non è il famigerato baffone, bensì il socio. Letteralmente piovuto dal cielo, si fa seguire da un aspirante documentarista – e a Matano, con il ruolo giusto, male non si può volere – in giro per uno Stivale da riconquistare. Gli extracomunitari, le unioni civili, la destra e la sinistra che non esistono più: a detta sua, il nostro disonore. Gli italiani lo trovano spassoso e affascinante, lo scambiano per un comico: gli danno un programma che fa ascolti, e tutte le ragioni. Miniero prende senz'altro il meglio dal film originale, sferza e smuove, ma il politicamente corretto resta – a sorpresa, direi, se parte di un Paese di spettatori permalosi, di gente più colpita dall'uccisione di un cagnolino in CGI che dalle persecuzioni razziali. Si ride dunque moltissimo, ma a denti serrati. Si ha paura, sotto sotto. Lo share, la popolarità, dicono come i più trovino il Duce non soltanto simpatico, ma una soluzione necessaria. Voce della ragione, una nonna smemorata che mette la pelle d'oca con i suoi ricordi shock. Al suo arrivo in sala, eppure, Sono tornato non ha fatto gran rumore. Troppo intelligenti gli italiani, o troppo punti sul vivo per proferire verbo?  Si ride nerissimo, ci si guarda indietro e avanti. Dove eravamo. Dove andremo. In una Italia su ruote, sui canali della TV trash, che spererebbe di riprendere tutto ciò che è suo. Un nulla di fatto, sublimato dalla peggiore forma di nostalgia. (6,5)

Si è riso più che con Favola. Si è storto il naso più che per la mancanza di carattere di Dopo la guerra. La soglia della credibilità, abbassata più che nella fiaba Tito e gli alieni. Ma non parliamo di una commedia grottesca, di un dramma politico che non sa bene che pesci prendere, di fantascienza per bambini; piuttosto della disperazione per la crisi economica, di sesso e potere, del lato sporco di internet. Di una ragazza che a diciott'anni mette all'asta la propria verginità per salvare la casa dal pignoramento. Lei è una De Angelis tutta tette a vista e bronci, che nella sua cameretta chatta con il romantico avatar doppiato dall'attore di Mommy e si concede un paio di topless davanti alla webcam. Donatella Finocchiaro, qui mesta e avvinazzata, è sua madre: ci prova anche lei a spogliarsi, a un certo punto, ma alla fine cuce alla figlia un vestito da Cenerentola per la temutissima notte con Haber: farmacista pescarese vizioso e repellente, con un improbabile sottoposto che conosce il Deep Web e una schiera di prostitute a cui proporre i peggiori giochi di ruolo. Vuole la carne fresca, adesso, di un'adolescente che non contempla altra via, che un lavoro non sembra mai cercarlo davvero, che ha fatto del proprio status la versione sozza di Ready Player One. Vorrebbe essere un dramma di denuncia ma ha gli scivoloni delle commedie sexy, questo Youtopia. Indifendibile su ogni fronte, brutto e immorale, ridicolo per sbaglio – vedasi i ben poco ammiccanti pruriti anali di una escort impegnata a flirtare col farmacista sbagliato o un annuncio che, nonostante le lacrime esagerate della Finocchiaro, genera l'ilarità in sala. Di cattivo gusto, senza uno sguardo o un briciolo di sex appeal, Youtopia è risate incerte a scena aperta e una bella De Angelis che, purtroppo, si perde nelle maglie della rete, e della bruttezza. (4)

Ho rivisto: Favola (7,5); Tito e gli alieni (7,5).