Acclamato
dalla critica come il film dell’anno, lo si attendeva con ansia.
Mank, l’ultima fatica di David Fincher,
sbancherà ai prossimi Oscar soprattutto nelle categorie secondarie.
Prodigio di tecnica, con il suo bianco e nero pastoso e un audio
leggermente gracchiante, sembra sbucato dagli anni
Quaranta. Ci si poteva aspettare forse qualcosa di meno da un biopic
che racconta la genesi dell’intramontabile Quarto potere?
Seppur meno funambolico e barocco del capolavoro originale, Mank è una visione
perfino più godibile del previsto grazie ai dialoghi scoppiettanti e
a un personaggio sopra le righe. Il cuore, però, dov’è? Il sempre
impeccabile Oldman interpreta l’eponimo sceneggiatore: erano anni di crisi. Con ancora
i postumi della Grande Depressione, il cinema faceva il passo dal
muto al sonoro e assoldava drammaturghi per attirare
nuovo pubblico. C’erano l’avanzata di Hitler, inoltre, e le
elezioni del 1934 da sabotare al suon di falsi cinegiornali. Chiamato
a scrivere un film su commissione per Welles, il protagonista
sceglierà un soggetto inusuale: la vita di un ricco magnate perso
dietro gli intrighi del subdolo Mayer. Accompagnato dall’incantevole
Amanda Seyfried, moglie trofeo ingiustamente bollata come bella e
stupida, Oldman si muove tra i labirinti, le fontane e gli animali
esotici della reale Candalù. In un puzzle costruito su diversi piani
temporali, Fincher – con una sceneggiatura del defunto padre Jack –
lavora al ritratto di un malinconico giullare destinato a farsi
sempre terra bruciata per via della lingua lunga. Sbronzo
e caracollante, Oldman punta il dito contro i miti e i mostri della
MGM; scandalizza i figuranti della fitta corte dei miracoli di
Charles Dance; menziona attori, addetti ai lavori, politicanti
sconosciuti. Pieno di rimandi com’è, Mank affascina per la
foggia bellissima ma lascia spesso indifferenti per il contenuto:
quando Hollywood parla di sé, infatti, dovrebbe farlo con un
linguaggio alla portata di tutti. Ripiegato su sé stesso, invece, il
film va incontro a un controsenso. La fabbrica dei sogni ci svela
dall’interno il proprio funzionamento. E, come dopo lo svelamento
di un trucco, perde parte della magia. (7)

Su
carta aveva tutto per piacermi. Le atmosfere rurali dei romanzi di Haruf, un regista classico ma solidissimo, due protagoniste che
sin dal trailer facevano a gara di bravura. Le recensioni avevano presto frenato le aspettative.
Elegia americana, tratto dal romanzo biografico di J.D. Vance, era il
disastro preannunciato? Storia di tre generazioni a confronto, il
film racconta il sogno americano del solito self-made man: uno
scrittore partito dal nulla e giunto con successo al
prestigio, che tuttavia non ha dimenticato l'importanza delle radici.
Diviso tra dovere e famiglia, deve fare i conti con il richiamo del
proprio sangue e con i guai ereditati da una genitrice perennemente
sull'orlo dell'abisso. Articolato in una serie di lunghi flashback,
Elegia americana si concentra sui bracci di ferro tra la madre e la
nonna di Vance: più che a lui, infatti, si lascia spazio agli
strepiti di due donne al centro di un rapporto di amore-odio. Amy
Adams, imbolsita e fuori parte, esagera con i pianti, le urla e le
salopette sformate: così sopra le righe da risultare
involontariamente comica, offre purtroppo la prova peggiore della sua
carriera a causa di un personaggio che segue tutti i cliché delle
donne autodistruttive. Molto meglio Glenn Close, nonna dolcissima
nonostante i modi spicci, che sotto il suo mascherone posticcio e
l'andatura caracollante riesce comunque a lasciar trapelare una
grande commozione: sarà la volta buona per l'Oscar? Dopo gli eccessi
melodrammatici della prima parte, le cose si aggiustano nella
seconda, dedicata al riscatto personale del protagonista. Moralmente
edificante, vittima dei luoghi comuni e di un'intensità variabile,
il film è sin troppo caricaturale per apparire veritiero e la
sceneggiatura – scritta a tavolino per strizzare l'occhio
all'Academy – viene presto a noia: il tocco di un Clint Eastwood,
più schietto del patinatissimo Howard, avrebbe fatto la differenza.
Ciò che resta è una puntata di This is us lunga e dimenticabile,
che riesce nell'impossibile: deludere, nonostante la presenza delle
sue stelle. (6)
Dopo
aver raccontato dei ricercatori al verde di Smetto quando voglio,
criminali per necessità, il talentuoso Sibilia confeziona un’altra
ode spassionata alla follia e al coraggio dei sognatori; a coloro che
inventano e si reinventano. Ispirato a una vicenda talmente assurda
da essere realmente accaduta, L’incredibile storia dell’isola
delle Rose segue le avventure picaresche di un sempre ottimo Elio
Germano. Ingegnere di belle speranze, più volte segnalato alle
autorità per le sue invenzioni strampalate, a un certo punto
progetta un’isola a largo di Rimini. In acque internazionali, nel
1968, sorge una piattaforma sorretta de sei piloni d’acciaio:
sembra un lido o poco più, una discoteca. Invece era un’utopia
galleggiante con le pretese di diventare uno Stato indipendente
dall’Italia. Come acquisire la giusta credibilità, se accusato di
contribuire al malcostume del Paese con la sua concezione di dolce
vita? Rifugio felice per naufraghi, apolidi, reduci e neomamme,
l’esistenza dell’isola insospettirà i piani alti – Zingaretti
e Bentivoglio, esilaranti – e sarà discussa a Strasburgo, nel
consiglio d’Europa. Accompagnati da una romantica De Angelis,
Sibilia e il suo Germano ci rendono partecipi di una pagina di
cronaca dal forte valore emblematico. Perfetto nel cast, nella CGI e
nei colori sfavillanti, il film Netflix non è esente dalle
lungaggini della seconda metà ma si riscatta con un epilogo
emozionantissimo, che propone una catena di mani intrecciate e una
morale sempreverde: i sogni non li abbattono neanche le cannonate. Il
regista convince anche a ritmo di twist e con accento bolognese:
artefice di prodotti giovani, ambiziosi e rinvigorenti, fatti di
intuizioni e soprattutto di idee. Può esistere un’isola che non
c’è? E un cinema che non c’era? (7+)
Hanno
tutti un parente che si distingue dagli altri. Quello colto e
distinto, seduto in disparte a leggere Flaubert, che per un motivo
imprecisato non piace a nessun membro della famiglia. Quello diverso,
in una maniera di cui da bambini non si capisce bene il perché. Ma
Frank non è poi così diverso da Betty: la sua nipote prediletta,
che nonostante le origini campagnole ha puntato alla Grande Mela per
studiare letteratura. Lì scopre che lo zio professore ha una doppia
vita: omosessuale, nasconde un compagno amorevole e amici
strampalati. Costretti a tornare a casa per un funerale, nipote e zio
viaggiano in macchina da New York a Creekville sulle scene di un
passato doloroso. Quale trattamento ha ricevuto Frank? Cosa lo ha
reso disincantato e omertoso? Alan Ball, autore premio Oscar per
American Beauty, torna su Amazon. E scrive e dirige una
commedia drammatica vagamente autobiografica, con un immediato
effetto benefico. Ora spensierato, ora malinconico, Uncle Frank
risulta leggerissimo nonostante i temi luttuosi. Riuscito tanto
nelle ambientazioni anni Sessanta quanto per la caratterizzazione
interiore dei personaggi, si ricorderà soprattutto per la bravura
insospettabile di Paul Bettany: dolente e spiegazzato, elegantissimo,
emoziona per la piega amara della bocca e per il tremore
impercettibile delle mani. Con lui la giovane Sophia Ellis, un volto
su cui puntare. Tra confronti, funerali e coming out, Uncle Frank
è la rimpatriata agrodolce sull'orgoglio di essere pecore nere. (7)

Non
amo i film d’inchiesta, ma per Aaron Sorkin ho fatto un’eccezione.
Lo sceneggiatore e drammaturgo americano, qui anche regista, ci porta
nell’estate turbolenta del 1968. Alle porte dell’Hotel Hilton,
dove in previsione di una convention di democratici si riuniscono a
pretestare tre gruppi di sinistra: uguali ma diversi, hanno intenti
pacifisti – correva l’epoca del Vietnam – ma lo scontro con la
polizia è inevitabile. Chi ha colpito per primo? Il film, un puro
dramma processuale, racconta del processo per stabilire se la colpa
spetti ai dimostranti o alle forze dell’ordine. Concitatissimo,
parte con i migliori auspici e un montaggio serrato, ma si perde in
un prosieguo caotico man mano che il caso diventa più logorante.
Profondamente americano, il dramma di Sorkin strizza l’occhio con
incertezza all’attualità e pecca di una caratterizzazione molto
semplicistica, indulgente verso gli indagati e impietosa contro la
polizia. Per me non al suo meglio, lo sceneggiatore riesce a essere
comunque sorprendentemente piacevole a tratti, ma per me la sua
ricostruzione non centra il punto. Nel cast, popoloso ma dispersivo,
inoltre non spicca nessuno in particolare fatta eccezione per Sacha
Baron Cohen e Jeremy Strong: due spassosi hippy, che rispondono a
tono e con ironia. Peccato che nulla possano contro un epilogo alla
Spielberg, altamente retorico, che vorrebbe stillare lacrime e miele
in quantità, ma finisce soltanto per far sbuffare. Probabilmente non
ne ho compreso l’urgenza. Non amo i film d’inchiesta, e Aaron
Sorkin non è stato l’eccezione. (5,5)