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mercoledì 11 settembre 2024

La letteratura in streaming: Kaos | Dostoevskij | Feud: Capote vs. The Swans

Cospirazioni, tradimenti coniugali, sangue, famiglie. Esiste forse intrattenimento più contemporaneo e accattivante di quello offerto dalla mitologia greca? A partire da una intuizione elettrizzante, Kaos porta in scena i personaggi più amati del mito calandoli nella Creta odierna. Gli dei esistono, sono tra noi e, come sempre, mettono lo zampino negli affari mortali. C'è chi, però, ha smesso di temerli. Il Zeus di un esilarante Jeff Goldblum trema di rabbia e frustrazione, con la segreta paura di essere esautorato. Chi sta tramando contro di lui? Come può gestire la convivenza forzata tra cretesi e troiani, se ha difficoltà perfino a farsi obbedire dalla gelosissima moglie Era o da Dioniso, il più spiantato dei suoi figli? Saga familiare ultraterrena, eccezionalmente raccontata da un Prometeo già prigioniero, questa prima stagione (confidiamo, per favore, in un tempestivo rinnovo) tira in ballo anche un trio di mortali dal ruolo cruciale: Arianna, figlia del Presidente Minosse, che questa volta non ha bisogno di nessun Teseo; Euridice, stanca di essere cantata dall'egoista musicista Orfeo; Ceneo, ex amazzone con disforia di genere. Profondamente umani nella caratterizzazione, toccanti e in crisi esistenziale, i nostri eroi si muovono tra le Moire e le Erinni, la terra e l'aldilà, con una domanda: si può cambiare un destino già profetizzato? Corali, spassosi, kitsch con gusto, gli episodi non ha bisogno di effetti speciali per incantarci: la magia è nella scrittura di Charlie Covell, che brilla di equilibri indovinati e di un irresistibile humour inglese. Dopo tanti passi falsi, Netflix tira dal cilindro una serie finalmente all'altezza delle aspettative. Kaos, chicca imperdibile, fa con la mitologia quello che Romeo + Giulietta fece con Shakespeare. (7,5)

Dopo il successo di Valeria Golino, anche Fabio e Damiano D'Innocenzo tornano al cinema con una serie TV. Lenti, sgradevoli, più oscuri che mai, i gemelli romani ci mettono alla prova con un crime in due atti in cui qualcuno potrebbe vedere la risposta italiana a True Detective. Sono cinque ore di cinema d'autore. Di quello lento, pesante, disperato, tipico di alcuni festival di nicchia. La scena clou della prima parte? La colonscopia particolareggiata a cui viene sottoposto il protagonista: un cattivo detective, colpito dalle dipendenze e dal fallimento familiare, di cui sondare le viscere per sincerarsi del marcio. Sbirro e assassino, infatti, condividono gli stessi demoni. Il serial killer, ribattezzato Dostoevskij per le lettere nichiliste seminate sulla scena del delitto, diventa l'ossessione del nostro antieroe. La morte può diventare una ragione di vita? Nei polizieschi c'è sempre il momento in cui la polizia si muove nel buio. I D'innocenzo immortalano quel brancolare: i tentennamenti, le ipotesi, i buchi nell'acqua. E in quel buio si scavano la tana, inventando una sfumatura di nero che prima non c'era. L'ultimo atto vola, più spedito, più corale, più incalzante, ma non ci sono notti bianche all'orizzonte. Non sarebbe stato possibile condensare tutto in un film? Sì, ma sarebbero venute meno le sequenze descrittive in cui il Lazio sembra il Midwest; l'amicizia sincera di un commovente Vanni e la hybris di Montesi, giovane leva con tutto da da perdere. Condannato a un'oscurità eterna, Dostoevskij si rivela il nostro Prisoners: un delitto senza castigo in cui la voce bellissima e cavernosa di Timi, qui in stato di grazia, risuona tra le bettole della povera gente, nelle memorie del sottosuolo, nel nostro buio più inconfessabile. (8)

Le parole possono tutto. Perfino uccidere. Lo sapeva bene Truman Capote: reduce dal successo di A sangue freddo, cercava ispirazione per il suo prossimo bestseller tra i salotti e i ristoranti dell'alta borghesia. Cinico e pettegolo, lo scrittore omosessuale era la mascotte di un gruppo di donne facoltose ma infelici: le chiamava i cigni. A conoscenza dei loro più sordidi segreti, lo scrittore le sburgiarderà per scrivere Preghiere esaudite: una di loro, disperata, si toglierà la vita. In cambio della gloria, Capote perderà la loro amicizia. E l'anima. Dopo averci raccontato la lotta tra Crawford e Davis, due dive sul viale del tramonto, la serie antologica torna con la consueta classe a svelarci un altro scandalo americano: questa volta si passa dal cinema all'editoria. Splendidamente diretta da Gus Van Sant, pur contando su un eccezionale cast femminile, la serie è una vetrina per mettere in luce il genio e la sregolatezza dello scrittore in confidenza con James Baldwin e in contrasto con Gore Vidal: già portato al cinema più volte, trova nell'interpretazione di un irriconoscibile Tom Hollander la sua incarnazione più spumeggiante. La qualità è alle stelle. Ma, a differenza della prima stagione, questa appare più rigorosa e meno fruibile dai profani; più un biopic, l'ennesimo, che un prodotto corale e femminista. Splende la sola Naomi Watts, l'amica prediletta, che ci regala una delle performance migliori della sua carriera con il personaggio di una donna divorata dal cancro e dalla nostalgia, ma pur sempre piena di decoro; degno di nota il cameo spettrale di mamma Jessica Lange. Questi cigni vittima della monotonia incantano per eleganza, ma hanno un becco che non morde. Lontani dall'orbita di Capote, con una faida già persa in partenza, faticano a volare. (6)

lunedì 7 ottobre 2019

Dear Old Mr. Lynch: Mulholland Drive, Velluto blu, Strade perdute, The Elephant Man, Una storia vera

[2001] Stando alla critica è il miglior film d’inizio millennio. In rete abbondavano i frame, le lodi, le spiegazioni, e al solito non mi sentivo all’altezza del recupero. Avrei capito anch’io la grandezza di Mulholland Drive o, come successo con Twin Peaks, sarei stato troppo confuso per dire la mia? Per quanto popoloso di figure grottesche e cospiratorie, degne di un romanzo hard boiled con sprezzo del kitsch, il capolavoro di David Lynch risulta sorprendentemente lineare e coerente nei primi novanta minuti. Mi ha messo a suo agio così. Ci sono un’attrice di provincia in cerca di fama e una sconosciuta senza identità che, forse, proprio a causa di quella stessa fama si è bruciata. Accanto a loro, un regista costretto a obbedire alle manipolazioni dei produttori, che dall’alto gli impongono la stella del suo ultimo lavoro. Tutt’intorno, appare indispensabile una selva tragicomica di sicari pasticcioni, cowboy sibillini, inquietanti compagni di posto e clochard che fanno saltare lo spettatore in poltrona provocando perfino svenimenti. Vistose parrucche platino, nomi scambiati e topless bollenti culminano con l’ingresso delle protagoniste nel club Silencio, dove tocca rivalutare i ruoli delle due donne all’interno della vicenda. In definitiva, un noir su una Hollywood fucina d’illusioni e dissapori. Per affermarsi basta il talento? Per resistere all’ennesimo provino fallimentare è sufficiente l’amore? Le stranezze e le scene di culto si annidano tutte nell’ultima parte – la mia preferita –, dove abbondano i fumi, le sovraimpressioni, le figure simboliche. Lì dove, affascinati da un Lynch capace di un equilibrio insospettabile, siamo portati a cercare un senso – a volte con successo, altre brancolando nel buio – all’intreccio, mettendolo quanto possibile in ordine cronologico.  Se una regia priva di guizzi rivela l’iniziale natura televisiva del progetto, gli applausi sono invece per la scrittura – reale motivo di cotanta iconocità –, capace di spaziare dai personaggi stereotipati ai travagli dei melodrammi LGBT, consacrando nel mentre una Naomi Watts già straordinaria e svelandoci le grazie della prosperosa Laura Harring, finita purtroppo nel dimenticatoio. Tema clou: quei sogni nel cassetto, letterali e figurati, di cui il cinema è una macchina instancabile. Il risveglio, traumatico, sarà un testacoda su Mulholland Drive. La strada su cui morì più di qualche aspirante star, assieme alle belle speranze di una ragazza dell’Ontario che, a occhi aperti e chiusi, sognava la gloria, l’amore e altre chimere inconciliabili. (8,5)

[1986] Gli uccellini cinguettano beati. Le staccionate bianche sono state riverniciate di fresco. I giardini sono un fiorire di rose rosse. Come esemplifica bene la sequenza d’apertura, però, in quel quartiere residenziale dalle villette a schiera non è tutto oro quel che luccica: sotto c’è del marcio. Serpeggiano blatte e vermi, di cui si nutrono perfino i pettirossi – simbolo d’amore e speranza. Si rinvengono, in passeggiate nel cuore della natura, orecchie mozzate e altri scomodi segreti. A fare da detective per caso è un acerbo Kyle MacLachlan, poi ritrovato con pistola e distintivo nei panni del detective Cooper, di ritorno all’ovile dopo anni da studente fuori sede: inciamperà accidentalmente nella morte e nei drammi di una cantante jazz dalle tendenze sadomasochistiche – l’indimenticata Isabella Rossellini, per me né così bella né così brava –, così diversa dalla ragazza della porta accanto con il volto della giovane Laura Dern. Venerato da Quentin Tarantino, questo scandagliamento del sogno americano ha il voyeurismo dei patinati thriller erotici che ci si aspetterebbe da Lyne o De Palma. Sprovvisto di clamorosi colpi di scena, con una risoluzione smaccatamente lieta che oggi fa un po’ storcere il naso, invecchia con estrema classe ma deve aver smarrito in parte la sua carica eversiva. Di grande atmosfera, con una regia più elegante che altrove, ha tutt’oggi il merito di aver contaminato un genere di per sé raffinatissimo con succulenti inserti pulp e un cattivo – il gigioneggiante Dennis Hopper qui a un passo dall'Oscar – decisamente sopra le righe, pur raccontando in definitiva poco di nuovo. Trentatré anni dopo, il pregio di questo morbidissimo velluto blu non si discute; meno la brillantezza del giallo. (7)

[1997] A ben vedere, è l’anello di congiunzione fra Velluto blu e Mulholland Drive. Un tassello indispensabile. Un’opera nella quale, a mente lucida, s’intravedono i germi dei successi futuri. Peccato che la visione risulti di per sé poco memorabile. Il jazzista di un monocorde Bill Pullman brucia di gelosia per i presunti tradimenti di sua moglie, una Patricia Arquette qui al massimo del sex appeal. Accusato dell’omicidio della donna, perseguitato da misteriose cassette e da un uomo dalla bruttezza profondamente disturbante, il protagonista finisce in carcere. Ma i secondini, un giorno, trovano un’altra persona al suo posto. Che ci fa in gatta buia quel meccanico scapestrato e piacione, con una relazione sconsiderata per la moglie di un boss mafioso – sempre lei, una Arquette doppiamente nuda e fatale? Composto da due film all’apparenza sconnessi, nessuno dei quali particolarmente coinvolgente, Strade perdute si è lasciato seguire soprattutto perché trovavo intrigante l’idea della risoluzione finale. Come si sarebbero ricongiunte storie così lontane? Lo fanno a fatica e con le classiche stranezze del regista, davanti alle quali questa volta non ho provato il desiderio di chiedere spiegazioni alla rete o di saperne di più. Si affronta il tema del doppio. Si fa tanto, patinatissimo sesso. Si ascolta una pesante colonna sonora rock ‘n’ roll – con tanto di cameo di Marilyn Manson –, perfetta per gli ambienti malavitosi del film ma lontana dal mio gusto personale. Questa consolidata storia di bulli e pupe, tuttavia, è inserita per fortuna in una cornice che fa la differenza, mirata ad aprire al cinema le porte delle teorie freudiane e a filmare scena per scena le scosse elettriche di un conflitto interiore. A fuoco ma non abbastanza, le strade del titolo hanno il pregio di aver condotto il nostro Lynch a un sostanziale crocevia. Ma il risultato è inferiore alla somma delle sue parti. (5,5)

[1980] Sono gli anni di grigiore e depravazione della Rivoluzione industriale. Hopkins, affascinato dalla deformità di un freak, lo salva dai soprusi del circo e cerca di educarlo. Lo hanno mosso la tenerezza o l’ambizione? Qual è la differenza fra un padrone e un buon samaritano? Soggetto a continue disavventure, l’Uomo Elefante è vittima di una malattia genetica: non può scandire bene le parole, non può dormire disteso sulla schiena senza rischiare il soffocamento, non può a vivere a lungo in una società tanto inospitale. Ma nessuno ha messo in conto i prodigi della sua forza di volontà, né quelli del suo ingegno. Autoaffermandosi, perché non pretendere di vivere un’amicizia, una storia d’amore e un giorno perfetti – soprattutto se un’attrice, la Bancroft, vede in lui il compagno ideale per leggere le tragedie romantiche di Shakespeare? Da copione, il protagonista imparerà le buone maniere, onorerà il rito del tè delle cinque, indosserà il frac. Qualcuno vorrà scacciarlo. Qualcuno vorrà venderlo al migliore offerente. Qualcuno lo accoglierà, ma per mero opportunismo. Fiaba dalla scrittura classica, fra biografia canonica e parafrasi sognante, The Elephant Man è un film di grande maniera, con un Lynch che non perde il suo tocco personale neppure alle prese con i languori di un bianco e nero anni Cinquanta. Poco male se tutto va proprio come previsto. È possibile vederlo, infatti, senza abbandonarsi a scena aperta a un pianto viscerale? Eroe burtoniano non meno di Edward mani di forbice, John Hurt si lascia sfuggire dai pertugi del suo mascherone ingombrante poche parole confuse e lacrime passeggere. È l’umanità dei mostri. E' la mostruosità degli uomini. (8)

[1999] Ha perso sette dei suoi quattordici figli. Ha visto i suoi nipoti venir reclamati dagli assistenti sociali. Costretto a camminare poggiato a un bastone, mezzo cieco, l’anziano Alvin Straight ha un passato tumultuoso – reduce di guerra, alcolista –, un cappello da sceriffo e due occhi spalancati per l'infinita meraviglia. Incurante delle rimostranze della figlia autistica Sissy Spacek, un mattino prende e va: deve andare a trovare il fratello minore colto da un infarto, con cui non parla eppure da dieci lunghi anni. Il suo mezzo di trasporto: un tosaerba malandato. Lungo il tragitto lo aspettano incidenti di diversa natura, tantissimi buoni samaritani, ricordi drammatici. E il tutto sembra così folle da non poter non essere vero – ci è testimone il titolo italiano, Una storia vera. Se le atmosfere sono di quelle affascinanti, splendide come in un racconto di Kent Haruf, alla storia d'altra parte si rimprovera una dose di zucchero in surplus. Agrodolce ma a tratti un po' stucchevole, questa fiaba sulla terza età a cui tutto deve il bellissimo Lucky schiera tanti temi caldi in campo – vedasi la descrizione iniziale della tribolata vita del protagonista – ma fa presa sicura con una storia così poetica, così adorabile, da toccare le corde giuste. Avrebbe fatto altrettanto bene, probabilmente, anche con meno. Mi riferisco alle lungaggini, al patriottismo alla Eastwood, a un troppo che storpia. Ma la verità è che a un certo punto non ho visto più i difetti, con gli occhi pieni di lacrime per colpa della tenerezza di Richard Farnsworth: tutt’oggi non so se sia più struggente la sua ultima performance o la consapevolezza che di lì a poco si sarebbe tolto la vita, vinto da un male incurabile. Com’è grande il cuore di questo insospettabile Lynch, alle prese con il piccolo cinema indipendente. (6,5)

venerdì 14 luglio 2017

I ♥ Telefilm: BoJack Horseman | Gypsy | Glow

L'idea di BoJack Horseman non mi ha mai tentato. L'animazione non fa più breccia da un po' e ho sempre considerato I Simpson, I Griffin e Futurama una compagnia come un'altra quando mangio da solo. Di sedermi in poltrona e seguirli per bene, insomma, non ci pensavo. Se fosse stata trasmessa in chiaro, la creazione di Raphael Bob-Waksberg avrebbe subito un trattamento simile. Invece è solo su Netflix (e dura ormai da tre stagioni) e, a fare da ago della bilancia, il consiglio dell'amico giusto al momento giusto (sì, ciao a te). Era amarissimo, mi assicurava, e a vederlo in certi giorni ci si sentiva meno soli. In quelli che al momento sono trentasei episodi, assistiamo alla disfatta di una star degli anni '90. Celebre per una sitcom generazionale, il protagonista è rimasto intrappolato in un passato che gli permette di vivere di rendita. A vent'anni dal successo, cinquantenne, è un parvenu nella sua villetta con piscina – va a letto con chi capita, beve fino al vomito, rosola a fuoco lento nei sensi di colpa e a centro pista. Ospita sul divano un giovane senza arte né parte e, nella prima stagione, viene braccato da una biografa che vuole scavare nella sua vita. Pensa di amarla, ma lei gli preferisce la fedeltà del suo storico rivale. Pensa di essere amato dalla sua agente, ma lei preferisce ignorare l'orologio biologico e trovargli il miglior copione su piazza. L'attore fallito è in cerca di se stesso, ma nel mentre trova una parte che gli srotola il Red Carpet: le luci dei riflettori, il ritorno in carreggiata e megari l'Oscar, aiutano a star meglio? BoJack Horseman, come il recente Feud, è una riflessione su uno star system che non perdona – porte chiuse per attori di mezza età, l'oblio per lo sceneggiatore gay di un programma per famiglie, autodistruzione ed esibizionismo per le Hannah Montana cresciute e, neanche a farlo apposta, un presagio di quel La La Land premiato per errore. Soprattutto, è l'esame di coscienza di una persona in crisi di identità che si sente male da sola e peggio in compagnia. Identica a me, a tratti, nel percepirsi un collezionista di sbagli; mai abbastanza. Ah, sì. Per tutto il tempo ho parlato di un cavallo un po' patetico, che indossa Converse rosse e un pigiama con le mele. Sorprende ritrovarsi nelle massime filosofiche di un quadrupede parlante, infatti. Sorprende scoprire che si ride tanto (i cameo di attori noti, le canzoncine assillanti e gli oggetti d'arredo hanno del geniale), ma che si ride di lui, non con lui. Chi dice che BoJack Horseman è divertente, in fondo, non ha capito niente. Chi dice che la vita è un appuntamento con gli applausi preregistrati di Horsin' Around dovrebbe sapere che somigliamo più a questo disastro qui. Con la stonatura dei colori pastello. Con i cavalli tragicomici che come te e me, in fondo, sempre niente c'hanno capito. (8)

Jean, psicoterapeuta newyorkese, si divide tra casa e lavoro. Ha un marito avvocato, che flirta con la giovane segretaria, e una figlia ribelle. Il suo matrimonio non è così solido, la sua casa scricchiola. E lei, lucida e saggia, in realtà nasconde sotto gli abiti eleganti un animo gitano. Gypsy, anticipato da una serie di foto promozionali che ammiccavano ai baci saffici di Mullholland Drive, parla di una coppia in crisi che la gelosia potrebbe o separare o rinsaldare. Protagonista sensuale ma misurata, una Naomi Watts in ruolo coraggioso per un'attrice matura – al contrario dell'amica Nicole Kidman, colei che a malincuore è l'unico pregio dell'ultima serie Netflix (bene anche Crudup, un altro a cui invecchiare porta bene) non ha ceduto alle tentazioni della chirurgia plastica. Il suo personaggio, mosso da un segreto desiderio di onnipotenza, si intromette nella vita dei pazienti: una giovane tossicodipendente, una mamma messa da parte, un uomo tormentato da una vecchia relazione (come in Love, anche qui Karl Glusman è innamorato pazzo). Le prime due pazienti portano Jean a riallacciare i rapporti con la figura materna; l'ex ragazza dell'ultimo, invece, diventa la sua ossessione amorosa. La situazione le sfuggirà di mano. Psicothriller al femminile, di Gypsy sfuggono il senso e gli alibi. Cos'è: un Closer dalla scrittura non all'altezza? Un In Treatment che viola il codice deontologico? Blando, sbrodolato, senza appeal, appare intimidito dal sesso – tocca aspettare otto episodi per un bacio appassionato, e il resto sono amplessi brutti e interrotti da tagli da boia: il pilot diretto da Sam Taylor-Johnson prometteva l'erotismo, eppure, per quanto patinato – e irrisolto. Finisce in sospeso, con un passato confusionario e un futuro in forse. La presenza della Watts costa, di potenziale inespresso non se ne vede. Lo scorso anno, lo stesso avvenne con The Path: grandi nomi, un'idea interessante su carta, e poi? Gypsy è un viaggio ai confini della sessualità e dei suoi misteri. Se non sei Ozon, rischi di smarrirti. (5)

Il wrestling è sempre stato un momento di coesione tra fratelli. Don't try this at home, dicevano, ma nessuno badava alle avvertenze. I videogiochi a tema, i giocattoli con tanto di ring e la raccolta di figurine, i Funko Pop dei lottatori. Sui canali italiani lo si incrocia meno, ma mio fratello fa le ore piccole seguendo Royal Rumble e compagnia bella, così come io seguo, a febbraio, la notte degli Oscar. L'ennesima produzione Netflix, Glow, è la storia vera di una manciata di donne alle corde. Siamo negli anni Ottanta di Red Oaks, fluorescenti e inflazionati fino alla noia. La protagonista, una bravissima Alison Brie, è un'attrice che non riesce a sfondare: tutt'altro che amabile, è pronta a tradire e tradirsi. Perde la sua migliore amica, dopo essere finita (due volte) a letto col marito, ma trova un ruolo che non aspettava: apprendista lottatrice in uno show di wrestling al femminile. Glow si vede in pochissimo, e nel mentre si ride di gusto. Non ha grandi pro né grandi contro. Netflix si è data alle cancellazioni bastarde e, onestamente, ho cercado di seguirla senza affezionarmici troppo. La serie delle produttrici di Orange is the new black mostra l'allenamento semiserio, la graduale formazione di una squadra affiatata, la ricerca dei costumi sfavillanti e dei personaggi vincenti. Il pubblico deve schierarsi. Il pubblico deve lottare con loro, pur sapendo che ci si picchia, ma per finta – le lottatrici raccontano coi loro corpi le tensioni della guerra fredda, l'amor di patria, la lotta al terrorismo. Non lo sai che è tutto finto? Non lo sai che in camerino hanno una sceneggiatura da sfogliare? Saperlo, da bambino, è stato come scoprire che Babbo Natale non esisteva. Ho iniziato a farci caso un giorno: ai pugni che non centravano il bersaglio, ai rumori dei cazzotti simulati battendo forte i piedi, ai ruoli scritti troppo e male. Con Glow, che eppure svela trucchi e retroscena, qui e lì ho ricreduto a Babbo Natale. (6,5)

venerdì 16 settembre 2016

Mr. Ciak: The Neon Demon, Demolition, La foresta dei sogni, Man in the Dark, Il condominio dei cuori infranti

Certi ritorni in sala sono eventi. Nicolas Wending Refn - autore danese di cui non ho visto ancora tutto, ma il necessario – evento lo è per principio: artista a tutto tondo, mosso da questo incontenibile spirito d'onnipotenza che lo porta a curare nel dettaglio ogni aspetto più piccolo delle sue pellicole. Tutti suoi i pregi, se li si scorge; tutte sue le colpe, e quelle le si trova, sì. Perché, mai come questa volta, l'estetica prevale sul senso pratico. La prima cosa che salta all'occhio guardando The Neon Demon, horror astratto, è l'armonia delle linee, le musiche assillanti, gli accostamenti maniacali, il luccichio abbagliante della confezione regalo. La prima, e l'ultima. La parabola di Jessie, sedicenne di periferia che si imbatte in gelosie profonde e stilisti che fanno a gara, ha un'evoluzione minima e agghiacciante. Cos'ha lei, eterea e gentile, una di quelle ragazze che arrossiscono con un niente e sono splendide senza trucchi, che le altre modelle non hanno? La protagonista, persa in una Los Angeles patinata e infernale, è carne fresca, non contaminata; nelle sue vene, visibili sottopelle, magari scorrerà un sangue blu, che fa gola. Elle Fanning, sbocciata d'un tratto, attira nelle sue stanze un fotografo infatuato (da Love, Karl Glusman), un sinistro portinaio (Reeves), una truccatrice ossessiva (l'irresistibile Malone, protagonista di un'incriminata sequenza di necrofilia) e una coppia di sorellastre maligne. I puma in amore, perfino, che fiutano il suo odore dolcissimo nei motel e scelgono di sconfinare nella città. Colpa di Jessie, mantide religiosa, o di un mondo a rovescio? Sotto il vestito, che è d'alta sartoria, se non niente, di certo c'è poco: corpi spigolosi, tutt'ossa, e carne turgida. Niente a cui aggrapparsi. Le indossatrici sono quarti di bue in scadenza: esposte, senza passato, altrove. Così le interpreti, costrette a una recitazione statica, a essere fotogeniche e nulla più. Coerente fino in fondo, immerso anima e corpo nei suoi abissi, The Neon Demon descrive un regno passeggero, sfarzoso e vacuo, e si uniforma ad esso, per legittima difesa. “La bellezza è l'unica cosa”, dice uno dei comprimari, e parla forte e chiaro per voce del regista. In una frase, così, riassunto il senso di due ore di grazia e crudeltà fini a loro stesse. E la bellezza, se assoluta, inafferrabile, non è per tutti. Puoi mandarla giù a forza. Ma alla fine, letteralmente, ne fai indigestione; macchi la moquette. Lo stesso può dirsi di quest'ultimo Refn. Stopposo, però incanta. (7,5)

Davis, bancario, ha costruito tanto in poco. Un automobilista che non rispetta il dare precedenza, rumore di lamiere, la moglie che gli muore accanto. Lui non riporta nemmeno un graffio. Non si concede né un pianto, né una parola gentile al funerale di lei. Preso dalla sua routine, arrabbiato con un distribuitore automatico che non gli ha dato la barretta al cioccolato per cui aveva pagato. Scrive una lettera di protesta alla ditta che gli ha rovinato l'appetito; nero su bianco, dà libero sfogo a ciò che sente o non sente. Confessa a una sconosciuta del servizio clienti che lui, quella moglie scomparsa, non la amava. La sconosciuta, madre single, risponde. Dopo la lotta all'HIV e quella contro una natura selvaggia, Vallée ritorna con un'altra grande interpretazione e un'altra storia di rinascite. Demolition è il modo alternativo – suo, e del cinema indie tutto – di approcciarsi alla perdita. Lo sottolineano la regia, asciutta ed energica, e una sceneggiatura di rara sincerità, che non contempla scene madri, strepiti, personaggi dal cuore buono e ulcerato. Jake Gyllenhaal, questa volta in borghese, è un disadattato emotivo. Un uomo che non conosce vie di mezzo, tra l'euforia e l'angoscia, e che incontra alla cornetta una fragile Naomi Watts con cui instaurare una di quelle relazioni alternativamente romantiche per cui stravedo nelle commedie del Sundance: si addormentano insieme, ma in letti separati. Quale esempio possono essere, lui con i suoi dotti lacrimali atrofizzati e lei con il suo lavoro precario, per la rivelazione Judah Lewis – quattordicenne in crisi di identità, quasi preso in prestito da Shameless? Se il dolore ci coglie impreparati, poco predisposti, scoprire cosa si è rotto, e quando. Rivoltarsi l'anima, le tasche, la casa. Mettere prima a soqquadro e poi in ordine, lungo lo strano percorso dell'elaborazione. Uno scatenatissimo Gyllenhaal armato di martello distrugge cose e case, cerca i difetti di frabbrica e forse gli indizi segreti. Davvero non si muove nulla, in quel suo cuore di ghiaccio? Davvero quando salta, balla e demolisce non le torna in mente lei: loro? Le macerie si accumulano, in Demolition, e allora si ride per (e con) un giovane vedovo in cerca di stimoli passeggeri: la fatica, perfino un chiodo calpestato o un colpo di pistola a bruciapelo, son da preferirsi all'oblio. Quando si passa, poi, alla necessaria costruzione, l'inconsueta ed esagerata tragicommedia di Vallée imbocca la consueta e ridimensionata via. E, nonostante il tempo ben speso in compagnia, lo spirito da tenera canaglia e il cast di mattatori, l'emozione affiora in Davis, ma non contagia. Penso a un gelido Fassbender, non più padrone di sé stesso, e alla sua presa di coscienza finale, scoppiata in Shame insieme al temporale. Fulmini e saette, e le lacrime di chi, sotto la pioggia, si alleggerisce di un peso. Sullo sfondo di Demolition, invece, più forti gli sghignazzi dissacranti e il rumore dei crolli. (7)

Arthur prenota un biglietto per Tokio. Destinazione: la foresta dei suicidi. Il luogo perfetto dove farla finita, con un peso nel petto e le tasche piene di barbiturici. Finché un viandante, che all'ultimo momento ha cambiato idea, non gli chiede aiuto. Nel cercare l'uscita, accorgersi che la retta via è smarrita. E, nel mentre, con una natura che mette a dura prova e il sentiero che, ogni volta, si nega, pensarci e ripensarci. La foresta dei sogni, ultimo film dell'acclamato Van Sant, ha subito un'accoglienza tutt'altro che felice. Portato a spasso per festival internazionali, ha deluso gli spettatori e ispirato al peggio le penne dei critici; in rete, i commenti positivi sono di chi l'ha visto senza chiedere nulla in cambio, ricercando una sera qualsiasi la compagnia di un film qualsiasi. Possibilmente, appassionante. Alle voci fuori dal coro, da oggi, aggiungete anche me. Che mi aspettavo la pesantezza, l'amaro in gola, e invece ho trovato un dramma delicato, pacifico, luminoso. All'ombra del monte Fuji, un viaggio dentro e fuori il sempre intenso McConaughey, che qui si confida a cuore aperto con un saggio Ken Watanabe e rimpiange Naomi Watts, moglie sconosciuta. Stutturato in modo classico – coi flashback che ci introducono gli strilli e i dispiaceri di una coppia contemporanea, provata da una malattia improvvisa –, il film è a metà tra il survival e il melò ma, per intero, è un'avventura dantesca, allegorica, in cui gli spiriti orientali conoscono i nostri santi in paradiso. La chiave di lettura è immediata, i simboli si decifrano a colpo d'occhio, ma lontano dal pessimo The Forest e più affine a un Al di là dei sogni, è una visione che ho trovato affascinante e fortemente conciliante. Un Van Sant minore e senza grandi mire, ma con cast all'altezza. Più adatto a una visione in solitaria che a Cannes - coi suoi tempi, con i suoi silenzi - , non vuole sgomitare con pellicole impegnate, né sorprenderti coi colpi di scena delle ultime battute: comunque, non sarebbe in grado. Ma se ti coglie una sera a casa, sul tuo divano, allora sa trovarti teso e lasciarti, ai titoli di coda, un po' cambiato. (7-)

Un gruppo di ladruncoli di periferia s'introducono a casa di un veterano di guerra. L'uomo, non vedente, custodirebbe gelosamente un tesoro. Il piano è giusto, ma la casa si rivelerà quella sbagliata. Il reduce non è quello che immaginavano. E, oltre al considerevole malloppo, in cantina nasconde un segreto. Cosa potranno tre giovani, avidi e sani come pesci, contro quell'insospettabile nemico dagli occhi lattiginosi? Man in the dark, sorprendente campione d'incassi negli Stati Uniti, può vantare medie da capogiro e la regia del promettentissimo Fede Alvarez: il regista del remake di Evil Dead, già rilettura di grande efficacia, gestisce i tempi, i travelling vertiginosi, le leggi della tensione. Qui, con un thriller claustrofobico e dallo spunto interessante, che placa i denigratori di ogni dove e accontenta i più. Loro, meno che me. Nonostante la sapienza nella direzione e la presenza fissa di Jane Levy, Man in the dark esaurisce in fretta le idee. E senza scomodare le stanze antipanico di Fincher, ma pescando dal baule degli horror ingloriosi uno Shut In (visto quest'estate: storia di malviventi che pensano, a torto, di tenere in scacco una ragazza affetta da agorafobia) e The Collector, ci si accorge che il gioco del gatto col topo orchestrato dal buon Alvarez non ha significative eccezioni alla regola. Anzi, quando tira dal cilindro colpi di scena così gonfiati nelle recensioni d'oltreoceano, si dà a tutti gli scivoloni e le esagerazioni di sorta: il ragazzo posato e romantico avrà le sette vite di un gatto; il villain di Stephen Lang, valente e inquietante caratterista, sarà un incrocio tra Michael Myers e Andrea Bocelli. Ma qui e lì, le riprese a infrarossi e il fiato trattenuto aiuteranno a scovare i pregi, che sembrano nascondersi più dei difetti. Man in the dark, lunga sfida a mosca cieca, diverte, ma il calore dell'accoglienza stranisce. Godibile horror estivo giunto fuori tempo: null'altro. (6)

In una Francia periferica e industriale, sorge una palazzina che conta un paio di piani e una manciata di inquilini dai musi lunghi. Il titolo originale, Asphalte, fa cenno al grigio tutt'intorno; alle strade ruvide e piene di pozzanghere. Quello italiano, Il condominio dei cuori infranti, ti fa fiutare i loro dolori, ma c'è quel cuore fucsia al posto della “o”, un font sbarazzino, per dirti che in una crepa dell'asfalto possono nascere i fiori e le amicizie che nessuno si aspettava. Presentato a Cannes, il film di Benchetrit è un dramma corale sotto un cielo cupissimo e malinconico da cui, un giorno, cascano gli astronauti. E se l'americano Michael Pitt, in missione per la Nasa, atterra sul tetto come se nulla fosse, allora tutto può succedere: Isabelle Huppert, attrice da troppo lontana dalle scene, rivaluta un copione importante grazie ai consigli del dirimpettaio adolescente; una Bruni Tedeschi infermiera notturna, con le occhiaie e le sigarette accese una appresso all'altra, accetta di farsi fotografare da un taccagno solitario. Pitt, intanto, viene servito e riverito da una donna abbandonata, che gli prepara il cous cous e lo fa dormire nel letto del figlio carcerato. Grottesco e surreale, ma emozionantissimo nell'epilogo, Il condominio dei cuori infranti è un soggiorno poco confortevole, in uno spazio ristretto ma affollato. E quando sembra che le pareti ti vangano addosso, brutte e sfigurate dai murales, quando l'aria sta per venire meno per il malessere diffuso, ti accorgi finalmente di essere stato in buona compagnia. Stretto dalle pretese del cinema radical chic - vanitoso, ma mai vano -, in una nicchia d'autore che, in fondo, sei stranamente triste all'idea di lasciare. (6,5)