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venerdì 5 luglio 2019

Mr. Ciak: Il traditore, Capri-Revolution, La paranza dei bambini e gli altri film del Flaiano Film Festival

Se anche non conoscessi la storia, basterebbe la levatura di un personaggio shakespeariano a rendere Il traditore comunque un'opera riuscitissima. Ma sono nato a Palermo, da un padre carabiniere, e allora qualche ricordo riaffiora. Per tutti gli altri, chi fu Tommaso Buscetta? Aveva la licenza elementare e, con il narcotraffico, aveva fatto fortuna a sufficienza per condurre un'esistenza da pascià a Rio. Conquistò l'amore di tre mogli e la simpatia di Falcone, che in tribunale gli offriva le sigarette e lo illuminava sulla fine di un'era intitolata a Cosa nostra. Suscitò le antipatie di Riina, suo rivale per eccellenza, ed ebbe l'ardore di citare in giudizio Andreotti. Fu il primo dei pentiti. Padre di otto figli, due dei quali massacrati, ci mise la faccia; tanta furbizia, dal momento che non confessò mai alcun misfatto; un po' di cuore. Bellocchio, ottantenne in forma smagliante, lo racconta uomo, marito, padre. Lo mostra nell'arco di trent'anni, lasciandolo alticcio e malinconico a un karaoke. Lo indaga nelle contraddizioni e nell'orgoglio, nel bene e nel male, indugiando con un montaggio sorrentiniano sulle pressioni psicologiche e il senso di spaesamento. Alla maestosa prima segue un processo farsesco e urlatissimo, con personaggi teatrali che cozzano con lo spessore drammaturgico del resto. Ma quella, eppure, è la giustizia italiana: lo si realizza con paura, davanti a un'umanità grottesca che schiamazza in TV e gioisce per l'omicidio di un magistrato. Importante non solo come documento storico, Il traditore vanta un Favino da palmarès: recita in tre lingue, prende peso, e sfoggia un misto di dolore e sfrontatezza che straziano. Davanti alla poetica anacronistica di un gangster decaduto, tuttavia, è giusto entrare in empatia con l'uomo sradicato ma guai a risultare troppo indulgenti. Lo ricorda una chiusa che riporta tutto nella giusta prospettiva: la mafia esiste, ed è una storia bruttissima. Anche quando a raccontarcela è la bellezza del cinema di cui andare fieri a Cannes. (8)

Dopo Il giovane Favoloso, Martone torna al cinema. E in cattedra. Un altro lungo dramma in costume, un'altra ricostruzione per spiegare agli spettatori gli uomini e la Storia. Siamo a Capri, all'alba del conflitto mondiale. È subito scontro fra tre logiche inconciliabili, incarnate da personaggi in disaccordo fino alla fine. Da un lato abbiamo gli isolani, religiosi e maneschi, che confidano nella sicurezza di accasare le figlie femmine con il miglior partito; dall'altro il medico del villaggio, uomo di scienza con simpatie comuniste; infine un gruppo di asceti sfaccendati, che praticano il nudismo e il sesso libero e fanno scalpore per lo scarso contributo che apportano alla comunità. Alla protagonista tocca intraprendere uno di questi cammini già tracciati o, coraggiosamente, percorrerne uno ignoto? Ingiustificatamente pesante, indeciso fra l'intendo pedagogico e quello teoretico, Capri-Revolution indugia in scarpinate mozzafiato e in coreografie alla Matisse. Il tentativo, vincente nel film passato, si ritorce contro il suo stesso autore. La sua ultima fatica è tanto degna di meraviglia per il comparto tecnico quanto pedante nell'andatura. Marianna Fontana, acerba ma sempre intensa, a tratti si lascia intimidire dai concetti astrusi del suo regista e dalle incongruenze del suo personaggio. La scagiona un elogio alla libertà che prende infine il largo da Capri, da Martone, e punta al futuro. Quello minacciato dalla guerra, che inizia a far tremare gli isolani. Quello in cui tutto è possibile, in pratica e in teoria. (5,5)

Un ragazzino sogna la bella vita. Non sembra esserci altra via, a parte darsi alla criminalità, per ottenerla in fretta. L'euforia della guerra coinvolge anche i suoi coetanei. I protagonisti hanno insospettabili facce d'angelo; il sangue è mostrato a malapena. L'avventatezza e la bellezza della gioventù esplodono ora in parate di palloncini rossi, ora in colpi di mitra, mentre ci si appassiona più del previsto a questo racconto di bambini che desideravano mangiare al tavolo dei grandi. Mettici una bella ragazza che vuole andare a ballare a Gallipoli; mamme e i fratelli minori che non sanno bene se essere fieri o spaventati per il successo del primogenito. Aggiungi poi una fotografia scarna, che fotografi con toni neorealisti una povertà che ama vestirsi di kitsch. Ispirato al romanzo di Saviano, l'ultimo Giovannesi sembra una copia sbiadita della Terra dell'abbastanza. La paranza dei bambini racconta con coinvolgimento la medesima storia allo sbando; ma cambia dialetto e scenario, abbassando un po' l'età dei protagonisti. Meno raffinato, ha un'identica morale di fondo ma la lezione poteva essere più esemplare. Colpa o merito di una delicatezza che, nella chiusa, si scambia per mancanza di fermezza. (6,5)

Una coppia di amici si riunisce per la malattia terminale di uno dei due. Si incontrano all'ombra del Colosseo, con un cagnone al guinzaglio, dandosi a un giro di ultime volte fra l'Italia e Barcellona. Domani è un altro giorno, sin dalla trama risaputa, è un film che non osa. Collage agrodolce di dialoghi, incontri e addii, ha lo stampo televisivo e pregi che devono derivare dal film che lo ha ispirato, Truman. Il solito Mastandrea, non nuovo alle riflessioni sulla morte, si muove in silenzio alle spalle del compagno di scena con un'aria malinconica che in questi casi calza a pennello. Giallini, con un istrionismo alla Proietti, non si scrolla invece di dosso il solito ruolo del burino dongiovanni ma dal cuore generoso; il ruolo poteva mostrarne altre sfaccettature, le lacrime e le fragilità, ma la sceneggiatura non lo aiuta. Simone Spada sceglie di mostrare i gesti d'affetto, mai la malattia. Non fa mai il salto sperato al dramma. La sua rilettura di un successo estero, così, resta un buddy movie solido ma senza guizzi. Davvero serviva puntare sempre sugli stessi attori, già insieme sul set in Perfetti sconosciuti? Davvero serviva ispirarsi agli stranieri, se la commedia all'italiana ha un nobile e lunghissima tradizione di tragicomiche su ruote? (6)

Non ho visto niente o quasi di Moretti. Non sapevo niente o quasi del golpe cileno. Quante probabilità c'erano di trovare commovente un documentario del regista su un tema tanto ostico? Negli anni Settanta, il socialista Allende fu assassinato per scongiurare la guerra civile. Le consuete immagini di repertorio e le parole degli inviati descrivono le agghiaccianti torture verso i ribelli – scariche di elettricità negli organi genitali – e la mancanza di pentimento dei militari finiti sotto processo. Restano l'omertà diffusa, le cicatrici per gli oltre tremila morti ammazzati, ma per fortuna questa è una storia a lieto fine. Santiago, Italia sta infatti dalla parte di chi ha avuto diritto a un'altra patria. Per ricordare una pagina di storia recente tristemente sconosciuta. Per ricordarci, fra orgoglio e amarezza, la magnanimità di cui un tempo siamo stati capaci. I cileni che riuscirono a scavalcare il muro dell'ambasciata italiana furono accolti a Roma. Parte di un popolo autoironico e poco rancoroso, i rifugiati raccontano aneddoti a volte buffi, altre struggenti. Il documentario serviva non tanto al Cile quanto a noi. Ce n'era bisogno sì, in un'epoca in cui l'intolleranza è di casa, al punto che si fa fatica a riconoscere la fotografia di un Paese che accoglieva a braccia aperte e si angosciava per le tragedie altrui. Cinematograficamente di scarso valore, l'ultima fatica di Moretti è un documento umano e mai politico, che non fustiga né Pinochet né Salvini. Ma evidenzia come eravamo, e le differenze con l'oggi addolorano. Adesso che, come afferma uno degli intervistati, il Cile sembriamo noi. (7,5)

Avere ventisette anni e nutrire un nichilismo fuori moda. Avere ventisette anni e voler sfondare come fumettista. Qualcuno, Zerocalcare, ci è riuscito senza montarsi la testa. Non ha dimenticato, perciò, la sua Roma di borgata né i passi dolorosi degli esordi. Zero, suo alter-ego nel primo film ispirato alle sue tavole, è un giovane di periferia che sbarca il lunario fra ripetizioni private e un lavoro in aeroporto. Legato suo malgrado alle telefonate di mamma Morante, ammazza il tempo in compagnia dell'esilarante Castellitto e consiglia a ogni piè sospinto la visione dell'Odio. Vorrebbe proprio vivere in un film post-adolescenziale girato in Francia, ma si accontenta di Rebibbia e dei consigli di un armadillo per amico immaginario. La svolta arriva attraverso una telefonata: Camille, amica d'infanzia, è morta. Cosa le è successo? E cos'è successo al gruppo affiatatissimo che formavano da bambini? Accolto tiepidamente, La profezia dell'armadillo mi ha divertito ed emozionato da morire. Tenero e rabbioso, fa sfoggio di vestiti neri e di un cuore puro. Come il suo protagonista, un bravissimo Simone Liberati, non crede nei compromessi o nel cambiamento. Condannato a un eterno presente, nella rievocazione di un'infanzia immaginata a torto senza fine, deve imparare a rinunciare alla nostalgia per voltare pagine. E colorare, così, nuove storie. (7)

Gli americani sono sul piede di guerra. Qualcuno, in Sardegna, ha reclamato il possesso della luna. Preservare gli equilibri internazionali mandando sul campo una spia: Jacopo Cullin, di genitori isolani ma nato e cresciuto a Milano, deve sopravvivere all'addestramento per mimetizzarsi in una terra chiusa allo straniero. Capire come muoversi, imparare a parlare, significa però abbracciare anche le proprie origini rinnegate. Completamente inatteso, sorretto da un umorismo nerissimo e da un cast di grandi caratteristi, l'opera seconda di Paolo Zucca è un gioiello indipendente che non avrei mai visto altrimenti. Questo entroterra inesplorato, da vecchio West, vive parimenti di violenza e splendore. Deserto incontaminato, aperto a cuor leggero a derive fiabesche, ha una corsia preferenziale verso il cielo grazie a poeti romantici che si danno a promesse impossibili. Inseguito da una banda di contadini armati di lupara, il protagonista si imbatterà in un rifugio paradisiaco; a un certo punto, senza dire troppo, salteranno fuori perfino sottomarini statunitensi e militari armati fino ai denti. Commedia strampalata dalla regia degna di attenzione, L'uomo che comprò la luna ci conduce nei paesaggi di Figlia mia e nei toni utopici di Tito e gli alieni, galeotto un satellite solcato di recente anche dall'astronauta Ryan Gosling. Sembrerebbe un pasticcio, ma invece è capace di portarti lontano senza passare dal via. Lassù, dove riposano il nonno di Jacopo, Antonio Gramsci e Grazia Deledda. Dove, fiera, sventola la bandiera sarda. (7+)

Ancora la provincia, ancora il dialetto. Questa volta, però, siamo in una Campania insolita: in una periferia affatto degradante, dove ci si nobilita con il sogno del pallone. In un primo momento, Un giorno all'improvviso sembrerebbe raccontare un rapporto di amore-odio alla Dolan: e lì interessa, con le sue atmosfere in stile Dardenne; e lì emoziona, grazie alla tenerezza impareggiabile verso il giovane protagonista. Peccato che il dramma d'esordio di D'Emilio si perda nella cronaca di allenamenti di scarso interesse; in amicizie e dissapori presto abbandonati, lasciando ai margini gli strepiti di una Foglietta ottima ma poco presente in scena e gli sguardi persi di un adolescente combattuto. A una narrazione fino ad allora verisimile e pacata, senza furberie, non ho perdonato la cupezza gratuita di un epilogo tutt'altro che ineluttabile. La storia interpretata da un dolcissimo Giampiero De Concili non sapeva bene cosa raccontare. I pregi e i difetti di una convivenza instabile? I personaggi di mamma e figlio dividono la scena meno del previsto. L'impossibilità di un cambiamento nel bel mezzo della provincia stagnante? La convocazione del protagonista dimostrerebbe il contrario. Le conseguenze di quelle che accade, un giorno all'improvviso? Di improvvisi, a malincuore, si ricorderanno soprattutto i passaggi della sceneggiatura. (6)

È il film che non ti aspetteresti da uno come Veltroni. Politico e saggista, cosa ha a che spartire con una storia sulla scia di About a Boy? Era lecito aspettarsi un maggiore impegno; era giusto confidare in qualcosa di meglio. Ma la sua leggerezza, in poltrona, spiazza e incuriosisce. In verità presto abbandonato per scandire le tappe di un ennesimo viaggio on the road, lo spunto iniziale racconterebbe l'incontro fra due fratelli lontani per età e stili di vita. Da Roma la strada si allunga fino a Parigi, però, in un tour tanto dispersivo quanto istintivo scandito dalle visite a un'ex fidanzata omosessuale e a una mamma malata di Alzheimer; cene e concerti in compagnia della cantante Simona Molinari, qui interprete bella e convincente. Fresi insegue arcobaleni per professione, e per sport rifugge le responsabilità. Ma quel fratellino ingessato, che a lungo gli dà del lei, ha ovviamente qualcosa da insegnargli. Ingenuo all'inverosimile, C'è tempo glissa sui dispiaceri e non va a fondo, mantenendosi al sicuro in superficie grazie alla piacevolezza del cast e alle citazioni a Truffaut. Godibilissimo, somiglia a un arcobaleno duraturo, sbucato all'orizzonte senza acquazzoni in anticipo. Omaggia I quattrocento colpi, ma farà colpo più su un pubblico da Giffoni. (5,5)

lunedì 9 luglio 2018

Mr. Ciak - Flaiano Film Festival: Figlia mia, La terra dell'abbastaza, Sono tornato, Youtopia

Dal 29 giugno al 6 luglio, con una cerimonia finale sullo sfondo di Piazza della Rinascita, si è tenuto a Pescara il quarantacinquesimo Flaiano Film Festival. Il primo per cui ho timbrato il biglietto. Diciotto film divisi in quattro categorie, Riccardo Milani come direttore artistico e un red carpet aperto ad alcuni fra i migliori volti di casa nostra: il tre volte Premio Oscar Vittorio Storaro, Ferzan Ozpetek, Elena Sofia Ricci, Monica Guerritore, Greta Scarano, Filippo Timi, Massimo Popolizio, Francesco Montanari, Ennio Fantastichini, Rolando Rovello, il trio Ward-Conticini-Muniz, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, Alessandro Cattelan.

La Sardegna è quella brulla e ancestrale di Michela Murgia. Lì si raccontano leggende e bugie. Ci si scambia i figli. Si vive di quel che porta a riva la benevolenza del mare. Valeria Golino, con una tinta scura che le fa più bella e i vestiti dei giorni di festa, ha affidato le sue preghiere prima alla Madonna, poi ai lombi della Rohrwacher: tanto bene integrata la prima, quanto sciagurata la seconda, non avrebbero in comune niente, se non un segreto con i capelli rossi; un patto da violare nel momento in cui la derelitta Angelica, tutta abitini inguinali e lingua impastata, non avanza una pretesa prima di lasciare l'isola per sempre. Conoscere un po' per capriccio, un po' per desiderio, la bambina che ha partorito e subito ceduto a una genitrice migliore di lei. La piccola Vittoria non conosce la verità sulla propria nascita, ma è troppo selvatica, troppo curiosa in fatto di baci e imprese impossibili, per appartenere a una famiglia dalle discrete possibilità economiche che le impone gli abiti da signorina, il costume intero in spiaggia, gli orecchini meno appariscenti e animali domestici che non somiglino a scrofe, galline o cavalli. Il sangue chiama. La bussola interiore porta sempre e comunque alla fattoria fuori mano dell'irresponsabile madre biologica; mentre colei che l'ha cresciuta, in paese, si strugge per diritti che non le spettano, la torta di compleanno intonsa, un letto vuoto. Dopo Vergine giurata, Laura Bispuri torna al cinema con un melodramma al femminile con i colori accesi, la telecamera a mano impegnata a seguire le protagoniste in piani sequenza impressionanti, una storia di maternità salveggia. Figlia mia è una carnale romanzo di formazione fra due fuochi, sotto il sole a picco, con affascinanti sprazzi kitsch e interpreti al loro meglio. Disarmante per immediatezza e generosità, è il rito iniziatico di una bambina contesa, voluta allo stesso tempo da tutti e da nessuno. Come succede alle anguille, stando ai racconti dei padri pescatori, viene partorita al largo per poi raggiungere il punto di partenza. Perché le bestie dalla natura acquatica e le figlie della Bispuri, tagliato il cordone, trovano sempre la strada di casa: a guidare le due litiganti, colei che dall'alto del suo sfacciato metro e trenta se ne frega della buona educazione e delle leggi degli uomini. In terre, in film, in cui raddoppiano l'emozione, le mamme, l'amore. (7,5)

Mirko e Manolo frequentano la scuola alberghiera, ma non vogliono essere camerieri. Proprio non se ne parla, di servire. Si desiderano padroni. All'inizio pensavano a un'attività in proprio, ma il destino ha piani alternativi. Hanno avuto la fortuna di investire l'uomo giusto: ricercato da un clan del posto, il latitante è stato freddato per caso da due ventenni su di giri, che fanno di quell'omicidio preterintenzionale una merce di scambio; un modo per svoltare. Il clan vuole sdebitarsi, li vuole a bordo. Perché se uccidere viene loro sorprendentemente facile, il malaffare è la via. Siamo nell'immancabile provincia romana di Garrone, Sollima, Caligari: volgare, stagnante, miserabile. Le femmine sognano i talent show alla TV; i maschi di continuare a giocare alla guerra. Qualche mamma nel frattempo fa i salti mortali per sbarcare il lunario e qualche padre – un inedito Tortora – liquida la morte come fosse un hobby. Applaudito all'unanimità al Festival di Berlino e vincitore della Migliore opera prima ai Nastri d'argento, l'esordio dei fratelli D'Innocenzo è una tragedia urbana pesantissima e potente. A sangue freddo. Non lascia scampo con i suoi schiaccianti primi piani e una scrittura in caduta libera, che da candida si fa efferata. Nuovo capitolo da inserire con successo nel filone dei drammi criminali, quelli che più ci riescono ma che più annoiano, La terra dell'abbastanza racconta sempre la stessa storia, sì; mostra sempre il solito sesso squallido e i soldi sporchi; tutto già detto, tutto già visto. Eppure, guardandolo, ho avuto la sensazione di assistere alla nascita di qualcosa di significativo: sentiremo parlare presto dei D'Innocenzo, che hanno un taglio indie come marcia in più, e degli scapestrati Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, che ricordano Marinelli e Borghi (amici-nemici al limite nello speculare Non essere cattivo) non solo per la fisicità o gli accenti. Anche se tra te e te credevi in fondo di averne avuto abbastanza, di spari a tradimento e ragazzi interrotti. (7)

Dici Miniero, e pensi subito ai remake su misura d'italiano. Dici Sono tornato, e ti vengono in mente il best-seller tedesco che non sei riuscito ad avere o la trasposizione che non ti ha mai interessato troppo. Vedi Popolizio, con una voce e una presenza sceniche straordinarie, e pensi che sia perfetto per il ruolo di colui che ingannava e incantava il gregge. Vedi Matano, ancora, e ti domandi cosa ci faccia in un film semiserio, e pensi che peccato: ti è sempre stato simpatico, sì, ma non che come attore convinca granché. Comunque poco male. Perché combattuto tra pro e contro, tra il desiderio di recuperare l'originale e la consapevolezza che questo aggiornamento potesse cogliere più nel (nostro) segno, sono andato a vedere la commedia satirica in cui a tornare non è il famigerato baffone, bensì il socio. Letteralmente piovuto dal cielo, si fa seguire da un aspirante documentarista – e a Matano, con il ruolo giusto, male non si può volere – in giro per uno Stivale da riconquistare. Gli extracomunitari, le unioni civili, la destra e la sinistra che non esistono più: a detta sua, il nostro disonore. Gli italiani lo trovano spassoso e affascinante, lo scambiano per un comico: gli danno un programma che fa ascolti, e tutte le ragioni. Miniero prende senz'altro il meglio dal film originale, sferza e smuove, ma il politicamente corretto resta – a sorpresa, direi, se parte di un Paese di spettatori permalosi, di gente più colpita dall'uccisione di un cagnolino in CGI che dalle persecuzioni razziali. Si ride dunque moltissimo, ma a denti serrati. Si ha paura, sotto sotto. Lo share, la popolarità, dicono come i più trovino il Duce non soltanto simpatico, ma una soluzione necessaria. Voce della ragione, una nonna smemorata che mette la pelle d'oca con i suoi ricordi shock. Al suo arrivo in sala, eppure, Sono tornato non ha fatto gran rumore. Troppo intelligenti gli italiani, o troppo punti sul vivo per proferire verbo?  Si ride nerissimo, ci si guarda indietro e avanti. Dove eravamo. Dove andremo. In una Italia su ruote, sui canali della TV trash, che spererebbe di riprendere tutto ciò che è suo. Un nulla di fatto, sublimato dalla peggiore forma di nostalgia. (6,5)

Si è riso più che con Favola. Si è storto il naso più che per la mancanza di carattere di Dopo la guerra. La soglia della credibilità, abbassata più che nella fiaba Tito e gli alieni. Ma non parliamo di una commedia grottesca, di un dramma politico che non sa bene che pesci prendere, di fantascienza per bambini; piuttosto della disperazione per la crisi economica, di sesso e potere, del lato sporco di internet. Di una ragazza che a diciott'anni mette all'asta la propria verginità per salvare la casa dal pignoramento. Lei è una De Angelis tutta tette a vista e bronci, che nella sua cameretta chatta con il romantico avatar doppiato dall'attore di Mommy e si concede un paio di topless davanti alla webcam. Donatella Finocchiaro, qui mesta e avvinazzata, è sua madre: ci prova anche lei a spogliarsi, a un certo punto, ma alla fine cuce alla figlia un vestito da Cenerentola per la temutissima notte con Haber: farmacista pescarese vizioso e repellente, con un improbabile sottoposto che conosce il Deep Web e una schiera di prostitute a cui proporre i peggiori giochi di ruolo. Vuole la carne fresca, adesso, di un'adolescente che non contempla altra via, che un lavoro non sembra mai cercarlo davvero, che ha fatto del proprio status la versione sozza di Ready Player One. Vorrebbe essere un dramma di denuncia ma ha gli scivoloni delle commedie sexy, questo Youtopia. Indifendibile su ogni fronte, brutto e immorale, ridicolo per sbaglio – vedasi i ben poco ammiccanti pruriti anali di una escort impegnata a flirtare col farmacista sbagliato o un annuncio che, nonostante le lacrime esagerate della Finocchiaro, genera l'ilarità in sala. Di cattivo gusto, senza uno sguardo o un briciolo di sex appeal, Youtopia è risate incerte a scena aperta e una bella De Angelis che, purtroppo, si perde nelle maglie della rete, e della bruttezza. (4)

Ho rivisto: Favola (7,5); Tito e gli alieni (7,5).