Smisurato,
opulento, coloratissimo, resterà lo spettacolo spettacolare di
queste feste. Messo in scena a Broadway da oltre vent'anni, Wicked è un
classico del musical che aspettava di arrivare al cinema da un po'.
L'ha spuntata, infine, Jon M. Chu: dopo in In the Heights, il regista torna con agilità al genere e raduna un cast impareggiabile. Se
il film elettrizza non è soltanto per le scenografie degne delle magie di Hogwarts, né per le coreografie trascinanti (il numero migliore è
affidato a Bailey: irresistibile principe-ballerino in fuga dai
cliché), ma per l'affinità alchemica tra Erivo e Grande. Se la prima
impersona con fierezza un'emarginata dalla pelle verde e dagli acuti
struggenti, è la popstar la vera rivelazione: frivola e
appariscente, stupisce per gli eccezionali tempi comici e per
l'adesione al personaggio. Molto più di un semplice prequel, Wicked
punta il dito contro le macchinazioni dei potenti: il potere è
un'illusione ottica e la diversità può diventare strumento di
propaganda. Divisa tra orgoglio e repressione, Elphaba cerca il
suo posto nel mondo in una fiaba che parlava di inclusione,
disabilità e specismo ben prima dell'algoritmo di Netflix. Onesto e mai
didascalico, il film giunge forse in ritardo a ribadire il messaggio, ma conserva la purezza
disarmante di chi fa le cose per la prima volta. Se vi siete sentiti
incompresi, qui troverete un senso di appartenenza che vi farà
sentire parte di una grandiosa coreografia a prova di gravità. Non abbiate paura di
apparire scoordinati: la vita, a tempo debito, vi ha già insegnato tutti i passi. (8)
Non
c'è amante più ingrato dello show business. Cinquant'anni sono
troppi, decreta, e a poco servono le sedute di ginnastica sfiancanti o i bisturi
dei chirurghi. Hollywood si è trasformata in un tritacarne anche per
Demi Moore. A lungo lontana dagli schermi, l'ex sex symbol degli anni Novanta si mette a
nudo con un ruolo a tratti autobiografico. Non è un canto del cigno, questo, ma un ritorno di fiamma. Fargeat, bravissima in materia di
vendette, le cuce addosso un “revenge dress” impossibile da
ignorare, con un profondo scollo sulla schiena: è da lì, dalla
carne viva, che sbuca Margaret Qualley — la versione più giovane,
bella, soda di Demi. Chi vorrebbe tornarsene in un anonimato fatto di
comfort food e appuntamenti mancati quando il proprio alter-ego
giganteggia, intanto, sui manifesti pubblicitari? Glamour e ributtante,
puntuale tanto nei rimandi filmici — Kubrick, Cronenberg, Zemeckis
— quanto nelle scudisciate al patriarcato, l'horror premiato a
Cannes si confronta con il tema del doppio per riflettere di standard
irraggiungibili, competizione femminile, fallocentrismo. La
regista escogita un brillante contrappasso di aghi e tagli,
escrescenze e secrezioni, dove i mostri del gotico inglese (Frankenstein, Gray, Jekyll e Hyde) trascinano
in un amplesso insanguinato tutte le dive tristi raccattate lungo il
viale del tramonto (Swanson, Davis, Crawford). Irreversibilmente intrecciati, i morti di fama formeranno una
creatura plasmata dai desideri più meschini degli uomini. Per non
chiamarci mostri, la chiameremo mostro. (9)
Qualche
anno fa, per un addio al celibato, sono stato in uno strip club.
Ricordo il vago imbarazzo e la fascinazione verso le spogliarelliste:
maestose, ti sussurravano all'orecchio proposte di privé e storie personali.
L'ultima protagonista di Sean Baker avrebbe potuto essere una di
loro. Giovane e piena di dignità, fa del palo un mezzo di ascesa sociale. Quale sarebbe il risultato se i Coen o Tarantino dirigessero
una commedia romantica? Fresco di Palma d'oro, Baker firma un tour de
force spassoso e tentacolare, destinato a una deriva rocambolesca in
cui questa novella Pretty Woman rischia, a tratti, di
scomparire. In cerca del viziato neomarito in fuga, una Mikey Madison da
Oscar dà anima e corpo a una sex worker candida e sboccata, divisa
tra romanticismo e rivalsa. A proprio agio con il sesso, ma
terrorizzata dall'intimità, ci regala la scena più esilarante
dell'anno (il tentativo dei tirapiedi russi di rabbonirla) e quella
più struggente (l'epilogo in macchina). Il volume delle conversazioni resta
troppo alto per i miei gusti. La dimensione corale sposta
frequentemente il focus sui lazzi comici dei comprimari. Ma Anora,
per fortuna, riconquista le attenzioni dello spettatore proprio in chiusura,
spalleggiata da uno scagnozzo dal cuore d'oro. Quando la volontà di
potenza, ormai annientata, ti lascia con l'amaro in bocca e il
risveglio dal famoso sogno americano ti strappa dagli occhi, infine, il
pianto di un bambino deluso. (7,5)
Sedotta
e abbandonata da Ulisse, Parthenope si tolse la vita schiantandosi
sugli scogli. Napoli è sorta lì: sulla scena del crimine di un
amore infelice. La protagonista dell'ultimo Sorrentino e la sirena di Omero hanno in comune ben più del nome. Ma mentre il personaggio leggendario
muore tragicamente, la Parthenope di Paolo Sorrentino scoppia di vita in un film che ha la
grazia, l'incanto e la presuntuosità della gioventù. Interpretata
da Celeste Dalla Porta, abbagliante come lo fu soltanto Bellucci in Malena,
cerca dappertutto sé stessa: mai negli occhi degli uomini, anche se tutti (dallo scrittore omosessuale interpretato da Gary Oldman al fratello incestuoso) ne sono invaghiti. La tenteranno le chimere del cinema e i
rituali dei clan malavitosi, la corruzione del clero e il mondo
accademico. Per il resto, c'è Sorrentino che fa Sorrentino: immagini e
colonna sonora si sposano in fantasmagorie barocche; gli inserirti
onirici, parodici e grotteschi abbondano; le sequenze memorabili —
il ballo a tre sulle note di Cocciante — sono giustapposte a
sequenze troppo slegate. Cosa pensa Parthenope? Cosa pensare, soprattutto,
di Parthenope? Il film e la sua protagonista hanno la risposta
sempre pronta, ma si trincerano dietro snervanti aforismi. Si
schermano dietro veli, vetri, maschere per nascondere e amplificare i
loro misteri. Sono un miracolo o una truffa? Il dubbio resta, anche
se uno sguardo di Dalla Porta — un'altra disunita, un'altra grande
bellezza — scioglierebbe finanche il sangue di San Gennaro.
(7)
Wicked a sorpresa mi è piaciuto più del previsto. Decisamente spettacolare. Mi rammarico solo di averlo visto in italiano che non è proprio il massimo.
RispondiEliminaThe Substance spacca. Quasi quasi provo a procurarmi la sostanza che prende Demi nel film... ma forse è meglio di no XD
Gli altri due ancora mi mancano...
Ho sentito qualche clip doppiata: un crimine contro il buon gusto.
EliminaChe senso ha avere due voci del genere e cancellarle totalmente?
Su Sorrentino la penso come te, ma riguardo Substance siamo in disaccordo totale... l'ho trovato un abbaglio clamoroso, un film che ripete sempre lo stesso concetto (peraltro stravisto) per 140 minuti senza mai evolvere, oltretutto affidandosi a effetti speciali pacchiani e citando maestri del cinema solo per snob, senza alcuna effettiva ragione o collegamento. Boh, saranno forse i miei gusti da boomer...
RispondiEliminaAvevo letto la tua stroncatura. Sicuramente è un film lontano dai tuoi gusti, però legittimo! Per me resterà l'esperienza in sala più divertente dell'anno.
EliminaDi The Substance parlano tutti bene, toccherà vederlo... :--)
RispondiEliminaAssolutamente! Sul podio dei film dell'anno.
EliminaC'è chi canta da settimane Defying Gravity e chi mente.
RispondiEliminaOOOOOHHHHAAAAAAA!
EliminaPurtroppo, come il Cannibale, anche io sono stata uccisa dall'adattamento/doppiaggio italiani, quindi mi attengo agli elementi visivi di Wicked e, onestamente, ho ancora gli occhi che bruciano. Per fortuna loro sono bellissime ed espressive.
RispondiEliminaThe Substance film dell'anno, senza se e senza ma.
Eppure Wicked di effetti visivi ne ha pochissimi. I set sono interamente ricostruiti, il treno che le porta a Oz è vero, sono veri perfino i papaveri. Forse la CGI c'è soprattutto alla fine, ma la canzone è talmente bella e potente che non ci ho fatto granché caso.
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