Quando
l'horror divide mi sono sempre trovato a far parte della schiera
degli estimatori. Così è accaduto anche per Hereditary,
tragedia mascherata da ghost
story.
Per far capire la differenza con il nuovo film del regista, retto
nuovamente da una protagonista sull'orlo di una crisi di nervi, descriverò la
reazione della sala davanti a una scena che si ripresenza, a un
assordante urlo di donna: se quello della Collette ammutoliva, quello
della Pugh ha scatenato al cinema grasse risate. Colpa di una brutta
interpretazione da parte dell'interprete di Lady Macbeth,
o forse di compagni di visione troppo rumorosi? La colpa, in realtà,
spetta a un horror ambizioso e provante, che flirta con i toni
camp rovinando la nostra percezione complessiva. La trama, né
più né meno di quella di un found
footage del
decennio passato: una cinepanettonesca comitiva di studenti, in cerca
di sballo e sesso, punta alla Svezia con la scusa della tesi. Come se
non bastasse la presenza della lacrimosa fidanzata del
protagonista, unica sopravvissuta al suicidio dell'intera famiglia, a
rovinare i piani saranno anche gli abitanti di un'inquietante comune.
A canti folkloristici, rune e riti corrisponderanno di pari passo
orge, suicidi e roghi. Midsommar
è tutto
girato alla luce del sole. La fotografia, incantevole, risulta
abbacinante e cupissima. Quel cielo troppo azzurro disorienta, tanto
quanto gli espedienti al confine col trash per rendere i
turisti parte della comunità. Il teen horror cita
Hereditary,
riprendendone i culti esoterici – la parte peggiore del
film precedente – e la pesantezza inusitata. Il rischio: dare
eccessiva importanza a personaggi immaturi, a dettagli
impercettibili, che nel finale caricano la pellicola di un enfasi incomprensibile. Non si parla della morte scioccante di un figlio,
infatti, bensì di due ventenni spaventati da un amore finito.
Servivano 140 minuti per venirne a capo? Serviva l'ennesimo
film sull'orgoglio femminile – la morale, ebbene sì, lì va a parare –, con sprezzo del ridicolo aggiunto? Sempre geometrico
e perturbate, con una poetica che al secondo lungometraggio già
inizia a sembrare ripetitiva, Aster firma un ritorno sopravvalutato
ma dal fascino inconfutabile. Una natura morta rubata al puntinismo
di Seurat, che brucia nel falò della sua stessa vanità. Svegliandoci a metà di
ques'incubo di una notte di mezza estate. (5,5)
Lui
è un ragazzo di campagna, scrittore aspirante. Lei, ex compagna di
scuola inconsapevolmente seducente, è la storia di una
notte e via. L'altro, novello Jay Gatsby, è ricchissimo e sospetto:
soprattutto quando la ragazza, al centro di un triangolo degno del
cinema francese, scompare nel nulla. Burning,
ispirato a un racconto di Murakami, è un melodramma a tinte gialle
tanto conturbante quanto difficile da scomporre. Gli atteggiamenti sconnessi
dei protagonisti, i ritmi dilatati fino allo spasimo e quel finale
sfuggente, intessuto di falsi ricordi e inquietanti fantasie
masturbatorie, sono oggetto fino all'ultimo dell'interpretazione di
ciascuno. Per quanto non abbia mai fatto miei gli enigmi del giovane
protagonista – silenzioso e monoespressivo, lontano da me per
lingua e cultura – sono rimasto folgorato dalle danze in topless
sulla colonna sonora jazz, dalle sessioni di jogging sugli sfondi di
una fotografia meravigliosa, dall'istinto piromane dei protagonisti.
Qualcuno ha bruciato i vestiti della madre traditrice, qualcun altro
arde invece granai periodicamente. Cosa rappresenta la ricerca dei
suddetti? Che fine ha fatto la ragazza scomparsa? Perché quel finale
tragico e precipitoso, dopo la flemma del resto? Si parla di
conflitti di classe. Di ventenni belle e annoiate, solitarie come
serre in stato d'abbandono, che cercano loro stesse nei viaggi, nelle
droghe, nel mistero. Se sparissero, chi le cercherebbe? Buring
brucia
lentamente, senza vampate e senza calore. Ma forse non si esaurisce
qui. Come il sapore di un'arancia immaginaria che la protagonista,
esperta di pantomima, sbuccia e pilucca a piacere, consapevole del
confine fra vuoto e presenza. (7)



