Pagine

lunedì 1 dicembre 2025

Torino Film Festival 2025: Pillion | Eternity | Kiss of the Spider Woman | El Cautivo

Harry Melling, anonimo ausiliario del traffico con l'hobby del canto corale, diventa lo schiavo – sessuale e non solo – del bellissimo motociclista Alexander Skarsgård. Nel loro rapporto i baci sulla bocca, le confidenze troppo intime, le cene in famiglia sono severamente al bando. Ma se i sentimenti ci mettessero lo zampino? A più di vent'anni da Secretary, arriva un'altra commedia indie – nei nostri cinema dal prossimo 12 febbraio – ca sdoganare la dipendenza emotiva e il sadomasochismo. Con tutte le carte in regola per diventare un nuovo cult, Pillion parte come una fantasia di sottomissione. Ben presto, però, si trasforma in una parabola sul tabù della vulnerabilità maschile. L'inesperto Melling osa. Può forse dirsi lo stesso di Skarsgård, impietrito dalla quotidianità? Se la loro relazione è rigida e normata, perfino nella trasgressione, l'esordio di Harry Lighton gioca senza regole. E prima diverte, poi imbarazza, infine spezza il cuore, rivelandosi la versione in latex del capolavoro di Todd Haynes. L'amore più struggente dell'anno? Ha un'orgia come festa di compleanno. E insegna che la libertà, a volte, passa dal BDSM. (8)

Il mio primo film del Torino Film Festival, la mia prima sorpresa. Perché Eternity, a breve in sala, resterà la romcom più riuscita dell'anno. Garbato, elegante, divertente senza rinunciare a un po' di struggimento, è la storia di un triangolo amoroso ultraterreno. Morta ormai anziana e in un letto d'ospedale, Elizabeth Olsen si scopre nuovamente desiderata in un aldilà variopinto e dettagliato in cui i trapassati hanno una settimana per scegliere dove trascorrere l'eternità. Il paradiso avrà le fattezze della Florida o di una baita in montagna, delle Hawaii o della Francia degli anni Trenta? Indecisa tra mille proposte, in un gate che somiglia a una giornata dell'orientamento, dovrà anche districarsi tra il burbero marito Miles Teller e l'indimenticato primo amore del fascinoso Callum Turner. Accanto a loro, sempre in equilibrio tra emozione autentiche e sfumate, c'è la premiata all'Oscar Da'Vine Joy Randolph come spalla comica. Prendete la serie TV The Good Place. Conferitele l'estetica di The Truman Show. Sceneggiatela come una commedia teatrale della Golden Age. E la delizia, targata al solito A24, è presto servita. (7,5)

Se il cinema è evasione, il musical è il genere più cinematografico tra tutti. Ma si può trasformare una pagina nerissima di storia contemporanea in un abbagliante incanto in technicolor? L'ultima trasposizione del romanzo di Manuel Puig canta di dittatura e lustrini, amori e rivoluzioni, oscillando dal dramma carcerario al musical degli anni Cinquanta. Siamo in Argentina, durante la dittatura militare. Due prigionieri – un omosessuale accusato di atti osceni e un rivoluzionario – combattono le violenze fisiche e psicologiche raccontandosi la Hollywood degli anni d'oro. Le coreografie sono trascinanti, ma le canzoni poco memorabili. Le fantasie metacinematografiche non sempre si amalgamano al resto, e la patina delle danze spesso sconfina anche in cella. Jennifer Lopez, splendida come non mai, è una diva che interpreta una diva. Sempre in parte Diego Luna, qui affiatatissimo con il querulo e struggente Tonatiuh – quest'ultimo, esordiente, affronta a testa alta il ruolo che valse l'Oscar a William Hurt. Nonostante siano tutti intonatissimi, qualche stonatura c'è. Ma quando la vita imita l'arte, e viceversa, che shock l'accendersi delle luci in sala e l'arrivo dei titoli di coda. (7)

Che fine ha fatto Alejandro Amenàbar? Ormai lontano dai trionfi di Apri gli occhi, The Others e Mare dentro, torna al cinema a un decennio dall'ultimo film. La sua ultima fatica è la biografia romanzata dell'autore di Don Chisciotte, con tutti i pregi e i difetti che ci si aspetterebbe da una coproduzione Rai e Netflix. Pop, godibile e ammiccante, racconta la prigionia del giovane Miguel De Cervantes. In fuga da Madrid con l'accusa di omosessualità, finisce catturato ad Algeri. In pugno ai mori, che vorrebbero convertirlo all'Islam, mette a frutto le sue doti oratorie per rabbonire il crudele Bajà. Ben presto, il carceriere – al vertice di un dissoluto  harem al maschile – si scoprirà attratto sia dalle storie del prigioniero galantuomo, sia dalla sua bellezza. Diviso tra amore e libertà, nostalgia per i mulini della Mancia e interesse verso i costumi orientali, Julio Peña Fernandez - classe 2000, e già stella dei teen drama spagnoli – è il protagonista di un dramma storico non sempre accurato e dall'esotismo a tratti stucchevole, ma con un Alessandro Borghi degli occhi bistrati per fiore all'occhiello. L'ode al potere seduttivo delle storie? Piace, in fondo: anche quando le storie, come in questo caso, sembrano frutto di Wattpad. (6)

martedì 25 novembre 2025

Ritorni di fiamma: Wicked 2 | After the Hunt | Una battaglia dopo l'altra | Bugonia | Materialists

Aspettare il ritorno di Wicked ha scandito il mio anno in maniera precisa. Un'emozione infantile, lieve, che si è rinnovata in una sala con i cosplayer all'ingresso e un pubblico abbigliato a tema. Il prosieguo della storia ha un difetto: anche a teatro, il secondo atto è meno memorabile e più ingenuo. Le canzoni da cantare a squarciagola sono poche. I colpi di scena non mancano, ma, come spesso succede a Broadway, è un deus ex machina — non il Mago di Oz — ad alimentare i triangoli, a trasformare i comprimari in cattivi, a scaraventare Dorothy giù dal cielo. Epico, ma con un eccezionale amore per i dettagli, Chu omaggia il talento delle maestranze — scenografi e costumisti su tutti — e quello di un cast perfetto. Se la forza di Erivo ha già brillato, qui si ha la consacrazione di Grande: incantevole, frivola e fragilissima, punta all'Oscar con una favola politica che ne fa ora una pedina, ora un simbolo. L'attesa di Wicked: For Good è stata più emozionante del film in sé? Forse. Ma perfino l’esplosione di una bolla di sapone finisce per suonare assordante — e magica, come le rivoluzioni. (7,5)

Dopo Queer, Guadagnino torna e divide. Yale trema per un'accusa di molestie. Nella caccia alle streghe, gli interrogativi incalzano. E tutti, pur di proteggere la propria reputazione, diventano capaci di tutto. Roberts, di bianco vestita ma moralmente in chiaroscuro, giganteggia accanto a Stulhbarg in un thriller senza vincitori né vinti. L'istrionico Garfield è davvero un predatore? Adebiri, mai all'altezza del resto del cast, usa la propria vulnerabilità per occultare un plagio? E cosa spinge la Roberts a schierarsi, o a non farlo? Citando Allen - il maggiore regista vittima della cancel culture -, Guadagnino provoca con un film sontuoso e ambiguo. Smaschera le ipocrisie della Gen Z dell'inclusione e dei trigger warning, ma anche l'omertà dei Boomer mai scesi a patti coi loro scheletri nell'armadio. Lo scontro avviene lasciando fuori i corpi: questa volta solo il pomo della discordia in un cinema dove i non detti, come in Anatomia di una caduta, feriscono più dei dialoghi o degli stridori della colonna sonora. «Di' tutta la verità», scriveva Dickinson, «ma dilla obliqua». After the Hunt la dice così, sbieca e tagliente, fino a confondere giusto e corretto. (8)

Chase Infiniti è una figlia che non ha mai conosciuto la madre. Leonardo DiCaprio è una padre sempre in hangover, con un passato da sovversivo per amore. Sean Penn è un militare repubblicano che, a dispetto dei segreti feticismi sessuali, vorrebbe sedere fra i suprematisti bianchi. Ambientato in una polveriera a ridosso del confine messicano, Una battaglia dopo l'altra è un film tra il thriller e la commedia nera, l'impegno politico e il grande intrattenimento, i fratelli Coen e Breaking Bad. Esilarante a dispetto dell'urgenza delle tematiche, frenetico nonostante la durata fiume, adatta Vineland di Thomas Pynchon ai giorni nostri e, in mezzo ad assalti, guerriglie e inseguimenti, non dimentica di indirizzare una lettera di speranza alle nuove generazioni: la meglio gioventù che erediterà dai padri il gusto della disobbedienza civile, ma non la mascolinità tossica. Se l'antieroe DiCaprio è un boomer lontano dai cliché action, l'Oscar sembra brillare per un Penn iconico come non mai. Il cinema è una cosa meravigliosa, soprattutto quello di un Paul Thomas Anderson in forma smagliante. Quando fa la rivoluzione, di più. (9)

Emma Stone (in sala anche con il brutto 
Eddington) è un'aliena sotto copertura con l'obiettivo di portare il genere umano all'estinzione? È la teoria del complotto di un imprevedibile Jesse Plemons, che insieme al cugino autistico progetta un rapimento in cui l'emergenza ambientale si mescola alla vendetta. Con un pugno di attori fidati, Yorgors Lanthimos torna con una commedia nera dalle derive splatter in cui mancano i suoi vezzi stilistici (grandangoli, fish-eye, campi lunghi o lunghissimi) e, soprattutto, il graffio vero nella scrittura. Sarà perché, questa volta, si tratta del remake di un piccolo cult coreano? O forse è per via della vaga noia per i soliti nomi, i soliti registi che sfornano un film all'anno, i soliti film appesantiti da venti minuti troppo? Nel dubbio che ci accompagna fino a fine visione, si sorride comunque al pensiero di ciò che i protagonisti sarebbero capaci di fare. Bugonia - il cui titolo spoilererà il finale ai secchioni del classico - è il Lanthimos meno disturbante e più sopra le righe. Ma anche quello inedito, perché finalmente divertente. (6,5)

Che fine hanno fatto le commedie romantiche: quelle leggere e patinate, a lieto fine, tipiche degli anni Novanta? Celine Song, reduce dal successo dell'intenso ma sopravvalutato Past Lives, risponde con un triangolo sentimentale degno dei classici di Jane Austen. La splendida Dakota Johnson è una novella Emma divisa tra lo scapolo d'oro Pedro Pascal e il cameriere di belle speranze Chris Evans, ragione e sentimento, in un film ambientato nell'inferno del dating, degli algoritmi e del consumismo sfrenato. I soldi non faranno la felicità, forse, ma garantiscono una serena vita di coppia. È la tesi di un film classico, ma diversissimo da come gli spot promozionali e il discutibile titolo italiano ce lo hanno raccontato. Cinico, contemporaneo e calcolatore, Materialists fa del matrimonio un contratto e dell'amore merce di scambio. La nostra affascinante eroina newyorkese troverà il suo principe azzurro, o rischierà il burnout? Inevitabile, a fine visione, sentirsi un po' più brutti, soli, poveri e bassi rispetto all'inizio. Celine, diccelo, per favore: cosa ti hanno fatto di male gli uomini alti soltanto uno e settanta? (7)

venerdì 14 novembre 2025

Il buio in salotto: Interview with the Vampire | Monster: Ed Gein | Il mostro

Misteriosamente passata in sordina in Italia – arriverà su Netflix a dicembre –, è già arrivata alla terza stagione in patria. Perché la serie TV tratta dai romanzi di Anne Rice sta facendo così fatica a trovare il suo pubblico? Perché io stesso ho recuperato le prime due stagioni dopo anni di rimandi, per poi rimanere abbagliato da una trasposizione che – nell'anno dei fasti di I peccatori – brilla per eleganza di scrittura, efferatezza e sensualità? La storia, già raccontata in un film con Tom Cruise e Brad Pitt, cambia forma e dinamiche, ma mantiene immutati il gusto scenografico e le elucubrazioni. Jacob Anderson e Sam Reid – che nulla, notorietà a parte, hanno da invidiare al duo originale – ripropongono l'eterno conflitto tra creatore e creatura, all'interno di una relazione tossica minata dall'arrivo di Claudia: figlioccia adolescente avida di libertà. Nella seconda stagione, ci si sposta a Parigi e, in fuga dalla solitudine, ci si unisce a una congrega. Tra canti, balli e mattanze, lo spettacolo si fa più spettacolare ancora e, mentre subentra il nuovo amore per Assad Zaman – più anziano, più saggio, più costante di Lestat –, si gettano le basi per uno degli episodi più belli dell'anno. La memoria di un immortale è sempre infallibile? Si può vivere onestamente, nonostante il troppo sangue versato? Da questo trio, in una serie opulenta e imprevedibile come un ballo in maschera, chi non si lascerebbe azzannare? (8)

Dopo le stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e ai fratelli Menendez, la serie di Ryan Murphy abbandona l'asciuttezza del dramma processuale per sposare i toni dell'horror. Benché molto patinata, potrebbe mettere alla prova con scene gore e voyeurismo: niente, tra nefandezze e feticismi, ci è risparmiato. L'obiettivo, ambiziosissimo, è non tanto realizzare il biopic di Ed Gein, ma raccontare un'epoca; un Paese. Non sempre all'altezza, gli episodi mettono troppa carne al fuoco e peccano di una direzione incerta. In disordine, si parte dal mondo interiore di Gein (gli abusi materni, il trauma della Shoa, la disforia di genere) per poi fare tappa a Hollywood (Psycho, Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti sono alcuni dei film ispirati al suo modus operandi) e negli uffici dell'FBI (Gein, infatti, avrà un ruolo chiave nella cattura di Ted Bundy). Ne emerge un ritratto non sempre accurato, ma multiforme e personale, che trova una sua identità nel corso degli ultimi episodi: quelli meno sanguinosi e più lirici, dove un Charlie Hunnam da Emmy conferma un'intensità perfino superiore alla sua avvenenza e l'irriconoscibile Vicky Krieps ruba a molti la scena nelle vesti di una sadica nazista. Quando abbiamo fatto di un serial killer un'icona pop? Quando abbiamo trasformato un uomo schizofrenico in un mostro? (7)

Alle porte di Firenze, ha ucciso otto coppie nell'arco di diciassette anni. L'incubo di una generazione di innamorati — già al centro di una miniserie Sky con Ennio Fantastichini e di innumerevoli podcast — torna in una produzione attesissima, con la firma di uno dei registi più internazionali del nostro cinema: Stefano Sollima. Lontano dallo sperimentalismo a cui ci ha abituato, sceglie una maggiore asciuttezza — in cui, però, si fatica a scorgere la sua impronta — e un taglio inedito ma discutibile. Più che di una serie sul Mostro, si tratta di un prequel sul delitto di Barbara Lonci e Antonio Lo Bianco: a collegarli alle altre morti, l'utilizzo della stessa pistola. Frammentario e confuso, Sollima si muove tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, la Sardegna rurale e una Firenze assediata, col risultato che le indagini facciano semplicemente da contorno alle vicende della famiglia Mele: un marito pavido, una donna sottoposta a violenze esasperanti, le frequentazioni ambigue coi fratelli Vinci. Pacciani e i famigerati compagni di merenda faranno capolino nella seconda stagione? In questa storia di misoginia e repressione sessuale, per ora, non c'è spazio per gli eventi più noti né per un cast di nomi altisonanti: a spiccare, nell'anonimato imperato, è il solo Valentino Mannias, sinuoso e spietato come un lupo. (5,5)

venerdì 7 novembre 2025

Recensione: La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo

 La notte devastata, di Jean-Baptiste Del Amo. Feltrinelli, € 20, pp. 432 |

È un grande anno per il cinema horror. Per non essere da meno, anche Feltrinelli si è messa al passo con un romanzo citazionista e dalle atmosfere vintage, che farà la gioia e il terrore degli amici cinefili. Ambientato nel cuore degli anni Novanta, in un sobborgo residenziale ormai in decadenza, racconta di una banda di amici con l'hobby dei film di genere e delle bravate. A sedici anni, la morte è un pensiero incidentale. Al TG: qualche incidente stradale, suicidi in sordina, la piaga dell'Aids. Medhi, membro dell'unica famiglia straniera del quartiere, è vittima del bullo della scuola. Alex ha da poco sepolto la madre, divorata dal cancro. Tom, ossessionato dagli insetti, vorrebbe aizzare una scolopendra contro il patrigno. Max, fidanzato con la bella del liceo, è attratto dal gemello di lei. Lena, l'ultima arrivata, è in fuga da un passato violento.

A volte era sembrato a Lena che lei e i suoi amici sarebbero stati in un certo modo eterni e che l'universo esistesse solo per loro, semplicemente perché erano là a posarvi lo sguardo. Ma ormai era consapevole della loro fugacità, fragilità e impermanenza, aveva acquisito quella consapevolezza del tempo che passa, preleva quello che gli devi e non offre in cambio che un po' di oblio.

Tutti hanno le proprie ombre. Tutti sono attratti dalla casa nell'impasse des Ormes. È lì che si manifestano le fobie e i desideri più sfrenati, in un budello infernale a metà tra il sonno e le veglia. Il folgorante Jean-Baptiste Del Amo, colpevolmente scoperto qui e ora, è la luce in un mondo prigioniero della penombra, dove gli incubi si mescolano ai sogni erotici e i bassi istinti prendono il sopravvento. In un angosciante gioco di specchi e doppelganger, sarà impossibile distinguere una dimensione dall'altra e arginare le conseguenze. Derivativo sin dalle premesse, appesantito da una cinquantina di pagine di troppo e non sempre fedele alla sua dimensione corale, La notte devastata resta comunque una lettura sinceramente spaventosa in cui riecheggiano le grida di It, Nightmare, Amityville Horror.

L'innocenza può essere un inferno.

A elettrizzare, tuttavia, non sono soltanto gli insetti giganti, i parti mostruosi, gli sfondi lovecraftiani, ma la descrizione di un'adolescente sensoriale e irrequieta che tanto somiglia a quella dei romanzi del connazionale Nicolas Mathieu. Divisi tra frustrazione, fumo e noia, i protagonisti si scoprono prigionieri di un film horror con la colonna sonora dei Nirvana, in cui l'incanto infantile è ormai spacciato e la consapevolezza del tempo, della diversità e dell'oblio, conducono sulla soglia del più spaventoso dei mondi: quello degli adulti. Si sopravvive alla morte dell'innocenza?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are 

mercoledì 22 ottobre 2025

Recensione: Frankenstein, di Mary Shelley

| Frankenstein, di Mary Shelley. Feltrinelli, € 10, pp. 320 |

Un laboratorio cavernoso. Un corpo a pezzi, ricucito con rattoppi di fortuna. La scintilla di un lampo. Poi, un’esclamazione di trionfo: è vivo. Eppure, questa e altre scene — radicate, ormai, nell’immaginario collettivo — non esistono nel romanzo di Mary Shelley. Nessun cimitero viene profanato in nome della scienza. Gli omicidi avvengono fuori scena. L’epilogo, struggente, è una promessa di morte poco prima del sipario. Filtrato interamente dallo sguardo di Victor, il romanzo segue la sua biografia dall’infanzia fino alle estreme conseguenze dell’esperimento. Ubriaco di conoscenza, lo scienziato flirta con l’alchimia: non trova la pietra filosofale né l’elisir di vita eterna, ma riesce comunque a imbrigliare la morte — e a restituire respiro alla materia inerte.

L'invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos.

Tra lunghe peregrinazioni dalla Svizzera al Polo Nord e lettere alla promessa sposa Elizabeth, Victor tenta di placare il proprio ardore febbrile e di lasciarsi alle spalle il suo famigerato mostro. Ma non è un caso che, ancora oggi, nominando Frankenstein, si pensi prima alla Creatura — in realtà, senza nome — e solo poi al suo creatore. Pur concedendole meno spazio di quanto ci si aspetterebbe, Shelley fa della Creatura un grande attore non protagonista: un mostro incompreso e gentile, che si commuove spiando la quotidianità di una famiglia di contadini, e legge Goethe, Plutarco, Milton per imparare a distinguere il bene dal male. Tagliato fuori dal mondo, ma animato dalla stessa irrequietezza del suo artefice, seminerà una lunga scia di sangue pur di condannare l’altro alla medesima solitudine.

Se non riesco a ispirare amore, causerò paura.

Tra Svizzera, Francia e Irlanda, a lungo andare i viaggi si moltiplicano; gli elementi raccapriccianti degni di Bram Stoker, invece, scarseggiano. Mary Shelley — all'epoca, una geniale diciottenne logorata dall’amore tossico per il poeta Percy — firma un romanzo di formazione elegante e terribile sulla crudeltà del più sapiente tra gli uomini. E continua a dialogare, da due secoli, con la letteratura gotica, il cinema e le serie TV. La nostra immaginazione, infatti, ricama i dettagli sui quali l’autrice sorvola. Perché Frankenstein è vivo, sì. E anima un inseguimento tortuoso e implacabile, disseminando orme e indizi lungo la strada. Forse, vuole solo essere trovato. Perché avere un nemico che giuri di braccarci per sempre — fino in capo al mondo, fino alla fine dei tempi — significa non essere mai più soli.

Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine - Everybody Scream

martedì 7 ottobre 2025

Recensione: Le notti di Salem, di Stephen King

| Le notti di Salem, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 14, pp. 656 |

Per un lungo periodo della mia vita — tra la fine delle elementari e il liceo —non ho letto altro che Stephen King. Nella mia vecchia camera, sul letto, ho una mensola con schierati tutti i suoi romanzi più famosi. Anzi: avevo. Quest'estate ho riposto tutte le mie cose, smantellando scaffali e ricordi, per l'imminente trasloco di papà. La mia adolescenza è in un garage — materiale fragile, maneggiare con cura. Ma ho voluto sottrarne una piccola parte, tenendo fuori dagli scatoloni uno dei pochi classici finora mai affrontati: Le notti di Salem. Tra incanto e terrore, proprio come accadeva da ragazzino, ho realizzato che il me adolescente non sbagliava: Stephen King resta il più grande narratore sulla faccia della terra.

Ogni notte bisogna combattere la stessa battaglia e l'unica cura è l'inevitabile atrofizzazione delle facoltà immaginative, quell'evoluzione che si chiama età adulta.

Scritto sul finire degli anni Settanta, il romanzo è cinema allo stato puro. Benché lontano dall'introspezione di It, contiene già traccia del capolavoro che arriverà qualche anno dopo. Anche qui abbiamo una cittadina immaginaria dove i fantasmi del Vietnam, gli scandali e i segreti affollano le confessioni più nere dei parrocchiani. Anche qui abbiamo un ritorno a casa, alle origini del male, e un gruppo di eroi coraggiosi — accanto a Ben, scrittore in cerca di ispirazione, ci sono un professore a un passo dalla pensione e un piccolo boyscot ossessionato da Houdini. Le assi scricchiolano. Le porte cigolano. Le risate argentine dei bambini ghiacciano il sangue nel cuore della notte. Su tutto e tutti, ritta su un poggio come un dio crudele, domina Casa Marsten: teatro di un misterioso omicidio-suicidio dopo la crisi di Wall Street, attira puntualmente uomini malvagi e, questa volta, diventerà testimone di una mattanza senza pari. Sopravvivranno in pochi.

L'oscurità è quando i mostri ti prendono.

Chi sono gli ultimi arrivati, Staker e Barlow, e cosa contengono quelle casse polverose portate dall'Inghilterra? Che fine hanno fatto i fratelli Glick e perché i cadaveri fuggono via dall'obitorio, tenendo in scacco il borgo? Con un montaggio alternato degno dei maestri del cinema, King segue la lotta alla sopravvivenza dei suoi protagonisti dal tramonto all'alba. Ogni scena è sezionata con attenzione autoptica. Ogni personaggio, perfino il più dimenticabile, ha un background indagato nel dettaglio. I ritmi sono implacabili. Ma è nelle lunghe sequenze corali — le migliori — che King sfoggia tutto il talento di cui è capace, spostandosi in volo da una casa all'altra di Lot. Viene fuori, così, il ritratto oscuro di una America provinciale e perbenista, dove gli eredi di Dracula troverebbero tutt'ora terreno fertile. Tra acqua santa, aglio e paletti, King si diverte come un bambino dispettoso. E cinquant'anni dopo non smette di divertirci, con l'omaggio a Bram Stoker che esisteva — e mordeva — prima di Netfix, prima del binge watching, prima dei remake.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Dead Can Dance – The Host of Seraphim

martedì 30 settembre 2025

Recensione: Mysterious Skin, di Scott Heim

| Mysterious Skin, di Scott Heim. Playground, € 18, pp. 272 |

È possibile raccontare l'indicibile? Scott Heim — autore di culto, nonostante due soli romanzi all'attivo — non conosce tabù. Impavido, chirurgico, cinematografico, affronta a testa alta i trigger warning più destabilizzanti e reinventa il lessico del dolore in una storia che mostra due risposte diverse al medesimo trauma. Il cammino dell'elaborazione non è lineare. Ma lungo, dissestato, tortuoso. Qualcosa di terribile ha segnato per sempre l'infanzia di Brian e Neil. A Hutchinson, Kansas, giocavano nella stessa squadra di baseball. Come si è evoluta la loro sessualità? Quali risposte si sono dati per giustificare le famiglie disfunzionali, i ricordi inaffidabili, le esistente condannate a un eterno limbo? Brian soffre di epistassi e di vuoti di memoria. Fragile e ingenuo, consuma storie di fantascienza da quando ha visto qualcosa di misterioso fluttuare su un campo di cocomeri. Gli alieni esistono e, forse, lo hanno rapito quando aveva otto anni. Neil, da sempre più spregiudicato, ha presto imparato che il sesso è un'arma a doppio taglio — e lui la impugna dalla parte del manico.

A dodici anni avevo visto più tornado che gocce di sangue. Il suo rosso sembrava magnifico e sacro, come un rubino fatto a pezzi.

Sconsigliato ai lettori facilmente impressionabili, Mysterious Skin — diventato anche un film diretto da Gregg Araki — mette subito alla prova con tematiche scabrose e descrizioni di una violenza grafica. Provoca, scoraggia: è un fiume nero, torbido e pericoloso, che non sarà semplice guadare. Ma, dopo un impatto inizialmente scioccante, si apre a una polifonia di voci in cerca di speranza. E si trasforma in un trattato di psicologia, in un giallo, sul più grande dei misteri: la rimozione. I protagonisti hanno dimenticato il passato, ma i loro corpi ricordano — la luce blu di un portico, i lividi, la piovosa estate del 1981. Non tutti i punti di vista appaiono sempre funzionali alla narrazione e, a tratti, l'intensità rischia di disperdersi: sin dall'inizio, infatti, noi lettori sappiamo quanto accaduto. Aspettiamo così che i protagonisti scavino tra le macerie dell'infanzia, che maturino finalmente nuove consapevolezze, in un romanzo che oggi nessuno avrebbe osato né scrivere né pubblicare. Un oggetto non identificato. Una carogna da cui, nonostante le avvertenze di mamma e papà, non riesci a distogliere lo sguardo. 

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead - How to Disappear Completely

martedì 23 settembre 2025

Recensione: Raccontami tutto, di Elizabeth Strout

| Raccontami tutto, di Elizabeth Strout. Einaudi, € 19, pp. 288 |

È destino. Torniamo spesso dove siamo stati bene. E così, dopo qualche anno di lontananza, sono tornato a perdermi nelle storie della bravissima Elizabeth Strout. A Crosby, Maine: una cittadina vista mare, dove tutti conoscono tutti e i personaggi dell'autrice sono soliti incontrarsi. Come parte di un grande universo espanso, i protagonisti dei suoi più grandi successi — Olive Kitteridge, Mi chiamo Lucy Barton, I ragazzi Burgess — si incrociano in un romanzo che farà la gioia di tutti i lettori della prima ora, senza però scoraggiare gli ultimi arrivati. Nonostante sia consigliabile già conoscerli, niente paura: Raccontami tutto non è un romanzo di trame intricate ed eventi spiazzanti, ma un gioiello che brilla della quieta semplicità della provincia.

Olive tacque un bel po'. Poi disse, in tono pensoso: “Strambo, no, il mondo in cui viviamo? Per anni mi sono detta: Mi mancherà questo quando muoio. Ma per come va il mondo di questi tempi, certe volte penso che sarò ben contenta di essere morta”. E rimase seduta in silenzio a guardare fuori al parabrezza. “Invece mi mancherà lo stesso”, disse.

Qual è il senso della vita di noi persone normali? Sembrano chiederselo tutti, mentre Crosby si veste dei colori autunnali e qualcuno si trasferisce lì per sfuggire al Covid. Lucy, la scrittrice arrivata da New York, cerca idee per il prossimo romanzo dopo avere raccontato di un'infanzia infelice e di un matrimonio burrascoso. La sua migliore interlocutrice? L'indimenticabile Olive, novantenne due volte vedova, che ora vive in una casa di riposo e ha imparato a smussare un po' il suo caratteraccio. Accanto a loro, Bob: il mio nuovo personaggio preferito. Penalista in pensione, qui fa i conti con il mistero della morte del padre, la vedovanza del fratello maggiore, la scomparsa di un'anziana il cui figlio è il principale indagato. Soprattutto, con la cotta per Lucy: entrambi sessantenni, sposati ma un po' in crisi, condividono lunghe passeggiate sul fiume in una storia d'amore tenera come poche, ma destinata a rimanere platonica.

Quando arrivarono alle macchine, Bob spalancò le braccia e disse: “Ti abbraccio, Lucy”. E lei spalancando le braccia disse: “Anch'io, Bob.” Ma non si abbracciarono.

L'autrice Premio Pulitzer, questa volta alle prese anche con un giallo, intreccia con eleganza e levità vicende su vicende. Reduci dalla pandemia, i suoi protagonisti rifuggono l'isolamento e amano essere ascoltati. Condividono così «storie di solitudine e amore, e dei piccolissimi legami che stringiamo nel mondo», in una lettura in cui il superpotere dell'empatia ti invoglia a conoscerli come le tue stesse tasche. E a rimandare il più a lungo possibile il momento del congedo. Perché Raccontami tutto – con le sue “vite ignorate” alle prese con la malattia, il tradimento, l'abuso, la povertà – rende felicissimi. L'esistenza va avanti. La natura segue il solito ciclo. I cuori, perfino quelli infranti, continuano a battere. È la forza delle vita. Ed è in questa umanità ordinaria, ma assolutamente incantevole e ostinata, che risiede la magia di Elizabeth Strout.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Birdy – People Help the People

martedì 16 settembre 2025

Halloween in anticipo: Weapons | Bring Her Back | 28 anni dopo | So cosa hai fatto | Heretic

Era stato etichettato come l'horror dell'anno ancora prima di arrivare al cinema. Al battage pubblicitario, poi, si sono aggiunti gli incassi: sorprendenti, soprattutto in estate. Che fine hanno fatto diciassette bambini scomparsi nel cuore della notte? Per venire a capo del mistero, Cregger confeziona un film a capitoli, lungo e ambizioso, in cui punti di vista diversi si intrecciano in preparazione del finale: intrattenente, ma al di sotto delle aspettative. Servivano due ore che oscillano dal mystery al grottesco fino allo splatter più puro? Serviva una struttura-puzzle che poco spiega dei personaggi e troppo a lungo maschera, rimanda, dissimula una verità soprannaturale? Più derivativo del previsto — una versione blockbuster di Longlegs, con cenni a Stephen King —, Weapons punta all'iconicità con le sue corse a braccia larghe e le apparizioni terrificanti di zia Gladys. Ma si limita a riproporre in chiave contemporanea le fiabe più oscure dei Grimm, trasformando in una folle corsa a zig-zag un cammino altrimenti linearissimo. Qualcuno si sentirà preso in giro. Qualcuno, invece, si divertirà. Io, nel mezzo, aspetto Together — e mi tengo stretti gli altri film del post. (6,5)

L'horror è il genere che meglio si presta a cambiare pelle. A tormentare. A sviscerare ciò che fa più male. È il caso di Bring Her Back, ritorno alla regia del duo di Talk to Me, che attraverso una trama archetipica — due fratellastri ospiti di una strega cattiva — fruga nelle viscere degli abusi familiari, della disabilità, del trauma, del lutto. Scritto come una fiaba nera, lascia i protagonisti in balia di Sally Hawkins. Sottovalutissima, regala un'interpretazione destinata a trasformarla in una delle villain più memorabili del cinema recente. Coi suoi rituali, con le sue videocassette sgranate, fa una paura matta. E spezza il cuore, in un film dove il sangue — copioso, forse inutilmente — è un inganno per inchiodarci a una parabola alla Hereditary sull'insostenibilità di certe perdite. Non esiste un termine per definire una madre che ha seppellito la propria figlia. Ed è proprio in questo vuoto lessicale che l’horror affonda le mani. Allora non resta che affidarsi al cinema di genere, alla magia nera, per dare una forma — per quanto mostruosa — a tutto ciò che il dolore rende contro natura. (8)

Può un film pieno di morti essere un inno alla vita? Me lo chiedevo l'anno scorso, davanti al prequel di A Quiet Place. L'interrogativo, insieme alla commozione, mi ha seguito anche in 28 anni dopo. Il Regno Unito continua a essere il focolaio di un contagio. I protagonisti utilizzano la terraferma come terreno di ricognizione. Ci sono un padre col complesso dell'eroe (Taylor-Johnson, di nuovo con arco e frecce), una mamma malata (Comer: da nomination) e, soprattutto, un dodicenne contro le regole (l'esordiente Williams, straordinario). Garland stupisce con un romanzo di formazione sanguinoso ma delicatissimo, dove abbondano i cenni alla contemporaneità — il Covid e la Brexit, la mascolinità tossica e l'eutanasia — e Boyle può ricordarci di essere tra i più grandi registi viventi. Tornato alla regia della serie, alterna una prima parte iperviolenta a un prosieguo dal lirismo struggente, dove la vita si annida dappertutto e le ossa impilate ci ricordano che la morte e l'amore, forse, non sono che due teschi della stessa medaglia. (7,5)

Da adolescente, a torto, l'ho sempre trovato la copia sbiadita della saga di Scream. Il tempo mi ha dato torto. A sorpresa, So cosa hai fatto è invecchiato meglio del previsto, e quello arrivato al cinema a metà luglio — a cavallo tra sequel e remake — è un ritorno alle origini che ho trovato delizioso. Il merito spetta a una scrittura fresca e genuinamente divertita, che dialoga con le commedie splatter e omaggia le atmosfere anni Novanta senza però scordare i colpi di scena. Il nuovo cast, in cui brilla l'esilarante Madelyn Cline, si muove sulla vecchia scena del crimine. Tornano i superstiti dell'originale — iconico il cameo di Sarah Michelle Gellar —, ma in un film dove il passato torna a mietere vittime non c'è troppo spazio per la nostalgia. I ricordi ci ammazzeranno tutti. Per fortuna, quelli del film di Jennifer Kaytin Robinson ci hanno salvato dalla noia delle uscite in sala. Da vedere possibilmente al cinema, tra i risolini delle ragazzine e gli avanzi di popcorn. (7)

L'incipit: tra i più classici. Due ragazze giovani e belle bussano alla porta di un uomo misterioso in un giorno di pioggia. Potrebbe essere il prologo di uno dei tanti torture porn. Heretic, invece, è un horror psicologico arguto, cerebrale, originalissimo. Sophie Tatcher e Chloe East sono una coppia di missionarie e Hugh Grant, qui nel ruolo di uno dei villain più memorabili degli ultimi anni, è un padrone di casa che le costringe a un sadico gioco di ruolo. Ai fiumi di sangue, i registi Scott Beck e Bryan Woods preferiscono quelli di parole. Pur non disdegnando scantinati oscuri e stilettate, curano un gioiello dalle atmosfere teatrali e dalle riflessioni caustiche. Il loro film – frutto di dieci anni di lavoro – sintetizza le contraddizioni delle tre grandi religioni monoteiste come un piccolo manuale di teologia, e ci dice che il cristianesimo è solo la copia di mille riassunti. Quale sarà il prossimo aggiornamento? Chi saluteremo come nuovo Messia? Io ho fede in A24. E nell'horror come metafora massima della vita, della morte e di ciò che, sfuggente, c'è nel mezzo. (7,5)

martedì 9 settembre 2025

Recensione: L'imperatore della gioia, di Ocean Vuong

| L'imperatore della gioia, di Ocean Vuong. Guanda, € 20, pp. 432 |

È considerato una delle voci più significative della sua generazione. Classe 1988, origini vietnamite, si muove con successo tra prosa e poesia. Tutti scrivono di lui — da Oprah a Bjork. Il suo secondo romanzo, però, è molto diverso da come ce lo raccontano oltreoceano. Presentato come un'avventura alla Mark Twain, potrebbe deludere chi confidava in un'epopea densa e rocambolesca. La trama, essenziale, racconta le gioie e i dolori del giovane Hai: alter-ego dell'autore, ha sviluppato una dipendenza dai farmaci e dalle bugie. Mentre pensa di togliersi la vita, lo salva Grazina: ottant'anni, ha bisogno di un infermiere per fronteggiare la demenza e i flashback di una Lituania sotto assedio, divisa tra Hiltler e Lenin.

Il superpotere dell'essere giovani consiste nel fatto che sei più vicino al non essere nulla – e quando sei molto vecchio è la stessa cosa.

Vuong descrive la loro improbabile convivenza, ma anche la routine tragicomica del ristorante in cui Hai lavora part-time. L'HomeMarket potrebbe essere il set di una sit-com. Popolato da personaggi ai margini — prostitute, reduci, eroinomani —, offre cornbread di una bontà leggendaria e un cast di comprimari adorabili. BJ (la manager wrestler), Maureen (rettiliana convinta) e Sony (cugino Asperger con il pallino per la guerra civile) sono gli ingranaggi di un microcosmo umile e dignitoso che diventa emblema del sogno americano. Troppo lirico e frammentario per i miei gusti, ma ispiratissimo, Vuong ha lo sguardo empatico del cinema di Sean Baker.

Le parole sono incantesimi. In quanto scrittore, dovresti saperlo. È per questo, Labas, che si dice “fare lo spelling”, da spell, incantesimo.

Scrive così una fiaba su un battaglione di diseredati — i personaggi sono tutti immigrati, fragili, abbandonati —, che nell'America di Obama porta avanti le speranze delle generazione precedente. Era il 2009, e tutto sembrava possibile: soprattutto reclamare appartenenza. Benché politico e saldamente ancorato al reale, L'imperatore della gioia ha la grazie necessaria per conferire una dimensione favolistica al dramma dell'emarginazione. East Gladness, Connecticut, è un luogo ai confini della realtà in cui l'inverno è lungo sette mesi, la brina ricopre ogni superficie e il fiume gorgoglia inquinamento. Lì, in una baracca sull'argine, è possibile imparare dal nuovo la gentilezza, la collaborazione, la fiducia nel progresso umano. Il segreto, direbbe Grazina, è abbuffarsi di carote: ci vogliono vitamine — e piccoli eroi di questi — per prevenire la tristezza.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Stonemilker - Bjork

lunedì 1 settembre 2025

Recensione: Il Nix, di Nathan Hill

| Il Nix, di Nathan Hill. Bur, € 17, pp. 768 |

Secondo David Foster Wallace, tutte le storie d'amore sono storie di fantasmi. E quelle di famiglia, invece? Per la seconda estate consecutiva, mi sono regalato la lettura di un romanzo-mondo di Nathan Hill. Anche questa volta, un'epopea varia e giocosa, tentecolare e ambiziosissima, sulla vita vera e immaginaria di due generazioni a confronto. Senza sorprese, l'autore di Wellness fa ancora centro — anzi, lo aveva già fatto un decennio fa: Il nix è il suo esordio. Subito opzionato per una serie TV con Meryl Streep, purtroppo mai andata in porto, parte dall'aggressione all'aspirante presidente degli Stari Uniti. Cosa ha spinto una pensionata con un passato da sessantottina a lanciare sassi contro l'alter-ego di Trump?

Se non hai paura, non è un vero cambiamento.

A tentare di scrivere la biografia della terrorista di cui tutti parlano è Samuel, professore sull'orlo del licenziamento: Faye è la madre che l'ha abbandonato. È possibile perdonare ciò che scoprirà? O è proprio in quella conoscenza che si nasconde un’occasione di trasformazione? È così che il romanzo si apre, si espande, si moltiplica. Con invidiabile intelligenza, Hill ci guida tra linee temporali che si rincorrono, cambi di prospettiva, rimpianti a confronto. C’è l’infanzia di Samuel, segnata dall’incontro ambiguo con l'amico Bishop e dalla presenza di Bethany, la gemella violinista. C’è poi l’adolescenza di Faye, tra l’assassinio di Martin Luther King e un poligono sentimentale bruciato tra poesie di Ginsberg e lacrimogeni. Ma prima ancora c’è lui, nonno Frank: un immigrato norvegese che produce napalm, ma rimpiange una casa color salmone affacciata sui fiordi. È da lui che arriva la leggenda del titolo: il nix è uno spirito mutevole, che si manifesta sotto forma di ciò che desideri di più — ma solo per colpirti dove sei più vulnerabile.

Forse accanto al mondo reale c'era questa fantasia, quest'altra vita in cui aveva ereditato la fattoria color salmone. A volte queste fantasie possono essere più persuasive della vita vera, Faye lo sa. Una cosa non è necessario che accada perché sia vera.

Si viaggia dai videogiochi di ruolo ai libri-game, dai beatnik ai gamer, dal Vietnam all'Iraq. Ogni generazione ha il suo linguaggio, i suoi traumi, le sue rivoluzioni. Ma l'America di Hill, oggi, è un paese in cancrena, dove perfino la politica è un’operazione di marketing e il cinismo appare l’unica via di fuga. Eppure il suo è un debutto che vibra di rivoluzione, attraversato dalla consapevolezza che anche la rabbia, la disillusione, la paura siano scosse. Perché niente cambia senza crisi. E nessuna generazione si salva da sola.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles - Come Together

mercoledì 30 luglio 2025

Recensione: La mia ultima storia per te, di Sofia Assante

| La mia ultima storia per te, di Sofia Assente. Mondadori, € 20, pp. 384 |

Com'eravate quindici anni fa? Io somigliavo proprio ad Andrea, il protagonista del romanzo d'esordio di Sofia Assante. Bassino e poco loquace, avido lettore di narrativa americana sin da allora, mi innamoravo dei personaggi femminili di John Green, ascoltavo in macchina Jason Mraz e Avicii, fantasticavo di opportunità di lavoro internazionali e feste esclusive da teen drama. Ambientato tra il presente e il primo decennio degli anni Duemila, questo romanzo è un tuffo negli anni della mia adolescenza a cui, soprattutto se nostalgici, è difficile non volere bene. Conosciamo davvero chi abbiamo accanto? Cosa si nasconde dietro la famiglia perfetta? Sono le domande che riportano Andrea a Roma, dopo il dottorato a New York. Non è bastato mettere un oceano di distanza tra sé e il passato per scordare Elettra, la migliore amica di cui è sempre stato innamorato, e il resto della famiglia Alfieri. Fasciati in abiti di lino pregiato, colti ma inclusivi, belli come stelle del cinema.

Certi eventi, come certi amori, semplicemente non si possono sradicare. Mi passa per la testa questo pensiero: la vera bellezza, il vero amore, hanno sempre qualcosa di terribile.

A metà tra un antropologo e un cavaliere servente, Andrea li ho osservati a lungo, come Nick Carraway contempla l'opulenza di Gatsby tra le pagine del capolavoro di Fitzgerald. Fino, almeno, alla loro caduta. Abbagliato dal loro fascino, non ha mai intuito la tragedia in agguato. Brillante, a tratti perfino divertentissima, quella di Assante è un'avventura post-adolescenziale dal retrogusto malinconico dove partire è solo una scusa per poter tornare. Nonostante qualche pagina di troppo e comprimari dal potenziale non sempre approfondito (i mitici zia Mimì e Arman meriterebbero uno spin-off tutto loro), ha i sospiri delle commedie romantiche e la struttura di un thriller dei sentimenti, con tanto di colpo di scena conclusivo. Imperfetto e strabordante, ma generosissimo, scoppia di storie e passa in maniera sorprendente da un tono all'altro. A volte sembra perdere di vista l'obiettivo. Ma l'autrice, per fortuna, interviene a sciogliere dubbi e nodi, in un finale ambientato nel futuro che verrà tra cinquant'anni. E ci mostra irriconoscibili, invecchiati. Allora avremo forse dimenticato i ritornelli dell'indimenticabile estate del 2008, trascorsa a bere latte e zenzero sul lago d'Orta. Ma il primo amore della Mia ultima storia per te no, mai.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Avicii - Without You
 

venerdì 25 luglio 2025

I mai recensiti di metà 2025: Queer | Sinners | La città proibita | L'amore che non muore | Io sono ancora qui

Guadagnino torna a filmare l'infilmabile. Non mancano certamente i corpi, in quest'odissea tra le bettole di Città del Messico. Corpi in vetrina, che entrano ed escono nella routine di Lee: ebreo di mezza età che, dietro il fare predatorio, nasconde una sessualità mai metabolizzata. Sappiamo poco del suo passato — plasmato sulla vita di William Burroughs —, che lo perseguita in incubi e visioni. Non si accontenta più del sesso, non con Eugene: il suo ultimo amante è un'ossessione. Può un allucinogeno svelarci i pensieri più inaccessibili del partner? Dietro la patina untuosa e impolverata, al di là dei simbolismi e delle stranezze, Queer è un film di un romanticismo decadente e disperatissimo che racconta — anzi: mostra — la frustrante, compulsiva, struggente tensione verso l'altro. Craig vorrebbe soltanto fondersi con Starkey, formando uno splendido mostro a due teste. Ma non gli resta, invece, che tendere una mano verso la sua schiena nuda e immaginare di carezzargli le costole, di intrecciare le gambe alle sue. Per fortuna, Guadagnino si conferma un maestro indiscusso in materia di desiderio, e perfino quello di questo povero diavolo, inappagato, prende corpo in un cinema dove l'impossibile diventa visibile. Nella solitudine siderale dei dipinti di Hopper, così, puoi affondarci le mani come nel marmo del Bernini. (8)

Sul delta del Mississipi, negli anni Trenta, si mescolano razzismo, superstizione e musica. Influenzato dal cinema di Peele, Ryan Coogler fa dell'horror lo strumento per uno spaccato sociale vivo e palpitante. E ci regala il piano sequenza più memorabile dell'anno, dove passato, presente e futuro si mescolano sulle note di un blues. Ambientato nell'arco di una notte come Dal tramonto all'alba, mostra un gruppo di afroamericani sotto assedio — tra di loro un doppio Michael B. Jordan e un giovane diviso tra fede e chitarra. Fuori: i vampiri capeggiati da Jack O'Connell. Spietati, ma meno del Ku Klux Klan, promettono che la morte sarà il termine di ogni persecuzione. Una festa senza fine. Dolente e scatenato, Coogler commette qualche passo falso. Ma perfino quando inciampa, il suo bel mappazzone — futuro protagonista ai prossimi Oscar — si rialza e balla. La musica è un ponte con l'aldilà e l'invidia dei non-morti, che vorrebbero attardarsi per assistere allo spettacolo dell'alba. Il cinema ha lo stesso potere. E allora ben vengano diavoli e vampiri: che si accomodino in platea, assetati di vite e storie — Sinners ne offre a fiotti. (7,5)

Mainetti fa centro. Di nuovo a Roma, sempre in equilibrio tra comicità e violenza, confeziona uno spettacolo che ha il respiro del cinema internazionale e il sapore della favola. Lungo e ambizioso, mette troppa carne al fuoco. Più che presunzione, però, dietro sembra esserci la stessa generosità che animava Lo chiamavano Jeeg Robot. Quali traffici si nascondono dietro il ristorante cinese del titolo? Cos'hanno in comune un cuoco e un'immigrata che domanda vendetta? A metà tra Kill Bill e Borotalco, tra la Cina del figlio unico e l'Italia multietnica dove i ristoranti stranieri scalzano le trattorie, Mainetti racconta una tenera storia d'amore e l'eterno scontro genitori-figli. Qui, però, ogni conflitto è una coreografia esaltante in cui Yaxi Liu picchia come Jackie Chan. Accanto a lei il dolce Borello, schiavo dell'attività di famiglia, e la coppia Ferilli-Giallini, alle prese con un microcosmo da salvaguardare con mezzi leciti e non. Strabordante e delizioso, La città proibita è un mix che fa tesoro delle differenze culturali e faville con gli ingredienti del suo cast. Chi immaginava che gli spaghetti all'amatriciana potessero mangiarsi anche con le bacchette? Noi, fan della prima ora, sì. (7,5)

Come molte parole della nostra lingua, anche “cinema” ha un'etimologia greca: significa “movimento”. E il secondo film di Lellouche — incompreso a Cannes, ma protagonista di uno straordinario successo in Francia — non arresta mai la sua corsa. Convulso, sanguinoso, romanticissimo, segue il rincorrersi di due protagonisti belli e maledetti. Si conoscono al liceo, ma il loro amore viene interrotto da dieci anni di carcere. Al pari di The Brutalist, L'amore che non muore non soltanto ci ricorda in ogni fotogramma l'energia dell'arte, ma è soprattutto l'ennesimo grande romanzo popolare. Di una generosità strabordante, parte come commedia romantica, sfocia nell'heist movie e sconfina nel musical: merito di una trascinante colonna sonora anni Ottanta e di movimenti di macchina così coreografici da trasformare l'euforia di Exarchopoulos e Civil — questa volta, meno memorabili delle loro controparti giovanili — in danza. A sorpresa, Lellouche trova armonia tra gli opposti e, come il suo protagonista taciturno, si impegna a combinare le parole più belle del dizionario per dichiarare il suo amore a un cinema di nostalgie e pallottole. (8)

Cinque figli, un cane, una domestica, una casa vista mare. I Paiva sono fortunati, e lo sanno. Colti, affiatati, un po' chiassosi, vivono in una Rio de Janeiro dall'aria cosmopolita in cui i cinema danno i capolavori del nostro Antonioni e i giradischi cantano i Beatles. L'idillio, duraturo nonostante la dittatura, finisce quando il capofamiglia viene arrestato: l'ex deputato diventa l'ennesimo desaparecido. Per ottenere il certificato di morte ci vorranno quarant'anni. Nominato a tre Oscar, Io sono ancora qui avrebbe dovuto vincerne il più possibile. Perché quello di Walter Salles è un atto d'accusa dal valore universale. Ma è soprattutto il dramma classico, accorato, magnifico, di una famiglia in cerca di un nuovo ménage domestico mentre l'età dell'innocenza giunge al capolinea. Peggio dei blitz armati, peggio degli interrogatori, c'è soltanto l'attesa di notizie — perfino brutte. Magico il ruolo della matriarca. Fernanda Torres ha la forza di tutte le madri del mondo e, a differenza dello spettatore, non versa mai una lacrima. Aggiusta le bambole delle figlie, cucina perfino per gli aguzzini di suo marito, bandisce la tristezza dalle foto. Mamma-coraggio, fino all'ultimo conserverà la ricetta del perfetto soufflé, i denti da latte dell'ultimogenita e i segreti fondanti dell'esistenza, della resistenza e della gioia. Le famiglie felici si somigliano: chi lo dice? (9)