lunedì 22 dicembre 2014

Recensione: Lo staordinario mondo di Ava Lavender, di Leslye Walton

Il fatto che l'amore non sia come te lo aspetti non significa che tu non ce l'abbia.

Titolo: Lo straordinario mondo di Ava Lavender
Autrice: Leslye Walton
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 277
Prezzo: € 15,90
Sinossi: Ava Lavender è nata con le ali, ma non può volare. Non può nemmeno vivere come le coetanee, perché sua madre la tiene chiusa in casa, al riparo da occhi indiscreti. Ma ha sedici anni e non si rassegna a essere diversa. In cerca di un perché, scava allora nel passato della sua famiglia, e scopre il destino infausto delle sue antenate: ognuna segnata da una peculiare stranezza, ognuna condannata a un amore infelice. E se fosse proprio l'amore la forza in grado di spezzare quell'antica maledizione? Un amore vero, capace di vedere oltre le apparenze. Per trovarlo, Ava dovrà affrontare il mondo fuori, gli sguardi di chi la crede un mostro o un angelo. Fino alla notte del solstizio d'estate, quando sarà lei a scrivere un nuovo, forse decisivo capitolo nella storia straordinaria della sua famiglia.
                                   La recensione
A questo punto Viviane Lavender amava Jack Griffith da dodici anni, ovvero più di metà della sua vita. Se avesse dovuto trasformare il proprio amore in un genere alimentare, diciamo per mangiarlo, ci avrebbe farcito 4745 crostate di ciliegia. Se avesse dovuto conservarlo, le sarebbero occorsi 23.725 barattoli di vetro con relative etichette e una dispensa lunga quanto tutta Pinnacle Lane. Se avesse dovuto berlo, sarebbe annegata.” 
Si inizia con un albero genealogico. I rami ricurvi, il tronco nodoso e le chiazze di foglie che, allargandosi un po', fanno spazio a nomi dal suono bellissimo. Leggiamo, così, che da due giovani francesi emigrati in America furono generati René, Margaux, Pierette ed Emilienne. Il primo, di un'avvenenza fuori dal comune, fu strappato alla vita da un colpo di pistola in pieno viso; la seconda, invece, si strappò il cuore dal petto; la terza, per un amore disperato, divenne un canarino dal piumaggio chiaro; l'ultima, unica supersiste mentre i fratelli morivano di passione e la mamma diventava letteralmente trasparente, prese un treno per Seattle, sposò un panettiere zoppo che di cognome faceva Lavender e mise al mondo due bambini. Gemelli diversi. C'era Herny, che non parlava, e Ava, che aveva le ali. Lo straordinario mondo di Ava Lavender non è altro che la storia di un'adolescente speciale – sarà un angelo, un demonio, una ragazza comune? - e delle dolorose, affascinanti pene vissute dalla sua famiglia di donne. Una vita giovane che, custodita come un tesoro o una mostruosità tra le mura della misteriosa casa di Pinnacle Lane, una magione di antichi spettri vestiti di bianco, passa il tempo a sognare il grande amore e a guardare, come in foto, i curiosi disastri sentimentali delle sue antenate. L'amore, sempre, aveva fatto danni. Anche lei e suo fratello, d'altronde, sono nati da un cuore spezzato: perché, allora, desiderare spiccare il volo e volteggiare sulla cisterna comunale in cui, andati a nanna gli stanchi custodi, le coppiette di innamorati fanno le cose che fanno gli innamorati? Perché non si tratta soltanto di amore. Fuori, per Ava e i suoi lettori, c'è un universo popoloso e unico da scoprire: figure tragiche e contraddittorie, teneri inizi e fini grottesche, amici fidati e fascinosi sconosciuti che, dall'alto della loro superstizione, vorrebbero solo chiuderti in gabbia e osservarti in eterno dalle sbarre. Nell'esordio della portentosa Leslye Walton le piogge portano cattivi presagi, ogni sentimento ha un odore, le anomalie genetiche sono in rima coi miracoli e basta una panetteria profumata, un dolce, un gesto di buon vicinato affinchè il Solstizio d'estate sia il più felice dei giorni. Mi aspettavo, leggendo anticipazioni e sinossi, una storia diversa, magari più comune. L'ennesimo young adult dotato di ali e buoni sentimenti. 
La Walton, invece, riempie queste pagine che non sono nemmeno trecento di stramberie e personaggi numerosissimi e, con uno stile artistico e suggestivo, stranisce e affascina, anche se discontinuamente. Qualcosa, su di me, non ha purtroppo funzionato, una leggera stranchezza è calata alla fine di questo viaggio di carta, ma c'è talento nella scrittura e inventiva nell'intreccio. All'inzio si fa confusione, lo stupore ci disegna in faccia un punto di domanda, ma ti ci affezioni... A quelle trovate mai viste, alle atmosfere a metà tra Tim Burton e Pushing Daisies, ai legami di sangue – mentre l'albero genealogico si amplia e la chioma si fa più folta – che ricordano Sarah Addison Allen, Joanne Harris e le autrici della saga di Beautiful Creatures, ma con una nota di fantasia in più e un pizzico di fludità in meno. La mente, per fatti suoi, ha fatto i soliti collegamenti, ma in realtà questa storia è piuttosto unica nel suo genere e, come poteva, mi ha fatto compagnia allo stesso modo in cui, due estati fa, c'erano stati sotto il mio ombrellone La meccanica del cuore e il suo pesante bagaglio di maturità, violenza e genio. Lo straordinario mondo di Ava Lavender fa venire in mente Penelope – ricordate la carinissima commedia romantica con Christina Ricci e il suo nasino da maiale, no? ma è una fiaba spiritata, cruda ed elegante al tempo stesso che, in realtà, somiglia più a quella di Malzieu. I personaggi sono tanti e, a volte, hanno poco spazio. Non posso promettere a me stesso che li terrò a mente a lungo. Mi domando quanto rimarranno; cosa lasceranno. Non mi ha assicurato un coinvolgimento costante, ma non posso sconsigliarlo. Proprio no. In un mondo di libri tutti uguali, Ava ci racconta il suo, di mondo, e l'audacia dello sforzo va premiata, anche se, presentato come romanzo per adolescenti, avrebbe trovato giovamento in una leggerezza più grande. Comunque, non per chi è in cerca di un dolce Natale.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Take That – Rule the world 

giovedì 18 dicembre 2014

Recensione: Noi, di David Nicholls

Mi piace la tua voce. 
E' come ascoltare gli avvisi per i naviganti.

Titolo: Noi – Us
Autore: David Nicholls
Editore: Neri Pozza
Numero di pagine:
Prezzo: € 18,00
Sinossi: Douglas e Connie si conoscono alla fine degli anni Ottanta, quando il muro di Berlino era ancora in piedi. Trent'anni e dottore in biochimica, Douglas trascorreva allora i giorni feriali e gran parte del weekend in laboratorio a studiare il moscerino della frutta. Connie, invece, divideva il suo tempo con una "combriccola di artistoidi", come li chiamavano i genitori di Douglas: aspiranti attori, commediografi e poeti, musicisti e giovani brillanti che rincorrevano carriere improbabili, facevano tardi la sera e si radunavano a volte a casa di Karen, la sorella di Douglas piuttosto promiscua in fatto di amicizie, a bere e discutere animatamente. Ed è durante una festa nell'appartamento di Karen, che Douglas si imbatte per la prima volta in Connie: capelli ben tagliati e lucenti, un viso stupendo, una voce sensuale, distinta ed elegante con i suoi vestiti vintage cuciti su misura, attillati e perfetti. Sono trascorsi più di vent'anni da allora e Douglas e Connie sono sposati da decenni e hanno un figlio, Albie. Douglas ha cinquantaquattro anni e la sensazione di scivolare verso la vecchiaia come la neve che cade dal tetto. Connie è sempre attraente e Douglas la ama cosi tanto che non sa nemmeno come dirglielo, e dà per scontato che concluderanno le loro vite insieme. Una sera, però, a letto, Connie proferisce le parole che Douglas non avrebbe mai voluto sentire: "Il nostro matrimonio è arrivato al capolinea, Douglas. Penso che ti lascerò".
                                   La recensione
Quando penso alla mia famiglia, ci vedo tutti e quattro in macchina. In viaggio. Un viaggio breve – parlo di andare a far visita ai miei nonni, che vivono in un paesino a due ore di distanza, o di arrivare a quel nuovo centro commerciale che hanno inaugurato, ma che già sappiamo durerà poco – perché noi non siamo i tipi da vacanza ogni mese d'agosto. Ma abbiamo viaggiato un po' e a me piace vederci così, coi vestiti che poi sanno di automobile – non so spiegarlo, ma ho sempre trovato che le auto, a lungo andare, lasciassero il loro odore sui nostri cappotti -, un paio di scatoloni che tremano nel bagagliao a ogni buca, le risate per il navigatore satellitare farlocco che non azzecca mai una strada e tutti quegli abbassa la radio, che non sento! pronunciati da me e mio fratello, sui sedili posteriori, che vorremmo starcene con i nostri mp3 quando invece papà vuole ascoltare ad alto volume i notiziari, le telecronache o qualche successo degli anni ottanta, mentre mamma, accanto a lui, si toglie le scarpe e si infila un paio di pantofole, sgranchiendosi i piedi: così, dice, viaggia più comoda. Cambiano gli sfondi, cambiano gli interni: come nei film. A volte fuori nevica, altre volte c'è il sole. A volte saliamo sul cucuzzolo di una montagna, altre volte è una strada tutta in discesa. Una volta avevamo un'utilitaria più piccola e viaggiavamo stretti come sardine, con buste e scatoloni sulle ginocchia; mia mamma, sul tappettino, trovava sempre spazio per qualche pianta della nonna e c'era mio padre, al suo fianco, che borbottava come una pentola di fagioli. Tornavamo a casa con gerani dai boccioli pesanti, che in duecento chilometri non ci avrebbero di certo tolto l'ossigeno, o con l'odore di basilico sotto il naso: piante di basilico con foglie grosse così, verdissime, che da noi non prendono. Si seccano in un attimo. Ora, però, stiamo più larghi in quell'auto che abbiamo acquistato già vecchia ma che, nei primi tempi, ci sembrava un'astronave aliena coi sedili imbottiti e con il cambio in finto legno che, guido io, guidi tu, alla fine si è rovinato. Non andiamo in giro spesso e le foto delle vacanze in cui siamo tutti insieme risalgono a una decina d'anni addietro. Ripensandoci, c'è anche una foto fatta al ristorante, quattro anni e mezzo fa, ai loro vent'anni di matrimonio. I vestiti leggeri, ma i corpi più pesanti di quanto non siano adesso. Mamma, papà e mio fratello, che in quel periodo aveva il ciuffo biondo che gli compriva completamente gli occhi. Una roba atroce, glielo rinfaccio ancora. Io ero dall'altra parte della macchina fotografica e scattavo: allora non mi piacevano le foto. Nell'immagine più recente che credo abbiamo di noi io non c'ero. E' perciò che ci vedo in una macchina; i posti fissi come a tavola. Io siedo sempre dietro papà e Diego dietro mamma. Mamma tirava indietro il seggiolino, per stendersi un po' quando i chilometri erano tanti, e io strillavo, come sparato a bruciapelo da un proiettile, che mi schiacciava le gambe. Diè, le tue sono più corte, cavolo! Mettiti tu qui! Anche adesso, che le sue gambe si sono allungate a dismisura, mentre io sono rimasto piccolo, non mi chiede di fare a cambio posto. Tutti hanno ricordi perfetti della loro infanzia, ma io sono un pessimista per natura e perfetta non me la ricordo. Neanche traumatica, tranquilli; nella media. Normale; niente di che. Per sicurezza, anzi, mi piace ricordarla più veloce, solitaria e scombussolata di quanto non sia realmente stata, così nei momenti di nostalgia come questo, quando mi vengono in mente all'improvviso giornate senza nuvole e scene allegrissime, mi sorprendo nello scoprirmi più felice. La famiglia è una cosa che devi tenerti per forza, che ti piaccia o meno. A me la mia piace: spesso, almeno. 
Quasi sempre. Comunque non completamente, perché quando capisci che è fatta di esseri umani come te e non di divinità olimpiche, ti senti in grado di evidenziarne i difetti, di sottolineare le cose che non vanno, di criticare quello che non ti piace, ma così – difettosa, sbagliata e tutto – ti senti di amarla forse di più. Nell'età in cui puoi scegliere di tagliare i ponti con il passato, anche con il te del passato, perdoni, chiudi un occhio e a casa ci torni. Hai visto i difetti – non so: i cancelli che cigolano e le mamme che piangono, il parquet da smantellare e i papà che lavorano fino a tardi, il bagno che perde e i fratelli o le sorelle che ti rubano i jeans dall'armadio a soqquadro – e li hai accettati lo stesso, anche se c'era scelta, no? Quando ho iniziato Noi avevo avuto una discussione con i miei. La chiamata era durata due minuti ed era stata troncata bruscatamente. Si discute e poi ci si dimentica il motivo. Benedivo, in quel giorno, quell'oretta e mezza che mi rendeva lontano da loro. La mia piccola indipendenza la devo al mensile che versano ai padroni di casa ogni primo del mese e sono loro grato. Per i sacrifici che fanno per mantenermi e per la stanza, a settecento metri dall'università, in cui decido di rimanere in quei weekend di studio in cui, in realtà, non faccio altro che scappare da vent'anni di solite discussioni. Io ho sempre pensato troppo. Io mi sono sempre fatto troppi problemi. Sempre, mi sono sentito dire tu sei il figlio, non il genitore. Dal mio primo giorno da matricola ho imparato che l'egoismo mi donava. 
Noi è il mio quasi in “la mia famiglia mi piace quasi sempre”, ed è anche il romanzo che più ho aspettato quest'anno. L'ultima fatica di quel David Nicholls che, da Un giorno in poi, se potessi lo odierei con tutto me stesso. Ma se proprio potessi: non posso, invece. Fa ridere di gusto e ti strozza, ogni tanto, il cuore. Diverte e commuove, come la veritiera quarta di copertina assicura, con una storia che – sarà una frase fatta, ma non se si parla di quest'autore – vorresti fosse interminabile e, giunti a malincuore a pagina quattrocentoventi, spereresti continuasse e sciversi da sé. Come grazie a quella magia invisibile che aveva permesso a Douglas, un timidissimo chimico, di averla vinta su ex dai nomi italiani e villosi trapezisti e di conquistare, ai margini di un tavolo che era in verità un asse da stiro, la capricciosa e appassionata Connie. Una ragazza al di fuori dalla sua portata che diventa una moglie al di fuori dalla sua portata, quando gli annuncia che vuole la separazione: pensavate anche voi che la fede nuziale fosse per sempre? Douglas, in realtà, non si era mai cullato sugli allori. Si racconta e, adorabile illimitatamente, ma pragmatico al limite massimo del fastidio, emoziona per il suo sentirsi un miracolato. Come me quando faccio a gara di grazie. Vuole ripagare Connie per il suo amore, vuole ripagare Albie per averlo reso papà. Insicuro, troppo, ma gli si vuole bene per quello. Veniva spontaneo fare un biglietto, prendere un treno e andargli incontro nella sua ricerca di sé. Non è coraggioso, ma invece sbaglia. Lui è coraggiosissimo. 
Quando vuole rompere un silenzio che non si può rompere, con battute che non fanno ridere. Quando ci confessa che vorrebbe essere un eroe. Quando ci confida una cosa brutta, indicibile, ma di un'onestà micidiale: il desiderio di vedere suo figlio in difficoltà, in pericolo, solo per poterlo salvare e sentirsi dire, quella volta lì, grazie. Dopo averci incantati e spezzati in due con la storia di Emma e Dexter, e loro chi se li scorda più?, Nicholls torna con una prova del nove che è anche un'agognata conferma. Non delude, con i suoi dialoghi deliziosi alla Richard Curtis e il suo modo semplice di parlare dell'arte e dell'arte segreta dei battiti del cuore. Mi piacerebbe vedere il mondo con i suoi occhi, anche se a volte il brutale realismo può prendere il sopravvento e gettare cupe ombre su tutto, ma ci si accontenta di vedere stupendi scorci di Europa mentre lui e il suo Douglas, con osservazioni ora brillanti ora elementari, ti fanno da Cicerone. Un romanzo di formazione scritto dal padre di un figlio confuso e ribelle. La dura consapevolezza che quella sia sola una parentesi nella vita di un altro che fa tanto, tanto male. Noi è un po' come un trasloco. Tutto un prendere o lasciare, un rimanere o abbandonare. Un bellissimo pronome personale che, lungo andare, si fa aggettivo possessivo. Noi è tutto ciò che è nostro. La nostra vita, le nostre cose, le nostre strane famiglie da cui poi, telefoni sbattuti in faccia e ti odio sputati in cielo che però ci cascano in testa, alla fine torniamo. Sarà che il Natale dà libero sfogo alle ipocrisie; sarà che la nostra cameretta ci mancava davvero, insieme a quelle fredde attese in stazione e agli abbracci paterni che odorano di macchina.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: One Republic – Come Home

mercoledì 17 dicembre 2014

Giftaway di Natale #2: Shotgun Lovesongs, di Nickolas Butler

Quando non ho nessun posto dove andare, torno qui. Torno qui e ritrovo la mia voce come qualcosa che mi è scivolato dalle tasche. Qui riesco asentire le cose, il mondo pulsa in maniera diversa, il silenzio vibra come unacorda pizzicata milioni di anni fa. Come fai a spiegarlo a qualcuno che ami? Cosa succede, se poi non capisce?


Babbo Natale ritorna. E questa volta voglio che un fortunato riceva proprio Shotgun Lovesongs. Uno dei libri più belli letti quest'anno. Precisamente: occupa uno dei primi posti del listone che pubblicherò gli ultimi giorni di dicembre, preceduto però da due libri pubblicati più di qualche annetto fa. L'esordio di Nickolas Butler è la novità, insomma. L'ho amato così tanto, ma così tanto, che avrei comprato una copia in più a spese mie, se non fosse intervenuta la gentilissima Valentina dell'ufficio stampa, che ringrazio di cuore: mi ha capito al volo. Condividiamo lo stesso appassionato parere sul titolo in questione e sarebbe stato sbagliato tenerlo tutto per noi, come fosse un segreto. No? La Marsilio mi ha dato l'okay ed eccoci. Ne ho parlato abbondantemente qui, e con toni incantati, quindi non dico altro. Il libro perfetto per questa stagione; il regalo che avrei voluto trovare sotto l'albero, se non lo avessi già tutto per me. Vi lascio le semplici regole da seguire e vi invito a partecipare fino al 24 Dicembre. Nei giorni successivi contatterò il vincitore e provvederò di persona all'invio. 
  • Essere lettori fissi del blog e unirvi alla pagina Facebook.
  • Lasciare un commento in cui mi dite qual è il vostro libro dell'anno.
  • Non dimenticare di lasciarmi l'indirizzo email.
  • Condividere a piacere l'iniziativa.

lunedì 15 dicembre 2014

Recensione [libro e film]: I ponti di Madison County, di Robert James Waller

Non sono sicuro di averti dentro di me, né di essere dentro di te, e neppure di possederti. E in ogni caso, non è al possesso che aspiro. Credo invece che siamo entrambi dentro un altro essere che abbiamo creato, e che si chiama 'noi'.

Titolo: I ponti di Madison County
Autore: Robert James Waller
Editore: Frassinelli
Numero di pagine: 173
Prezzo: € 9,90
Sinossi: "I ponti di Madison County" è la storia di Robert Kincaid, fotografo di fama, e Francesca Johnson, moglie di un agricoltore. Kincaid, singolare, quasi mistico viaggiatore dei deserti asiatici, di fiumi lontani, di antiche città, è un uomo che quasi non appartiene al suo tempo. Francesca Johnson, un'italiana giunta in America come sposa di guerra, vive tra le colline dello Iowa meridionale e, di tanto in tanto, torna col pensiero ai suoi sogni di ragazza. Nessuno dei due ha mai cercato qualcosa di diverso da ciò che ha, ma quando Robert, in viaggio per un servizio, entra nel cortile di lei per chiedere un'informazione, il ritmo delle loro esistenze si spezza sotto la forza di un'emozione inesprimibile. L'incontro tra Robert e Francesca diventa rapidamente un legame profondo e ciò che accade durante pochi giorni di una torrida estate, presso i vecchi ponti coperti di Madison County, è per entrambi un'esperienza così intensa da trasfigurare i luoghi consueti e i gesti quotidiani. I momenti trascorsi insieme diventano un patrimonio raro e prezioso di sentimenti a cui attingere per il resto della vita e che sopravviverà a loro stessi.
                                   La recensione
Ho comprato questo libro su una bancarella. Una vecchia edizione tascabile, con le pagine un po' ingallite e la copertina ancora solida. Stava per piovere: dovevo affrettarmi. Perciò l'ho portato alla cassa – insieme ad altri due romanzi - e ho pagato. Cinque euro in tutto. Alla fiera che danno nella mia città, ogni primo sabato del mese, tre libri usati li paghi tanto. Ero indeciso sul terzo, su come spendere quell'euro rimanente, e con gli occhi ho trovato, in quella disordinatissima pila, un titolo che mi perseguitava da qualche tempo. Io e I ponti di Madison County già ci conoscevamo. In Io che amo solo te, uno dei protagonisti si concedeva un sanissimo pianto solo una volta all'anno. Quando qualche emittente televisiva passava I ponti di Madison County. La scena di loro due che ballavano in cucina, a lume di candela, rendeva una fontana singhiozzante quell'omone pugliese pieno di risentimento, che aveva amato la sua lei – da giovani – come Eastwood amò la Streep. Ma puoi adorare una storia e odiare, allo stesso tempo, il modo in cui ti viene raccontata? Sembra un controsenso, ma è così. Robert James Waller scrive alquanto male una storia che fa proprio bene. Il suo libro più famoso ha la dimensione del racconto, più che del romanzo. Eppure le pagine sono abbastanza. Il problema è che l'autore si concentra, soprattutto in principio, sui dettagli sbagliati, dilungandosi sugli aspetti tecnici del lavoro di Robert Kincaid e sulla descrizione della vita dimessa di Francesca Johnson. Lo stile è duro, tutto d'un pezzo. Mi piacevano, leggendo, i dialoghi appassionati; mi piacevano ancora di più le lunghissime lettere che i personaggi scrivevano e si scrivevano. Semplicemente, non mi piaceva quello che c'era in mezzo. La prosa spigolosa che univa quei due amanti malinconici. Ho pensato, per tutta la prima parte, che il romanzo mostrasse più degli anni che effettivamente aveva. Ho pensato che fosse invecchiato in fretta. Se la prosa sa di vecchio, però, la storia al contrario è una di quelle piante sempre verdi. Splendida, anche se nessuno – come in questo caso – se ne cura a dovere. L'autore non ha una voce riconoscibile, perciò si attacca a quelle degli altri. 
E' allora che il romanzo è bello, con il suo romanticismo senza fronzoli; con quell'originale ruvidezza al tatto. Non puoi e non vuoi parlarne comunque male: ha il sapore di un amore di quelli veri, e chi sei tu per mettere bocca nel vissuto di due che si sono amati, anche se non potevano? Non ci sono scusanti, il tradimento non si perdona: l'amore tra questo fotografo giramondo e questa casalinga italiana che un tempo ballava ma adesso non più, però, è difficile bollarlo così, come amore adulterino. Suonerebbe sporco. Nell'adulterio c'è il sesso, qui di più. C'è l'anima gemella che è arrivata in ritardo. Ha perso la strada, con il suo furgone sgangherato che ha un nome proprio, ma ha imboccato inconsapevolmente quella giusta. E' una storia di cenere. Guardarsi alle spalle, mentre la polvere si solleva. Salutarsi con gli occhi. Cercarsi nel traffico. Robert James Waller, a modo suo, con difetti compresi, coglie l'essenza di una cosa bruttissima: il rimpianto, che qui – insieme a qualcosa di indicibilmente felice – è rievocato dai figli di lei, sospesi tra il dolore e la sorpresa per la carnalità magica di una passata generazione. 
Robert e Francesca sono una coppia matura, strana. Hanno quasi cinquant'anni, lui anche qualcosa di più. I capelli grigi o i primi fili bianchi sulle tempie; il corpo che comincia a tradirti; la sensazione di essere stupidissimi con un sentimento che spetta più ai giovani che ai vecchi. Lui si definisce l'ultimo cowboy. Ha fatto la guerra. Lei non conosce il femminismo, non ancora, ma sente che in quell'ultimo lustro degli anni sessanta c'è qualcosa nell'aria. A modo suo, Francesca lo anticipa. Comprandosi un vestito scollato, un profumo costoso; bevendo vino rosso e danzando nel buio di lucciole e falene. Osando amare chi voleva amare; fingendosi qualcun'altro – una donna migliore – mentre il marito e i figli erano via. La storia è rievocata in flashback, e sono i ricordi che parlano. Mi ha emozionato un mondo la parte di Robert e Francesca anziani. Più anziani di quanto fossero all'inizio. Perché... perché a una certa età si è troppo stanchi per soffrire, no? Per arrivare lì, ai settant'anni, soli in una casa vuota, vuol dire che già si è sofferto abbastanza. 
I ponti di Madison County è una storia sulle seconde possibilità davanti a cui, per senso del dovere o paura, scappiamo; un romanticismo con le rughe, che non rinuncia alle Camel e ai bicchierini di Brandy, ma all'egoismo sì. Anche se a volte essere egoisti è sano. Se qualcuno infatti potesse visitare la tomba immaginaria di Francesca Johnson, un giorno, sulla lapide leggerebbe qualcosa madre amorevole e moglie fedele. E che altro resta di una donna come lei? A Waller riconosco il pregio di avercelo custodito e mostrato, ma soprattutto di aver ispirato un film che non so dirvi quant'è intenso. I ponti di Madison County che si ricorda non è quello di carta. Diciannove anni fa diventava un film destinato ad entrare nella storia del cinema, e a rimanerci. Quello che nel romanzo è represso, taciuto, qui esplode e fa un male che è anche bene. C'era un pregiudizio diffuso verso i film sentimentali: c'è. Ma I ponti di Madison County piace indistinamente, per una regia di classe e due protagonisti che sono mostri sacri. Alcuni tra i più grandi attori viventi, Meryl Streep e Clint Eastwood, danno corpo alla passione contagiosa di Francesca e Robert: lui, ultimo cowboy proprio come il suo personaggio, sta davanti e dietro la macchina da presa, con i suoi occhi di ghiaccio, una mano ferma e un sorriso che raramente, tra sparatorie e saloon, si è illuminato così. Vederli recitare è come sedersi sulla riva di un fiume e guardarlo che scorre lento. Non c'è niente di più naturale. La loro credibilità fa sembrare elementare quello che è arduo. Lei, soprattutto, qui candidata ancora una volta all'Oscar, emoziona fino al pianto. In versione originale recita con un marcato accento italiano e, anche se nemmeno vent'anni fa era la donna più affascinante del mondo, con il suo naso aquilino e quel corpo troppo generoso, quando lui le dice “Sei così bella che avrei voglia di urlare” senti dentro di te che non è un'esagerazione: ricorda le grandi attrici italiane, somiglia ad Anna Magnani. I due amanti si corteggiano e si conoscono. In un passo a due, si amano e arrivano, piano, a quell'epilogo che fa male al cuore in petto. In sottofondo, il suono di un sax che piange, mentre canta i loro nomi. Un blues che sa di malinconia.
Il libro: ★★★ Il film: 7,5
Il mio consiglio musicale: Sinéad O'Connor - Nothing Compares 2U

venerdì 12 dicembre 2014

Mr Ciak #50: Gone Girl, Lo sciacallo, Magic in the moonlight, St. Vincent, The Babadook

Vi avevo detto che stavo lavorando a una serie di post, e questo è il primo. Un nuovo, ricchissimo appuntamento con Mr. Ciak. Ci sono film imperdibili, vi avverto. Tre di questi, Gone GirlLo sciacallo e St. Vincent, sono tra le pellicole in lizza per i Golden Globe: i titoli sono stati annunciati proprio l'altro ieri, e la curiosità è alle stelle. Qui si parla della straordinaria prova di un Jake Gyllenhall che risulta più brutto e più bravo; dell'attessima trasposizione di L'amore bugiardo e di una Rosamund Pike da paura; dell'ultimo lavoro di un Woody Allen in ottima forma; di una commedia più o meno indipendente; di un horror a cui però quest'etichetta, per una serie di ragionevoli motivi, sta strettina. Leggete. Fatemi sapere la vostra. A presto e buona visione, M.

Amo pianificare, ma l'amore fa male. Pianifico dall'estate scorsa di vedere Gone Girl. Il conto alla rovescia era partito da quando avevo letto l'ultima riga del romanzo e mormorato un semplice wow che diceva tutto. L'amore bugiardo era uno di quei libri che ispirano e, prestato al grande schermo, diventa uno di quei thriller puri, onesti, di parola, che vanno alla radice stessa del termine thrill: “fremere”, “appassionare”. Stai seduto e ti agiti nella tua poltrona. In sala potrebbe partire una tifoseria da stadio. Quando scoppia la guerra, meglio sapere da che parte schierarsi. E Gone Girl è guerra fredda. Un piano criminale a prova di sentimento. Al contrario, i miei piani erano destinati a essere stravolti, quella volta, senza troppa premura. Posticipato, il film meno per famiglie dell'universo conosciuto è slittato da ottobre a dicembre: la ragazza scomparsa, col suo volto di porcellana, che fa capolino dai poster delle commedie di Natale. Qualcuno lassù ha uno strano senso dell'umorismo. Per festeggiare il mio trenta all'esame di Inglese, quel giorno avevo sopperito alla mancanza dell'ultimo Fincher al multisala di fiducia con Skype e gelato. Vedete, pensavo a Gone Girl come un matto: una volta che incontri Amy Dunne è così. L'ho trovata bellissima, algida e fastidiosamente perfetta nei tratti leziosi dell'inglese Rosamund Pike. Finalmente. C'è mistero in lei, ha segreti che solo il suo caro diario sa. Il regista sceglie inaspettatamente questa bionda che viene da lontano. E le affida un film. Gone Girl è essenzialmente cosa di donna, e lei – scrollandosi di dosso tutta una serie di calibrati ruoli da comprimaria – si mette al centro della scena, le spalle dritte, il mento in su, il collo da cigno teso, e sembra dire: questo è tutto mio. Spavalda e egocentrica, insospettabile e forte, la Pike è una sorpresa che spiccherà nella stagione dei premi. Diverte, terrorizza, seduce come la Stone dei tempi d'oro; se non fosse per un dettaglio: il lontano da cui viene non è solo Londra. Lei è una delle bionde di vetro di Hitchcock, ghiaccio che va a fuoco. Chi le avrà fatto del male? Per Barbare D'Urso impenitenti e Salvi Sottile d'America, è opera di un mostro. Quel marito aitante e sospetto. Ben Affleck è Nick Dunne. Un ragazzone buono, con i modi bonari e il sorriso un po' beota di cui tutti si fidano, e che merita tutto il bene e tutto il male del mondo: un ruolo intenso come questo, ad esempio, e le accuse di un'agguerrita ex come Jennifer Lopez. Tra moglie e marito non mettere il dito, si dice, ma a loro rischio e pericolo nel film si intromettono il significativo personaggio della sorella di lui, due poliziotti, un improbabile salvatore di donzelle che ha il volto familiare di Neil Patrick Harris: moncherini tranciati restano di loro. Personaggi scaltri, simpatici, che fanno da giuria a un processo in un salotto borghese. L'istituzione del matrimonio chiamata in giudizio. Ci si toglie le maschere, la farsa è svelata, ma a questa cinica fiera dei sentimenti umani non puoi che occupare un posto in primissima fila per non perderti un attimo. Un coccio di cuore lanciato in aria, uno sparuto rimasuglio di fiducia, un lapillo fumante di romanticismo. Gone Girl è un teatro dei burattini che smantella tutto ciò che è perfezione apparente, anche se alla perfezione penso sia vicino. E da una leggenda come David Fincher chi osava aspettarsi qualcosa di meno? La cattiveria e la potenza della storia non avrebbe lasciato indifferenti neanche nella più misera delle trasposizioni, invece il regista di Fight Club e Seven mette al servizio del genio creativo della Flynn le certezze di una carriera infinita. Si parlava di cambiamenti e nuovi colpi di scena, ma chi ha letto il romanzo non troverà nulla per cui stupirsi ulteriormente. Per chi non l'ha letto, invece, invidia: è un campo minato, un'autopsia a cuore aperto della convivenza, e sperimenterete quell'assurdo miscuglio di brividi e risate che vorrei provare ancora. Gone Girl è una tragicommedia dal gusto vagamente teatrale, in cui una principessa delle nevi che si scopre irresistibilmente sboccata e un amplesso che si conclude in un gustoso bagno di sangue arterioso non tolgono grazia al resto. A metà tra un raffinato La guerra dei Roses e un orrorifico Revolutionary Road, è come una prima notte di nozze in cui il tuo amico, lì sotto, fa cilecca. Un incubo all'ombra dei fiori d'arancio. Cos'altro è una storia d'amore se non lo spunto perfetto per un thriller, chiedeva Donato Carrisi al suo pubblico? In entrambi i casi si fanno vittime. Nell'amore come nella morte – da notare le due sole lettere di differenza – ci sono carnefici e martiri. Attenti a non incollare l'etichetta sbagliata sulla persona sbagliata. Attenti a come dite basta così, lasciamoci. Ma anche, o soprattutto, sposiamoci. (9)

Ha un nome comune, un'età indefinita, un passato sconosciuto. Non sai chi fosse quel Lou, prima che l'arte di arrangiarsi facesse di lui un uomo senza scrupoli. Ha rubato, ha truffato, ci ha provato a cercarsi una professione onesta. Ma l'onestà non ti dà un tetto sopra la testa, le strade della violenza sì. In una metropoli mai così inospitale e aggressiva, lui va in cerca di morti e crimini e vende al miglior offerente le immagini che la sua fidata telecamera immortala. Il titolo del film, perfetto, lo chiama Lo sciacallo. Lui è un animale a sangue freddo che gira intorno alle nostre carcasse, in cerca di cibo, quando è notte e i telegiornali acquistano e rivendono il dolore degli uomini. Un personaggio sgradevole, ma che ti suscita odio e simpatia insieme. Per la tenacia, la volontà inossidabile, i modi gentili da venditore porta a porta. Parla per frasi fatte, ha un sorriso sghembo sul viso magrissimo che vorrebbe mettere a proprio agio e invece no, vive di brutte notizie e brutta televisione. Nella sua casa spartana, giusto uno schermo piatto e un portatile. I portali per una conoscenza assoluta e il nutrimento per un sogno di gloria: il suo nome nei notiziari. Jake Gyllenhall, ineditamente brutto e in preda a un'inquietante delirio di onnipotenza, è un ottimo attore che qui si rivela eccelso. Naturale come nessuno, non ti fa pensare alla sua trasformazione fisica, che eppure all'Academy non passerà certamente inosservata: lui ipnotizza per le movente e la gentilezza studiata, per il continuo specchiarsi nella telecamera e la camminata unica, per il fatto che il suo squallido protagonista flirta continuamente, come chi vende a caro prezzo un prodotto e sa farlo. Gli occhi all'infuori, i battiti di ciglia mancati, il corpo spigoloso di un individuo che è brutto dentro e fuori. Usa il plurale maiestatis, fonda un'azienda di cui è capo e unico impiegato, è l'incarnazione dell'aggettivo intermedio – mi aiutate a cercarlo? - tra “matto” e “genio”. Il The Wolf of Wall Street dei disperati. Passato da noi quasi inosservato, Lo sciacallo era un film da me attesissimo, e non ha deluso le aspettative. Anzi, si è superato. Efferato e beffardo, macabro e divertente, oscilla tra la commedia nera e il thriller, grazie a una regia impeccabile e adrenalinica e alla costruzione di un protagonista da brividi. Non fa sconti. Immorale e tagliente, ha l'anima di una satira spietata sullo spietato mondo del giornalismo e il look, nelle sequenze finali, di un GTA al cinema. Un esordio alla regia che ha del miracoloso, un Jake Gyllenhall da manuale. Beccare un altro gran film, con l'anno che ormai ha i giorni contati. Qualche fortuna anche per me, ogni tanto. (8)

A Natale, in sala, c'è il cinema d'autore che piace un po' a tutti. Dopo Blue Jasmine, una tragicommedia sul declino di una quarantenne in banca rotta e sull'ascesa di una Cate Blanchett folgorante, l'occhialuto regista americano torna con qualcosa di più lieve. Salta indietro nel tempo, si sposta nel magnifico sud della Francia. Fa suo il fascino sfavillante degli anni trenta e, tra mistero e amore, mette così in scena una deliziosa commedia romantica vecchio stile, con colori vivissimi e due attori particolarmente divertenti e divertiti. Magic in the moonlight ha spiccato senso del gusto, toni che vanno dal cinico al tenero, tonalità di verde e giallo che i padri fondatori della commedia non hanno, purtroppo, mai potuto contemplare. Una fotografia bellissima che, tra rampicanti rigogliosi e onde azzurre, incornicia una Emma Stone più incantevole del solito. Risplende di luce propria, con i suoi occhi da cerbiatto, e non è difficile capire cosa abbia fatto innamorare a prima vista il lucido personaggio di Colin Firth: lei è un adorabile peperino in abiti trasparenti, lui è il perfetto incrocio tra il principe azzurro e il bastardo incorreggibile. Una presunta medium e colui che ha il compito di smascherarla, la magia contro la scienza: e se l'amore sovvertisse ogni convinzione? Magic in the moonlight è un piacevole omaggio a un filone cinematrografico che ha fatto la storia del cinema. Pianificato con cura e nascosto dietro un velo trapunto di semplicità. Quello è il trucco da maestro di questo grazioso spettacolo di luci e battibecchi. Allen, lontano dai suoi classici drammi umani, ma non per questo privo della sua originale poesia, ci riporta all'epoca in cui le commedie erano in bianco e nero e avevano donne fatali, lunghi corteggiamenti e rari atti d'amore, scenari esotici e dialoghi instancabili, piccoli colpi di scena e ispirate strizzate d'occhio ai gialli britannici. Ritorna al brio di Scoop e accontenta chi, dopo l'indimenticabile Midnight in Paris, sognava che ritornasse nella più suggestiva delle cornici. Il risultato: un nostalgico, gradevole Lubitsch a colori. (6,5)

Io amo molto due cose ancora. I film con i vecchietti e quelli, come li chiamo io, ad altezza bambino. St. Vincent è una commedia indipendente che ha entrambe le cose. Un adorabile brontolone come protagonista e un bimbo che gli fa da spalla e da apprendista. La trama è la solita. Potremmo definirlo un About a Boy della terza età. Ma c'è qualcosa nel film scritto e diretto da Theodore Melfi che, boh, ti fa scendere la pace nel cuore. Il personaggio principale si chiama Vince e di professione non fa il santo, ma il baby sitter a scrocco. Fuma, beve, bestemmia, frequenta “le signore della notte” e, in tutto ciò, dà un'occhiata al figlio della sua nuova vicina. Un tipetto solitario e preso di mira dai bulli, che ha disperatamente bisogno di un amico e di un papà. Nasce un'amicizia. In cambio di dodici dollari all'ora, è vero, ma nasce un'amicizia. Quel misantropo che ha una moglie che lo guarda negli occhi e non lo riconosce più, lo stesso uomo che vuole più bene al suo gatto che al prossimo, sarà la guida spirituale dell'indifeso Oliver, in una delicata fase di passaggio che nessuno dimenticherà. St. Vincent: quando i santi sono i tuoi vicini di casa; quando il film è uguale a mille altri eppure ti conquista ugualmente. Non ci sono grossi misteri. Quel che St. Vincent ha rispetto ai suoi simili sono l'amore per il politicamente scorretto, personaggi dolcissimi, la naturale grazia di far scivolare la commedia nel dramma e il dramma nella commedia. Retorico poco, emozionante sempre, brilla grazie a protagonisti perfetti. La materna Melissa McCarthy, lo sfacciato e tenero Jaeden Lieberher, un'inedita e spassosa Naomi Watts, che recita per tutto il tempo con il pancione e con un marcatissimo accento russo. Lei è la Maddalena, per chi se lo stesse chiedendo, di quel Gesù in pensione. Re assoluto, con le corone di spine della vecchiaia e il calvario di un matrimonio cancellato dall'alzheimer, un Bill Murray magnifico che porta la pellicola ai Golden Globe. E questo Up in carne ed ossa non vincerà, ma qualcosa di miracoloso c'è. Un po' piangi e un po' ridi e, con gli occhi luccicanti e il sorriso a trentadue denti, a fine visione, potresti vederti tra le ciglia una specie di arcobaleno. (7)

La maternità è la croce di Amelia. Quando le ore di lavoro passano, bisogna prendersi cura di Robbie. Sette anni, e le marachelle, e gli incubi, e i guai con le maestre, e l'energia che non si esaurisce. Amelia cerca di essere una buona madre per quel bambino che gli altri reputano cattivo. Finchè un libro misterioso non spunta alla loro porta e le favole della buona notte non saranno più le stesse. Il terrore sta arrivando e Babadook non è il solito mostro. Come The Babadook non è il solito film dell'orrore. Dopo Wolf Creek II, torno ad inchinarmi ai registi australiani. Perché siamo al cospetto di qualcosa di sorprendente, pur nella sua grande semplicità. Diretto dall'esordiente Jennifer Kent, tra il dramma e il gotico, questo film è un gioiellino. Lo guardi e ti vengono in mente grandi titoli e, immerso nella mente della protagonista, una donna dalla sessualità repressa e dai problemi rrisolti, pensi che non sono paragoni esagerati. Ha il ritmo forsennato dell'ossessione. Lo stordimento dell'emicrania. Gli occhi rossi di un'insonnia infinita. Tu, spettatore, cammini tra i pensieri della protagonista e ti fa paura. Capire quello che potrebbe fare lei. Capire quello che potresti fare tu al suo posto, intrappolato in quel legame di sangue che ti suggerisce drastiche risoluzioni. Il suo bambino irrequieto fa tenerezza e orrore, mentre lei – bestia in trappola – prega. Per scacciare il mostro o per chiamarlo in suo soccorso? La regia sfavilla; il tema, cattivissimo, strizza l'occhio al bellissimo The Others; la pellicola, in tutta la sua interezza, è retta da un'attrice mostruosamente brava. Non ho aggettivi per questa sconosciuta Essie Davis, che assilla e preoccupa. Fa tremare la cura con cui il suo personaggio è pensato e l'impegno che lei ci mette: ad urlare, a piangere, a trasmettere prima dolcezza, poi squilibrio. Lei, ancora più di un mostro originalissimo, che fortunatamente evita di crearsi un “franchising” tutto per sé. The Babadook è un film fragile e simbolico, fatto della stessa sostanza di cui è fatta l'ansia. L'ho apprezzato, per il lato tecnico all'avanguardia e per il lato umano profondo come un pozzo. Un dramma di fantasmi di padri e involucri di madri, che parla del modo in cui devi nutrire i tuoi demoni. Altrimenti poi mangiano te. Il tuo cuore, quello che ti rende buono e giusto. The Babadook dà istruzioni su come aprire le porte del passato, per farci la guerra e la pace. Le sorprese sbucano dagli armadi, da sotto i letti, dal nulla. Questo film è una delle più curiose acquattate nell'oscurità. (7,5)

giovedì 11 dicembre 2014

Giftaway di Natale #1: Ladri di sogni (Stiefvater), L'altra parte di me (Obber)


Cari lettori, Natale è arrivato anche quest'anno. Lo vedo, intorno a me, dalle luminarie e dai centri commerciali pieni di luci, ma, non so perché, lo sento un po' poco. Passerà? Manca ancora una settimana al termine delle lezioni, quindi tutto può succedere. Ho dato una rispolverata all'header, ma Blogger non collabora e quindi spero di riuscire a caricarlo nei prossimi giorni. Niente di che, giusto un simbolo. Comunque sapete che mi piace indossare le vesti di Babbo Natale, ogni tanto, e in periodi come questo, poi, barba bianca e cappello rosso mi donano particolarmente: quando farvi qualche regalo, altrimenti? Questo è il primo post di quella che spero sarà una serie lunghetta. Ho disturbato le mie addette stampa preferite ed eccomi qui. Oggi i libri in palio sono due. Ladri di sogni, atteso seguito di Raven Boys, tradotto dal mio amico Marco Locatelli che saluto; l'italiano L'altra parte di me, uno young adult sulla disarmante universalità delle prime volte scritto con una delicatezza rarissima. Il romanzo di Cristina l'ho recensito qui, mentre della Stiefvater non posso ancora parlare. Vi anticipo che ci sarà una fighissima iniziativa legata ai “ragazzi corvo”, a gennaio, e solo allora vi farò sapere cosa ne penso. Bocca cucita... Potete partecipare fino al 17 Dicembre: non amo tirarla per le lunghe, e poi dobbiamo affrettarci. Piemme e Rizzoli devono pur andare in ferie. Seguite le regoline in basso e lasciatemi un commento con la vostra preferenza. Per me, potete anche non avere preferenze e tentare la sorte con entrambi, ma ci saranno due vincitori. A ognuno un libro. Scappo, perché ho qualche post arretrato da mostrarvi, prossimamente. Grazie a chi vorrà partecipare e buona giornata. :-)
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  • Condividere a piacere l'iniziativa.

martedì 9 dicembre 2014

Comunque sono andato alla presentazione di Donato Carrisi.

No, non ho un titolo più brillante. Mi dispiace.
Avevo messo, prima, data, due punti e “incontro con Donato Carrisi” tra virgolette, ma faceva troppo temino. Già così sembra il resoconto della gita al caseificio in quarta elementare, ma potevo forse non parlarvene? 
1. Da me non viene mai nessuno; 2. Sono passato da "da me non viene mai nessuno" a "mamma, da me è venuto un autore tradotto in non so quanti paesi"; 3. L'ho recensito qui, qui e qui e sapete che lo adoro. Da oggi di più.

Correva il mese di ottobre. Tempo di belle uscite e di belle notizie. Dopo la parentesi estiva, dopo le ferie e il mare, era tempo di tornare a lavoro. Io in realtà non avevo mai smesso di scrivere. Ma scrivere non è un lavoro e quando non scrivo aspetto. Impazientemente, aspetto. Posta, email, annunci importanti. Aspettavo l'ultimo libro di Donato Carrisi, e poi il momento era arrivato; poi l'avevo letto. In due giorni frenetici, in cui non c'ero stato per nessuno: neanche per il mondo. Lo avevo concluso in tarda serata e, in cucina, con la lavastoviglie che gorgliova, avevo iniziato a scrivere da zero una recensione che avesse un senso. Io ci tengo sempre – ai sensi, dico, a alle recensioni fatte col cuore e il cervello connessi – ma questa volta un po' di più. Donato Carrisi mi aveva scritto, l'anno precedente, e speravo lo facesse ancora. Così scrivevo che era quasi notte; così pensavo a un post che dicesse tutto, però senza svelare niente. 
Finisco, vado a dormire. Il mattino successivo rileggo, invio il pezzo alla Longanesi e il buon Tommaso, che quando escono Carrisi e la Gazzola tormento puntualmente, mi ringrazia (lui che è uno dei pochi addetti stampa a leggere sul serio ciò che i blogger scrivono) e mi anticipa una cosa bellissima. L'autore verrà dalle mie parti a presentare Il cacciatore del buio. Correva il mese di ottobre, allora, e all'incontro mancavano due mesi. Scrivevo la data e l'ora sui post it, tra le bozze del cellulare, sul calendario: aspettavo. Ma questa volta qualcosa di più grande. Quando per strada hanno iniziato a fare capolino le luci e i Babbi Natale armati di trombetta, mi sono accorto che c'eravamo quasi. Il sei dicembre era alle porte. Quel weekend non sarei tornato a casa. Ho passato la festa dell'Immacolata in solitario, ma con una pila di libri autografati sul comodino, ché sono meglio delle lasagne di mamma e del presepe coi parenti. Quelli ci sono ogni anno, e da vent'anni. Quando mi ricapitava Donato Carrisi? 


Salto indietro. Zoom su di me. 
Causa università, vivo a Chieti da un anno e mezzo – Chieti è provincia, anche se nessuno lo sa, quindi non vi posso dire in provincia di dov'è: Chieti Chieti, insomma – ma non la conosco. O meglio, non c'è niente da conoscere. C'è un paese da raggiungere sul cucuzzolo di una montagna con il filobus, l'università, quattro case tutt'intorno e il Megalò, l'unico pregio di una città in cui piove sempre e a dirotto. Una Londra sfigata. L'incontro non era al Megalò, ma al Centro Commerciale D'Abruzzo. Qui non ho una macchina, rubarne una per l'occasione mi sembrava troppo, quindi c'era una cosa sola da fare: studiarsi gli orari dei mezzi pubblici, anche se era sabato e nei giorni festivi è un macello più del solito. Il giorno prima, venerdì, il mio febbricitante fratello minore – che accusa per la febbre la circolare strapiena e la gente malata di ebola, dice, che tossiva; non le sigarette fumate in pigiama sul balcone, ad orari assurdi – decide di venire a trovarmi. Mi avventuro verso questa misteriosa meta con lui, dunque, anche se io non so bene dove andare e anche se lui non è troppo convinto. Non è un lettore: libri uguale noia. La circolare ci ferma nel bel mezzo della zona industriale. Dieci minuti a piedi, il rischio costante di essere stirati dalle macchine, il centro commerciale all'orizzonte come un miraggio. Fratello va in giro a fare compere, io aspetto in libreria. Sfoglio qualcosa nell'attesa, ma non compro niente: nello zaino ho La donna dei fiori di carta, L'ipotesi del male, Il cacciatore del buio. Gli altri due non entravano in valigia e avevo un po' di vergogna a portare le mie copie, ormai rovinate per il troppo uso. Aspetto, sfoglio altri libri, mi rigiro i pollici e Donato Carrisi non arriva. Giusto farsi aspettare, ma non troppo. In quel momento mi dicono che sto aspettando a vuoto, perché l'incontro non è lì. Sono un dannato genio incompreso. Hanno messo una specie di tendone all'esterno, tra nastri colorati e nodi di luci natalizie che sembrano parte di una scena del crimine nel bianco covo di Babbo Natale e della Befana. Arrivo io e tutte le sedie sono piene. Cavolo.
Arrivo, dico Cavolo!, e non ci faccio caso: accanto a me c'è Donato. Lo capisco quando mi viene incontro gente armata di penne e assetata di autografi. So cosa state pensando: nessuno, in realtà, mi aveva scambiato per Johnny Depp, tipo, e non c'erano lettori di Diario di una dipendenza che volevano pugnalare a colpi di biro quel rompipalle che intasa le loro home ogni giorno con post di indicibile inutilità come questo qui. Quella piccola folla era per lo scrittore che avevo riconosciuto dopo. Non so come lo immaginavo: uguale e diverso. Noto che è alto come me, centimetro più, centimetro meno, e la cosa me lo rende ancora più simpatico. Ha la barba lunga, camicia bianca, pochette nel taschino. 
Lui sorride, firma copie a volo e mentre i lettori starnazzano io vado e rubo il posto a chi si è alzato. Ma sì. E mi piazzo in primissima fila, proprio davanti a lui. Mentre mi siedo, sento una ragazza che gli chiede di dedicare il libro a Lisa. Come Lisa dagli occhi blu, dice, anche se lei poi non ha gli occhi blu. Be', risponde Donato, è un po' come se mi avessero chiamato Donato dai capelli biondi! Mi raggiunge mio fratello, con una busta di Piazza Italia in mano e la faccia sofferente di chi pensa “ma che palle, quando finisce 'sta cosa?” - lui è il fratello bello, come noterete dalla foto; io sono quello che cerca di compensare leggendo. Gli comunico con gli occhi “ma stai zitto” e quando Donato Carrisi comincia a parlare vedo che Diego posa la busta a terra e si rilassa. Sulla sedia rubata a “chi è andato a Roma e ha perso la poltrona” si sta più comodi e quando Donato parla non c'è noia. E' da sabato, adesso, che Diego dice di voler leggere qualcosa di Carrisi. C'è chi scrive, come diceva il personaggio di Scamarcio nello splendido Mine Vaganti, perché non sa parlare. Capisco dopo un attimo che Donato Carrisi non è parte della categoria di autori taciturni e timidi: ho davanti una delle persone più carismatiche e affascinanti che abbia mai incontrato. Ci racconta, si racconta; ci diverte e ci intrattiene. Ci dice di non chiedergli se è parente di Albano e, soprattutto, di non metterlo alla prova con l'arduo ritornello di Nel sole. Parla dei casi di cronaca nera e interroga il pubblico: ricordiamo tutti i nomi dei colpevoli, nota, ma non quelli delle vittime. Perché? Ci dice di quando una bellissima sconosciuta in treno gli ispirò La donna dei fiori di carta e una lettera d'amore scarabocchiata sul bordo del Corriere della Sera; di quando abbandonò tutto e si rifugiò in un trullo (ma guai a definire i suoi polizieschi “thruller”!) per scrivere Il suggeritore; del pregiudizio nutrito dagli italiani verso gli autori italiani; della passeggiata col Penitenziere che ha ispirato il misterioso Marcus del Tribunale delle anime. Ci incanta. Il microfono gira tra il pubblico, ma mi conoscete, non sono il tipo da microfoni e domande. L'incontro è durato un'ora che però è sembrata troppo poca. Capisco cosa diceva Bergson quando parlava di tempo soggettivo e oggettivo; di tempo che vola. Ci si alza tutti, perché è il momento degli autografi. Tutti hanno portato un solo libro (principianti!) e io mi metto alla fine della coda umana, trovando come complice una ragazza della mia età che i libri invece li ha portati tutti e cinque. Mi avvicino e non sono agitato o intimidito. Non è da me neanche la calma, ma Donato Carrisi sa scrivere e sa come non mettere a disagio chi ha davanti. E' amichevole, simpaticissimo, gentile; ti stringe forte la mano, ti mette il braccio sulle spalle per fare una foto. Non pensavo l'avrei fatto, e invece sì. Mentre firma le mie copie gliela butto lì. Sono sicuro non se ne ricorderà, ma ci eravamo sentiti per una o due recensioni qualche tempo fa. Scrivo su Diario di una dipendenza. Gli do un po' del tu e un po' del lei, nel dubbio.
Alza lo sguardo dalla carta e mi guarda. Noto come un lampo di riconoscimento e mi dice che certo, se ne ricorda. Non so se è vero o no, ma io sono contento. Ringrazio. Per l'autografo; la forse bugia che però mi ha fatto tornare a casa più soddisfatto ancora; la foto che abbiamo dovuto rifare due volte, perché c'era una signora incapace nel pubblico che, al posto di scattare, si era messa di impegno e aveva spento il cellulare. Motivo valido per un omicidio, dico, e lui ridacchia. Dico grazie ancora, perché io faccio sempre a gara di grazie, in caso non fossero sufficienti. Lui ringrazia me; mi chiama per nome.