lunedì 9 marzo 2015

Recensione: In piedi nella neve, di Nicoletta Bortolotti

La palla ne ha, di coraggio: lei sa che, certe volte, a ucciderti non è quello che fanno i nemici, ma quello che non fanno gli amici. La palla ha il coraggio che manca agli esseri umani di iniziare quel viaggio lunghissimo tra fare una cosa giusta e non farla. Tra guardare chi sale su un treno e non guardare.

Titolo: In piedi nella neve
Autrice: Nicoletta Bortolotti
Editore: Einaudi Ragazzi
Numero di pagine: 181
Prezzo: € 11,00
Sinossi: Sasha ha quasi tredici anni e una passione bruciante: il calcio. Come potrebbe essere altrimenti? Suo padre è Nikolai Trusevyc, portiere della squadra più forte del Paese: la Dynamo Kiev. Ma in Ucraina, nel 1942, il pallone non è cosa per ragazze. E dopo l'invasione da parte del Reich non è cosa nemmeno per i campioni della Dynamo: accusati dai nazisti di collaborare con i sovietici e ridotti per questo alla fame e all'inattività, i giocatori hanno perso la voglia di vivere. Quando, a sorpresa, i tedeschi organizzano un campionato cittadino, non lo fanno certo per perdere; Sasha, d'altra parte, sa che suo padre e i compagni giocano sempre per vincere... Stavolta, però, vincere significherebbe morire. E qual è la vera vittoria? Lottare fino all'ultima azione, come chiede il pallone, o sabotare la partita, come le ha intimato un misterioso spettro, nel buio di un sottopasso? Mentre il fiume Dnepr, gelido, si porta via l'infanzia di Sasha, la Storia segue il proprio corso: il match avrà un esito cosi incredibile che nessuno, per lungo tempo, potrà raccontarlo.
                                           La recensione
La guerra fa esplodere non solo le case, ma anche i pensieri. Quando mi è arrivata un'email in cui mi si chiedeva di recensire In piedi nella neve sono stato colto in contropiede; altamente impreparato. Tutto preso dal mio famoso esame di Letteratura Latina – correva, perciò, il mese di febbraio -, mi erano sfuggite le ultime uscite e mi era sfuggita, in particolar modo, questa qui. Non collaboro con la Einaudi e sui loro titoli, in realtà, non sono aggiornatissimo, soprattutto se pensati per i ragazzi: raramente, nei blog che seguo, c'è spazio per quelli, a meno che non abbiano illustrazioni e copertine da sogno. A meno che non ci ricordino com'era essere bambini e leggere una favola prima di andare a dormire. Avrei notato mai il libro della Bortolotti se, in una mattina freddissima, non mi avesse lei stessa contattato per un parere spassionato? La copertina di In piedi nella neve è illustrata e bella, ma la vicenda che la sinossi riassume – una partita di calcio tra verità e leggenda, una rievocazione della Seconda Guerra Mondiale con un punto di vista pressoché inedito: troppo vera, troppo poco fiabesca – avrebbe potuto allontanare chi il calcio non lo segue e chi la storia la studia e la dimentica, ma sa ricordarla, a volte, grazie ai bei film e ai bei libri. Bei libri come questo. Nemici del pallone e dei sussidiari, per chiarire invece la precedente voce, come il sottoscritto – parte della bassisima percentuale di italiani che non segue il Campionato e che si siede in poltrona solo quando gioca la Nazionale, nonché di quegli studenti di lettere che si lasciano all'ultimo il laborioso esame di Storia Contemporanea. “Sorpresa” è il sostantivo che ricorrerà per tutta la recensione di In piedi nella neve: vi avverto. La sorpresa che mi ha fatto l'autrice, redattrice editoriale e professionista ormai affermata, nel prendersi la briga di propormi il suo ultimo romanzo, neanche fosse un'esordiente alle prime armi, e di inviarmelo di persona, con mille parole gentili e con una graditissima dedica in prima pagina. La sorpresa nel leggere uno scritto – accettato all'inizio per pura cordialità; perché estremamente breve; perché proposte del genere, da parte di un editore che non mi conosce e da un'autrice che si fida ciecamente di me, sono più uniche che rare – che ho trovato davvero bello. 
Sorpreso, io, perché non conoscevo la scrittura di Nicoletta e, prendendo il libro un po' a scatola chiusa, sono rimasto conquistato sin da pagina uno; dài, diciamo da pagina dieci, perché mi devo pur fare desiderare. Lei scrive come piace a me. Con spiccato buon gusto, con la passione per le descrizioni più suggestive, con la testa e con il cuore. Con quel fattore X - inafferrabile e misterioso, ma quando lo trovi lo sai - che insegue un noto talent. Inoltre, non conoscevo la storia narrata, se non come una lontana leggenda, e alla fine mi ha toccato profondamente. Scosso, pure un po' commosso. Mi è piaciuta per una vicenda pensata per lettori ancora bambini, ma in grado di coinvolgere anche chi è già cresciuto. Si sa che i piccoli sono il pubblico più esigente, no?, e Nicoletta sa trattarli con intelligenza, come una mamma e come un'insegnante: come se fossero – e infatti lo sono, solo che altri dovrebbero capirlo meglio, più spesso, di più – i nuovi adulti. Nella Kiev sotto lo schiaffo dei nazisti, raccontata ora a mo' di telecronaca, ora come un romanzo di formazione vecchio stile, la storia di una ragazzina con il sogno del pallone; quella dei suoi migliori amici; quella della sua famiglia. 
Quando Sasha perde la sua infanzia sotto le bombe, il padre, portiere di una squadra imbattibile ed imbattuta, perde il suo amato lavoro: in casa adesso lei litiga spesso con la madre, una donna che nasconde un segreto triste sul fondo di una matrioska, e non può più giocare a calcio, se non clandestinamente. E il papà non può osare fare un affronto ai tedeschi, e il suo amico del cuore non può dire ai genitori di sognare una carriere da ballerino e la Dynamo ricostruita non può vincere – nella "partita della morte" in cui in ballo c'è tutto – contro il nemico crucco. Certe volte, quando si vince si perde. In In piedi nella neve c'è il freddo e c'è “una guerra che secca il cuore”, la privazione e la negazione di sé. Cosa fare e cosa no? Filtrato dalla sguardo di Sasha - lunghe ciglia e un corpo ancora acerbo, le ginocchia sbucciate per le partite contro i muri a pezzi, i palloni di cuoio bucati, le mamme normative e le minacce al buio che odorano di acqua di colonia da quattro soldi – uno scorcio di storia vera che ha dell'incredibile, costituito da pensieri spesso crudeli e da dolci giochi d'infanzia. La narratice, con i suoi pregi, la sua ottusità e le sue piccole malefatte, è di una complessità incantevole. La rievocazione della Kiev assediata, pulsante e contraddittoria, ammalia e i fantasmi dei soprano nei sottopassi, il pensiero delle Baba Jaga nel fondo del bosco e gli avvertimenti dei falchi che fiutano il nevicare delle bombe antiuomo riempiono il romanzo di suggestioni varie e il lettore di pensieri originali. I dialoghi e le discussioni, così, vengono raccontati come nella telecronaca sportiva. Si fa un fallo, quando si mente a un amico. Si fa una finta, quando mentiamo agli adulti e fingiamo che di quel primo bacio mai dato non ci importi poi granché. In piedi nella neve è un esempio di coraggio; un paradigma della sportività. Nicoletta, al diavolo chi dice che le donne e il calcio non siano compatibili, tira dritta in porta e fa perfettamanete centro: a colpo sicuro. Non importa se siate tifosi o meno, se vi manca l'abc del gioco e se le strategie militari, a lungo andare, vi annoiano o confondono. Imparerete nel corso del viaggio - perché sì, questa lettura è un piccolo viaggio - a lasciarvi contagiare dall'entusiasmo della folla. E al gol decisivo, oltre la guerra e il fuoco, vi solleverete sulle vostre gambe in un boato che fa paura anche al temibile nemico, non pensando a quel che verrà. Alle conseguenze imprevedibili di un atto di valore. 
Il male è il solo bene che ci resta.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Book Thief - John Williams 


venerdì 6 marzo 2015

Pillole di recensioni: Tua (Claudia Piñeiro), Questione di cuore (Carmen Bruni)

Titolo: Tua
Autrice: Claudia Piñeiro
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 142
Prezzo: € 10,00
Il mio voto: ★★★½
La recensione: Avevo una scaletta rigidissima di letture da portare a termine. Avevo numerato i miei libri in base alla precedenza e in stanza avevo un comodino che era un po' un campo di battaglia, un po' un podio. A casa. E mi mancavano un centinaio di chilometri ancora per tornarci. Finito un esame importante, con la valigia quasi vuota e il Kindle a portata di mano, aspettavo in stazione l'arrivo del treno; mi annoiavo. Il cellulare carico, anche se io il cellulare lo uso poco e non so che farci, e quel Kindle su cui avevo finito di leggere la Mazzantini. Marchingegno che accendo di rado, ma che mio padre, al contrario, apprezza parecchio: tra i titoli caricati da lui, anche questo Tua, che puntavo da quand'è uscito ma che non ho mai comprato in versione cartacea. Caro, con poche pagine. L'ho iniziato dicendomi: “è giusto per passare il tempo, poi a casa lo mollo e passo ad altro.” Questo giallo argentino che non era tra le mie priorità non accetta di essere piantato in asso. Ti perseguita come un'amante abbandonata. L'ho iniziato e finito in giornata. Scattante, gustoso, elegante. Divertentissimo. La Piñeiro nasconde un colpo di pistola tra i rossetti e un cadavere in un matrimonio a senso unico, in cui l'amore è finito, le figlie disprezzano i genitori, ma le mogli – pazienti e naturalmente fiduciose – aiutano i mariti con le macchie di caffè sulle camicie e con quelle di sangue sul completo buono. Inés, casalinga disperata e donnicciola servizievole, ha una cultura di polizieschi televisivi e la propensione a mettere tutto in ordine: non dev'esserci uno spillo fuori posto, figuriamoci un'altra donna – o due, addirittura? - tra moglie e marito. Raccontato in parte da lei, con tanto di pratici schemi e di diagrammi, proprio come ha visto fare ai serial killer negli sceneggiati, e in parte originalmente costituito dalle conversazioni telefoniche della problematica figlia minore, Tua scivola libero e fluido come in un tango, intrigando grazie a un'improbabile “signora ammazzatutti” - la citazione del film di Waters non è puramente casuale – e a un intreccio accattivante e elementare, armato di colpi di scena ad effetto e sorrisi acidi. Una commedia nera molto piacevole, scritta come se si fosse a teatro e come se tenere insieme i pezzi di un matrimonio tradito fosse missione impossibile, al pari del delitto perfetto.

Titolo: Questione di cuore
Autrice: Carmen Bruni
Editore: Fabbri “Life”
Numero di pagine: 275
Prezzo: € 15,90
Data di pubblicazione: 12 Marzo 2015
Il mio voto: ★★
La recensione: Vorrei essere conciso ed indolore. Non ci giro attorno, perché quando un libro non mi piace tendo a straparlare. Non era nei miei piani leggere Questione di cuore. Non è il mio genere e l'esordio della Bruni, purtroppo, non è l'eccezione alla regola. Non sono fortunato con gli appuntamenti al buio e non saprei definire altrimenti le circostanze che mi hanno portato ad avvincinarmi a questo romanzo. Per quell'esperimento della Fabbri di cui vi parlavo, avevo scelto la ristampa della Hoover e avevo dovuto abbinarla a questo. La prima parte dell'esperimento è andata. La seconda, pur non pesandomi, meno: se Tutto ciò che sappiamo dell'amore scorre, questo scivola via. Questione di cuore fila dritto e non resta impigliato da nessuna parte. Tutto gira intorno al cuore – e al sole, e all'amore – e nei pochi angoli vuoti non c'è spazio per il resto: un tema importante, un approfondimento psicologico, un piglio originale. I personaggi, che vivono di pane e amore, appunto, ma di fantasia neppure a parlarne, sono creature che si risvegliano dal letargo nella stagione degli "accoppiamenti" e ogni pagina racconta di quello. Non c'è altro, non c'è stagione che preceda la loro eterna primavera. Giorgia e Alessandro vivono all'insegna dei loro sentimenti, ma sotto le ali di Cupido si nasconde solo un amore fatto di tira e molla, che si diverte a complicarsi da sé. Non si poteva neppure pretendere di più, ma la lettura si è rivelata carina, ma poca cosa. Una commedia romantica che fa il verso a quelle americane. La protagonista, però, non è Bridget Jones: manca l'autoironia, si prende tutto sul serio e una chiave più leggera avrebbe fatto bene, aiutando il lettore a superare comprimari non sviluppati e evitando che il tentativo di rendere profonda Giorgia fallisse. Il suo lui, una specie di Tronista della De Filippi, il pregiudizio comune – che vuole quelli belli non troppo brillanti – lo sposa in pieno. L'uso di un doppio punto di vista – funzionale come un paio di infradito sotto il diluvio universale – non giova: l'autrice non sa gestirlo al meglio e Alessandro, irruento e burbero, appare come il tipico maschio alfa che vuole farla addosso a lei per segnare il territorio. E lei, più utile e servizievole della ruota di un furgone in doppia fila per un cane pastore, è scodinzolante e tutta contenta. Non ci sono castronerie, passi degni di ilarità; nulla di tutto questo, giuro. Si legge. Ma c'è un qualunquismo che non permette che niente rimanga impresso. A mancare è lo scarto che lo renda non un romanzo rosa come tanti. Non c'ho visto niente di che, compreso il motivo che ha spinto un buon editore a portare in libreria in versione cartacea una storia piccola, nata su Amazon e che per me lì, a un prezzo contenuto ma giusto, o tra gli ebook della You Feel Rizzoli, sarebbe stata all'altezza della situazione. La fiaba più bella rimane quella vissuta dall'autrice, del cui successo sono sinceramente contento, ma, nonostante un buon lavoro di editing – ho letto passi della precedente versione a dir poco improponibili –, è il tocco magico che latita.

mercoledì 4 marzo 2015

Recensione in anteprima: Slammed. Tutto ciò che sappiamo dell'amore, di Colleen Hoover

Non si può piangere per sempre. Tutti, prima o poi, si addormentano

Titolo: Tutto ciò che sappiamo dell'amore
Autrice: Colleen Hoover
Editore: Fabbri “Life”
Numero di pagine: 352
Prezzo: € 15,90
Data di pubblicazione: 12 Marzo 2015
Sinossi: Lake ha vissuto l’anno peggiore della sua vita: la morte del padre, i litigi con la madre, un trasloco in una nuova città e la fatica di reinventarsi una vita. Finché non conosce Will, il vicino di casa, a sua volta costretto dalla vita a crescere in fretta. L’intesa è immediata, ma il primo giorno in classe Lake scopre che il loro è un amore impossibile: Will è uno dei suoi professori. Altrettanto impossibile allontanarsi, dimenticarsi, rinunciare: e così Lake e Will – costretti a restare divisi – si parlano attraverso la poesia, anzi, le poesie, in pubblico ma in segreto, servendosi di uno slam (una gara di versi) per dirsi tutto ciò che devono e vogliono dirsi.
                                    La recensione
Io non ci rinuncio. Io mica mi arrendo. Voglio capire qual è la differenza tra “nuovi” e “giovani” adulti – e non ci sono riuscito, non ancora. Voglio trovare un romanzo di un genere esploso all'improvviso, ma tristemente sempre uguale a se stesso, che mi faccia credere che ci sia sempre di meglio, che al young adult le nuove autrici – tutte donne, tutte appresso ai soliti temi: tutte uguali – rubacchino anche la profondità, la verosimiglianza dei loro racconti, e non solo i protagonisti all'ultimo anno di liceo in preda agli ormoni – e se ci sono riuscito, qualche tempo fa, è stato proprio grazie a Colleen Hoover che da allora, all'incirca, mi ripropongo di leggere di nuovo. Quando la Fabbri, in cerca di un parere maschile, mi ha indicato una serie di titoli da recensire in anteprima, la mia scelta, a colpo sicuro, è ricaduta, quindi, sulla ristampa di Tutto ciò che sappiamo dell'amore. Uscito qualche estate fa, è entrato ed uscito ed entrato ed uscito dalla mia lista dei desideri a tempi alterni: mi convincevano i pareri positivi, mi faceva passare la voglia, però, anche la minima recensione stonata. Non sarebbe stato come Hopeless, delicato e tostissimo, con due protagonisti originali e un oscuro contorno di abusi familiari e infanzie negate; ma a scatola chiusa, se proprio dovevo scegliere, sceglievo la Hoover. Scatola chiusa tra virgolette. In realtà, come capita con quei libri che ti incuriosiscono ma che poi, convinto non li leggerai mai, vai a spulciarti per bene, impaziente di capire cosa sia piaciuto e cosa invece no, devo confessare che sapevo più di quanto volessi a proposito di questa storia. La svolta drammatica della parte finale, ad esempio. Quella che a tutti, me compreso, a causa di un'ironia inusuale che mi è parsa solo mancata discrezione, ha fatto storcere il naso. Poiché preparato, mi è sembrata poca cosa: ci sono passato sopra; il resto scorreva. Il pregio del romanzo – primo di una trilogia, ma perfettamente autoconclusivo – è che è piacevolissimo, lieve, e che i classici lutti dei protagonisti non risultano troppo. Lontano dalla profondità di Hopeless, è un romanzo tutto sommato onesto, che non vuole farsi ricordare grazie a trovate ruffiane o fastidiose – il sesso esplicito, la promessa di una maturità che poi manca – ma neppure per il sentimento travolgente tra i due giovani protagonisti – due ragazzi che si amano, anche se, come in Pretty Little Liars, lui è un professore di lettere e lei una studentessa – dei quali non avverti mai la loro relazione come maledetta dalle stelle; realmente ostacolata.
Lake e Will, con le loro famiglie bisognose e l'esigenza di crescere in fretta, si muovono in un ambiente noto – il liceo – e percorrono insieme le tipiche fasi del lutto e le altrettanto tipiche fasi dell'innamoramento: gli amici consueti, i consueti litigi, anche se i simpatici fratellini minori, i loro preparativi per Halloween e il filo doppio delle emozionanti esibizioni al N9VE danno colore. Considerando la presenza costante di una narratrice che non brilla per buone idee, più infantile dei suoi diciotto anni, il romanzo ha il suo riscatto, la sua ora d'aria, quando sottraggono la parola a Lake le lettere dei genitori e, soprattutto, le poesie rabbiose e autentiche dello Slam. Gara poetica senza rime e senza regole che unisce i due personaggi, dirimpettai e qualcosa di più, dietro un microfono e contro l'ingiustizia di una vita da vivere come viene; sia quando dispensa dispiaceri, sia quando distribuisce piccoli miracoli. La poesia, purtroppo, resta sul palcoscenico e non influenza lo stile: non scende in campo, non dà quella cosa in più alla prosa lineare e standard delle autrici che fanno romance, ma il troppo stroppierebbe e Tutto ciò che sappiamo dell'amore risulta abbastanza. Semplicemente, abbastanza. Abbastanza problematico, abbastanza romantico, abbastanza carino. Il che è molto di più di quanto si possa dire di tanti new adult, che si prestano a stroncature spietate e a facile ironia. Tutto ciò che sappiamo dell'amore – traduzione liberissima dall'americano Slammed, titolo che finirò sempre per confondere con quello di una brutta e (quasi) omonima commedia di Gabriele Muccino - non sarà il vostro breviario dei sentimenti. Tutto ciò che saprete sull'amore, ecco, non lo saprete grazie a questa lettura. Non spicca il volo, ma è come un viaggio a velocità costante confortevole e senza tratti al buio, mentre la strada è tutta dritta – nonostante qualche buca sporadica faccia sobbalzare – e alla radio passa un pezzo che ti piace e che fa, lungo il tragitto, buona compagnia.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Swedish House Mafia - Don't You Worry Child Feat. John Martin (Acoustic Version)


Don't you worry, don't you worry child
See heaven's got a plan for you.”

lunedì 2 marzo 2015

I ♥ Telefilm: How To Get Away With Murder, Mozart in The Jungle, Red Band Society

Immagino che il mio essere sorpreso risulterà fuori luogo. Quando ho parlato del mio colpo di fumine con How to get away with murder, tutti mi hanno detto con aria di sufficienza: “E che ti aspettavi? E' Shonda. Un nome, una garanzia.” Ecco, io con questa mitica Shonda Rhimes non c'ho mai avuto niente a che fare. L'ho sentita nominare, certo. E conosco, ma esclusivamente di vista, i suoi figli maggiori: Grey's Anatomy e Scandal. Serie fortunatissime e longeve che, con una scusa ed un'altra, non ho mai seguito. Ignaro di un nome status symbol, inconsapevole e restio (diciamolo: sprovveduto), ho conosciuto How to get away quando su Sky sono andati in onda i primi episodi. Molte serie erano in pausa, ma questa era disponibile nella nostra lingua, a portata di mouse, per sere in cui non avevo neanche voglia di vivere, causa studio. Si parte in medias res e la trama, a metà tra So cosa hai fatto e quegli spassosi thriller degli anni duemila con Ashley Judd, ti lascia entrare nella vita di alcuni studenti, alle prese con un corpo da bruciare e con un mentore dal carattere imprevedibile. Retta dalla brava Viola Davis – donnone sensuale come Mike Tyson nelle scene d'amore, inguardabile senza trucco e parrucco, ma con un ruolo brillante -, la serie vive di personaggi che sanno che utile e onesto non coincidono e di persone immorali ma con il fiuto per i successi. A casa della prof Keating, cospirazioni e congetture, in una scuola di vita che non ha banchi o cattedre, né linee a separare insegnante ed allievo, ma passaggi segrete e stanzini in cui sussurrarsi viscide bugie o darsi a del furioso sesso con subordinati e superiori. Insieme alla protagonista di The Help, lo studente squattrinato, i due raccomandati, l'allieva modello con un futuro da fiaba tutto in forse. A spiccare nella massa, la bella Katie Findlay – la ragazza scomparsa di The Killing, la migliore amica di The Carrie Diaries – e la rivelazione Jack Falahee con il suo ambiguo Connor Walsh: gay, intraprendente, sfacciato, il sesso usato come un'arma a doppio taglio. Nonostante il vero coprotagonista sia lo spilungone Alfred Enoch, non c'è gara: Falahee – una stronza al maschile, destinato a diventare molle e fedele nel finale di stagione, ma convincente ugualmente – provoca e fa simpatia. I primi dieci episodi sono uno spasso; gli ultimi, i più lenti dopo tanto rumore, ti strappano la definitiva approvazione grazie a un epilogo col botto e a personaggi sempre ben delineati. Non che il legal thriller sia tutto questo spasso: ho un brutto rapporto col genere. Schivo Grisham al pari dell'ebola e l'idea di darmi alla giurisprudenza – nel periodo delle scelte e dei cambiamenti – non mi ha neppure sfiorato il cervello. Avvocati e processi mi annoiano, sarà che a tavola i miei guardano Forum a pranzo e Law & Order a cena. Ampia premessa per dirvi che se vi aspettate una barbosa serie in toga, avrete di che stupirvi. How to get away lo prendi sul serio – l'ho finito di vedere in lingua, in pochissi giorni: era diventato la mia missione – anche se è divertentissimo, cazzaro, sexy e improbabile. Ma la sua scioltezza, in unione a un montaggio favoloso, è l'equivalente della nicotina nelle sigarette: dà dipendenza. Poco importa se, al servizio della spettacolarità, potrà risultare spesso veloce e inverisimile: ti diverti, pensi al delitto perfetto e, nel frattempo, rimugini su cosa faresti se, in una notte cupa e tempestosa, ti ritrovassi con un cadavere in salotto. La serie della Abc risulta utile per ammazzare il tempo e per scagionarti con classe estrema, se insieme al tempo hai ammazzato pure altro. (7/8)

La scorsa estate i miei incubi andavano al ritmo di musica classica. Ho preparato l'esame di Storia della musica e, sarà che andava dal Madrigale a Miley Cyrus, sarà che le note so leggerle a stento e che quegli spartiti indecifrabili mi facevano venire la strizza, alla fine di quel tormento c'ho messo sopra una pietra. Una croce. Avevo detto addio a quel mondo, come quando le cose che fai a forza, malvolentieri, ti smuovono i succhi gastrici e la noia, ma non la passione. Avevo studiato e non ci avevo messo interesse. Ma a me piacciono il dramma in musica, il teatro, l'orchestra, i backstage. E una delle cose che più mi emoziona al mondo è il suono che fanno in coro tutti gli strumenti mentre vengono accordati, prima dell'apertura del sipario. Sono ritornato sui miei passi, superato il trauma da sessione estiva e, per fortuna, ho voluto concedere un'occhiata al pilot della nuova serie targata Amazon: Mozart in the jungle. Questa è un'altra storia. Tutt'altro che ingessata e seriosa; mai sonnolenta. Alcuni episodi sono dei gioielli, altri servono oggettivamente ad allungare il brodo, ma il livello è alto e il trinomio "sesso, droga e Mozart” vi darà alla testa. La trama: all'alba di uno spettacolo importantissimo, la Filarmonica di New York è messa a soqquadro dall'arrivo di un nuovo direttore d'orchestra. Capello lungo, completi spaiati, idee bizzarre. Un nome che tutti conosceranno: Rodrigo. Interpretato con vigore da Gael Garcìa Bernal, porterà una ventata di gioventù e colore in un ambiente polveroso. Nel frattempo, trascinerà al centro del palcoscenico l'insicura Hailey, tenterà di conquistare una moglie geniale e pazza e proverà a rimpiazzare il vecchio “maestro” senza fargli pesare troppo il suo pensionamento, mentre la direttrice rischia un crollo nervoso e la musica, come nel bellissimo Tutto può cambiare, si fa anche per strada. Accanto al pupillo di Almodòvar, Gondry ed Inarritu, un granitico Malcom McDowell – e guai a ricordargli che sta invecchiando -, la sexy Saffron Burrows e Bernadette Peters, quasi settant'anni e non mostrarli, una voce squillante e un nome che a Broadway è leggenda. Diretto per gran parte dei suoi dieci episodi dal Chris Weitz di About a boy e American Pie – okay, ha girato anche New Moon: doveva rimettere il parquet in soggiorno o tinteggiare il bagno, che vi devo dire? -, Mozart in the jungle ha autorialità e brio, l'immagine di una New York glamour e personalissima che potrebbe rimpiazzare a tempo debito quella del noto Sex & The City, una colonna sonora da manuale. La musica classica non è mai stata così rock 'n roll. L'esaltante Whiplash ha fatto appassionare i profani alle misteriose magie del jazz; questo – scapigliato, ribelle, un po' figlio dei fiori – farà lo stesso con la musica sinfonica. (7)

Red Band Society aveva la strada già spianata. Gli spettatori di Colpa delle stelle, abituati a tante lacrime e alle risate che scoppiano in faccia al cancro. La firma di Steven Spielberg, che coi telefilm non ha in verità molto successo. Una schiera già fitta di fan ed estimatori, non essendo proprio una novità: Red Band Society è Braccialetti Rossi. C'è in Spagna, c'è in Italia; gli americani potevano farsi mancare la versione a stelle e strisce? Ma Red Band Society è arrivato senza il trambusto sperato e, con altrettanto silenzio, è andato via. Cancellato dopo tredici episodi. Mi giurano che sia mille volte meglio la serie italiana, perciò figuriamoci, ma comunque non non dispiace. In molti lamentano i rapporti di convenienza, i legami passeggeri e le amicizie non del tutto disinteressate che si instaurano tra i giovani personaggi. Viene meno la bontà e la fratellanza di cui tutti andavano in cerca, ma quella vena politicamente scorretta ogni tanto mi è garbata. Una storia alla libro Cuore, quando il telefilm è già di per sé gigione, non l'avrei retta. Non ci si annoia, l'andamento è costante – e se piace dall'inizio, come nel mio caso, è un bene, altrimenti anche no – e gli attori, freschi e svegli, benchè coinvolti in una serie non destinata al decollo ma al tracollo, si sono fatti notare, ottenendo un trampolino di lancio notevole. La voce narrante di un bambino in coma guida lo spettatore fino alla fine e ci fa conoscere i personaggi principali, nei momenti costruttivi e in quelli distruttivi. Ci si affeziona a Leo, la mascotte del gruppo: neanche un capello in testa, un arto mancante e il volto del bravo Charlie Rowe. Zoe Levin, vista in Palo Alto, è un paradosso: una ragazza meschina, senza cuore, che in realtà ha un cuore più grande del normale e quello è il guaio. Acida e insensibile, avrà la sua mezza redenzione grazie al personaggio di Darek Kagasoff – odioso ed odiato protagonista di Vita segreta di una teenager americana – che non solo qui è tollerabile, ma in uno degli ultimi episodi – grazie a una svolta toccante – strappa pure una lacrimuccia. Simpatico e sfortunato il Jordi di Nolan Sotillo, adolescente in cerca dell'emancipazione; irritante come pochi personaggi, invece, Emma, ragazza che non mangia e non suscita empatia. Mentre c'è che va e chi viene, chi muore e chi torna a casa sulle proprie gambe, in corsia spazio anche per le storie e gli amori del personale ospedaliero: l'infermiera amareggiata di un'ottima Octavia Spencer; il fascinoso dottore di Dave Annable, col capello sale e pepe del Clooney di E.R e qualche lezione di recitazione presa da quando faceva (male) 666 Park Avenue. Lontani dall'andamento convincente del pilot – divertente, emozionante, sincero – gli ultimi episodi, che potevano essere riscritti per mettere un punto a questa storia non riuscitissima, ma godibile, e invece no. Ho imparato i nomi dei personaggi, ho sorvolato sui loro difetti, ma non chiedetemi adesso se il gioco sia valso la candela: francamente, non saprei. (6)

sabato 28 febbraio 2015

Mr. Ciak: Cake, Una folle passione, Noi e la Giulia, Big Bad Wolves, Men Women and Children, Love is strange

Claire ha i nervi a pezzi e un corpo che l'ha tradita. Non sa che fare delle sue gambe piene di ferri; non sa che fare della sua vita, adesso che nella sua casa c'è una porta chiusa e tutti sono fuggiti via. Claire sogna tutte le notti di uccidersi e quando si sveglia vuole che accanto a lei ci sia un'altra persona: un amante occasionale, un'anima solitaria. A volte c'è il giardiniere, altre il fantasma di una trentenne che si è buttata da un cavalcavia. Tra sonno e veglia, Cake è una torta di compleanno per esprimere l'ultimo desiderio. Una commedia drammatica che mostra un cinema del dolore sempre più evoluto. La tragedia della protagonista è risaputa, ma coinvolge, grazie ai toni adorabilmente arcigni, alle visioni e ai lunghi viaggi oltre la dogana, a un personaggio bisbetico che sembra sbucato dalla sit-com Mom a cui vuoi bene proprio perché vorrebbe farsi detestare. Quello di Barz è un film che nel suo desiderio di tranquillità scorre e funziona, pur non restando a lungo in testa, se non fosse per le singole prove attoriali. Lo spiritello malinconico della lanciatissima Anna Kendrick; il vedovo di un Sam Worthington che nella lingua madre, risulta più convincente del solito; soprattutto, la quarantenne graffiante di una Jennifer Aniston sorprendente. Forse non da Oscar come molti hanno giurato, ma abile nel ricordarci che la stella di Friends, quand'è lontana dalla commedia, ha tanto da mostrare. E non aspettatevela stravolta, imbruttita: struccata, con qualche chilo in più, è radiosa come sempre, grazie a uno script un po' blando, ma che non indugia nel patetismo; grazie a una macchina da presa che di rado ci mostra gli sfregi della sua musa. Un altruistico percorso di guarigione in cui si mettono al vaglio tutti i modi possibile per farla finita, prima di accorgersi che intanto stiamo già meglio. Ma il treno ha fischiato. Le gambe ci sosterranno per il tratto più importante, quando vorremo allontanarci dal nostro scomodo letto tra le rotaie? (6,5)

Jennifer Lawrence e Bradley Cooper, stavolta strizzati in abiti demodè, hanno girato tre film insieme. Sono bravi; si portano fortuna. Ma le loro storie non filano sempre liscie, come nel caso di Leo e Kate, ma guai a paragonarmeli: in Una folle passione non si sa bene cosa capiti loro, ma comunque non se la passano benissimo. Lui le ha promesso fedeltà eterna; ma cosa succede però quando una donna perde ciò che la rende donna e sulla coppia cala la gelosia? I critici già mi avevano messo in guarda, e non posso che concordare coi loro giudizi su questo melodrammone evitabile, scolastico, che non ha un vero perché. Guardarlo non è una sofferenza, ma dove lo colloco? Non di certo nella filmografia di Susanne Bier, che lascia la sua Danimarca per un'avventura che non soddisfa. Dal suo nuovo viaggio a Hollywood ci manda una suggestiva cartolina, con un pensierino elementare scritto dietro. Una trama con svolte quasi illogiche, una storia di pazzia che lascia indifferenti. La Lawrence, eroina tragica, è intensa, ma ricicla qualche scenata della Tiffany che le valse un'immeritata statuetta e con il caschetto biondo perde fascino. La macchina da presa la adora e i primi piani dei suoi occhi disperati ipnotizzano. Bradley Cooper è credibile, ma lontano dal suo meglio. Pensavo di guardare l'ultimo film della Bier e mi sono imbattuto in un incrocio discutibile tra Il segreto e una fiction Rai. Ho sentito per tutto il tempo la mancanza di Beppe Fiorello e di Vittoria Puccini: dove stanno quando servono? (4,5)

Non mi è mai capitato di essere in attesa di un film italiano. Però con Noi e la Giulia è stato diverso. Avevo letto il romanzo e sapevo che la storia di Bartolomei meritava: l'avventura dei quattro perdenti che sfidavano la camorra sarebbe diventata una semplice barzelletta? Il sospetto che potessero semplificare tutto, in una trasposizione frettolosa e godereccia, in realtà non lo nutrivo: mi fidavo di Leo e sapevo che, sveglio, non avrebbe toppato. Ho notato che la sua regia si è affinata e che circondato da un manipolo nutrito di attori – sempre i soliti, ma sono convincenti: accontentiamoci – fa bene. Mette a punto qualche modifica, guida l'intera squadra con polso fermo e interpreta il coatto Fausto. A volte, sono vere e proprie migliorie quelle che apporta: il personaggio di Elisa, interpretato da Anna Foglieta, mi è piaciuto di più. Perché la Foglietta ha portato il suo pancione sul set e ha caratterizzato a modo suo un comprimario irrisolto; misterioso, forse, come sono le donne. Divertenti Fresi e Amendola; magnifico Buccirosso; buon padrone di casa un Luca Argentero mai impreparato. Il mio punto di vista, quindi, è quello del lettore che ha trovato una prima parte fedelissima e una seconda alleggerita dei temi che mi avevano scosso: eppure si riempiono così due ore, senza annoiare, ma senza esplorare gli aspetti più necessari. Qualcosa di importante manca, ma non avrei saputo come farle spazio, senza appesantire una produzione che risente di qualche dilungaggine. Si ride con leggerezza, ma è onnipresente il retrogusto amaro; e si pensa, soprattutto, in quell'epilogo emozionante e aperto, che è esattamente come lo avevo immaginato. Insomma: la mia preoccupazione è che questa commedia come tante e come nessuna – il "canovaccio" esisteva ben prima dei più spigliati Smetto quando voglio e Song'e Napule - in realtà, possa risultare più ricca e raffinata del previsto: la ciccia al fuoco è tanta, e sarà carne, pesce o nessuna delle due? (6,5)

Nonostante il sangue non mi turbi, cresciuto da un papà che ama Fulci, Argento e gli horror vintage, la visione di Big Bad Wolves l'avevo rimanda più volte. Mi fidavo di Tarantino, ma piuttosto non mi fidavo dei miei nervi. Se da una parte l'idea della vendetta non mi rovina il sonno, dall'altra il tema della pedofilia sì che dà gli incubi. Brutto pensarci, brutto assistervi, soprattutto se quel crimine contro l'umanità è mostrato nella maniera più cruda: certe cose non andrebbero indagate a fondo, tanto mostruose sono. Conoscendo la trama, temevo che quello che avrei visto mi avrebbe roso il fegato. Un genitore e un poliziotto che, in un sottoscala, in piena campagna, torturano un maestro di scuola. Un sospettato omicida di bambine. La partentesi delle torture occupa in realtà solo l'ultima mezz'ora. Per il resto, è una sorpresa. A parte che l'inizio, memorabile, ha del miracoloso, ma poi – tra il ritrovamento del cadavere straziato e il rapimento del presunto killer – si snoda un'indagine sui generis, grottesca e arguta, che ha l'umorismo assurdo degli horror importati dalla sperduta Nuova Zelanda o da quella Spagna famosa giusto per la sangria, unito al ritmo ballerino dei polizieschi d'oltralpe. Tutt'altro che oscuro e ermetico, Big Bad Wolves ha una fotografia precisa e scenette indecorosamente comiche, insieme a una violenza copiosa ma intelligente e a una resa che fa invidia agli americani. Internazionale ma con un'impronta solo sua, la commedia istraeliana nero petrolio che ha conquistato anche Hollywood si sottrae alle definizioni nette, coinvolge e sconvolge, sapendo saggiamente quando fermarsi, per lasciare che i tagli del montaggio glissino sull'abuso e per far sì che una fantasia assassina galoppi per conto proprio, nei terreni dell'anarchia, fantasticando su delitti e castighi. Spietato, cattivo, spassoso, è una punizione perfetta che lascia lo spettatore soddisfatto e gli aguzzini della pellicola in preda al dubbio. (7,5)

Jason Reitman ci aveva abituati a commedie col dente avvelenato, ma già col malinconico Labor Day sembra volere indagare nuove tematiche. Ha una bella sensibilità, davvero. Perciò mi fa strano sapere che il suo Men Women & Children, non totalmente riuscito, ma notevole, arriverà da noi in homevideo. Passando inosservato. Dura due ore che scorrono senza mai pesarti addosso e l'abilità di coinvolgerti con storie che si incontrano senza mai incastrarsi. Il poster originale rende bene l'idea. Un marito e una moglie che colmano con amanti occasionali la loro infelicità; un adolescente che, abituato agli standard del porno, non riesce ad eccitarsi con una ragazza vera; la quindicenne che non mangia, quella che mangia gli uomini, la mamma che è andata via e quella che mette online le foto sexy della figlia. Poi, al centro, nell'indifferenza della folla, due ragazzini che si abbracciano: un rapporto finalmente sano che l'anonimato di internet tenterà di corrompere. Sono gli adulti che sbagliano e i ragazzi a darci lezioni di vita; quelle con il famoso istinto materno ad abbandonarti e i giochi di ruolo ad alienarti. Riflessioni sparse, dunque: le solite ma necessarie al solito; un'ottima squadra di protagonisti, tra i quali spiccanno un serio Adam Sandler; Judy Greer e Jennifer Garner, nei panni di due donne agli antipodi ma spregevoli ugualmente; l'intenso Ansel Elgort di Colpa delle stelle, che vi avevo detto nel mio "classificone" di fine anno fosse da tenere d'occhio e così è. I personaggi non riescono ad andare oltre il proprio naso o al di là dello schermo dei loro cellulari: chiusi in una solitudine che gela, camminano nello spazio di mondo che riescono ad illuminare – non con i lanternini di Pirandello, ma con le applicazioni per iPhone – inconsapevoli che, accanto, ci sia l'altro: alle prese con la stessa ricerca, a un passo da loro. Se non piace del tutto, forse è perché qualche tematica risulta superflua e perché qualcosa di assai simile ci era stato raccontato in Disconnect, ma colori più accesi e vicende comuni giovano, insieme a un cast ricco e a una voce narrante aliena che ci parla dallo spazio di noi, delle nostre mancanze, delle nostre dipendenze irrinunciabili d'affetto. (7)

Ben e George vivono insieme da quarant'anni e si amano come due ragazzini. Anziani, decidono di convolare a nozze. Ricorderanno quello come uno dei giorni più felici: i parenti, il fiore all'occhiello, un candore che stringe il cuore, soprattutto in un Paese – il nostro – che va allo sfascio, ma il pensiero continua a ruotare intorno al superfluo. Ci si domanda a voce alta cosa rende una famiglia normale e cosa no, quando invece la risposta è semplice. Al contario di ciò che dice il titolo, l'amore tra questi uomini in là con gli anni è tante cose, ma strano mai. Uno è un artista, l'altro è insegnante di musica in una scuola cattolica: la religione si mette in mezzo e anche se tutti, alunni e docenti, conoscono da sempre il legame tra Ben e George, quel matrimonio sfacciato appare troppo. Licenziato su due piedi, a sessant'anni si deve reinventare dal niente; rinunciare alla casa condivisa col marito e andare in cerca di un piano b. Nel frattempo, ospiti chi da un nipote e chi da una giovane coppia, i due vivono con malinconia e sofferenza i giorni della loro lontananza. Ira Sachs crea una perla che diverte e intenerisce; mai superflua. Una metropoli dai tratti alleniani, coi taxi gialli e la vita sbirciata da un tetto, fa da pulsante sfondo a una luna di miele mancata, in cui il miracolo dell'accettazione dell'altro si unisce a una scrittura dalla grazia emozionante che mette sul piatto della bilancia una famiglia tradizionale e una un po' meno, per vedere che quei cuori e quelle storie hanno lo stesso peso specifico. Il pianoforte ci accompagna per tutto il tempo, insieme all'idea che una coppia omosessuale che convive con la crisi economica, i cuori fragili e i corpi cascanti, raramente – mi viene in mente giusto Vicious – ci è stata mostrata, come se costanza e fedeltà non fossero contemplate in un rapporto forse diverso, ma profondissimo. Applausi per John Lithgow e Alfred Molina, familiari come due nonnini; puliti e dolci come Neil Patrick Harris e consorte che, sul Red Carpet, si sistemavano il papillon a vicenda. E l'amore è pure questo. E per fortuna ci viene mostrato come si deve, con garbo, leggerezza e un finale un po' poetico. (7)

mercoledì 25 febbraio 2015

Recensione a basso costo: Nessuno si salva da solo, di Margaret Mazzantini

Piove a dirotto, domani ho l'esame; dovrei ripassare ma non mi va. Così, nonostante la mia reclusione forzata, mi sono connesso cinque minuti e ho deciso di parlarvi dell'ultimo romanzo che ho letto. Ho bisogno di un vostro in bocca al lupo, ché è quasi fatta, dai. Buon mercoledì, o quel che ne resta.
E questo era stato il vero sbaglio. Chiudersi in un solo amore e chiedergli tutto. Semplicemente perché di tutto hai bisogno

Titolo: Nessuno si salva da solo
Autrice: Margaret Mazzantini
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 188
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Delia e Gaetano erano una coppia. Ora non lo sono più, e stasera devono imparare a non esserlo. Si ritrovano a cena, in un ristorante all'aperto, poco tempo dopo aver rotto quella che fu una famiglia. Lui si è trasferito in un residence, lei è rimasta nella casa con i piccoli Cosmo e Nico. La passione dell'inizio e la rabbia della fine sono ancora pericolosamente vicine. Delia e Gaetano sono ancora giovani, più di trenta, meno di quaranta, un'età in cui si può ricominciare. Sognano la pace ma sono tentati dall'altro e dall'altrove. Ma dove hanno sbagliato? Non lo sanno. Tre anni dopo "Venuto al mondo", Margaret Mazzantini torna con un romanzo che è l'autobiografia sentimentale di una generazione. La storia di cenere e fiamme di una coppia contemporanea con le sue trasgressioni ordinarie, con la sua quotidianità avventurosa. Una coppia come tante, come noi. Contemporaneamente a noi.
                                              La recensione
Lo scorso anno ho scoperto che Margaret Mazzantini è la sola che può rattristarmi quando e come dice lei. Glielo consento. Quando cerco una storia aspra, una narrazione che se ne infischia delle censure e dei limiti, uno stile che resta appiccicato addosso, è lei che leggo. Mi sfrego il pollice sul palmo, contro le dita, e la Mazzantini è esattamente lì che sta. Così la spiego a chi non la conosce. Lei la leggi, la sfiori e, anche quando il romanzo finisce, volente o nolente, non ti abbandona. Come una traccia di farina, dopo aver impastato il pane; come colla sotto le unghie, che si annerisce col tempo e va via quando vuole; quando ormai ti eri scordato che – sgradevole e appiccicosa – era lì, magari, dal pomeriggio prima. E la Mazzantini sgradevole può risultarlo spesso, è vero, qui come poche volte in precedenza, ma per quel che vale incolla: te alle pagine, i suoi personaggi alle due estremità di un tavolino, gli occhi nel profondo dell'anima... ed è una morsa che ti strapazza e ti lascia confuso. L'ho conosciuta un'estate, all'epoca del ginnasio, con Non ti muovere e non l'avevo capita. Ero troppo piccolo io. Ma, in realtà, con questo Nessuno si salva da solo è accaduto qualcosa di simile, e adesso sono grande, quindi che scusa ho? Non ho vissuto abbastanza, immagino. I pensieri sconci di Timoteo mi turberebbero ancora, ho realizzato, come adesso mi hanno turbato le confessioni maleducate di due vecchi sposi in un ristorante del centro. Lui con le maniche della camicia arrotolate, lei con un tubino nero. L'estate che si avvicina, i bambini lasciati dalla nonna, ritrovarsi soli dopo tanto. A quattr'occhi, dopo una separazione voluta da entrambi, ma tremenda; sofferta. Tragico dire al mondo di non avercela fatta, di aver perso. Ci vuole coraggio, ci vuole l'orgoglio calciato da un lato per sventolare bandiera bianca e ammettere a denti stretti che l'amore è perduto, insieme alla gioventù. E si pensa ai bambini, che avranno una mamma e un papà che non dormono più nello stesso letto e che non si lavano più i denti allo stesso lavandino, guardandosi nello specchio di sempre; si pensa agli errori grandi e a quelli minuscoli, alle tavolette lasciate abbassate e a un piatto non lavato, a un'amante passeggera e a un lavoro di cui portavamo a casa la noia e lo stress, il peggio. Si ripensa però anche agli inizi. All'amore, quando era così forte, così vorace e presente, che non li faceva dormire, se non l'uno addosso all'altra. Appiccicati e bagnati. Cosa mi hai fatto? Cosa ci siamo fatti? In poche pagine, ma poche pagine con un peso che si avverte e affonda, l'autrice rievoca gli inizi, la fine e quello che c'è nel mezzo, in una specie di strano dialogo fatto di poche battute e ricordi profondi che vincono, alla fine, sul chiacchiericcio. Seziona i baci, esplora i giochi delle lingue sui denti corrosi dai succhi maligni dell'anoressia e ne riporta l'umidità, la saliva, l'odore. Smantella le armature, i filtri e va al nocciolo più segreto e velenoso: i pensieri di una cattiva madre, la felicità spiata alle altre famiglie, le tentazioni di un padre che cova un risentimento che potrebbe massacrarli. Delia e Gaetano sono le coppie testarde e in frantumi che escono dai tribunali, dagli studi degli avvocati, insoddisfatte del verdetto finale. Vogliono avere ragioni entrambi, vogliono lottare, vogliono volersi. Ogni occasione è buona per bruciarsi a un gioco che non diverte più, perché non si può confidare nemmeno nei benefici del sesso riparatore, ma la fiamma è viva, scalda ancora, e calorosi e sanguigni chissà che non possano ritornare sui loro passi, solo per litigare a sangue e fare di nuovo pace. 
In una storia tutt'altro che facile – e quando mai sono facili, le sue storie? - la Mazzantini a modo suo, con la poesia e il turpiloquio, con le metafore audaci e i “cazzi” disegnati nei bagni e nei metrò, mostra quant'è banale una storia d'amore che fallisce e quant'è facile, invece, come cantava Samuele Bersani, dirsi in faccia “sei solo la copia di mille riassunti”. Ci ha fatto commuovere con la guerra e con la forza delle madri, ci ha spezzati con un amore omosessuale lungo una vita intera e, adesso, abile nel rendere difficile ciò che sembra tanto immediato, ma “troppo cerebrale per capire che si può stare bene anche senza complicare il pane”, gira intorno, come un cane affamato, a un matrimonio messo in tiro per una sera sola, che puzza come una carogna sotto il sole. Altrove ho parecchio apprezzato i giri di parole, i voli pindarici, i capelli spaccati in quattro o in cento parti, ma questa volta non del tutto, non abbastanza. Mi sono distratto un po'. E a capire li ho capiti i personaggi, ma mi hanno messo angoscia, lì dove gli altri avevano lasciato altro, il meglio di sé, al loro passaggio. Più romanzati, più costruittivi, più buoni. Qui ci sono le macerie e la forza di metterle insieme non sapevo sinceramente dove trovarla. Salvarli, e a me chi mi salva? Con Gillian Flynn l'amore era bugiardo, ma qui è fin troppo vero, sconvolge per quello, e tra Gae e Delia non ci sono parole trattenute, taciute, anche se per il bene comune e per il cuore – che non vede, e perciò non sta male – quattro bugie a cena hanno il potere miracoloso del conforto. Una Mazzantini in pillole – ma niente imbrogli, sono pillole grosse e amare che vanno giù senza un sorso d'acqua – per lettori con il pelo sullo stomaco, più maturi di me, che comunque mi ostino ancora a vederci il buono nei cuori della gente e i lieto fine nell'ultima riga di un matrimonio al capolinea. Per chi sa certe cose e certe scrittrici. Per tutti gli altri, direttamente il film di prossima uscita, frutto di una coppia consolidata e invidiata che per fortuna non scoppia. Sento che, perso nelle immagini, potrei metabolizzarlo meglio e inquadrarlo in una cornice fatta con le mani, con gli indici e i pollici; afferrarlo, per dire di averlo posseduto, anche se non è del tutto vero, ma vabbè.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – Giudizi Universali 


Leggera leggera si bagna la fiamma, rimane la cera.
E non ci sei più.”

lunedì 23 febbraio 2015

Recensione: In silenzio nel tuo cuore, di Alice Ranucci

Buon lunedì, amici! Oggi vi parlo di un libro che ho letto nel weekend e che, da pochissimo, è uscito in libreria, facendo parlare di sé soprattutto per la giovane età dell'autrice. Purtroppo mi tocca dirvi che non mi è piaciuto, e il purtroppo è esclusivamente per la brava Alice, che un giudizio così “severo” non lo meritava. Spero di essere stato delicato il giusto, perciò, ma soprattutto onesto. Ciò che segue è quello che vi avrei detto se non avessi saputo nulla dell'identità della Ranucci e dei suoi diciassette anni. Con sincerità.
Le stelle si intravedono appena, sperdute tra le luci abbaglianti della città. Ecco io assomiglio a loro. A quelle stelle. Confuse, smarrite, irrintracciabili in un cielo occupato da luci taroccate. Come me.

Titolo: In silenzio nel tuo cuore
Autrice: Alice Ranucci
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 166
Prezzo: € 13,90
Sinossi: Claudia ha sedici anni e ha imparato che il liceo è una giungla in cui vince il più forte, in cui non c'è spazio per la sua timidezza e insicurezza. Un po' di trucco, uno sguardo sfrontato e in un attimo fai parte del gruppo dei ragazzi che contano: superiori e vincenti. Ed è proprio lì che Claudia vuole arrivare. Perché essere diversi non porta da nessuna parte, se non a sentirsi sempre più soli. Perché quello è il mondo a cui appartiene Rodrigo, irraggiungibile che non si lascia scalfire dai sentimenti: il più ammirato della scuola, il più temuto, il più prepotente. Lui così diverso dal ragazzo che Claudia avrebbe immaginato accanto a sé. Eppure vorrebbe solo perdersi nei suoi occhi blu cobalto. E quando Rodrigo le chiede di uscire, Claudia non riesce a credere che sia vero. Non c'è altro da desiderare, tutto sembra perfetto. Ma all'improvviso la vita la mette davanti alla prova più difficile, e niente può essere come prima. La sua realtà si infrange in mille pezzi, come le sue emozioni a cui non sa dare un nome. Ogni cosa intorno ora appare falsa e inutile. Ogni persona è diversa da come la immaginava. Anche quelli che pensava fossero amici. Anche Rodrigo. Persino lei stessa. Senza più nessuna certezza, Claudia scopre che crescere vuol dire guardarsi dentro per davvero, senza falsi alibi. Vuol dire decidere chi si vuole diventare e tracciare il proprio percorso. Sicuri che c'è sempre la possibilità di sbagliare, di scegliere, di fermarsi e ripartire..
                                              La recensione
Esordire nel mondo dell'editoria a diciassette anni con una grande casa editrice non è all'ordine del giorno. E il fatto che la cosa capiti tanto raramente contribuisce ad attirare attenzione. Come in questo caso, ad esempio. Io non avrei letto In silenzio nel tuo cuore, se non mi fosse giunta alle orecchie la peculiarità di questo esordio tutto italiano. Un'autrice adolescente, la Garzanti a dargli fiducia e visibilità. Quella Garzanti che con le sue copertine tutte simili – i volti in primo piano, il font sobrio, i colori tenui – mi rassicura sempre un po'. Non saprei bene perché. I loro libri, nel bene e nel male, li riconosci. Sai che non vanno troppo appresso alle mode e che, in catalogo, non ci sono urban fantasy e young adult, se non in via eccezionale. Vanno bene quando vuoi darti alla narrativa – nazionale o internazionale – che vende e si piazza alta in classifica. Il romanzo di Alice Ranucci, a tutti gli effetti, è da inserire nella categoria dei titoli per ragazzi, e se mi fosse stato presentato così, posto in un'altra collana e con una copertina più colorata, non avrei voluto recuperarlo e forse non avrei corso il rischio mi deludesse e mi spingesse a non parlarne bene. Ci sono stati altri casi, certo. Ricordo Melissa P, provocatoria e senza peli sulla lingua; Dorotea De Spirito, alla moda e delicata; Gaia Coltorti, saccente e fastidiosamente sicura di sé. Ragazze, poi donne, che si sono fermate lì o hanno continuato, sull'onda del successo e delle chiacchiere. In punta di piedi, adesso arriva la Ranucci e, a lettura ultimata, posso affermare con sincerità che non ha attirato a sufficienza la mia attenzione. Da una parte, ho avuto l'impressione che il suo primo romanzo mancasse di freschezza: toni convenzionali per una storia fragile. Dall'altra, l'ho trovato invece il perfetto frutto dei suoi diciassette anni: non stupisce per guizzi, né per maturità. L'autrice è piccola, acerba, e si nota. Non si può urlare al miracolo. Non si può dire che scriva male. Ma non si può neppure negare che, altrove, ci saranno senz'altro coetanee con idee più nuove. Aspettandomi poco dall'intreccio, compensavo riponendo nutrite speranze nello stile. Lei ci racconta le generazioni di Instangram e i giovani stupidi di Moccia. La Roma da bere e da fumare, i licei come covi di vipere, i figli irriconoscenti e i genitori distanti. Ma la storia va avanti a furia di cicchetti e canne, niente di sconvolgente, e la metamorfosi interiore ed esteriore della protagonista – eterna bruttina trasformatasi all'improvviso in una ragazza cattiva e popolare, invitata dalla madre a rendersi utilile in un centro profughi – non l'ho sentita mia. 
Non mi ci sono riconosciuto in quel contesto, come quando guardo i film americani e penso che le biondine snob che vanno in rehab, i bad boy e i servizi socialmente utili siano cose da cinema o d'altro mondo. Alice ci racconta la sua generazione, ma vuoi la narrazione in prima persona, vuoi la coincidenza d'età tra lei e il personaggio, non c'è il distacco necessario. Il suo flusso di pensieri poteva essere più ragionato e solo l'ultima pagina, un espediente – ammetto – intelligente, ti fa capire come mai non si sia affidata alla terza persona, evitando di correre il rischio di stare spesso sullo stomaco, insieme alla protagonista, inizialmente schiava del culto delle apparenze, e ai suoi banalissimi amici. Ci sono state cose che mi sono piaciute e cose che non mi sono piaciute, facendo oscillare il mio giudizio fino alla fine. L'uso smodato di puntini di sospensione, i punti esclamativi e interrogativi in rapida successione, i periodi brachilogici che non vanno più, il fatto che non fosse raccontato niente di nuovo, ma che ci fosse d'altra parte un certo coraggio nel mettersi in ballo, con una voce secca e una narratrice inedita poiché antipatica. C'è stata una parte centrale molto intensa, in cui il dolore per un lutto improvviso ti tocca, e un epilogo a tinte gialle che avevo intutito, sì, ma che comunque funziona. Un'altra invece, la più importante, in cui la protagonista dovrebbe portarti via con sé, fuori dal tunnel, fa storcere il naso per l'educazione affettata del tutto. Senza rivelare troppo, posso dire che il percorso di Claudia la porta dalle braccia dell'iracondo Rodrigo all'assocazione a cui l'aveva indirizza sua madre e che sentire rievocate le storie vere, costruttive (e piagnucolose) di sfortunati immigrati e di mendicanti ha sulla protagonista un effetto benefico, su di me molto meno: è stato come guardare C'è posta per te. Le sentenze, i giudizi universali, la morale facile lasciamola a Alessandro D'Avenia, che può permettersi la retorica perché insegnante di filosofia al liceo e persona adulta, fatta e finita. Da una ragazza piena di vita, invece, mi aspetterei più verità. Urlato come un dramma di Muccino degli anni duemila, piacerà più alle mamme che ai figli, in quanto dirà loro ciò che vogliono sentirsi dire. Che i grandi hanno ragione, che la gioventù è marcia dentro, che non ci sono più il dialogo e le mezze stagioni. Un romanzo generazionale educativo e sensibile, fin troppo, con una firma da bambina che, nonostante i premi e i traguardi già raggiunti, deve affinarsi ed affinarsi. Ci vogliono il tempo, la vita, una storia più accattivante. In silenzio nel tuo cuore, in attesa di qualcosa che sia maggiormente all'altezza della situazione, nel cuore silenziosamente ci entra e silenziosamente va via.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Francesca Michielin – Sola