venerdì 28 maggio 2021

Recensione: Sette case vuote, di Samanta Schweblin

| Sette case vuote, di Samanta Schweblin. Sur, € 15, pp. 134 |

Io e i racconti: una relazione ormai stabile. La ufficializza, qui e ora, Samanta Schweblin. Sono tornato da lei dopo aver amato i mondi visionari di Kentuki e Distanza disicurezza. Sono tornato ai racconti – i primi che leggo di questapenna argentina – perché ogni nuova settimana implica inevitabilmente un nuovo andirivieni. Uscito qualche giorno fa con Sur, questo volume comprende sette storie affilate come coltelli, in bilico tra malinconia esistenziale e disagio psichico. I temi: la malattia, la solitudine, il pregiudizio. Lontana dalla fantascienza che l'ha resa celebre, questa volta l'autrice scandaglia il disagio quotidiano. Criptica, sottile e metaforica come non mai, condivide con il lettore schegge di vita vissuta che fanno trattenere a lungo il fiato. Da un momento all'altro potrebbe succedere tutto o potrebbe non succedere niente. L'ansia è tutta lì: racchiusa nel dubbio.

Questa è mia madre, mi dico, mentre lei apre i cassetti del comò e tasta sotto i vestiti per accertarsi che anche l'interno dei mobili sia di legno di cedro. Da quando ho memoria siamo sempre andate a vedere le case, abbiamo portato via dai giardini vasi e fiori inadatti. Abbiamo spostato gli irrigatori, raddrizzato le cassette delle lettere, tolto di mezzo oggetti decorativi troppo pesanti per il prato. Appena i miei piedi sono arrivati ai pedali ho cominciato a guidare io la macchina. Questo le dava più libertà.

Una madre e una figlia si divertono a invadere le esistenze altrui: modificano, rubano e stravolgono, mosse da una missione incomprensibile. Una coppia divorziata si accapiglia per l'affido dei bambini: possono forse passare il weekend con i nonni paterni, che in preda alla demenza senile si sono convertiti al nudismo? Un'anziana affetta da disturbi ossessivo-compulsivi, stanca di stare al mondo, impacchetta ogni avere in previsione del funerale e guarda con sospetto il dialogo tra il marito e il  piccolo dirimpettaio. All'indomani di un trasloco, nuora e suocera si scoprono accomunate dal medesimo senso di smarrimento. Una bambina, annoiata dall'attesa in ospedale, prende per mano uno sconosciuto che le promette di comprarle un paio di mutandine coi cuori ricamati. Per sfuggire a una lite familiare, una donna fresca di doccia esce di casa in accappatoio e ha una strana conversazione con l'antennista del condominio.

Concentrati sulla morte. Lui è morto. La signora della casa di fianco è pericolosa. Se non ti ricordi, aspetta.

Proprio come da tradizione, Schweblin garantisce una galleria d'immagini surreali e stranianti, immortalate con accuratezza cinematografica. I suoi protagonisti, al centro di dialoghi densissimi e di situazioni destinate a tacite implosioni, parlano a lungo. Ma più di loro sembrano parlare le cose non dette, quelle incomprese e quelle incomprensibili: il disagio misterioso, insomma, che tinge di nero la maggior parte delle vicende. Il formato del racconto rende Samanta Schweblin ancora più enigmatica. Nel bene e nel male, la concisione delle storie mette in risalto le sue peculiarità formali con il rischio di rendere i suoi intenti più oscuri del solito e di seminare, nel finale, un senso d'irrisolto. C'è del marcio a Buenos Aires e dintorni. Raramente, tuttavia, viene palesato. Lo intuiamo a colpo d'occhio tra le righe, mentre l'autrice scandisce con gelida imparzialità confronti intergenerazionali o traslochi di cui venire a capo. A volte i protagonisti hanno scatoloni da disfare d'urgenza per riappropriarsi della propria vita. Altre, invece, si convertono all'imballaggio – al cambiamento, al riciclo – per liberarsi di un passato superfluo. Portano fanghiglia sotto le scarpe. Seminano vestiti dappertutto. Lasciano oggetti fuori posto e appartamenti sfitti. Spesso votati all'inadeguatezza, vuoti al pari delle case che lasciano, ricercano il loro spazio vitale nei quaranta centimetri quadrati di una banchina. Disseminato di simboli e deliri, Sette case vuote è un vialetto sdrucciolevole – benché percorso con passo sempre fermo – su scenari tanto intriganti quanto insondabili. Non aspettatevi un'accoglienza conciliante da parte della padrona di casa: prima di presentarvi alla sua porta, fareste meglio a fare la sua conoscenza con altre storie; in altre circostanze.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Afterhours – Ritorno a casa

lunedì 24 maggio 2021

Recensione: Animal Spirit, di Francesca Marciano

| Animal Spirit, di Francesca Marciano. Mondadori, € 18, pp. 216 |

Nel corso degli ultimi mesi, durante i miei andirivieni in treno, si è cementato un amore che all'inizio appariva un flirt passeggero: quello verso i racconti. Tra pregiudizi e titubanze, mi sono approcciato al genere con risultati altalenanti. Ma ho scoperto poi che in viaggio non c'è formato migliore per cercare la compagnia delle storie: brevi ma intensissime quando si è fortunati, durano  il tempo che serve ad arrivare alla meta. La scorsa settimana ho portato con me Francesca Marciano. La sua penna è stata un'epifania. Anche sceneggiatrice, l'autrice – italianissima, nonostante i suoi racconti nascano in lingua inglese – torna in libreria con sei racconti che in realtà appaiono sei romanzi a sé. Belli, magici e perfettamente compiuti, propongono un cast popoloso di personaggi inquieti ed errabondi, che cambiano continuamente cielo e paesaggio. Nell'impossibilità, come scriveva Seneca, di cambiare loro stessi.

Julian fissò lo straordinario spettacolo di quel volo. […] “Anche noi siamo così?” di domandò. “Esseri che si muovono nella stessa direzione, mossi dallo stesso impulso, senza saperlo? Esiste forse un unico cervello che ci unisce tutti quanti, un istinto che ci guida in modo da non farci del male mentre avanziamo insieme verso un luogo più sicuro?”

Un'insegnante di yoga perde la testa per un avvocato rampante; rischiano di perdere tutto in nome del fuoco della relazione extraconiugale: alle figlie di lei, un po' selvatiche, spetta il compito di cercare un nuovo equilibrio domestico. Una ragazza senza nome, fresca di disintossicazione, torna a casa per il matrimonio della sorella maggiore ma fugge con un incantatore di serpenti: vicina ad Andor, scoprirà una vocazione imprevista e la sua massima fioritura. Due coppie, una da poco formatasi e l'altra di lunga data, si concedono una vacanza su un'isola greca: i dissapori sono all'ordine del giorno, ma la comparsa di un randagio bianco promette riappacificazioni. Una giovane donna parte all'insegna del New Mexico per restituire il lume della ragione all'ex fidanzato, ecologista affetto da un disturbo bipolare: è l'inizio di un'avventura piena di disperazione e di euforia nei territori indiani, sulle tracce di un leggendario lago blu cobalto. Un regista e un'attrice di mezza età, durante un casting a Roma, si scoprono uniti ben più che dal film da girare: un trauma indelebile e il destino li hanno voluti lì, a confrontarsi in una stanza d'albergo. Una scrittrice in cerca d'ispirazione affitta un appartamento con vista, ma il terrazzo è impraticabile a causa di un'invasione di famelici gabbiani: con la promessa di scacciarli, un fascinoso falconiere le spiegherà come reclamare la propria appartenenza e, soprattutto, come elaborare gli abbandoni.

Accade spesso ai falconieri di perdere gli uccelli. Fa parte del rischio di addestrare una creatura selvatica. Ogni caccia potrebbe essere l'ultima, è sempre il falco a scegliere se tornare da te oppure no.

Animal Spirit, che prende il titolo dal terzo dei sei racconti, è un portagioie. Una raccolta intima e avventurosa che ospita storie eterogenee ma parimenti valide, legate tra loro da un sottile filo d'erba. Mi sarei aspettato, a torto, estenuanti descrizione paesaggistiche; una flora scandagliata con piglio da botanico, una fauna densa di specie esotiche... La Natura, invece, in Francesca Marciano è una presenza ora immanente, ora soltanto metaforica. In Essa i personaggi trovano il sollievo, le risposte, la pace al disagio esistenziale. I trovatelli in libertà ispirano la concordia; i serpenti hanno corpi spaventosi, caldi e pulsanti; la caccia sanguinaria dei falchi causa inattesi sussulti erotici. E ci sono, ancora, alberi che comunicano grazie all'estensione delle loro radici; chiome che cambiano colore scandendo con puntualità il divenire delle stagioni; stormi che paiono mormorare malie nel loro coreografico inseguirsi. Artefice di momenti perfetti e di atmosfere sospese, dove perfino l'impossibile diventa realtà, l'autrice evoca paesaggi lussureggianti pervasi da climi miti e da aure incantate. Spesso, ci conduce lontanissimo. Ma ci rivela anche che, a dispetto dell'esotismo dell'America Latina o dell'incontaminato Mare Egeo, talora basta sollevare per un attimo lo sguardo dalla punta delle nostre scarpe per perdersi nella meraviglia. Del mondo, dell'altro: di un altro mondo.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Francesca Michielin – Cheyenne

martedì 18 maggio 2021

Recensione: Il valore affettivo, di Nicoletta Verna

| Il valore affettivo, di Nicoletta Verna. Einaudi, € 18, pp. 294 |

Sopravvivere non è mai una benedizione. Il tempo che resta è destinato a trasformarsi in complesso di colpa. Ci apparirà rubato a qualcun altro; strappato via con artigli da rapace. Bianca è una ladra. Quando a sette anni è sopravvissuta alla sorella adolescente – la più popolare Stella –, la sua vita è diventata la bugia di un ciarlatano. Tormentata da incubi dove si macchia le mani di sangue e dalle fitte del ciclo mestruale, anestetizza i propri dolori con gli analgesici, i reality show e il consumismo sfrenato. Compagna di Carlo, un luminare della chirurgia robotica, vive in un attico sul Colosseo e per mestiere sbobina sondaggi di marketing fasciata in un tailleur. Carlo salva le persone. Bianca, al contrario, ne ha uccisa una. Quali sono i segreti dietro l'ascesa sociale di una ragazza di provincia che, negli anni Novanta, ha fatto furore come valletta? Qual è il piano che persegue con cieca testardaggine, disinteressata alla fatalità delle sue conseguenze? Perché i tentati suicidi della madre e la fuga extraconiugale del padre: la secondogenita, così simile nell'aspetto alla sorella defunta, non era forse altrettanto degna d'amore?

L’immagine più nitida della morte sono gli oggetti che le persone lasciano, con quello che chiamano valore affettivo. Oggettivi comprati nella convinzione che si sarebbero usati. Oggetti che restano mentre tu te ne sei andato, beffarti inutili oggetti crudeli che ti sopravvivono e ricordano la tua vita a chi resta, stabili oggetti nel magma incomprensibile della memoria: per questo li amiamo e insieme ne siamo atterriti.

Immersa in ambienti di design, tutti linee flessuose e simmetrie, la protagonista ha la quiescenza di chi non lascia trapelare alcuna emozione. Ma dentro di sé ospita, intanto, un ribollire inquieto di fantasmi e d'incubi. Anaffettiva, cinica, altera, ha sedato i sentimenti nella speranza di imbrigliare i morsi del lutto. Cosa le succede tutt'intorno? Non succede niente; succede tutto. Sulla trama, volutamente, dirò poco: sappiate che somiglia ai suoi personaggi. Al bisturi di Carlo, alle contraddizioni della compianta Stella, alle vasche percorse da Bianca d'un fiato: precisa, maliziosa, spossante. Votato all'essenzialità, il romanzo di Nicoletta Verna ti obbliga a uno stato di tensione imperituro. Il disagio, strisciante, serpeggia dall'inizio alla fine. Grottesco e dissacrante, ma insieme profondamente realistico, è una finestra spalancata sugli abissi di Bianca: vortici conturbanti, ipnotici, che ti gettano in trance. Il valore affettivo, esordio di vertiginosa bellezza – al punto che si stenta a credere che sia un'opera prima –, si legge come uno di quei noir senza sbavature.

Non è che fossi triste: quello che sentivo non era il contrario della felicità, era il contrario della vita.

Disturbato e disturbante, richiama per eleganza il cinema di Michael Haneke e si pianta in testa, lì dove fa più male, attraverso la voce di Bianca: un personaggio unico nel suo genere, che non sfigurerebbe nella galleria di quelli interpretati da Isabelle Huppert, attrice protagonista degli scabrosi La pianista e Elle. Potrei continuare a scrivere ancora, ancora e ancora di lei lasciando nell'ombra il resto della sua storia. Questa donna dalla bellezza superba e respingente, affetta da manie di perfezionismo e da disturbi ossessivo-compulsivi, è infatti una narratrice di una complessità fuori dall'ordinario. Cosa ci racconta quello che gli altri buttano via? Cosa, invece, quello di cui non riusciamo a liberarci? Eccola, Bianca, mentre fruga indisturbata nel cassonetto della spazzatura: smista l'immondizia per differenziare il pattume di perfetti sconosciuti. Immersa fino ai gomiti nei rifiuti – delle campane ecologiche, delle case sfitte, della TV generalista –, se ne va disperatamente in cerca di teneri paradossi. Di una Barbie dai boccoli biondi, e della parte più pura di sé.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Unforgettable – Nat King Cole


martedì 11 maggio 2021

Recensione: I tuoni, di Tommaso Giagni

| I tuoni, di Tommaso Giagni. Ponte alle Grazie, € 14, pp. 186 |

Il Quartiere sembra la roccaforte di un film medievale. Un labirinto, scenografico nel suo squallore, da esplorare con carrellate cinematografiche. Roma è vicina ma lontana, sormontata da una nuvola di smog: un altro mondo, intuibile tra i capannoni industriali, i container, le villette abusive. A dettare legge, lì, è il Reuccio: un piccolo criminale da strapazzo, che all'improvviso lascia il trono vacante. Cosa accade quando un tiranno viene rovesciato? Il potere fa gola a moltissimi, ma non ai protagonisti: benché immersi nelle atmosfere cupe di Romanzo criminale o Suburra, schiacciati dalle ristrettezze economiche e dal degrado, continuano a nutrire in segreto speranze, velleità, desideri di fuga. A confidare nel cambiamento. Manuel, egiziano, è un informatico che da bambino ha rubato una medaglia al cadavere di un annegato: sogna di diventare marinaio, ma soffre di agorafobia. Flaviano, grande grosso e col cuore infranto, condivide l'appartamento con un padre galeotto e fa furore come pianista ai matrimoni. Abdou, da poco arrivato su un barcone, ha installato una bussola sul cellulare per conoscere la posizione esatta della Mecca e spaccia antidepressivi nonostante una laurea a pieni voti.

Ci avete insegnato a dire quello che vogliamo, e a prendercelo se non ferisce nessuno.

Sorprendentemente delicati, i tre funzionano soprattutto nei momenti d'intimità. Mentre improvvisano una famosa canzone di Antonello Venditti al centro commerciale, mentre vagano come turisti fra le bellezze della Roma notturna, mentre scacciano i turisti curiosi con le pistole ad acqua. Il dialetto lo usano poco e niente. Come loro, l'autore che li anima: Tommaso Giagni sceglie una lingua equilibrata, tagliente, perfetta, in opposizione all'asprezza del romanesco. A fare da motore alla vicenda è Donatella, un'adolescente ribelle che ammira il senso di comunità del Quartiere: lei fa parte invece del Verde Respiro, il quartiere perbene dall'altra parte della barricata. Un luogo di insediamenti recenti. Una minaccia. Come in una moderna storia di indiani e cowboy, la sfida è aperta. Peccato che, anticipata dalla sinossi e dal rosso aggressivo della copertina, riguardi soltanto l'ultima parte del romanzo.

C’era una comunità, sai che intendo? Dove vivi tu, pure con tutti i problemi, penso che questa cosa si sente. […] Eravamo parte di qualcosa, Manuel, e in cambio questo posto aveva… un senso.

A lungo I tuoni mostra la vita dei protagonisti in presa diretta, con lo sguardo malinconico del neorealismo italiano. Anche a rischio di mancare di compattezza narrativa, esagera con le sequenze descrittive e, con una struttura vagamente teatrale, cattura le vicende di Manuel e degli altri in capitoli a sé stanti. Ma ha uno sguardo bello, e gli si perdonano perciò anche le false partenze; quel leggero sentore di polvere pirica, insomma, che non sembra mai diventare esplosione assordante. Sospeso, scollato, volutamente anti-climatico, il romanzo apre poi le porte alla violenza in quell'epilogo improvviso o improvvisato, che suscita di pari passo stordimento e fretta. Questi Tuoni si dissociano dai fulmini e dalle saette, dal fuoco e dalle fiamme. Quando il rumore si propaga tutt'intorno, avviene a scoppio ritardato. E alle mie orecchie l'eco è parso, purtroppo, più come un arrancare affannato – una corsa pur di mettersi in pari con il presagio del fuoco in copertina – che come un grido disperato del cielo.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Antonello Venditti – Sotto il segno dei pesci

martedì 4 maggio 2021

Recensione: Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata, di Raphael Bob-Waksberg

Forse in Italia il suo nome suonerà sconosciuto. Segnatevelo a caratteri cubitali. Perché Raphael Bob-Waksberg – comico, ebreo, classe '84 – per me è l'erede di Woody Allen. Fantasioso, caustico e brillantissimo, ha regalato a Netflix uno dei suoi prodotti più memorabili: Bojack Horseman serie animata su un cavallo antropomorfo bramoso di notorietà – resta un capolavoro che, a un anno dalla sua chiusura, ci fa sentire ancora orfani. Ho l'impressione, tuttavia, che la TV non sia che soltanto l'inizio della carriera mirabolante dello sceneggiatore. Rieccolo in un'altra veste, quella di scrittore, sugli scaffali delle nostre librerie. Quanto spicca in mezzo all'eleganza monocromatica dei Supercoralli con la sua copertina rosa shocking e un titolo sfacciatamente romantico? Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata non delude le attese. Nonostante la familiarità con i suoi tempi comici, che non ho trovato minimamente depotenziati dal formato del racconto, sorprende comunque per la varietà degli argomenti, degli approcci narrativi, dei generi. Spazia dal romanticismo intimista allo splatter, dalla fantascienza al rimaneggiamento dei classici, sperimentando forme e voci sempre diverse.

Le persone si dividono in due tipi: quelle che non vuoi toccare perché hai paura che si spezzino e quelle che non vuoi toccare perché hai paura che ti spezzino.

Con sensibilità l'autore s'intrufola nei vissuti di uomini e donne, raccontandoli ora in prima, ora in seconda, ora in terza persona. E osa racconti in rima baciata (per ironizzare su San Valentino), abbozzi di pièce teatrali (in scena: il microcosmo familiare), promemoria di attività chiuse per ferie (l'urgenza sopraggiunta all'improvviso: passare un giorno a letto insieme), pagine di guide turistiche (quali luoghi evitare per sfuggire ai ricordi degli ex) e menù di ristoranti stellati (sconsigliabile abbinare alcol e dissapori). Ci sono poi villaggi dov'è buona creanza sgozzare caproni nel giorno delle nozze; realtà parallele invase da acque da Antico Testamento; resort messicani dove ricucire rapporti tra parenti acquisiti; popolosi parchi a tema e concerti interdimensionali. Ma in mezzo a questo divertimento esagerato, di cui il mio post potrà darvi soltanto vaghi indizi, i miei racconti preferiti sono quelli in cui il vulcanico Bob-Waksberg abbassa la voce per raccontarci quello che meglio gli riesce: ossia l'incomunicabilità, il disincanto, la depressione. Possono due innamorati viaggiare per sessant'anni nello stesso vagone senza dichiararsi? Giocando a Taboo, quali sono le parole da tacere per evitare il punto di non ritorno? Che senso ha fuggire in continuazione se la Tristezza è un'amante che non ci lascia andare?

Una statua non viene costruita a partire dalla base – è ricavata a colpi di scalpello da un blocco di marmo – e spesso mi chiedo se non siamo definiti allo stesso modo dalle qualità che ci mancano, delineati dallo spazio vuoto dove un tempo c’era il marmo. Sono seduto in metropolitana. Sono sdraiato sveglio a letto. Guardo un film: rido. E poi, d’improvviso, sono colpito da una verità annichilente: non è quello che facciamo a renderci ciò che siamo. È quello che non facciamo a definirci.

Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata resterà una delle migliori letture dell'anno corrente, perché mi ha fatto ridere, mi ha fatto piangere e mi ha spinto ad appuntare una matita Ikea per sottolineare passo passo le cose urgenti. Giunto all'ultima pagina, ho avuto la sensazione di essere stato sputato fuori da un frullatore, di aver esagerato con i biscotti assortiti – ogni racconto è infatti un dolcetto pescato alla cieca da una scatola di latta –, di essermi preso una sbronza triste con una bottiglia di Merlot. Mi giravano forte lo stomaco e la testa, mi girava il cuore. La vita e la morte, scrive l'autore, si somigliano. Sono terrificanti, schiaccianti, possono accadere in qualsiasi momento. Le si può affrontare in due modi, con la paura o con il coraggio, ma si è destinati in ogni caso a soccombere. Accanto a loro, l'amore: una forza altrettanto ancestrale. Se la nostra disfatta è già scritta nelle stelle, a questo punto, perché non scegliere di essere coraggiosi?

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Coma_Cose – Fiamme negli occhi

giovedì 29 aprile 2021

Recensione: Il primo che passa, di Gianluca Nativo

Il primo che passa, di Gianluca Nativo. Mondadori, € 17, pp. 216 |

Dall'apice del suo condominio, che svetta sullo squallore della periferia napoletana quasi a prenderne le distanze, Pierpaolo Tammaro guarda tutto dall'alto in basso. Primogenito di una famiglia in vista, vive in un microcosmo di antichi privilegi e falso perbenismo in cui ci si sforza di camuffare l'accento partenopeo. Il futuro è una promessa rosea; tutto andrà per il verso giusto. Dal suo terrazzo, intanto, si snoda una Napoli vista di rado: privilegiata anziché proletaria. Affacciato, il ventenne sdegnoso si sente estraneo alla volgarità del dialetto, alle chiacchiere dei coetanei, al culto solenne del Santo Patrono. Soprattutto, si sente estraneo a sé stesso.

Avrei potuto avere un nome più comune – Giuseppe, Mimmo, Enzo –, passare l’adolescenza in sella a un motorino, andare alle giostre della festa patronale come tutti i miei coetanei, sposarmi passati i vent’anni, fare carte false per un posto di lavoro nel pubblico. E invece no. Studiavo, sarei diventato un medico, ma quando? Al momento non ero niente. Continuavo a dissiparmi nel mio pendolarismo.

Pierpaolo somiglia alle narratrici di Elena Ferrante: come quella di La vita bugiarda degli adulti, oscilla tra salotti borghesi e bassifondi, tra radici e slanci. Abbandona la sua postazione sopraelevata per correre, affamato, incontro a una città i cui lati selvaggi, tuttavia, sono raccontati con discrezione. Solo e circondato da altri passanti senza pace, Pierpaolo scandaglia i coni d'ombra anche a rischio di perdere le chiavi per rincasare. Poco amabile, si arrovella e qualche volta si arrende. Ha una vita interiore ricchissima e una vita sociale, al contrario, sconfortante. Perfino la sua ricerca spasmodica dell'intimità, nonostante tutto, è pervasa di terrore. In tenuta da jogging, corre o forse scappa via. Pierpaolo somiglia a me. Pavido e un po' frustrante, mi è simile negli atti mancati, nell'indecisione e nelle contraddizioni. A tratti l'ho trovato sgradevolissimo, ho dissentito con le sue (non) scelte e con la piattezza della sua routine, ma nel farlo nascondevo la coda di paglia: ho gli stessi difetti, infatti, che imputo a lui. Chi si prenderebbe la briga di scrivere un romanzo nudo e crudo su qualcuno come me, come noi, senza abbellimenti retorici né licenze poetiche?

Era questa l’idea che avevo dell’amore: una predestinazione. Nulla a che vedere con quell’impazienza che mi spingeva da un quartiere all’altro, in casa di persone che non conoscevo. Mentre il desiderio dei miei genitori era cresciuto come una pianta al sole, io andavo in giro a chiedere conferma del mio al primo che passa.

Il coraggioso si chiama Gianluca Nativo, esordiente bravissimo classe 1990, che in medias res ci mostra Pierpaolo in un vicolo cieco: mentre sta per scrivere una nuova pagina della propria esistenza – in macchina con un ragazzo, finalmente, sta per abbracciare la propria sessualità tormentata –, viene interrotto dalla polizia. La sua famiglia reclama attenzioni. Mentre il padre è costretto ai domiciliari, Pierpaolo approda timidamente sulle app d'incontri. Con uno stile signorile e pudico, mosso però da un'innegabile urgenza sotterranea, l'autore segue gli ansiti sommessi e la smaniosa curiosità di un anti-eroe sempre a spasso. Lungo via Toledo brama il contratto fisico, gli sguardi indiscreti, il tocco spinto dei borseggiatori. A differenza di Latte arcobaleno, la cui carnalità irrefrenabile appariva a tratti elettrica, Il primo che passa si concede rapporti occasionali, un sottobosco di figuranti anonimi e una sola costante: Elia, un libraio ospitale e affettuoso di cui Pierpaolo ricerca il calore a momenti alterni. Fedelissimo allo spirito del suo protagonista – poco avventuroso –, il romanzo sceglie un taglio realistico e non si concede colpi di testa neanche nell'epilogo: benché narrativamente piatto, è la riprova di come Nativo sacrifichi tutto – perfino le simpatie del lettore – per aderire con coerenza agli andirivieni di un protagonista teneramente imbelle. Sospeso tra essere e dover essere, il giovane Tammaro è un animale a sangue freddo in attesa che arrivi la stagione del proprio amore. Intanto, come il ragazzo ritratto in copertina, scaccia via il torpore strofinandosi forte gli occhi. Inconsapevole che perfino la dolorosa ricerca di un habitat naturale possa diventare materia per un romanzo, nelle mani di un madrelingua che conosce tutte le sfumature della parola appocundria.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Madame – Sciccherie

lunedì 26 aprile 2021

Recensione in anteprima: Love After Love, di Ingrid Persaud

 
| Love After Love, di Ingrid Persaud. Edizioni EO, € 18, pp. 453 |

Quando stai per iniziare un romanzo di oltre quattrocento pagine ci pensi due volte, soprattutto se sai che lo leggerai nei ritagli tra una lezione e l'altra o in bilico sui mezzi pubblici. Ma Love After Love – in uscita il 28 aprile – a sorpresa è stato un'ottima idea. Inizialmente approcciato con titubanza, è stato un balsamo durante le mie prime settimane da pendolare. Intristito dal cattivo tempo che sembrava seguirmi dal finestrino, stanco per le levatacce e la routine un po' frustrante, ho presto trovato pace grazie all'esordio di Ingrid Persaud. Seduto al mio posto, aprivo il romanzo nell'andirivieni e subito mi scoprivo sollevato. Leggerlo, infatti, è come sbirciare i personaggi della tua sitcom preferita all'opera; un accoccolarsi nella comfort zone per trovare momentaneo riparo da un trantran a cui fatico ad abituarmi. Sfaccettato, energico e vitale, racconta la storia di tre solitudini in cerca della propria identità. Mostrati nell'avvicendarsi degli anni e degli amori, fuori posto, i personaggi formano una bellissima famiglia indipendentemente dai legami di sangue.

Certi giorni è dura portarsi sulle spalle il proprio sacco di cacao. È per questo che ci sono gli amici.

Siamo a Trinidad, un'isola dei Caraibi. Le acque sono cristalline, il rum scorre dolce come il miele, gli orti ospitano frutti e aromi, le cucine profumano di coriandolo. Laggiù si crede nel malocchio e si elevano offerte a Kali; si celebrano matrimoni lunghi tre giorni ed è possibile assaggiare deliziosi panini allo squalo. Ma l'ambientazione esotica nasconde però lati oscuri: criminalità alle stelle, malasanità, omofobia. In un modo o nell'altro tutti i personaggi hanno conosciuto entrambi i volti di Trinidad: quello accogliente e quello spietato. Mamma single, Betty è una buona cristiana che educa il suo unico figlio a rispettare il prossimo: vedova inconsolabile agli occhi degli altri, in realtà ha accolto con sollievo la morte del marito, un tiranno che l'ha resa a lungo vittima di violenze fisiche e psicologiche. Chioccia orgogliosa e volitiva, si sente sola anche in compagnia di altri uomini e cerca l'equilibrio ora sui siti d'incontri, ora nella religione. Finché non affitta una stanza a Mr Chetan: ripudiato dalla famiglia d'origine e divorato da un ingiusto senso di colpa, il maestro di matematica è una presenza rassicurante a cui i più negano la luce del sole. Omosessuale, esplora in ritardo la propria sessualità e, circondato dal calore di casa Ramdin, per la prima volta ripensa a un vecchio amore d'infanzia. In mezzo ai due, legati dall'alchimia delle coppie più longeve, siede il piccolo Solo: all'inizio del romanzo bambino silenzioso, poi adolescente ribelle in fuga a New York, il figlio di Betty è forse il personaggio più commovente all'interno di un cast già memorabile di per sé. Ospite dello zio paterno, combattuto tra risentimento e nostalgia, vive anni oscuri e irrequieti in un'America senza grandi sogni: struggente, tormenta il suo corpo con l'autolesionismo per dare voce a un antico dolore.

La tua terra. È importante. La tua terra è dove è sepolto il tuo cordone ombelicale.

Ambientato in più di un decennio, Love After Love è una commedia generazionale densa, irresistibile e malinconica, che sta accanto ai suoi personaggi sempre: nella buona e nella cattiva sorte, nel cicaleggio irresistibile e nel silenzio angosciante dell'abbandono, quando fa bene e quando infine fa male, malissimo. È uno di quei romanzi sulla ricerca della felicità che a tradimento, inaspettatamente, ti sferrano una stiletta tra l'anima e il corpo. Ma è impossibile avercela con loro, perché sono talmente calorosi e gentili che si fa fatica a non adorarli. Perché, con i loro dialoghi cinematografici e lo stile colorito (ho qualche dubbio sulla traduzione italiana, a tratti eccessivamente colloquiale), non pesano mai. Perché hanno la premura di porti domande su domande, senza mai apparire indiscreti. Ad esempio: come stai, ti sei forse smarrito? Dov'è la tua casa? Senza attendere risposta, all'ultimo, ti aprono la porta. Sull'uscio abbracciano forte te, che ti senti un viandante. E tagliano fuori un'isola di magie, misteri e orrore, che vista dalle finestre della famiglia Ramdin incute per fortuna meno timore.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Bob Marley - One Love