Visualizzazione post con etichetta Romanzo epistolare. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Romanzo epistolare. Mostra tutti i post

giovedì 4 giugno 2020

Recensione: L'invenzione di noi due, di Matteo Bussola

| L’invenzione di noi due, di Matteo Bussola. Einaudi, € 17, pp. 216 |

Non l’ho mai letto ma allo stesso tempo lo leggo da sempre. Matteo Bussola è una delle voci più fresche e piacevoli dei social – sotto ogni suo post Facebook troverete puntualmente un Mi piace del sottoscritto – ma finora non mi aveva tentato in libreria. Aspettavo il primo romanzo ufficiale. Aspettavo una copertina bellissima, unita a una trama altrettanto adorabile. La famosa fase due mi ha fatto questo regalo.
Certo, un conto è apprezzarne i testi scritti per i social e un conto scoprire che lo stesso stile, sul lungo tratto, è oggettivamente lontano da me. Certo, qualche ammiccamento al pubblico della rete c’è, tra citazioni sparse e frasi a effetto. Però, gusti o non gusti, a volte le storie procedono spedite come treni oltre i confini della nostra comfort zone. E questa commedia dolce-amara, sulla scia del Cyrano, mi ha stretto il cuore in una morsa. Con tanto di colpi di scena, nell’ultima parte, e di epilogo non scontato. Perfino parlare d’amore diventa originale se, come in questo caso, ci si concentra sulle coppie che vengono raccontate di rado: non quelle nascenti né quelle in crisi, ma quelle sposate da un sacco, che vivono nel limbo sonnacchioso della routine coniugale. Si parla di un amore maturo, tra quarantaseienni, e con mezzi non sempre leciti si tenta di ravvivare la proverbiale scintilla. O reinventarsi è una prerogativa che spetta soltanto ai giovanissimi?

Questa è la storia di come tramutai l’amore in cenere e poi la cenere, di nuovo, in amore. La prima cosa fu il mio sbaglio. La seconda, la mia colpa.
Siamo a Verona, la città degli innamorati sfortunati. Milo, architetto diventato cuoco per necessità, ha un discreto passato da dongiovanni a dispetto dei chili di troppo e una cura esemplare dell’orto, nonché della moglie Nadia. Scrittrice umorale e anticonformista, di quelle che si bastano anche senza figli, la donna insegue il romanzo definitivo e a volte è così distratta da saltare i pasti. Lui, perciò, la accudisce con Tupperware pieni di bontà. Mentre Milo è poco sognatore, Nadia lo è troppo. Ormai agli antipodi, in una casa che sembra la torre di Raperonzolo, possono vivere di abbastanza? In un tentativo disperato, l’ultimo dei romantici si concederà un colpo di testa in memoria del colpo di fulmine nato scrivendosi sui banchi di scuola: fingersi uno sconosciuto, Antonio, e inoltrare una serie di email alla moglie. Lei gli risponderà credendolo qualcun altro. Il tranello li farà riavvicinare o, al contrario, li allontanerà per sempre?

Mi definiscono una persona riservata, ed è abbastanza vero. Lo dicono quasi fosse un limite. Io, al contrario, ho sempre pensato alla riservatezza come a una specie di regalo. Riservare qualcosa ha a che fare col tenerlo in serbo per qualcuno, una bottiglia di vino, oppure una parte fondamentale di noi. Quando conobbi Nadia, compresi per chi avevo tenuto in serbo la mia.
La seconda prima volta dei protagonisti, filtrata dal computer, permetterà loro di guardarsi finalmente dell’esterno. Perché è più facile parlare a cuore aperto a un estraneo, e i social ne sono l’esempio. Ode alla scrittura, allora, che regala uno spettro di infinite possibilità; che centra, mette a fuoco, dà una migliore visione; che favorisce le inversioni di ruolo, ancora, gli scandagliamenti psicologici, l’empatia. Vittima della nostalgia, Milo qui si concentra sul presente. E persiste nonostante i difetti, gli inestetismi, gli sbadigli – nonostante scriversi significhi tradirsi –, spinto da un romanticismo commovente perché declinato eccezionalmente al maschile.
Diviso tra fantasia e amara verità, Matteo Bussola riempie il romanzo di riferimenti popolari, ironia e saggezza. Seguendolo virtualmente e sapendolo sposato con l’autrice Paola Barbato, maestra del genere thriller, è impossibile poi non scorgere un vago autobiografismo di fondo quando si parla della passione febbrile del mestiere di Nadia. Anche se è finzione, insomma, L’invenzione di noi due si legge con la curiosità e la tenerezza con cui spieremmo un interno domestico dalla soglia della porta. Gli riconosco, a modo suo, un’insospettabile originalità. L'autore descrive benissimo il logorio di quelle convivenze spiegazzate e stanche, senza più sorprese, di cui la narrativa d’intrattenimento non osa parlare per paura di far vivere ai lettori le stesse noie della coppia ormai datata. Quando, davanti alla bellezza del realismo e delle nostre ordinarie imperfezioni, non serve inventare. Questo romanzo lo prova. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ex-Otago – Solo una canzone

venerdì 18 gennaio 2019

Recensione: Epiche, amiche e innamorate, di Chiara Bernocchi

| Epiche, amiche e innamorate, di Chiara Bernocchi. Bookabook, € 11, pp. 130 |

Il mio amore per il mito è nato ufficialmente dieci anni fa, il giorno in cui ho varcato il portone del Liceo Classico per la prima volta, ma in realtà non è del tutto esatto: l'ho nutrito, infatti, sin dall'infanzia. La videocassetta consumata di Hercules e le repliche dello sceneggiato dell'Odissea su Italia Uno hanno avuto un ruolo decisivo nella scelta di quel percorso umanistico – una scuola difficilissima, mi si diceva, e una carriera in forse all'università – che, a oggi, non ho ancora concluso. Ci ho ripensato in questo periodo per una congiunzione astrale di esami da dare a breve (Letteratura greca), ricorrenze malinconiche (il decennale dell'iscrizione al quarto ginnasio) e buone letture (altra chicca firmata Bookabook, altro esordio ragguardevole): alla fatica mista a soddisfazione delle versioni da tradurre, all'attaccamento crescente a un dizionario ormai rovinatissimo, ai segreti millenari di una lingua aspra ma incredibilmente romantica. Una delle poche, come ci ricordava la prof, ad avere il duale: il numero degli amanti. Mi sono approcciato con il vento a favore, dunque, al romanzo epistolare di Chiara Bernocchi: una serie di lettere firmate dalle eroine del mito, donne a volte inermi e altre battagliere per colpa dei dardi di Cupido, che si raccontano in prima persona. 

L'amore non è né una favola né una tragedia: è quel che sta nel mezzo.

Qualcosa di simile, forse ricorderete, l'aveva fatta anche Ovidio nelle Eroidi: prestare la voce alle fanciulle abbandonate, alle spose incattivite, in epistole indirizzate agli uomini colpevoli del loro disfacimento emotivo. La Bernocchi percorre una strada alternativa: una reinterpretazione al tempo della solidarietà femminile, del movimento #metoo, che rimoderna senza stravolgere. Eccezionalmente le eroine più famose figurano qui come mittente e destinatario: si confidano con altre compagne di sventura, si svelano pian piano, si raccontano fra loro. Non sono nascoste nell'ombra, non sono figure passive e, soprattutto, non sono affatto sprovvedute. Didone scrive ad Arianna: quanta infondatezza c'è nella favola dell'anima gemella e quanto giova all'autostima la solitudine? Psiche ha fatto a occhi chiusi di Amore la luce dei suoi occhi, al punto da accettare la condizione di prigioniera e la lontananza dalle sorelle; sull'isola della ninfa Calipso, al contrario, è eternamente giorno, ma questo non basta a trattenere Ulisse, in procinto di salpare alla volta dell'indimenticata Itaca. Da un lato e l'altro della barricata, forse preso vedove, le meravigliose Andromaca e Penelope condividono preoccupazioni per i rivali Ettore e Odisseo: che le amano, ma meno del loro onore da difendere; non a sufficienza per rinunciare ai loro folli voli. Dafne fugge Apollo, Eco insegue Narciso. Medea e Deianira, assassine a malincuore, si scambiano i retroscena dei rispettivi piani di vendetta e contro i compagni che hanno voltato loro le spalle sguainano coltelli affilati.

Non provo solo dolore e incredibilmente non sono sopraffatta dalla rabbia. Nostalgia credo che si possa definire quello che provo. Un tenero ricordo di quello che è stato e che non sarà più, misto a un po' di dispiacere per quello che avrei voluto che fosse ma che non sarà. Si può essere ugualmente nostalgici del passato e del futuro?

Nonostante l'ordine della raccolta mi abbia provocato un po' di disappunto – troppo spazio alla vicenda già nota della maga della Colchide a dispetto dei personaggi minori, troppa tragedia in una chiusa per cui al posto dell'editor avrei scelto un messaggio migliore –, le narratrici che si avvicendano si confermano grandi padrone di casa. L'affascinante gineceo di Chiara Bernocchi è animato dai sussurri di queste principesse ribelli e da una scrittura di nettare e ambrosia. Coltissima, bene attenta agli epiteti, ai patronimici e ai toponimi, l'autrice emoziona gli appassionati con una godibile ricercatezza: per via degli stimoli sopravvissuti perfino al tramonto dell'adolescenza, grazie una narrativa rétro il cui sogno è omaggiare rinnovando. La Grecia non è grande abbastanza per tenere separate in compartimenti stagni le amanti sedotte e abbandonate, le Immortali dal cuore spezzato, le speranze mal riposte. Le amiche del mito si invitano perciò alle reciproche nozze, ai banchetti luculliani, sulle scene del delitto, e invitano noi all'orgoglio e alla resilienza. 
Didone scende dal piedistallo, Arianna spezza il suo filo rosso, Psiche accende la luce, Calipso predispone venti benevoli, Penelope offre riparo alla mamma del piccolo Astianatte. Qualcuna si trasforma in una pianta di alloro per sfuggire a un paio di mani lunghe, qualcun'altra vola su un carro trainato dai serpenti verso un'espiazione impossibile.
Donne per cui le guerre scoppiano e donne per cui le guerre dovrebbero finire. Donne per cui gli aedi e i rapsodi dovrebbero rispolverare le cetre e l'endecasillabo, cantare ancora.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Mia Martini – Piccolo uomo

sabato 24 novembre 2018

Recensione: Ora che il tempo non vola più, di Lorenzo Arrais

| Ora che il tempo non vola più, di Lorenzo Arrais. Bookabook, € 11, pp. 124 |

Quando mi sono avvicinato per la prima volta al catalogo Bookabook, l'editore milanese che per i prossimi ottantotto giorni darà alla mia storia dal destino ancora in forse una bella vetrina online (a proposito: tutti i romanzi sono a metà prezzo fino a domani), mi è venuto naturale avvicinarmi a un autore della mia età: tanta, infatti, la scelta; troppi i generi. Nel palmo della mia mano, allora, ecco la sola bussola della solidarietà anagrafica. Ho letto l'esordio di Lorenzo Arrais, classe 1994, nel dubbio impellente; a scatola chiusa. Un volume sottile ed elegante, poche pagine e, in parte come nel caso del mio Malanotte, una narrazione epistolare: sempre lettere aperte, ma non a una catastrofe bensì a Mandorla. La ragazza – non di pura finzione, ho immaginato – colpevole di avere donato al narratore i migliori sorrisi e di averli richiesti poi indietro con interessi da usuraio. 
Non importa chi. Non importa quando. Non importa perché. Conta soltanto il come. Lui e lei, studenti di Medicina passati in un lampo dai ripassi insieme alla convivenza da innamorati, si sono lasciati. L'uno porta un nome puntato, l'altra quello di un seme. Sono gli anni dell'università, delle ultime ribellioni, dei primi sogni spariti con il sopraggiungere dell'alba. Forse c'entra un tradimento commesso da una giovane caustica e irrequieta, forse è colpa di un eterno romantico più bravo in teoria che in pratica. Dettagli inesistenti perché, in fondo, ininfluenti.

Da quando sei volata via il mio tempo non vola più, non riesco più a sentire il tic-tac dell'orologio, quel rumore che odiavi così tanto e che il destino beffardo ha voluto zittire nello stesso istante in cui i tuoi passi hanno smesso di fare eco dentro casa, ma non dentro di me.

Ci si preferisce concentrare sulla sofferenza del dopo, sui postumi di una sbornia d'amore. Brutto andare in giro senza meta, di notte; peggio ancora stare a casa in solitudine aspettando che qualcuno ci raggiunga nel letto dalla porta del bagno semiaperta. Si ripensa al primo incontro, si tenta di ricordare l'ultimo bacio. Soprattutto, si scrive – su un muro con il pennarello nero, sulle superfici umide con il polpastrello dell'indice, sull'agenda Moleskine che spunta puntualmente dal camice stirato di fretta. Quello che non saranno più, le parole che avrebbero voluto ma alla fine non si son detti, i segreti per imparare a farne a meno, il pensiero di temprare la volontà smettendo di fumare, le bugie rivolte a una lontananza da ingannare con messaggi mai inoltrati. Fragile, empatico e naturalmente inadeguato davanti alla felicità, L. non butta gli oggetti rotti, piange con Bambi alla tivù, aiuta sconosciuti con le buste pesanti della spesa. Pensa al futuro, suo chiodo fisso, a costo di non godersi il presente. Dice di sognarsi scrittore per vivere per sempre e specialmente per parlare con lei, Mandorla: che l'ha sbriciolato come fosse un croissant e ormai vive in lui, di parole e basta. E non si perdona, no, nell'incapacità di nutrire rancore verso di lei – che forse dalla sua torre d'avorio non soffre né lo pensa, almeno non quanto lui.

Ogni mattina ci promettevamo che la volta dopo saremmo rimasti a letto, al caldo del nostro piumone a fare l'amore tutto il giorno. Adesso invece mi basterebbe che tu tornassi a prepararmi la colazione, ché ho finito anche la marmellata. Torna e usa la marmellata che vuoi, anche quella di agrumi, non mi importa. Però torna.

Riflessivo e romantico, con un linguaggio un po' social che fa pensare a Chiara Gamberale, Arrais propone uno struggimento per voce sola che non si fa mai dialogo eppure riesce magicamente a interloquire con i lettori. Perfino con il sottoscritto, che di rado si lascia intrattenere da questi flussi di coscienza; che da bravo razionale pretende il più delle volte una vicenda che abbia inizio, svolgimento, fine. Facilitano la lettura i capitoli agili, passi da leggere a voce alta per meglio farli propri, una schiettezza che anche in mancanza della nota biografica mi avrebbe fatto riconoscere Lorenzo come figlio della mia stessa generazione. Ora che il tempo non vola più ha due protagonisti appena: i nomi fittizi, un background semisconosciuto, un prosieguo sentimentale incerto. Non è un romanzo epistolare, non è una storia d'amore: non in senso stretto almeno. Ma resterà forse la lettura più giusta nell'attesa che il tempo di noi, eterni romantici, riprenda a scorrere. Rendendo finalmente l'innamorarsi legale, in questa eterna ora solare.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Thegiornalisti – Senza

lunedì 25 aprile 2016

Recensione: Storia di un postino solitario, di Denis Thériault

Ma soprattutto c'erano lettere d'amore. L'amore restava il più comune dei denominatori, il tema che conciliava quasi ogni penna. L'amore declinato in tutti i tempi e in tutti i modi...

Titolo: Storia di un postino solitario
Autore: Denis Thériault
Editore: Frassinelli
Prezzo: € 16,90
Numero di pagine: 170
Sinossi: Chi non ha mai sognato, almeno una volta, di vivere la vita di qualcun altro? Lirico e avvincente, emozionante e delicato, Storia di un postino solitario è davvero un piccolo gioiello, e un non più piccolo caso editoriale, dal momento che – pubblicato per la prima volta in Canada nel 2004 – il romanzo ha conquistato, un lettore alla volta, un sogno alla volta, il palcoscenico dell'editoria mondiale. Il « postino solitario » è Bilodo, 27 anni, un ragazzo schivo, con pochi amici, appassionato e dedito al suo lavoro, lavoro che gli permette di trovare nelle vite degli altri quello che manca nella sua. Bilodo infatti è un postino indiscreto, per quanto assolutamente innocuo: apre, di notte, le lettere che dovrà distribuire il mattino successivo, e si immedesima nelle esistenze dei corrispondenti. Immagina, fantastica, sogna; si appassiona, si commuove, si arrabbia. Tra tutte, le lettere che più è ansioso di «ricevere», sono quelle di Ségolène, una donna misteriosa che vive in Guadalupa, e che manda degli «haiku» – i caratteristici componimenti poetici giapponesi – a Gaston Grandpré, una delle persone servite da Bilodo, che di Ségolène, in qualche modo, si è innamorato. Quando, a causa di un incidente, Gaston morirà, proprio sotto gli occhi di Bilodo, il giovane postino non riuscirà a rassegnarsi alla perdita di quei componimenti che ormai sente in qualche modo come «suoi», e si sostituirà a Grandpré nella corrispondenza con Ségolène . E non soltanto in quella.

                                                  La recensione
Bilodo, ventisette anni, ha uno strano nome e, se possibile, un hobby ancora più strano. Malinconico cronico, apparentemente asessuato, con la testa fissa lassù tra le nuvole, è un postino a tempo pieno e nel suo monolocale smista la posta, in previsione del mattino successivo. Qui, con l'aiuto del vapore, apre le lettere, le legge, poi le richiude come se nulla fosse. Si diverte, si arrabbia e si commuove, intrufolandosi nelle vite degli altri. Entra ed esce, discreto. Ma se di una vita, di una coppia, non riuscisse più ad abbandonare la metaforica soglia? 
Bilodo s'innamora perdutamente della penna gentile di Sègolene, bella isolana: ecco un suo primo piano, in una foto rubata, ed ecco che così non smette di pensare notte e giorno a lei... Il suo rivale in amore, scapigliato e misterioso, viene investito davanti allo stesso Bilodo, affastellandosi in strada per imbucare una lettera decisiva. Muore sul colpo, sotto la pioggia. Il protagonista, un po' tenero e un po' sinistro voyeur, dal defunto eredita le briglie della corrispondenza e un appartamento ammobiliato in stile orientale in Rue des Hetres. Passeggia tra i beni che nessun parente ha reclamato per sé e, esperto di grafie, tenta di ingannare la sua lei come può, ma c'è un ma grosso quanto una casa. Bilodo sarà sì l'ultimo dei romantici, ma non ha l'indole del poeta. Per fortuna, c'è un kimono appeso a una gruccia che può far faville. E la curiosità, imperitura, lo spingerà a documentarsi, a leggere, a ricercare. Si possono imparare i segreti della scrittura, nel nome dell'amore? Può a una passione aggiungersene all'improvviso un'altra? Storia di un postino solitario, ultima uscita di un editore che raramente fa passi falsi, presenta due aspetti che in teoria amo, ma che in pratica non mi arrivano: la connaturata delicatezza della lingua francese, l'affascinante spiritualità della poesia nipponica: troppo trasognati i francesi, troppo algidi gli autori con gli occhi a mandorla. A questo, però, aggiungete la cornice dei rossi autunni canadesi, un eroe indiscreto ma a fin di bene, una musa celebrata come nello Stil novo, due comprimari simpaticissimi – l'amico Robert, la cameriera a cui il postino ha infranto il cuore – e, tra un haiku e l'altro, gradualmente, un sentimento che da spirituale si fa carnale. 
Da platonico, può l'amore diventare vero? Può un appuntamento tra un impostore e una donna ignara dello scambio di identità perpetrato avere il lieto fine? Uscito dodici anni fa in patria e straordinario successo del passaparola, il romanzo di Denis Thériault è una sofisticata sorpresa franco-canadese che, dalla sua, ha un'idea curiosa per un curioso protagonista e uno stile leggerissimo. Fiabesco, quasi, con poche pagine, rari dialoghi e aggettivi à gogo che non lo appesantiscono neanche per un attimo, anzi. Uno spunto d'altri tempi e, in mezzo ai brevi componimenti poetici già apprezzati durante la lettura di Il canto delle parole perdute, il disegno di un anello che somiglia al serpente che si morde la coda di Nietzsche. Simbolo d'eterno ritorno per il filosofo tedesco e "enso" per il buddhismo zen, è infatti l'ultimo segreto di un racconto a spirale carinissimo, molto francese, a cui con la scusa degli haiku, con il pretesto della suggestione, si aggiunge una chiusa shock. 
Un colpo di scena repentino, dopo languidi colpi di cuore. 
Come a dire che c'è una magia sottile nell'amore incorporeo tra Bilodo e Sègolene, e che la magia chiama magia. E se la lingua più delicata incontra i culti più suggestivi, se i protagonisti dicono di sì a un appuntamento faccia a faccia, non c'è freno al sogno.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Please, Mister Postman

mercoledì 3 dicembre 2014

Recensione: Avrò cura di te, di Massimo Gramellini e Chiara Gamberale

Trovarsi rimane una magia, ma non perdersi è la vera favola.
Titolo: Avrò cura di te
Autori: Massimo Gramellini, Chiara Gamberale
Editore: Longanesi
Numero di pagine: 200
Prezzo: € 16,00
Sinossi: Gioconda detta Giò ha trentacinque anni, una storia familiare complicata alle spalle, un'anima inquieta per vocazione o forse per necessità e un unico, grande amore: Leonardo. Che però l'ha abbandonata. Smarrita e disperata, si ritrova a vivere a casa dei suoi nonni, morti a distanza di pochi giorni e simbolo di un amore perfetto. La notte di San Valentino, Giò trova un biglietto che sua nonna aveva scritto all'angelo custode, per ringraziarlo. Con lo sconforto, ma anche il coraggio, di chi non ha niente da perdere, Giò ci prova: scrive anche lei al suo angelo. Che, incredibilmente, le risponde. E le fa una promessa: avrò cura di te. L'angelo ha un nome: Filemone, ha una storia. Soprattutto ha la capacità di comprendere Giò come Giò non si è mai compresa. Di ascoltarla come non si è mai ascoltata. Nasce così uno scambio intenso, divertente, divertito, commovente, che coinvolge anche le persone che circondano Giò. Uno scambio che indaga non solo le mancate ragioni di Giò: ma le mancate ragioni di ognuno di loro. Perché a ognuno di loro, grazie a Filemone, voce dell'interiorità prima che dell'aldilà, sia possibile silenziare la testa e l'istinto. Per ascoltare il cuore. Anche e soprattutto quando è chiamato a rispondere a prove complicate, come quella a cui sarà messa davanti Giò proprio dal suo fedele Filemone, in un finale che sembrerà confondere tutto. Ma a tutto darà un senso.
                                   La recensione
"Che ci faccio con i miei libri, se non c'è Leonardo che si addormenta vicino a me e russa prima piano e  poi forte, mentre leggo? Ma che ci fa lui, con i miei libri, se ormai ha deciso e se ne sta, per sempre lontanissimo, in quel lì che un tempo era il nostro qui?"
I bilanci, i resoconti, gli esami di coscienza. Si fanno a San Valentino, quando non si dovrebbe stare soli, eppure è così che vanno le cose. Catastroficamente. L'amore è finito e, nel giorno della festa degli innamorati, ti chiedi di chi sia la colpa - tua, sua, vostra, nostra? - nella stanza da letto che i tuoi nonni divisero per sessant'anni, tra vestiti da sposa impolverati, cassetti che comunicano con l'eterno, sos che aprono finestre celesti per Chissà Dove. I bilanci, i resoconti, gli esami di coscienza, invece, io li faccio guardando un calendario a cui resta una pagina soltanto. Sopra, quella pagina, ha i segni delle penne che, sulle pagine precedenti e nei mesi precedenti, hanno scarabocchiato segnacci rossi sui giorni d'esame, un asterisco sui giorni belli, una croce sui giorni brutti. Sulla pagina di dicembre si vedono le orme di quello che ho fatto, le cicatrici di trecentosessantacinque giorni (meno ventotto, però, perché oggi è tre; quindi quanto fa?) passati. Vediamo. Mi dicono che con gli occhi e la testa ho letto un po' di libri. Un po' più degli altri anni, quando non c'erano gli esami. Tra i manuali e le dispense, però, mi sono goduto anche tanti romanzi e ho parlato a voi di tutti tutti, nessuno escluso. In mezzo a questi, ed esclusivamente nella categoria belli, anche se oscillanti spesso verso la bella categoria boh, più di qualcuno portava la firma di Chiara Gamberale. Un'autentica scoperta di serenità, la sua compagnia. Parlavo di Fabio Bartolomei, l'altro giorno, di angeli e Lezioni in paradiso e dicevo così, per scherzo, che un'amica o due avrebbero dovuto avere le percentuali sulle vendite: ne parlavano sempre, tanto, e a tutti. Con me è successo lo stesso con Chiara che, coincidenza curiosa, questa volta torna e pure parla di angeli. Di angeli, con gli angeli. Il suo amico alato si chiama Filèmone, non puoi vederlo, e ha la voce di Massimo Gramellini: lo conoscevo di fama, lui, ma l'ho incontrato per la prima volta qui. La Gamberale ci ha presentati. Con lei, l'autore di Fai bei sogni scambia lettere, creando una magica storia epistolare. 
Pubblica la Longanesi. E' Chiara colei che viene ospitata, Massimo ormai è di casa. Mi sento di chiamarli per nome, come due amici, e mi sento di dire che a me è piaciuta di più lei, sarà che lei mi piace sempre. Ma onestamente. Fresca, spumeggiante: lei la riconosci. La sua Gioconda è un casino e ha tagliato i ponti col suo Leonardo prima che potessero creare capolavori di bambini e pensare a capolavori di mete condivise. Lui, invece, è astratto, poetico, etereo e saggio. Scrive belle frasi e sa ricercare l'aforisma perfetto in un mondo di amori imperfetti, ma io il linguaggio degli angeli e quello dei poeti non sempre lo capisco. Mi piace il suono che fa. Ha il ritmo di una canzone. Ma io sono un disastro e delle canzoni, a un primo ascolto, non faccio caso al testo. Batto il tempo coi piedi e mi faccio convincere la volta dopo, quando la radio tornerà a far sentire il brano. Gramellini ha il ritmo e anche i contenuti, indubbiamente, ma una forma, tutta suoni e palpiti, che mi distraeva un po'. A coloro che sono più sensibili alla melodia, al contrario, dovrebbe incantare. Chiara, invece, ha il profilo storto dell'angelo custode che vorrei. Un angelo più confuso e indisciplinato di me, con un'ala stropicciata. Non so, in caso, chi custodirebbe chi. Lei scrive sempre la stessa storia, sempre con gli stessi personaggi: come lei sa. Le sue creature – le donne melodrammatiche e gli uomini Ipad, i parenti nevrotici e i mariti che a volte ritornano, le maestre e i guru orientaleggianti – parlano tra loro, come nel cinema di Ferzan Ozpetek. Si ripetono i nomi, si ripetono i ruoli. Tutta la bibliografia di Chiara non è che un lungo, ininterrotto romanzo di gente media con un sentire poderoso: XXL. Fotografa le loro facce e i loro talismani, sviluppa i rullini, mette ad asciugare le stampe su una corda sfilacciata, insieme ai calzini a righe rosse. Volteggiano, intorno, le piume di un Gramellini lieve, impalpabile, candido che, come un attore in un monologo che gli sta a pennello, dà consigli e perle, incarichi e istruzioni per l'utilizzo della felicità, senza mai uscire dal suo personaggio di guida spirituale e grillo parlante. Parla all'imperativo, ha una risposta per ogni domanda. Ma è quando si rivela nostalgico come tutti i mortali che, per me, sfiora, non dico tocca – perché non ha mani, solo energia pulsante –, le corde giuste. Quell'angelo suonava il violino e sapeva perdonare il tradimento, prima di imparare a volare. Avrò cura di te è un racconto sotto l'albero di Natale che suona come una promessa. Ci ho iniziato insieme la settimana, e perché non iniziarci l'anno nuovo? Ce l'ho avuto sulle ginocchia in treno, col sole che sorgeva fuori. Mettendolo via solo nei tratti scuri, in galleria. Negli attimi in cui le luci, lente, non erano pronte ad accendersi a comando e potevo immaginare che alla fine del tunnel nella montagna ci fosse il sole. Mica la pioggia. E però c'era quella. Quella pioggerellina leggera, da primo dicembre, che rende le strade sapone e le mie Puma bianche immondizia. Ma con Avrò cura di te accanto è stato comunque un buon risveglio: nonostante tutto. Nonostante un Gramellini che inizialmente si lascia andare poco, impettito per colpa del ruolo di guru e del dono delle ali; nonostante la pioggia.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Avril Lavigne - Keep Holding On

venerdì 29 agosto 2014

Recensione: Le ho mai raccontato del vento del Nord e La settima onda, di Daniel Glattauer

Ciao, amici! Oggi, recensione "in coppia" per la duologia di Daniel Glattauer: Le ho mai raccontato del vento del Nord e La settima onda. Una lettura bella e inaspettata, per coloro che vogliono qualcosa di diverso, ma autentico. Ho apprezzato moltissimo il primo, leggermente di meno il secondo: e perché? A lungo andare, l'impostazione mi è sembrata monotona, quindi vi lascio con un consiglio. Non leggeteli, come ho fatto io, tutti di seguito. Aspettate un attimo. Vedrete che sarà un piacere ritrovare due vecchie conoscenze come Emmi e Leo. Un abbraccio. M. 
Scrivere è come baciare, ma senza le labbra. Scrivere è come baciare, ma con la mente.

Titolo: Le ho mai raccontato del vento del Nord
Autore: Daniel Glattauer
Numero di pagine: 192
Prezzo: € 8,50
Editore: Feltrinelli – Universale Economica
Il mio voto: ★★★★½
Sinossi: Un'email all'indirizzo sbagliato e tra due perfetti sconosciuti scatta la scintilla. Come in una favola moderna, dopo aver superato l'impaccio iniziale, tra Emmi Rothner - 34 anni, sposa e madre irreprensibile dei due figli del marito - e Leo Leike - psicolinguista reduce dall'ennesimo fallimento sentimentale - si instaura un'amicizia giocosa, segnata dalla complicità e da stoccate di ironia reciproca, e destinata ben presto a evolvere in un sentimento ben più potente, che rischia di travolgere entrambi. Romanzo d'amore epistolare dell'era Internet, "Le ho mai raccontato del vento del Nord" descrive la nascita di un legame intenso, di una relazione che coppia non è, ma lo diventa virtualmente. Un rapporto di questo tipo potrà mai sopravvivere a un vero incontro?

Titolo: La settima onda
Autore: Daniel Glattauer
Numero di pagine: 190
Prezzo: € 8,00
Editore: Feltrinelli – Universale Economica
Il mio voto: ★★★
Sinossi: Emmi e Leo: per chi ancora non li conosce, sono i protagonisti di un amore virtuale appassionante, che ha vissuto ogni sorta di emozione, a parte quella dell'incontro vero. Sì, perché dopo quasi due anni, Leo ha deciso di tagliare definitivamente i ponti con Emmi e partire per Boston, per ricominciare una nuova vita. Emmi non si dà però per vinta, e riesce nell'impresa di riallacciare i rapporti con Leo. Mentre lei è ancora felicemente sposata con Bernhard, per Leo in nove mesi le cose sono cambiate, eccome: in America ha conosciuto Pamela e finalmente ha iniziato la storia d'amore che ha sempre sognato. Si sa, però, l'apparenza inganna. Ritornano le schermaglie via e-mail che hanno tenuto col fiato sospeso i lettori di "Le ho mai raccontato del vento del Nord", e anche stavolta promettono scintille.
                             La recensione
Quanti anni ha? Com'è fatta? Non ne ho idea. Tra i 30 e i 40. Bionda, castana, oppure rossa. Mi scuote nel profondo, mi emoziona, a volte vorrei mandarla a quel paese, ma altrettanto volentieri me la vado a riprendere. Ho bisogno che sia nei paraggi.”
Come Theodore e Samantha, i protagonisti viaggiano su dimensioni parallele. La tecnologia li unisce, li fa chiacchierare a cuore aperto, ma quella lontananza elettronica è una barriera insormontabile. Vivono nella stessa città, ma non conosco il loro reciproco aspetto fisico: solo parole in chat, voci timide sussurrate nella segreteria telefonica. L'esordio di Daniel Glatteur è un Her in una dimensione possibile, ma fantascientifico neanche un po'. Come Jesse e Celine, i narratori sono un uomo e una donna che vengono da pianeti diversi. Giurano di incontrarsi in un caffè, un anno, il successivo e l'altro ancora. Si promettono amore eterno, ma qualcuno si presenterà davvero a quel fatidico appuntamento ai tavolini di un bar affollato? Avranno la forza di guardarsi in faccia? C'erano Prima dell'alba, Prima del tramonto, Prima della mezzanotte: vent'anni, tre film, due amanti invecchiati sotto gli occhi del regista Richard Linklater. A questo scrittore austriaco - che io ero testardamente convinto fosse francese e che immaginavo attorniato da due affiatati attori dalla regale cadenza british - bastano due libricini: quattrocento pagine. Infine, testardi e ciechi, migliori amici e confidenti, innamorati ed egocentrici, ci sono gli Emma e Dexter di Un giorno e, dove soffia un ventaccio che fa restare svegli, giusto al di là del mare, ecco spuntare Leo ed Emmi. Conoscevo quei due personaggi da dieci pagine e già mi andavano a genio: mi facevano pensare naturalmente a coppie irresistibili del cinema e della letteratura contemporanea, ed era cosa buona e giusta. Non sapevo com'erano fatti, eppure li avrei riconosciuti in un incontro al buio. Loro si conoscono per errore. Come quando, chissà perché, c'è un gioco strano di indici e anulari e, in una frase battuata al computer, ecco spuntare una lettera di troppo. Una cosa che non va. Leo è l'errore di Emmi. Lo conosce un po' per il gioco del destino, un po' per la rivalità tra due delle nostre dita preferite: l'anulare, dove va la fede nuziale; l'indice, con cui additiamo – sin dall'asilo nido – quello che ci piace o non ci piace. Si fanno gli auguri di Natale per email, si punzecchiano, e chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano. Leo, un professore universitario, vive di parole e di ex ragazze che vanno e vengono. Emmi, progettatrice di siti Internet, ha un pianoforte in camera da letto e un marito, due figli e un gatto al piano di sopra. La duologia del sorprendente Daniel Glattauer è un originale monologo in forma epistolare che diventa dialogo. 
Parlare, per loro, tra loro, è come parlare all'orecchio della coscienza. Le previsioni meteo: le tirano in ballo quando, bambini, girano intorno a un argomento importante. I segreti dell'altro sesso: giocano ad indovinarli. Le sveglie, abolite: si addormentano con il portatile accanto e, al mattino, è l'arrivo di una nuova email a destarli; un trillo che fa brillare loro gli occhi. Si danno il buon giorno e la buona notte. Si sognano intensamente. Pensieri fissi; pensieri erotici. Fare l'amore con una sconosciuta, al buio, bendati, come in un film di Bertolucci. Il loro sentimento telematico è costruito per bene nell'arco di due romanzi che ho letto d'un fiato. Li confondo. Non so dove finisca l'uno e inizi l'altro, giuro. Vediamo... Passano dal “lei” al “tu”. Dalla galanteria attempata al linguaggio di sempre. Da creature senza tempo, conoscono anche loro la quotidianità: la noia, il ripensamento, il rimpianto, l'instabilità. Quelle prime dichiarazioni alla Jane Austen, quasi, cedono il passo a conversazioni per punti in cui si dimentica a casa la poesia, ma non l'esistenza dell'altro. Redigono liste interminabili: lei usa i numeri, lui le lettere. Nel primo, lei glielo chiede: le ho mai raccontato del vento del Nord? 
Soffia fuori dalla sua finestra, e non si riesce a dormire, quand'è così. Il consiglio di Leo, tempestivo, è provare a coricarsi obliquamente. E come fare, poi, con la lampada? A Emmi serve per leggere, e senza leggere non riesce a prendere sonno. Lui le invia una prolunga, per scherzo, in formato doc: ci sono regali e regali. Nel secondo, allontanandosi, hanno cercato invano di dirsi addio. Emmi, in un luogo esotico e distante, sente gli abitanti del posto parlare di un'onda leggendaria, la settima, che è la più alta. Mangia la riva, contrasta l'acqua cheta, ti porta su. Arriverà mai? I due capitoli della loro relazione epistolare hanno uno stile che riconosceresti a colpo sicuro. Un realismo che, quando lo trovi, crea scintille di magia. Le loro conversazioni sono irriverenti, sagge, maliziose, dinamiche: terapia di coppia gratuita di una... non-coppia. Fanno ridere e fanno arrabbiare. Il romanzo ti tocca, tu provi a toccare il romanzo. A entrarci dentro. A raggiungerli e ghermirli, per far cozzare forte le loro teste dure: Vi piacete, ragazzi. Dai, datevi una mossa. Coraggio! Questo, forse, è il problema di La settima onda: averlo letto subito, mi ha reso intollerante nei confronti delle tante schermaglie che, sommate a quelle buffissime del precedente, sembravano ininterrotte. Io cracco i codici nascosti. Hackero i loro pensieri. Li ammanetto con il mouse, li lego a quel cordoncino che li incatena alla tastiera. Il laptop è una bocca spalancata in uno sproloquio da canaglia. I tasti sono i denti. E, da qualche parte, ci sarà anche un passaggio segreto che porta all'esile perfezione di Le ho mai raccontato del vento del Nord. Daniel Glattauer, con una sensibilità da fuoriclasse, ti fa credere a quello che leggi: carismatico affabulatore. Innaffia il romanticismo con whisky (per Emmi) e vino rosso (per Leo) e, anziché sulla scena del crimine del coma etilico, ti porta a osservare la proverbiale cecità dell'amore. Avete mai visto quei disegni che si compongono con le sole lettere dell'alfabeto, o anche con i numeri – perché l'arte mette pace tra la letteratura e la matematica? Piogge torrenziali di codici e sigle alla Matrix
Ditemi di sì. Chiudete l'occhio destro, poi il sinistro. Vedete? Formano le sagome di un lui e di una lei. Alla fine, pare si bacino. Con le parole. Con le labbra. 
Il mio consiglio musicale:  Robbie Williams & Nicole Kidman - Something Stupid 

domenica 15 giugno 2014

Una recensione e/è una lettera: Noi siamo grandi come la vita, di Ava Dellaira

Ciao a tutti, amici, e buona domenica! Altro post improvvisato. Questa strana recensione non era pensata per oggi, ma – questo pomeriggio – ho passato così le mie due ore di pausa dallo studio. Ho finito il romanzo d'esordio della Dellaira e l'ho consigliato, per lettera, ad un amico. Non ho resistito. Si parla di lettere e Charlie (qui il mio pensiero su Noi siamo infinito) le apprezza sempre. Lo so. Spero vi piaccia. Un abbraccio.
La verità è bella, non importa quale sia. Anche se fa paura, o se è brutta. E' bella semplicemente perché è vera. E la verità è luce. Ti rende più te. Io voglio essere me

Titolo: Noi siamo grandi come la vita
Autrice: Ava Dellaira
Numero di pagine: 313
Prezzo: € 16,90
Sinossi: Tutto inizia con un compito assegnato nei primi giorni di scuola: "Scrivi una lettera a una persona che non c'è più". E così Laurel scrive a Kurt Cobain, che May, la sua sorella maggiore, amava tantissimo. E che se n'è andato troppo presto, proprio come May. Per Laurel, la sorella era un mito: bella, perfetta, inarrivabile. Era il sole intorno a cui ruotava tutto, specie da quando i genitori si erano separati. Perderla è stato indescrivibile, qualcosa di cui Laurel non vuole parlare. Sulla carta, invece, Laurel si lascia finalmente andare. E dopo quella prima lettera, che non consegnerà all'insegnante, continua a scriverne altre, indirizzandole a Amy Winehouse, Heath Ledger, Janis Joplin e altri idoli della sorella scomparsa. Soltanto a loro riesce a confidare cosa vuol dire avere quindici anni e sentire di avere perso una parte di sé, senza nemmeno potersi aggrappare alla famiglia perché è andata in mille pezzi. Soltanto a loro può confessare la paura e la voglia di avventurarsi in quel mondo nuovo che è la scuola, la magia di incontrare amiche che ti fanno sentire normale e speciale al tempo stesso. Finché, come un viaggio dentro di sé, quelle lettere porteranno Laurel al cuore di una verità che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Qualcosa che riguarda lei e May. Qualcosa che va detto a voce alta: solo così Laurel potrà superare quello che è stato, imparare ad amarsi e trovare il coraggio di andare avanti.
                        Una recensione, una lettera
Caro Charlie, 
la mia prima lettera l'ho scritta a te, sicuro che fosse anche l'ultima. Apri la buca della posta, invece, e mi ritrovi lì. Un francobollo che viene dall'Italia, una busta color crema, la vita scritta sul foglio di un quadernone a righe. La verità è che pensavo non ci fosse più posto. Per una lettera, un'altra. Per persone diverse da te, Sam e Patrick, nella mia piccola infinità. Sono passati sei mesi: la metà esatta di un anno come un altro. Ti dissi che avrei ballato, ricordi? L'esistenza una balera affollata, un Capodanno da affrontare con Converse verdi che aspiravano a essere scarpe da tip tap, nell'ultima notte del mondo. Eroe per un giorno e basta. Mi conosci e sai che ti ho mentito. Te l'ho detto perché suonava bene. La promessa di ballare era la chiusura perfetta del mio messaggio. Una bugia per una lettera piena di verità: perché si sa che l'onesta mi fa paura, quand'è troppa. Mettiamole pure un limite. Quello, il motivo principale, e la mia naturale tendenza a dimenticare le cose. Come quando incontro una conoscente di mamma al supermercato, le dico che le darò i suoi saluti, ma mica lo faccio davvero. E chi ci pensa. Ho trovato un'amica e vorrei presentartela. Ti piacerebbe. Tu piaceresti a lei. Io poi sono la famosa prova del nove. Voi mi piacete entrambi, a me piace pochissima gente, dunque dovete piacervi tra voi. Per forza. Senza condizionale. Dovete. So che lo farerete. Si chiama Laurel. Laurel, questo è Charlie. Fate ciao con la mano, guardatevi. Se vi somigliate, non l'ho notato. Siete fratelli che non lo sanno. Siete parenti che non si somigliano. Nati in città diverse, in epoche diverse. Da semi diversi, ma da impronte uguali. Dio poi ha buttato lo stampino. I malinconici si riconoscono. Hanno una nuvola nera disegnata sulla testa. Voi siete un po' così. Mi siete piaciuti subito, perché anch'io sono un po' così. Sai, comunque, che anche Laurel scrive lettere? Le sue sono lettere d'amore perduto a buchi neri, a soli tramontati, a stelle collassate. Personaggi famosi che non hanno retto, talenti sprecati. La mia amica Laurel indaga sulla loro infanzia, le loro vittorie. Studia cosa avevano in comune loro, e i loro rispettivi addii all'esistenza. Scrive a Kurt Cobain, a Janis Joplin, a Amy Winehouse, a Judy Garland. Però per tutto il tempo pensa a May, sua sorella. Un'adolescente con una camera piena dei loro poster. Ci dormiva insieme. L'inclinazione alla tristezza nel sangue. Il destino dell'autodistruzione incorniciato al muro, accanto a poster dei Nirvana da fare in mille, minuscoli pezzi, ora che lei non c'è più. Laurel non si capisce. 
E' una astrologa di vite eclissate, una metereologa di acquazzoni di pianto e tempeste sentimentali. Fruitrice di musica, creatrice di musica. Lettrice di poesie, autrice di poesie. L'unica cura di sé stessa. Filosofeggia guardando Il cavaliere oscuro e Stand By Me, mentre tu - tra il terrorizzato e il divertito - guardavi Rocky Horror Picture Show, e pensa a come il mondo si sia rovesciato. A Batman che ha perso la sua amata e che è accusato di essere un criminale, al Joker di Heath Ledger che ha un'umanità e un ghigno che turbano, a River Phoenix che sarà sempre il bambino bello e ribelle della trasposizione cinematografica del miglior Stephen King. Così, "forever young". Invitala a pranzo, portala fuori. Niente di imbarazzante: lei porta i suoi amici, tu porta i tuoi. Che tipi che sono! D'altri tempi. Figli dei fiori mancati per un soffio. La coppia: Kristen e Tristan. Uguali e disugali. Lei studiosa, lui saggio e con l'ispirazione dentro, ma senza il coraggio reale di provare a scrivere qualcosa di suo. Hannah e Natalie potrebbero essere un'altra coppia, invece, solo che si amano e non lo ammettono davanti agli altri. Fumano, bevono; le scintille delle canne e le teste lucenti dei mozziconi di sigaretta come lucciole nel Vicolo. Il loro Quartier Generale: un Pensatorio frequentato da hippy degli anni duemila. Nei tuoi quindici anni succedeva qualcosa di simile. Te ne stavi sul divano rosso dello scantinato di Sam e Patrick, con le sigarette che fumavi, anche se non ti piaceva il loro sapore, e il silenzio dei tuoi diecimila pensieri. Da ragazzo da parete a ragazzo da parete, ti capivo. 
Laurel all'inizio non la mettevo bene a fuoco. Forse non l'ho messa a fuoco nemmeno adesso, ma ho imparato a farmela piacere ugualmente. Con i suoi misteri da giovane donna, con quelle lettere che non mi fa leggere. In foto non viene bene, non esce. Vive per conto suo, quasi dietro un vetro appannato: quando è inverno, piove e fuori fa freddo. La stanza è umida, le finestre rigate d'acqua piangono inconsolabili. Ti viene da disegnarci una cosa con il polpastrello, con l'indice: una faccia che sorride, un cuore sbilenco. Hai voglia di intaccare il gelo con la punta morbida di un dito. Apri un passaggio, un pertugio, sul vetro bagnato. Un buco nel mondo di Laurel. Piove e le luci dei lampioni sfarfallano: sono bellissime. E' Natale. Le luci si raddoppiano e si raddoppia quella bellezza opaca – da lampadina che muore, da candela che si spegne, da battito che s'addormenta nei macchinari dell'ospedale. Un battito sordo, lento. Laurel è tutta un tum... tum... tum... Un ritmo pacato, pacifico, che ha tanto sonno arretrato. Non riesce a dormire: la sua stanza è a metà. Manca un pezzo del suo vecchio letto a castello; sua sorella non è da nessuna parte. May era una fata e tra le altre creature alate del suo bosco nero doveva esserci anche la Alaska di John Green. Sono della stessa specie. Di notte, May abbandonava Laurel per spiccare il volo. Quando nessuno la vedeva, si illumava e le sue ali di luce la portavano fuori dalla finestra, nel vento. In mezzo a feste e cuori, sbronze e amori. La mia amica ha guardato e le ali della sua sorella maggiore si sono spezzate. Adesso ha preso a non guardare e a non pensarci. Magari poi lei torna. Dalla finestra semiaperta, dalla morte, ai suoi rossetti carichi e ai jeans buoni strappati sulle ginocchia. Magari poi non gioca più a fingersi morta. Tu hai presente il mare? Porta a riva dei legnetti che non si sa da dove arrivano. Secondo Laurel fanno a gara, come le tartarughine che – rotte le uova – si sfidano a chi arriva per prima all'acqua. May sarà nella prima onda che si infrange a riva, secondo noi. Caro Charlie, ti consiglio questa loro storia. Quando leggo qualcosa che mi colpisce penso sempre ad altri lettori con gusti simili e, in questo giorno di giugno caldo e nuvoloso, mi sei venuto in mente proprio tu. Noi siamo infinito apprezzerebbe Noi siamo grandi come la vita. Per la scrittura tanto semplice, i passaggi delicati, i fiori nell'asfalto e la colonna sonora pazzesca, i personaggi sfocati in cerca di un loro infinito in un'età che infinita non è. I giovani e la morte. Un mistero guardato in faccia da occhi timidi. Laurel ti accarezza e scopri di star male, anche se prima non lo sapevi. La carezza è il memento, la carezza è la cura. 
Con immenso affetto, sempre. M.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran – A Team 

giovedì 26 dicembre 2013

La mia lettera a Charlie: recensendo Noi siamo infinito, di Stephen Chbosky

E i libri che hai letto sono già stati letti da altre persone. E tutte le canzoni che hai amato sono state ascoltate da altre persone. E la ragazza che tu trovi carina è carina per altre persone. E ti rendi conto che, se considerassi queste cose quando sei felice, ti sentiresti alla grande, perché quella che stai descrivendo è "l'armonia".

Titolo: Noi siamo infinito – Ragazzo da parete
Autore: Stephen Chbosky
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 272
Prezzo: € 16,90
Sinossi: Fra un tema su Kerouac e uno sul "Giovane Holden", tra una citazione da "L'attimo fuggente" e una canzone degli Smiths, scorrono i giorni di un adolescente per niente ordinario. L'ingresso nelle scuole superiori lo lancia in un vortice di prime volte: la prima festa, la prima rissa, il primo amore - per la bellissima ragazza con gli occhi verdi che quando lo guarda fa tremare il mondo. Il primo bacio, e lei gli dice: per te sono troppo grande, però possiamo essere amici. Per compensare, Charlie trova una che non gli piace e parla troppo: a sedici anni fa il primo sesso, e non sa neanche perché. Allora lui, più portato alla riflessione che all'azione, affida emozioni, trasgressioni e turbamenti a una lunga serie di lettere indirizzate a un amico, al quale racconta ciò che vive, che sente, che ha intorno. Dotato di un'innata gentilezza d'animo e di un dono speciale per la poesia, il ragazzo è il confidente perfetto di tutti, quello che non dimentica mai un compleanno, quello che non tradisce mai e poi mai un segreto. Peccato che quello più grande, fosco e lontano, sia nascosto proprio dentro di lui.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Heroes – David Bowie; Asleep - The Smiths

Caro Charlie,
ti scrivo. Non so ancora cosa, ma ti scrivo: tu stanne certo. Mi viene in mente, in questo momento, una vecchia e malinconica canzone di Lucio Dalla e, se non sapessi con certezza quasi matematica che tu non l'hai mai ascoltata, be', allora te ne scriverei qualche rigo qui. Per ricordati, magari, una bella canzone e un momento bello; una canzone datata e un momento datato. Per tentare, ed inutilmente, di creare la stessa complicità che c'era – tra te, Patrick e Sam – quando, accucciati sui sedili posteriori della vostra macchina o stravaccati su una poltrona mangiata dalle tarme e da cicche di sigarette mai spente, parlavate degli Smiths e della vita, dei Nirvana e dell'amore, dei Beatles e del futuro. Soprattutto, te la scriverei per combattere il troppo bianco e riempire il troppo spazio vuoto. Essenzialmente, per rompere il ghiaccio. Fior di metafora, chiaro: è il venticinque Dicembre, ma il mio è stato un Natale senza neve e senza sprechi, senza regali costosi e senza botti. Fa caldo per essere pieno inverno e, seduto da solo al tavolo del salotto, a sei minuti dalla mezzanotte, sto benissimo, anche se ho la maglia del pigiama a rombi ficcata nei pantaloni, i calzettoni sfilacciati tirati fin sopra ai polpacci e percezioni sballate di cui faresti meglio, immagino, a non fidarti. Ci sono le pastorelle del mio presepe, però, a testimoniare che si sta caldi. Sono andate a ballare, pensa un po'. 
Al muro non c'è una palla da discoteca tutta luccicante, ma un poster dozzinale, e con le cicatrici incancellabili del nastro adesivo, che dovrebbe rappresentare una piccola e innevata Betlemme: uno sfondo di carta blu sotto cui, io e mio fratello, con la solerzia che non avevamo da bambini e con la mancata immaginazione che abbiamo perso da adolescenti, abbiamo sistemato foreste di muschio più alte delle statuine stesse, capanna, mangiatoia e immancabile Sacra Famiglia, completa di affettuosi animali domestici al seguito – bue e asinello. 
E le famose pastorelle, ovvio, che, prima che i Re Magi arrivino a guastare i loro piani di giovani ribelli, con i loro panieri di plastica, le loro pecorelle imbalsamate appresso e i vestiti a fiori dipinti a mano, si scatenano. Le loro ombre si spostano a scatti, sembrano ballare. Il telecomandino per regolare le illuminazioni è sparito chissà dove, sotto la tovaglia lunga fino al pavimento, e le lucine dorate arrampicate sul tetto della capanna imbiancata da una neve che è di borotalco (è di borotalco davvero, avevamo finito quella finta!) fanno il comodo loro. E' l'anarchia. Si sono stabilizzate, adesso, su un motivo molto sobrio che – facendole accendersi e spegnersi, facendelo fare tuz, tuz, tuz... - ricorda una discoteca invasa da flash stroboscopici, che, a loro volta, mi ricordano perché – perché, perché e perché! - io detesti profondamente e sinceramente le discoteche. Le pastorelle sono state al veglione di Natale, e io sono stato in compagnia tua. Che mi hai parlato attraverso un libro. Qualcuno direbbe che delle statuine inanimate hanno avuto una serata più eccitante della mia, ma quel qualcuno è, tra tante cose brutte brutte che non voglio dire con il bambino Gesù da poco in casa, un vero bugiardo. Io non lo sono ed è per questo che ti rivelo due cose: perché non sono un bugiardo e perché tu, Charlie, sei mio amico. Numero uno: è stata Wikipedia a dirmi che Gesù è nato a Betlemme e non a Nazaret; ma la colpa è tutta di Zeffirelli e di quel suo film da titolo tremendamente ingannevole. Numero due: sempre Wikipedia mi ha detto che Caro amico ti scrivo la cantava Lucio Dalla e non Antonello Venditti, e capirai che per me è stata una rivelazione. Ha riscritto la storia di questa lettera. Se il pezzo che avevo in mente fosse stato di quell'incubo ambulante dai vibrati caprini che ha segnato le notti in bianco di generazioni di maturandi, non l'avrei nominato nemmeno di striscio e, di conseguenza, non avrei avuto il mio inizio. Non fa una piega, no? E poi tu sai che gli inizi sono la cosa più importante. Gli inizi e gli arrivi. Ma io mi sono perso, in mezzo a queste ghirlande sintetiche di pensieri ingarbugliati, e ho il presentimento che potrei non arrivare mai. Ti ho conosciuto un anno fa: l'ultima notte del mondo. I Maya lo avevano predetto, Giacobbo lo aveva scritto, Mistero ne aveva parlato e io, fino al giorno prima, c'avevo beatamente riso sopra. Poi le luci avevano cominciato a tremolare, le porte a sbattere e il cielo, fuori, a scatenarsi, con tuoni fragorosi e una conciliante pioggia da Antico Testamento. Nell'ipotesi lontanissima che tutto si fosse rivelato vero, avrei sprecato l'ultima sera vestito del mio vecchio pigiama e delle mie nuove paranoie. Stupido. Deprimente. La mia scelta, allora, ricadde su un film in lingua originale, praticamente sconosciuto, la cui uscita, in Italia, era prevista per l'anno successivo. Avrei potuto vedere, almeno, uno spicchio di futuro. Si chiamava The Perks of Being a Wallflower, quel film, e parlava proprio di te. Ti piacciono i bei film e le belle canzoni e qualcosa mi dice che anche il tuo film ti andrebbe a genio. Ora respira. Niente panico. Cal-ma. Sì, hanno violato un tantino la tua privacy, e sì, le tue lettere non sono arrivate, alla fine, alla destinazione desiderata, ma io voglio essere egoista e voglio urlarti, a squarciagola, che non importa. Lunga vita ai postini inseguiti dai cani e alle buche delle lettere invertite per errore, lunga vita ai disastri poco splendidi e ai ritardi poco eleganti delle poste di tutto il pianeta Terra, lunga vita a Stephen Chbosky, al suo cognome orribile e alle sue mani che sanno fare miracoli. Lunga vita a te, amico mio. In tuo onore, religiosamente, alzo la mia tazza di ceramica, manco fosse il Sacro Graal, e mi schizzo tutto di camomilla. Bleah, sembra pure pipì! Noi siamo infinito è stata la mia storia da fine del mondo; sin dal primo istante, sin dall'anno scorso. Quella che mi ha fatto compagnia, curando la malattia più grave di cui il cuore di quel ragazzo sveglio nel mezzo della notte potesse soffrire: la solitudine. Leggerti ha significato scoprire una perla di inestimabile valore nascosta nella cassetta delle lettere, tra le cartoline natalizie, i volantini dei discount a buon mercato e gli immancabili opuscoli dei testimoni di Geova. Fare un regalo a sé stessi, alla vita. E io mi ti sono regalato. Quando ero arrabbiato con tutti, e non volevo incontrare nessuno di mia conoscenza con cui scambiare chiacchiere piene di auguri e d'ipocrisia, e avevo venti euro – nel portafoglio – e poco altro. Quando ho capito che era arrivato il momento di venire a bussare alla tua porta e di vederti lì, sull'uscio, calmo, sereno, con gli occhi pieni di pace - perché ho sentito che sei uno che ascolta e che capisce e perché, alle feste, non cerchi di portarti a letto le persone, anche se potresti.
Chissà che faccia avresti, chissà che faccia avrei, chissà che faccia avremmo. Io sento che ti riconoscerei, anche se tu avessi un viso diverso da quello del bravo Logan Lerman e la Sam accanto a te non fosse quell'incanto di Emma Watson. E tu... tu mi riconosceresti? Io ho un'idea assurda, un'idea fissa: lettera dopo lettera, ricordo dopo ricordo, tu ti stavi rivolgendo a me. E per tutto il tempo. Io lo so. Io ci spero. Perché tu scrivevi a me, giusto? Ho bisogno che tu mi menta. Ho bisogno che tu mi dica di sì.
Perciò, anche se l'ultima volta che ho scritto una lettera è stato per un tema di quinta elementare, consegnato a un maestro di scuola decisamente meno ispirato del tuo signor Anderson, io voglio inviarti una risposta. E la cosa è stranissima, perché il Charlie di cui ho letto aveva sedici anni e, all'inizio degli anni '90, cominciava il primo anno di liceo. Ma il me stesso di adesso, che di anni ne ha quasi venti e il liceo l'ha già finito a luglio, in quegli anni viveva giusto nella mente dei suoi genitori e in “banchi” di disgustosi spermatozoi tra cui, nella corsa più importante, alla fine, sono arrivato primo. Sono più grande e più piccolo di te. Dunque, tu potresti perfettamente essere il mio fratellino minore e, allo stesso tempo... che ne so... mio padre, se, nei tuoi primi goffi e precoci approcci sessuali sul divano rosso di Mary Elizabeth, non avessi usato le giuste precauzioni. Ti saresti potuto ritrovare con la gonorrea, o con un figlio della mia età a carico: addirittura con entrambe le cose. Tuo nonno ti avrebbe insultato, i tuoi ti avrebbero messo in punizione, tua sorella – in lacrime – avrebbe ricordato il piccolo segreto tra voi e quella volta in cui dormì sotto un plaid, sul sedile posteriore della tua macchina, Patrick avrebbe riso. Oh, sì, Patrick avrebbe riso senza più smettere. Sam, invece, ti avrebbe sorriso, confidando nelle tue doti di giovane padre e nel tuo grande cuore di essere umano, immaginando, in silenzio, l'amore che quel bambino avrebbe ricevuto e gli occhi che avrebbe avuto se quel neonato fosse stato, in fondo, il vostro. Io ti avrei voluto come compagno di banco, non come genitore: ci saremmo conosciuti in un laboratorio di cuori solitari e ulcerati, anime affrante e orologi di legno e, in una mensa piena di estranei, ci saremmo seduti nel tavolo più isolato di tutti, io con i miei pensieri e tu con i tuoi. Senza disturbarci, ma facendoci compagnia. Per il bisogno di sentirsi vicini e di fare da tappezzeria, insieme. Entrambi con l'abitudine di scrivere tanto e di parlare poco, di sedersi a ginocchia strette e con le mani sempre in tasca, di non intervenire a lezione per paura di attirare qualche attenzione di troppo, di cantare in playback con le cuffiette premute nelle orecchie, di voler essere scrittori anche senza una storia da scrivere, di trovare un'occasione buona per vestirsi tutti eleganti, di andare a feste in cui fare da reggimoccolo alle coppiette innamorate di turno e stare seduti su un divano pieno di gente che pomicia è il massimo dell'aspirazione. Seriamente. Tu sei stato nella mia testa e io sono stato nella tua. 

Hai rubato i miei pensieri tristi e le mie ansie, i miei complessi di inferiorità e i miei timori e, qualche volta, quelle tue parole messe così, nero su bianco, facevano un rumore familiare, che ricordava quello dei miei pensieri inespressi e delle mie emozioni difettose. Come se milioni di telecamere a circuito chiuso, puntate nella mia piccola stanza e sul mio piccolo mondo, avessero carpito le ingenuità, l'intensità e la fragilità del mio sentirmi adolescente. Come se tu fossi me stesso. Ci siamo voluti bene, Charlie. E tu mi hai insegnato a volermi ancora bene, e meglio di prima. Nelle tue lettere c'ero io, insieme agli amici folli ed altruisti che desidero da sempre, e all'amore che penserei, un giorno, di meritare. C'erano sofferenze che ispiravano trionfi, valori e sentimenti, musica, immagini, poesia vera. Grandi persone, con dolori annessi, e grandi emozioni, con lacrime amare e sorrisi aspri racchiusi nella stessa pagina. Io odio i punti esclamativi, ma questa lettera dovrebbe esserne piena, per ricordarmi di tutte le volte in cui mi hai fatto ridere di cuore, imbarazzare, alterare; per ricordarmi quanto, quanto e quanto ti abbia invidiato i baci della delicata Sam, gli abbracci improvvisi del simpaticissimo Patrick, la voce ruvida di David Bowie, percepita per la prima volta nelle casse dell'autoradio, e quella sensazione di essere eroi, anche se per un giorno soltanto. Con il mondo ai tuoi piedi, le tue persone preferite accanto e l'infinito ad un passo, alla fine del tunnel. Io odio anche i puntini di sospensione, ma questa lettera dovrebbe essere piena zeppa anche di quelli lì, per le mille volte in cui mi hai lasciato affranto e svuotato. Tra l'altro, io odio ancora di più le pubbliche manifestazioni d'affetto, ma credimi quando dico che ho voluto più bene a te, per un giorno, che ai miei parenti, per tutta la vita. E adesso non vorrei lasciarti andare più via. Insieme alla tua storia, il mio libraio mi ha dato un taccuino verde pieno di adesivi, con frasi che non avresti mai immaginato, da giovane, potessero rappresentare tanti ragazzi da parete come noi. Ho provato a scrivere questa stramba lettera sul taccuino, ma con una di quelle penne cancellabili delle elementari, che pensavo francamente non avrei usato più in questa vita. L'ho usata eccome, invece. Ho cancellato tutto quello che avevo buttato giù. Da ordinata e tondeggiante, la mia grafia sarebbe diventata obesa, insolente, indisciplinata. Voleva evitare di raccontare la cronaca del nostro inevitabile addio; diventare qualcosa che è simile all'infinito verso cui, ti prometto, mirerò. Ma, come diresti tu, suppongo sia OK. Suppongo sia tutto. Smetto di scriverti che è ormai un nuovo giorno. La camomilla è fredda; il mio stomaco brontola; i miei occhi si chiudono, stanchissimi. Stacco le luci psichedeliche del mio presepe e l'ombra danzerina delle pastorelle muore, nel buio. Alla prossima festa, ballerò io. Lo giuro.
Sempre con affetto,
M.
25/12/2013