venerdì 24 novembre 2023

Ritorni d'autore: Babylon | Oppenheimer | Coup de Chance | The Killer | Monster

Due innamorati ballavano romanticamente e si interrogavano, speranzosi, su come conciliare sentimenti e carriera. Questa volta ci sono elefanti in pista da ballo, umori corporei, feticismi. Come si è passati dal musical al baccanale, dal sogno al delirio? Caustico, volgare e disincantato, il film tradisce la fiaba per raccontare l'evoluzione della settima arte. E la progressiva degenerazione del mondo che c'è dietro. Si passa dal muto al sonoro, dai divi alle meteore, dal western alla commedia: il tutto per accontentare un pubblico che in fretta si annoia e dimentica. Babylon ha anticipato lo sciopero degli sceneggiatori. Ha irritato Hollywood e infastidito gli spettatori, entrambi artefici del meccanismo perverso che fagocita i protagonisti. Il pubblico deve essere intrattenuto. Chi non sa reinventarsi è spacciato. Pitt è sul viale del tramonto, come l'amica Swanson; Robbie prende lezioni di etichetta, ma il richiamo del lato selvaggio è forte; Calva rischia di essere risucchiato dal caos della festa che si limitava a contemplare. Questo Chazelle è coreografico come Luhrmann; folleggia come Tarantino. Maneggia serpenti, ammazza comparse, divora topi. Provoca e denuncia, in un'opera esilarante ed esaltante, pornografica e candida. Mi rincresce averlo perso al cinema. Sarebbe stato un onore piangere insieme al protagonista, nel finale, e guardare attraverso i suoi occhi schegge di Gene Kelly, di angeli e fantasmi. (10)

È sulla bocca di tutti da prima dell'uscita. L'ho visto a oltre un mese di distanza dall'arrivo in sala, impermeabile a qualsiasi entusiasmo. Oppenheimer, accolto come il capolavoro di Christopher Nolan, è per me un film grande che non diventa mai un grande film. Algido, logorroico, cerebrale, stordisce a suon di nomi e informazioni, ma mostra il portento e l'orrore della bomba atomica fuori scena. A distanza di sicurezza. Restano i tormenti dell'uomo, qui interpretato da un emaciato Cillian Murphy, diviso tra patriottismo e senso di colpa; quei troppi dettagli, a metà tra scienza e politica, che lasciano a lungo confusi. L'emotività irrompe soltanto nell'ultima parte: un processo alle intenzioni in cui ogni azione è in discussione e, a sorpresa, a rubare la scena è la tradita, sottostimata moglie interpretata da Emily Blunt. Non ho ben compreso il ruolo del doppiogiochista Robert Downey Jr, ben nascosto sotto un mascherone di trucco ma sempre insopportabilmente gigioneggiante. Non ho capito il troppo rumore per nulla, o quasi. Da questa detonazione mi sarei aspettato un brivido lungo la schiena; l'acufene; un'eco maggiore. Il biopic sull'inventore dell'atomica, invece, è una docufiction magistralmente diretta e montata a cui tuttavia manca il sano ardore di Prometeo. Senza fuoco, fuori fuoco, si rivela un compito diligentemente svolto e poco altro. (6)

Alla tenera età di ottantotto anni, Woody Allen dirige il suo cinquantesimo film. E ogni volta che torna in sala è sempre un po' festa. Quanto ci mancava? Quanto ci mancherà? Sfortunatamente, nonostante sia stato misteriosamente ben accolto all'ultimo Festival di Venezia, Coup de Chance è una commedia nera senza grandi guizzi che, scegliendo un idioma e toni diversi, si limita a riproporre l'acuminato triangolo sentimentale dell'indimenticato Match Point. Questa volta la moglie trofeo, interpretata dall'incantevole Lou de Laage, è divisa tra l'amante scrittore e il ricco marito malavitoso. Se la sorte ci mette lo zampino, ribalterà tutto la puntualità dell'epilogo per regalarci, in extremis, un sorriso beffardo. Il resto appartiene a un Allen logorroico e eccezionalmente francofono, piuttosto povero di contenuti, che strizza l'occhio alle donne infedeli di Chabrol e ammalia grazie alla fotografia assolata del solito Vittorio Storaro. Checché se ne scriva, gli ho preferito di gran lunga gli ultimi film: il teatrale La ruota delle meraviglie, lo scoppiettante e giovanile Un giorno di pioggia a New York e perfino Rifkin's Festival, sottovalutata delizia cinefila troppo in fretta sacrificata sull'altare dello streaming. (5)

Un sicario è appostato sui tetti parigini. Non dorme, non ha sentimenti, non sbaglia mai. Finché non manca il bersaglio e per lui ha inizio una fuga rocambolesca che tocca altre quattro città, altri quattro capitoli, nel tentativo di costruirsi un futuro alternativo accanto alla compagna lontana. Lo interpreta Michael Fassbender, attore troppo a lungo assente dalle scene. Asciutto, stiloso, inafferrabile, indossa camicie floreali da turista tedesco e si concentra ascoltando i successi degli Smiths. Come se non bastasse, firma il tutto David Fincher, finalmente tornato al thriller dopo la parentesi metacinematografica dell'autoriale Mank. Al secondo film per Netflix, il regista cult torna sugli schermi con l'adattamento di un graphic novel nelle sue corde. La violenza c'è, ma è raffinatissima. Gli omicidi abbondano, ma i corpi quasi non sanguinano. Gli scontri fisici sembrano coreografie studiatissime. Chirurgico, rigoroso, freddissimo, questa volta si diverte e diverte con un film d'intrattenimento godibile ma non all'altezza. Perché The Killer, partito sotto i migliori auspici con un omaggio al miglior Hitchcock, diventa una pellicola d'azione che non ha né la classe di James Bond, né la leggerezza di John Wick. Colpa di un soggetto tutt'altro che memorabile, in cui l'entrata in scena di Tilda Swinton rappresenta il momento di maggiore curiosità: peccato sia impegnata in poco più che un cameo. L'ultimo Fincher, come il suo killer dall'insopportabile voce narrante, intrattiene in poltrona ma non fa centro. (5)

Lo strano comportamento di un bambino insospettisce gli adulti. La mamma, iperprotettiva, fatica ad ammettere che il figlio stia crescendo; il maestro, tacciato di maniere forti, è forse più lungimirante di altri; la preside, reduce dalla morte della nipotina, modera per tutelare l'istituto. Il protagonista è una vittima o un bullo? Chi, fra lui e un fragile coetaneo, è il mostro? Kore'eda torna Giappone con una sceneggiatura perfetta. Delicatissima e magistralmente orchestrata, mostra la stessa vicenda attraverso tre punti di vista complementari. Ne viene fuori un puzzle sui segreti di grandi e piccini, che favoleggia di rinascita. Quieto ma pervaso di tensione, sceglie di mantenersi ambiguo fino alla fine: nemmeno l'epilogo ci chiarirà se abbiamo assistito o meno a una tragedia. Monster inizia con un incendio e termina con un tifone. E, fra le due calamità, lascia posto alle scosse sismiche della pre-adolescenza. Come in una versione più stratificata di Close, Kore'eda descrive il momento in cui la purezza dei bambini viene meno. Saranno mai felici al di fuori di quel vagone ferroviario al centro del bosco? Nella sequenza più memorabile (insieme a quella di quattro mani che tentano di pulire un finestrino dal fango), la preside insegna al piccolo protagonista a soffiare via il dolore in una tromba. E gli suggerisce che, se non è per tutti, non è felicità. Non c'è giallo più fitto dei propri sentimenti. (7,5)

7 commenti:

  1. Concordo su The Killer, anche se forse siamo gli unici. Ma anche su Oppenheimer, che ho trovato stancante, non tanto per quello che racconta, ma come lo fa, con questi continui flashback, cambi di colore, la fretta per certi passaggi e la lentezza per altri.

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  2. Babylon grandissimo! Anche questa volta Damien Chazelle non delude. L'ha fatto giusto con First Man - Il primo uomo, ma quel film faccio finta che non sia stato lui a girarlo :)

    Su Oppenheimer sarei anche d'accordo per quanto riguarda la prima parte. Poi però, dopo tanti dialoghi logorroici sulla fisica, per me nella seconda parte riesce finalmente a esplodere

    The Killer del mio amato (almeno finora) David Fincher è una delle porcherie pseudo autoriali dell'anno. Ho rimpianto John Wick, ed è tutto dire :D

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    1. Io amato anche First Man, pensa te. Non ho digerito la serie però, mollata subito.

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  3. Grazie pr non essere caduto pure te nell'allucinazione collettiva di Coup de Chance che misteriosamente viene accolto come un gran film di Allen! Non lo è, purtroppo.

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    1. Che barba, che noia. A malincuore. Perché io lo amo tantissimo.

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  4. Stupisciti... Abbiamo dato entrambi il massimo dei voti a Babylon 😂💪🍻

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