lunedì 7 febbraio 2022

Recensione: Verso il paradiso, di Hanya Yanagihara

| Verso il paradiso, di Hanya Yanagihara. Einaudi, € 22, pp. 766 |

Leggo Hanya Yanagihara per trovare salvezza dai miei lati peggiori. La scorsa estate, vittima di un'apatia che mi rendeva estraneo al mondo, mi sono affidato a Una vita come tante in cerca della catarsi del pianto. A gennaio, invece, isolato in camera insieme al virus e ai miei soli pensieri, ho atteso l'arrivo di una nuova storia – anzi, tre – per fuggire lontanissimo da me. Questa volta, lo ammetto, non avrei tollerato l'ennesimo magnifico struggimento. E l'autrice, per fortuna, ha avuto grande cura di me e della mia solitudine: nell'arco di oltre settecento pagine l'ha riempita di voci. Le sento anche ora, a lettura ultimata, e tento di districarle a furia di scriverne. Ma si può realmente possedere un romanzo così ampio, sfuggente, indefinibile? È forse possibile averne a colpo d'occhio la visione d'insieme? Mi piacerebbe riportare alla mente tutti i dettagli, grandi e piccoli; individuare la costante in grado di sbrogliare l'equazione. Ma è impossibile, tanto quanto la pretesa di scorgere una silhouette claudicante sull'uscio di un condominio di mattoni: il nostro Jude St. Francis, sappiatelo, non abita lì. Restano allora le strade di New York, una poetica malinconia di fondo, una dimensione umana dal calore contagioso e, soprattutto, una domanda sprovvista di risposte nette: cos'è il paradiso?

Le amicizie a quell'età sono così fragili, perché quello che sei – non solo le tue dimensioni fisiche, ma pure quelle emotive – cambia moltissimo da un mese all'altro. […] Ci eravamo allontanati, non divisi, e quando ci vedevamo da lontano nei giardini della scuola o nei corridoi, facevamo un cenno con la testa, o con la mano, i gesti che faresti in mare, da lontano, dove sai che la voce non si sente. Quando più di una decina d'anni dopo ci ritrovammo, parve in qualche modo inevitabile, come se fossimo entrambi andati alla deriva così a lungo da doverci ritrovare prima o poi.

In un Ottocento ucronico, la fine della guerra di secessione ha portato all'indipendenza della città e all'avvento dei matrimoni egualitari. Immerso in atmosfere degne di Jane Austen, un giovane di ricca famiglia si scopre combattuto tra il matrimonio combinato con un vedovo e il sentimento bruciante per un insegnante socialmente inferiore a lui. Il paradiso è una casa status symbol, già pronta a essere ereditata, o una tormentosa passione da romanzo d'appendice? Mentre l'avvento dell'Aids falcia un'intera generazione, un venticinquenne di nobili origini hawaiane riflette sull'amore e la morte: i migliori amici del suo partner stanno morendo come mosche e ogni rimpatriata si trasforma in una festa di addio; il padre lontano, colpevole di un torto indicibile commesso in nome del fanatismo, domanda di lui in un delirio struggente. Il paradiso è un salotto in cui risuonano le chiacchierate di amici un po' attempati, o l'utopia di restaurare la sovranità hawaiana in trenta ettari? Ci si sposta nel futuro, infine: l'apocalisse si esprime con un lessico ormai familiare. Continuamente in balia di virus di differente entità, il mondo è diventato una distopia in cui vigono la legge marziale e i baratti, i ribelli vengono massacrati in pubblica piazza e i matrimoni, combinati con la forza, mirano a scoraggiare l'omosessualità. Prigioniera di un matrimonio senza amore, una tecnica di laboratorio segnata dalla malattia fa i conti con sentimenti nuovi e spaventosi: la gelosia verso il marito, al centro di una vita parallela; l'attrazione verso l'ultimo arrivato nel distretto, che osa avanzare quesiti di natura personale; la nostalgia per il nonno epidemiologo, che in una lunga corrispondenza confessa amaramente di aver sacrificato gli equilibri della famiglia per la salvezza della specie. Il paradiso è una società in cui il caos è arginato con fermezza, o il buio del guado?

Tu sei tanto giovane; hai passato quasi metà della tua vita vita accanto alla morte e alla possibilità della morte – ci hai atto il callo, che è una cosa che mi spezza il cuore. E allora forse non capirai fino in fondo quel che ti voglio dire. Ma quando si invecchia, si fa tutto ciò che si può per restare vivi. A volte nemmeno ti accorgi di farlo. A volte, un istinto, un sé deteriore, prende il controllo: e perdi ciò che sei. Non succede a tutti. Ma succede a molti.

Nell'impossibilità di bissare il successo precedente, Yanagihara spezza le linee temporali e la compattezza della narrativa americana; spiazza. Costruisce un dedalo di storie dentro storie, e di epoca in epoca ripropone nomi di battesimo (David, Edward, Charles) e indirizzi (Washington Square). Si tratta delle stesse persone in realtà differenti? Se fossimo in un film, avrebbero gli stessi volti o sarebbero sconosciuti gli uni agli altri? I nessi, poco manifesti, vanno cercati unicamente in questa galleria di giovani inetti, nonni granitici, triangoli sentimentali e famiglie omogenitoriali; in riflessioni sulle radici culturali e l'identità, sul sangue e sul crepacuore dei sogni infranti. Quale mondo lasceremo ai nostri figli? In che mondo li lasceremo? Solidale e spietata, con una scrittura che è un mare caldo in cui è incantevole immergersi, l'autrice apre finestre, parentesi, squarci; registra i passi falsi commessi lungo i cammino dell'utopia. Ma se i genitori sono umani, dunque fallibili per natura, allora tocca ai loro eredi abbandonare la sicurezza dei confini già tracciati. Rinunciando, però, a cosa? Affrancarsi significa costruirsi un paradiso su misura. Lo fanno i protagonisti, combattuti tra andar via o restare, tradirsi o scoprirsi. Lo fa Hanya Hanagihara, alle prese con un cambio di rotta che scontenterà più di qualche accolito. I loro passi – avvolti da una luce misteriosa – sfumano nella vaghezza dell'incerto, fin quando non distogliamo finalmente lo sguardo: sono troppo distanti. Verso il paradiso.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Judy Garland – Somewhere Over The Rainbow

6 commenti:

  1. Ne ho sentito parlare malissimo ed ora sento anche la tua versione, ti dirò, non ne sono attratta. Da sempre mi riprometto di leggere il suo secondo e credo farò così.
    Buona settimana!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Lory, e scusa per il ritardo con cui vi leggo. Periodo un po' così. Secondo me, ci vuole coraggio a parlar male di un romanzo di simile portata. Semplicemente, credo che i lettori non sappiano discernerlo da "Una vita come tante". Come dico sempre, "Stagioni diverse" è dello stesso autore di "It", ma non hanno a che fare niente l'uno con l'altro. Perché con questa scrittrice riesce difficile, invece, venirne a patti?

      Elimina
  2. Un libro che sicuramente merita una possibilità. Spero di leggerlo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Bello, sì, e ambizioso. Ci vuole coraggio (a scriverlo, ma anche a leggerlo)!

      Elimina
  3. Non metto che in dubbio che sia bellissimo, ma mi sa troppo di Jane Austen per i miei gusti... :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io odio Jane Austen! Quei toni riguardano meno di un terzo del romanzo. E considerando le quasi 800 pagine...

      Elimina