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venerdì 11 gennaio 2019

I ♥ Telefilm: You | Black Mirror: Bandersnatch

Una bella ragazza entra in una libreria: una di quelle piccole e polverose, che si vedono giusto in certi angoli di New York. Cerca il libro perfetto. E tu, sorridente e alla mano dietro il bancone, sai consigliarglielo al volo: siete chiaramente anime gemelle. Ancora più romantico, ancora più cinematografico, è il secondo incontro: lei, che beve un po' troppo per dimenticare gli amanti sbagliati e i padri deludenti, scivola sulle rotaie in metropolitana e batte la testa. Tu ti precipiti, e da bravo principe – nessuna calzamaglia azzurra, ma un look finto trasandato che fa invidia agli hipster veri – la salvi dal treno in corsa. L'amore, che ha bisogno di gesti galanti e cavalleria vecchio stile, inevitabilmente nasce. Abbastanza forte da vincere l'imbarazzo di quella prima volta in cui hai fatto cilecca a letto, i sospetti reciproci, le stranezze. Cieco, al punto da ignorare un piccolo dettaglio: niente, nemmeno il dardo di Cupido, è stato un caso. Le grandi opportunità hanno bisogno di una spinta, di forzature a fin di bene: della tua lei, infatti, conoscevi già le mosse, i post su Facebook, l'ambizione di diventare scrittrice e gli interni dell'appartamento da studentessa. Hai commesso un'effrazione nel suo privato, l'hai studiata e manipolata per mesi, e lei non se n'è accorta: ha occhi solo per te. Al punto da non notare quasi l'ex sparito dalla circolazione, gli avvertimenti di amiche tutt'altro che rassicuranti, il fatto che frequenti la stessa fiera letteraria in costume o lo stesso terapeuta. Il modus operandi di un tenero stalker innamorato che smuove mari e monti, ammazza a sangue freddo rivali e testimoni, al servizio di un lieto fine mai fuori moda. Il punto di vista è eccezionalmente il suo, il cattivo di turno, ed è una provocazione ardita nell'era del #metoo e del femminismo battagliero: oggettivare una donna, per di più una vittima, e lasciare la parola al suo subdolo carnefice raccontandone i misfatti e i segreti, però, con i toni di una commedia sexy. Rendendocelo addirittura simpatico, in un esercizio dialettico di gran lunga superiore alle note stonate del cast – Madre Natura è stata magnanima con le bellissime Elizabeth Lail e Shay Mitchell, meno la scuola di recitazione – o agli immancabili scivoloni di casa Lifetime: aiuta senz'altro la scelta dell'ottimo Penn Badgley per protagonista, già adorabile sfigato in Gossip Girl. A metà fra il serio e il faceto You è un thriller psicologico destinato a sorpresa a un finale shock. L'esempio di un mainstream che sa dividere e provocare il pubblico con leggerezza, di un guilty pleasure che ci rende letteralmente colpevoli – e complici – di un amore malato a cui non si resiste. (7)

Un adolescente della provincia londinese con un trauma da metabolizzare e un videogioco da brevettare, sogno nel cassetto tutt'altro che atipico negli abusati anni Ottanta dell'inguaribilmente nerd Ready Player One. Prove tecniche, tentativi frustranti e scongiuri non bastano, se l'asticella è troppo in alto per un programmatore alle prime armi: adattare un romanzo famigerato, fatto di labirinti senza via d'uscita e svolte pericolose, il cui autore era andato incontro ai mostri della follia. La storia potrebbe ripetersi, quando la scadenza – due settimane per consegnarlo ai piani alti – diventa un'ossessione. Niente di nuovo, diremmo leggendo il canovaccio di Bandersnatch: branca di Black Mirror, all'indomani della deludente quarta stagione, di cui tutti parlano dalla fine di dicembre. Il motivo? Del protagonista, il fragile Fionn Whiteahead di Dunkirk e The Children Act, puoi sceglie la marca di cereali, la musica in cuffia, la sorte ugualmente macabra di assassino o assassinato. Allucinogeni sì, allucinogeni no? Salvare il collega Will Poulter, oppure sacrificarlo con un salto giù dal cornicione? L'evento diretto da David Slade ha sviluppi diversi e diversi finali (cinque, per la precisione), da quelli tragici a quelli più trash – surreali lotte all'ultimo sangue, svariati cadaveri da occultare, strizzate d'occhio ai sempre affascinanti meccanismi metatelevisivi, toccanti rese dei conto in viaggi in treno in rewind. A scegliere siamo noi, sceneggiatori per un giorno: telecomando alla mano e, preferibilmente, tanta voglia di sperimentare un'altra faccia dello specchio nero di Charlie Brooker. Ma quanto possiamo realmente scegliere? Quanto possono scegliere i protagonisti, soprattutto, divisi fra il libero arbitrio e il sadismo di noi amanti del binge watching sfrenato? Peccato che la resa, questa volta, sia superiore all'idea stessa. Bandersnatch funziona più in pratica che in teoria: forma di intrattenimento interattivo tutt'altro che pionieristica, ma che domanda spettatori partecipi e volenterosi. Impossibile, altrimenti, farsi andar bene una storia inconcludente e pretestuosa che come episodio a sé purtroppo non appassionerebbe. Ci si aspettava un giocattolo tecnologico che fosse meno tale e più vicino ai fasti delle stagioni passate. Un appuntamento su Netflix che avesse contenuti, insomma, non soltanto la vaga euforia degli esperimenti mordi e fuggi. Chiamiamo le cose con il loro nome. Il tanto chiacchierato Bandersnatch, infatti, è nient'altro che aria fritta. Aria fritta molto divertente, inutile negarlo, purché non sia indice di quella quinta stagione attesa al varco con un po' di motivato scetticismo. (6)

mercoledì 8 agosto 2018

Recensione: Io so chi sei, di Paola Barbato

| Io so chi sei, di Paola Barbato. Piemme, € 18,50, pp. 515 |

Io so chi sei come Non ti faccio niente. Due frasi all'apparenza rassicuranti che, a ben pensarci, nascondono dietro un sottile tono di minaccia. Due modi di incutere paura. Due romanzi della stessa autrice che, per perizia e introspezione psicologica, sembrano rendere limitante la definizione di thriller. Torna attesissima Paola Barbato, anche se era stata sul mio comodino appena qualche mese fa con Bilico: esordio da rispolverare, da rivalutare, che non convinceva fino in fondo con i suoi equilibri malsicuri e un gusto per l'eccesso stancante sul lungo tratto. Sapienza narrativa a parte – ora, per fortuna, posso dirlo scacciando l'ombra del sospetto –, nient'altro a che vedere con la complessità delle pubblicazioni successive. Fino a questo momento, infatti, il dubbio poteva essere ragionevole: che la struggente avventura degli ex bambini di Vincenzo, l'indimenticabile rapitore che lasciava paperelle di gomma sulle sue false scene del crimine, fosse un caso isolato difficile da ripetere? Non si supera ma non delude, a questo giro, la sceneggiatrice di Dylan Dog e la musa di Matteo Bussola, compagno di vita che proprio alla loro storia d'amore ha dedicato un'ultima fatica uscita per Einaudi: un intrigo asfissiante, nonostante le ariose ambientazioni toscane, sui pregi e i difetti dell'essere costantemente rintracciabili nell'era degli smartphone. È sempre dal ritrovamento di un oggetto che si parte: un cellulare ripescato nella buca della posta dalle mani tremanti di Lena, trentaduenne con le borse sotto gli occhi e il cuore incrinato per sempre. Strano accumulo di contraddizioni, quella figlia della Firenze bene: la mortificazione dei vestiti informi, il garbuglio inestricabile dei dreadlock al posto della messa in piega delle brave cocche di papà e l'indolente Argo, molosso tenuto a stento al guinzaglio, cozzano infatti con il curriculum di un'universitaria brillante che ha deluso tutti, perfino sé stessa, in nome di una relazione che la ha imposto un nuovo look e nuove frequentazioni, che l'ha imbruttita dentro e fuori. Dal cellulare sconosciuto prendono ad arrivare messaggi dal destinatario ignoto: il primo dice Io so chi sei, e non suona una premessa troppo inquietante all'orecchio di qualcuno come la protagonista. Una giovane donna che si è tradita irreversibilmente, che purtroppo chi sia non lo sa più. È cambiata per Saverio, ma Saverio non c'è a darle ordini, coordinate esistenziali o tormenti: l'eterno ribelle che ha in comune con il Bern di Divorare il cielo le piccole smanie rivoltose, il pallino per l'ambientalismo, le frequentazioni animaliste, è caduto nell'Arno da ubriaco e non è più riemerso. Restano una bara vuota, i segni di una trasformazione radicale di cui ormai a Lena sfuggono i perché e, a due anni dalla scomparsa dell'uomo, un anonimo interlocutore che a distanza la aizza, ci gioca, la maltratta come fosse un cane da combattimento. Lui che ha sempre nutrito rispetto per le bestie, mai per le persone, e che le storpiava il nome con una canzone degli Articolo 31. Lui Saverio, redivivo desideroso di testare la cieca fedeltà della sposa? O a tramare nell'ombra è forse qualcuno che l'ha tenuto prigioniero e affamato per tutto il tempo e che adesso pretende la merce di scambio dell'obbedienza di Lena?

Tutti gli amori sono malati.

Gli SMS mirano a farne una persona diversa e spregiudicata – ricatta, droga, avvelena, brucia, ammazza. Vittima, sempre, anche quando è lei l'artefice sotto costrizione. 
Proprio come quando appariva un corpo estraneo nella ampia cerca degli amici di Saverio, ora decimati uno a uno. 
Proprio come quando, a metà romanzo, interviene un personaggio che ruba la scena a chiunque: lo sgrammaticato Francesco, gigante in divisa affatto buono, le raddrizza il tiro, porta a termine quello che Lena si rifiuta di fare, la usa come esca travalicando una giustizia al solito malleabile. Tutto pur di acciuffare il colpevole, e di farne carne da macello: con la protagonista, così, destinata a passare dal mostro all'orco come in una fiaba nera, in nome della riconoscenza di coloro che vengono salvati da terzi. Doppiamente manipolata, contesa da amori vandalici, in un implacabile stillicidio lungo 500 pagine questa protagonista debole, duttile e inetta fino all'ultimo si mostra a sorpresa esattamente uguale a noi. Ci affascina e ci irrita, vero, ma faremmo lo stesso se intrappolati in un simile labirinto di bugie. In una gabbia a cielo aperto con vista sul Lungo Arno.

«Non ho più niente da perdere» aveva risposto Lena, per poi aggiungere: «Sono una brutta persona.»
«Tutti lo siamo, la nostra è una brutta specie.»

Si incontrano comprimari innumerevoli – su tutti, nella corte dei miracoli di Saverio impossibile non ricordare Alex e Lucio, esempio di un amore che a volte salva – che a colpi di personalità fortissime sfuggono al classico ruolo castrante dei personaggi minori. Si sovrappongono e confondono i buoni con i cattivi, in un'ambigua matassa di supposizioni errate e grigi sfumati. Si parla di stalking e allievi che superano i maestri, di gabbie costruite nello zoo della nostra mente vulnerabile. Qualche dubbio soltanto per il finale, molto aperto, quando ci sarebbe stato forse tutto il tempo per tirare meglio le fila: da uno spunto all'apparenza abusato, infatti, è venuto già fuori un thriller scorretto e solidissimo. C'è abbastanza materiale per la trilogia nei piani di Paola, scrittrice con una prosa magnetica e cattive intenzioni? Ma ci si affida a occhi chiusi al suo imperscrutabile volere, perché sì. L'orecchio teso, pronti a scattare il giorno in cui il trillo di una notifica ci informerà che il secondo capitolo è in stampa; che le minacce scambiate per gentilezze no, non si sono esaurite sulla costa massiccia di Io so chi sei. Per ironia della sorte, dunque, in scacco quanto una protagonista con un caricabatterie Samsung per collare a strozzo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Police – Every Breath You Take

sabato 25 ottobre 2014

Pillole di recensioni #7: So dove sei (Kendal), Agnes (Stamm)


Titolo: So dove sei
Autrice: Claire Kendal
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 325
Prezzo: € 16,40
Il mio voto: ★★★
La recensione: Dall'altra parte della strada, nascosto in un angolo, negli incubi. Come riuscirsi a liberare di un pensiero fisso, di un'ombra che non va via, di un amore possessivo che ignora il suono di un inequivocabile no? So dove sei è un thriller che tratta di stalking. Come la cronaca nera, come il nuovo serial di Kevin Williamson, come quel grande libro che fu Nell'angolo più buio. L'esordio dell'inglese Claire Kendal parla di un qualcosa di così diffuso e abusato da risultare, all'apparenza, poco originale. Ma il romanzo, narrato sia in prima persona che in terza, sia diario che narrazione ordinaria, è la storia personale di una vittima, e ogni vittima ha una sua verità da comunicare, un messaggio da lanciare, giustizia da reclamare. L'autrice lascia parlare la sua Clarissa a briglie sciolte. Scortese togliere la parola a un personaggio di finzione che potrebbe essere attorno a noi, in cerca di un aiuto. O di un volto conosciuto, al prossimo incrocio, a consolidare le sue ansie persistenti. Clarissa è finita a letto con Rafe, un collega, e si sono fatte troppo piccole l'università, il quartiere, l'intera città: l'uomo l'ha intrappolata con le sue manie in altre manie. Di quella notte: solo i lividi e la confusione. Quello che è successo ma non doveva la porterà a rifugiarsi in un tribunale, membro della giuria nel processo di un crimine sessuale lungo e efferato, e a dare un nome a prede sbandierate per beffa in ambienti in cui non esiste sessualità senza dolore. L'autrice, maturissima, ripete il nome della sua protagonista cento volte. Come quando dici e ridici una cose, finché non ne perdi il senso profondo. Quelle reiterazioni, assillanti, rendono l'ossessione. Quel nome inconsueto, Clarissa, ricorda quello di colei che colloquiò con il male in Il silenzio degli innocenti. La caratterizzazione della protagonista, grazie a stralci di memorie dirette, è esemplare: una giovane donna con passioni d'altri tempi – il cucito, le favole, i principi azzurri – che non fa altro che inciampare negli uomini sbagliati. Rafe, il viscido aguzzino, e Robert, la nuova fiamma che le fiamme le spegne in un lavoro eroico e pericolosissimo. Ma qualcosa, nella seconda parte, non va. L'andamento discontinuo disperde l'attenzione, la parentesi giudiziaria porta a un fattore ignoto e superfluo, l'epilogo – soddisfacente, ma poco brillante – non regala sorprese. Restano una prima parte apprezzabile, uno stile riconoscibile e curato, la voglia di sviscerare l'argomento per guardare gli organi marci del mostro di turno. E vedere se ha un cuore che batte. Elementi che fanno di So dove sei un buon libro, ma un thriller che – per le troppe parole – non ti bracca.

Titolo: Agnes
Autrice: Peter Stamm
Editore: Beat
Numero di pagine: 155
Prezzo: € 9,00
Il mio voto: ★★★
La recensione: I libri che non sai inquadrare. Quelli che hanno qualcosa che non riesci a cogliere. Ingiudicabili, quasi. Introversi, ermetici, completi in minima parte. Libri come questo Agnes. Ben scritto, pieno di frasi da appuntare e rileggere, di una quiete che rilassa e conquista pian piano. La cosa più bella del romanzo dello svizzero Peter Stamm è un incipit che dice tutto e non dice niente. Inchioda, con la curiosità che cresce. Agnes è morta. L'ha uccisa un racconto. Ci sono due Agnes, in centocinquanta pagine: quella che il protagonista conosce in una giornata di pioggia in una biblioteca, a Chicago; e l'altra, quella di cui il protagonista scrive, all'inizio per scherzo, su insistenza di quella donna misteriosa e taciturna che gli è entrata prima in casa, poi nel cuore. All'inizio, verità e finzione coincidono. Il racconto del protagonista è un riassunto delle loro giornate, una sua versione di fatti realmente accaduti. Poi la Agnes del romanzo prende vita e, come gli scrittori sanno per esperienza diretta, il personaggio conduce il suo creatore davanti a svolte impreviste e dolorose, mentre la sua relazione con l'altra Agnes – la prima, la vera – giunge ad un bivio. L'amore per una donna, l'amore per la scrittura. Un racconto dedicato a una lei come fosse un ritratto: pagine per controllare la persona, così come si controlla la materia letteraria. Fino ad arrivare a rivolgersi all'amata in terza persona, a confonderla con la Agnes tra le pagine: quella che, insieme a lui, ha costruito una felicissima saga familiare, mentre nella realtà, amara, restano solo loro. Soli. In una città fredda e dispersiva. Primo romanzo che leggo dell'autore, Agnes si è rivelata una strana lettura, di cui ho idee confuse, ma non negative. Uno stile algido e asciutto, una prosa che sembra incisa nel legno, una storia d'amore, tra uno scrittore e una violoncellista che studia i misteri della matematica, destinata a finire già a pagina uno, che artiglia lo stomaco con un misto di inquietudine e sentimento. Si legge in un pomeriggio, ma ha ali pesanti. Agrodolce, decisa, tesa come una corda che aspetta la carezza dell'archetto. O il taglio netto di un paio di forbici. La felicità la si dipinge con dei punti, l'infelicità con delle linee. Se vuoi descrivere la nostra felicità, devi fare tanti piccoli punti, come Seurat. E che si tratta di felicità, lo si vedrà solo a distanza.”