venerdì 24 dicembre 2021

Che musica, maestro: West Side Story | Tick Tick... Boom! | Caro Evan Hansen | Annette | In the Heights

Ci sono quei grandi film che nella sala semivuota di uno spettacolo pomeridiano ti fanno sentire improvvisamente piccolo. La prima volta mi era successo con Moulin Rouge, l'ultima con La La Land. A sorpresa saluto dicembre con una di quelle visioni che ti colgono in poltrona elettrizzato, commosso e invidioso: un musical, l'ennesimo. Forse il genere che meglio rappresenta la potenza creatrice e immaginifica del cinema. La storia è nota. Negli anni Cinquanta, l'amore tra una coppia di novelli Romeo e Giulietta minaccia gli equilibri del quartiere: Jets e Sharks – gringo contro portoricani – lottano a passo di tip-tap. Rifacimento di un classico intramontabile, West Side Story rischia di essere schiacciato dalle uscite natalizie e dalla fama dei remake: si può bissare un capolavoro? Sì, se alla regia c'è uno dei più grandi registi viventi. Spielberg, alla tenera età di settantacinque anni, realizza un sogno: dirigere un musical. E le piroette della sua macchina da presa, instancabili, sono perfino più spettacolari di quelle del corpo di ballo. Rimodernati ma non troppo nell'era post-trumpiana, i protagonisti cantano come angeli e ballano come diavoli. Con buona pace del già popolare Elgort, questa volta si lasciano rubare la scena dai personaggi femminili: Rachel Zegler, innocente ma conscia della propria femminilità in boccio, incanta; Ariana DeBose, in odore di Oscar, è indimenticabile nel suo vestito giallo e emoziona nel dialogo con Rita Moreno, ossia la Anita della versione originale. Alcuni film non dovrebbero essere rimaneggiati, tuona qualcuno. Ma la verità è che alcuni film – alcuni spettacoli –, nonostante il già ampio minutaggio, non dovrebbero finire mai. Con il cuore in gola e nelle orecchie – boom boom boom boom: faceva il matto per rivaleggiare con l'indimenticabile colonna sonora di Leonard Bernstein –, mi sono scoperto piccolo e invidioso, sì. Perché l'ultimo Spielberg, tra movimenti di macchina, scenografie e costumi coloratissimi, è così contagioso nella sua magniloquenza da amareggiare lo spettatore medio e senza talento: è mai possibile, mi sono chiesto, che in vita mia non potrò mai dare il mio contributo a una cosa così? Il mio film del 2021 ha sessant'anni. (10)

Jonathan Larson, autore del leggendario Rent, morì a trentacinque anni all'alba del suo successo. Ma questa non è la genesi del suo capolavoro, né tanto meno la storia della sua fine precoce. Il film, dal titolo significativamente onomatopeico, è l'adattamento di uno dei suoi primi musical: un'opera autobiografica, spettacolo nello spettacolo, che racconta la gavetta tra palcoscenico e vita privata. Nella New York degli anni Novanta, in appartamenti in cui è sempre festa, vanno in scena le vite di Jon e dei suoi amici. Aspiranti artisti, sognano la fama e sbarcano il lunario con lavori da poco. Qualcuno scende a compromessi, qualcuno migra. Ma il protagonista, un Peter Pan orgogliosissimo, non si arrende: vuole che il suo musical fantascientifico, dopo una gestazione di otto anni, trovi finalmente un produttore. Il tutto prima di spegnere trenta candeline. Il tempo incalza, scorre. E scandisce le prove dello spettacolo, il diffondersi dell'Aids, le ossessioni del protagonista. Dirige, bene ma senza guizzi, il solito Lin-Manuel Miranda: il futuro di Broadway omaggia, così, il suo passato glorioso in un passaggio di testimone. Recita meravigliosamente (e canta, balle, ride, piange) un Andrew Garfield al centro della performance dell'anno: versatile, poliedrico, febbrile, regge uno show degno di Robin Williams. Più memorabile per la sua prova vincente che per il resto, nonostante un gran ritmo e qualche pezzo particolarmente trascinante, il film tocca gli inguaribili sognatori. E chi, come me, si è segretamente già arreso al compromesso dell'età adulta. (7)

Può un musical cantare la depressione, l'ansia sociale, il suicidio? Succede se uno spettacolo già rivoluzionario viene portato al cinema dal regista di Noi siamo infinito e Wonder: terapeutici senza essere didascalici. Accolto negativamente dalla critica, Dear Evan Hansen continua in realtà la lezione di gentilezza avviata con i film precedenti. Il protagonista sotto ansiolitici torna a scuola con un braccio rotto e tanta voglia di riscatto: per via di un fraintendimento, finisce per essere considerato il migliore amico del coetaneo tossicodipendente che si è tolto la vita. Troppo vicino alla famiglia di Connor per tirarsi indietro, inventa una corrispondenza con il defunto. Diventa virale. Può un bugiardo diventare, suo malgrado, l'idolo di una generazione? La voce di Ben Platt, emozione pura, intona ritornelli struggenti contro i tabù. Bravissimo nel rendere i tic e le contraddizioni del suo personaggio, viene affiancato da qualche personaggio in grado di alleggerire i toni e da due dive d'eccezione: Julianne Moore e Amy Adams, impegnate in camei di lusso. Tra una canzone e l'altra, sorgono sentimenti contrastanti verso Evan. Cosa avremmo fatto al suo posto, alla sua età, per essere finalmente visti? L'ultimo Chbosky ti abbraccia forte. E ti tira anche un ceffone. Com'è che si dice? Sii gentile, ognuno sta combattendo in segreto i propri demoni. Dear Evan Hansen, ben cantato e musicato, è la colonna sonora della nostra battaglia. (7,5)

In un Festival di Cannes dove a sorpresa ha trionfato Titane, body horror con tanto di rapporto sessuale tra donna e automobile, non poteva esserci film d'apertura più audace e bizzarro di questo: il ritorno di Leos Carax, regista da me incompreso o forse incomprensibile, questa volta alle prese con il musical. La sequenza d'apertura, bellissima, infrange la quarta parete e ci invita a trattenere il respiro davanti a una storia d'amore mozzafiato. Peccato che il resto sia un delirio d'autore senza capo né coda in cui il caustico Adam Driver s'innamora della sognante Marion Cotillard. Nascerà una figlia prodigiosa, con le fattezze di una grottesca marionetta. A dispetto della strabordante presenza scenica del primo e della grazia della seconda, ridotta qui a una bidimensionale Biancaneve, il film si perde definitivamente nella seconda parte: tragedia cupissima, di gelosia e ambizione, i cui risvolti crime sono annunciati sin dal trailer. Come gli eroi dell'opera lirica, i protagonisti di Annette si esprimono per tutto il tempo in un recitar cantando a corto di ritornelli memorabili. Vivono d'arte, muoiono d'amore, cantano dappertutto (anche al bagno o praticando sesso orale). Musical alienante e dalla durata fluviale, veicola le stranezze e le idiosincrasie del regista risultando francamente inutile e pretenzioso. È un cinema divisivo, da amare o odiare: io l'ho odiato. (4)

Da Lin-Manuel Miranda, autore di Hamilton, arriva al cinema un musical già passato con successo a Broadway. Dirige il regista di Crazy Rich Asians, a proprio agio coi cast belli e popolosi, le resse e i colori sfavillanti. Si canta un quartiere di New York. Ma non è West Side Story. Leggerissimo, il film è una fiaba melensa sull'immigrazione e il multiculturalismo ambientata nel barrio in cui è felicemente riunita la comunità latina. Il protagonista pensa di tornare in Repubblica Dominicana, di aprire un bar sulla spiaggia. Ma c'è chi sta bene dove sta e ambisce a un salto di carriera. E chi, bollato come promettente, fa i conti con il sottile razzismo sperimentato lontano dagli Heights. Su tutti veglia un'anziana, la saggia nonna del quartiere, che predica pazienza e fede. Sognano notte e giorno, i protagonisti. Giovani e vecchi, non importa. Si muovono a ritmo di salsa e di hip hop. Sono al centro di coreografie straordinarie, ma le canzoni memorabili purtroppo non sono di casa benché cantino sempre: durate i blackout, sudatissimi, poveri, dati per vinti. Felici anche nelle ristrettezze, illuminano gli attimi di panico coi fuochi artificiali. Assembramento irresistibile ma sin troppo caotico e dispersivo, il film è una festa di quartiere all'insegna degli affetti stabili e del comfort food. Un flash mob piacevole, ma lungo in maniera ingiustificata data la pochezza della trama, che piacerà agli americani ma lascerà più indifferenti noialtri. (6)

6 commenti:

  1. Ho un po' di timore a guardare il "nuovo" West Side Story" avendo adorato l'originale che è uno dei miei musical preferiti. Ma la tua recensione mi ha incuriosito, per cui gli darò una chance.
    Nel mentre ti auguro buon Natale e buone Feste.
    A presto!

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    1. Buon Natale, Mariella! Ti consiglio di andarlo a vedere, è una gioia per i sensi. Bellissimo.

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  2. Ora voglio vedere ancora di più Annette 😛
    E auguri!

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  3. Considerando che già il West Side Story originale mi aveva fatto tutt'altro che impazzire, ho come il sospetto che Spielberg da me si beccherà tutt'altro che un 10. Ma staremo a vedere... :)

    Annette l'ho amata, è l'unico musical visto di recente che mi è piaciuto. Tick, Tick, Boom invece l'ho trovato una schifezzuola, sia a livello cinematografico che musicale.

    Dear Evan Hansen negli USA e un po' ovunque l'hanno demolito, il tuo è forse il primo parere positivo nel mondo che ho letto: sono curioso, chissà chi ha ragione?

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    1. Secondo me Dear Evan Hansen ti piacerebbe. Malinconico, agrodolce, anche scomodo a tratti.

      In quanto a West Side Story: no, secondo me non ti piacerà. Mi darai tanti dolori, già lo so. :(

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