Con
il suo bagaglio di tematiche scottanti – scandali sessuali, fake
news, donne di potere, metoo – si è rivelata la serie più attuale
dell’anno appena passato. Recuperata a fine dicembre e aggiunta al
listone all’ultimo momento, di The Morning Show potrei
parlare come di una sorpresa inaspettata. Ma, in parte, mentirei. Che
senso ha dirsi meravigliati della perfetta riuscita di una produzione
che vanta un cast di sole stelle, per cui gli sceneggiatori hanno
scritto alcuni dei migliori copioni in circolazione? Hanno già
parlato le candidature ai Golden Globe nelle categorie principali.
Hanno già commentato i social, divisi tra Jennifer Aniston e Reese
Whiterspoon: chi è la più bella, chi la più simpatica, chi la più
brava? Sin dalla prima puntata, è sfida aperta. Se la prima è una
conduttrice sul viale del tramonto con un divorzio nell’aria,
conservatrice e perbenista, l’altra è una cronista volgare e
battagliera le cui sfuriate sono già diventate virali: donne dalle
vedute opposte – sul lavoro, sulla vita, sul tacere o sul
denunciare – si troveranno sedute alla stessa scrivania
all’indomani della denuncia che ha rovinato la reputazione di Steve
Carell. Ex volto del notiziario del mattino, fascinoso e piacione, il
cinquantenne ha davvero stuprato un’assistente? Alla forza dei
cinque episodi iniziali sono purtroppo fatti seguire i toni meno
incisivi dei restanti, e la piega degna di un thriller d’inchiesta
– per quanto importante – risulta un po’ prevedibile. Molto più
di una semplice catfight, molto più di un je accuse ai
tempi di Harvey Weinstein, la serie Apple si regge però sulla
potenza delle performance – per me, questa volta, la spunta una
Aniston che non ti aspetti – e sulla caratterizzazione magistrale
di protagonisti e comprimari – occhio a Crudup e Duplass, accanto a
una struggente Gugu Mbatha-Raw – indagati sin nelle contraddizioni
più profonde. Poteva il dramma sui retroscena del mondo della
televisione non finire nel meglio di un anno di TV? La domanda è
retorica, la risposta scontata: soprattutto se, nel parlare della
cultura del silenzio, intervengono dialoghi tanto clamorosi. (7,5)
Il
lupo perde il pelo ma non il vizio. Il nostro psicopatico preferito,
abbandonata Brooklyn per Los Angeles, cambia nome e città. Dopo il finale shock della prima stagione, ha trovato in fretta un altro impiego, un’altra ragazza,
altri guai. Lavora sempre coi libri. E la sua vicina di casa, benché
questa volta provvista di tende, riaccende prestissimo il fuoco
dell’ossessione nonostante il proposito di diventare buono. Joe,
ribattezzato Will, ci prova davvero. Ma come fare con le due
dirimpettaie, pericolosamente vicine a un personaggio noto per molestie? Dove piantare in asso Forty, datore di
lavoro con velleità da sceneggiatore? E, soprattutto, possibile
smettere di pensare alla sorella gemella di quest’ultimo se ha un
nome che è tutto un programma: Love? Catapultato in una metropoli di
luci e ombre, il protagonista si troverà a non essere l’unico
pazzo in circolazione. Inizialmente prodotto da Lifetime, poi passato a Netflix in corso
d’opera, il thriller sullo stalking e gli amori tossici purtroppo o
per fortuna non aggiusta il tiro nel passaggio: perfino più trash
degli esordi, sanguinosissimo ma leggero altrettanto, You rinuncia
agli ultimi scampoli di serietà – la prima stagione, al contrario,
conservava ancora l’impronta dell’omonimo romanzo – per
confermarsi il guilty pleasure definitivo. Tra app d’incontri,
pasticcini ed ex che ritornano, calca la mano sulla componente
umoristica e si affida al carisma innegabile di Penn Badgley – che
bei maglioni che sfoggia qui – accompagnato da un’ottima Victoria
Pedretti, indimenticabile in The Haunting of Hill House e
superiore sia per talento che per bellezza alla defunta Elizabeth
Lail. Il finale, scoppiettante, preannuncia una terza stagione
altrettanto borderline. Peccato per qualche svolta da soap opera nel
mezzo, con tanto di ridicolo trip sotto LSD: troppo, anche per uno
spettatore che non si formalizza come il sottoscritto. Insomma: la si
divora, ma si preferisce la prima; la si prende in giro, ma
segretamente ne vorremmo ancora. Senza mezze misure, questo guilty
pleasure è così colpevole che potremmo buttare via la chiave. E
andarlo a trovare saltuariamente, dietro le sbarre, come se You
fosse Hannibal Lecter e noi la povera Clarice. (6,5)
Il
cinema, la sessualità, le mamme. Alla luce del mio recente
recupero, impossibile non pensare alla poetica di Pedro Almodòvar:
uno dei pochi registi stranieri a non avere mai ceduto alle sirene
delle major. Nell'errore, al contrario, è incappato l'adoratissimo
Xavier Dolan: il ragazzo prodigio, ormai cresciuto, sognava Hollywood
sin dall'infanzia. Il suo sogno americano, non a caso, contiene
tracce innumerevoli di lui. Attore bambino con la cameretta
tappezzata di poster, tormentato a scuola al suon di insulti
omofobici, fa dell'ambizioso Jacob Tremblay il suo alter-ego; trova
rifugio, per fortuna, nell'intrattenimento – vengono citati Jumanji,
Il giardino segreto, la saga di Harry Potter – e
nella venerazione di un teen idol sulla cresta dell'onda. Come starà
vivendo il suo mito i giorni di gloria?
Partito per l'estero ma sempre nella sua comfort zone, Dolan cerca
compromessi che non lo accontentano fino in fondo. Ma la stessa
frustrazione, diciamolo subito, non è vissuta anche dagli spettatori.
Lontano dal disastro descritto dagli statunitensi, La mia vita con
John F. Donovan non è forse
l'opera della maturità che si domandava a un regista trentenne ma,
benché mainstream, mostra un Dolan che non si tradisce. A
differenza dei classici tranche de viedella
provincia canadese, il suo ultimo film è un triplice melodramma:
macchinoso giacché scrittissimo, scricchiola a causa di una
scrittura romanzesca che nel bene e nel male limita i colpi di testa
dell'autore. Rivestito di tutto punto, il regista in trasferta porta
con sé la coperta di Linus dei temi cari pur rivestendoli con la
patina attraente del cinema a stelle e strisce. Mentre la giornalista
Thandie Newton prende appunti, assistiamo alla biografia fittizia di
una stella emergente che vendette l'anima al successo.
Particolarmente coraggiosa, allora, appare la scelta di un Kit
Harington a un passo dall'implodere: la star della HBO polemizza con
il suo ruolo di mentore del piccolo schermo e, con amara ironia,
anticipa le dipendenze che di recente lo hanno condotto in rehab fra
un pettegolezzo all'altro. Omosessuale represso, si ritrova nelle
canzoni a squarciagola alla radio o nella vasca di mamma: una Saradon
invadente quanto la miglior Dorval, a cui si contrappone dall'altra
parte una Portman fredda e disattenta. La sceneggiatura è un taglia
e cuci a cui neanche il montaggio funambolico riesce a star dietro. Per
questioni di minutaggio sono stati tagliati personaggi e passaggi:
su tutti, imperdonabile, quello a proposito della nascita di una
scandalosa amicizia epistolare che nei fatti non c'è, quando
dovrebbe essere invece il cuore della storia. Ma restano
quel paio di scene madri da pelle d'oca; una colonna sonora che
spazia da Florence ad Adele, dai Verve ai Green Day; un cast
esageratamente assortito, con piani narrativi che combaciano purtroppo a
fatica con il resto. Il regista canadese fa i conti con le
aspettative altrui, la fama precoce e il bullismo subito, in un'altra
questione privata che somiglia tanto a una seduta psicoanalitica. In
poltrona, emozionati, vogliamo bene alla perseveranza e alla
schiettezza mostrate. Peccato che a rendergliene merito, al cinema,
fossimo appena in tre. Somigliassero tutti a questo Dolan fuori fuoco, i flop
annunciati. (7)
Cosa
significa essere il genitore di un tossicodipendente che non vuole
lasciarsi salvare? Ispirato alle memorie del giornalista
David Sheff, Beautiful Boy racconta
la sua coraggiosa odissea accanto al figlio Nic: accettato da sei
college alla fine del liceo, in cerca dello svago meritato, il diciassettenne ricade
nel tunnel delle dipendenze. Se un dolcissimo Carrell regala ormai più
soddisfazioni come attore serio che nei passati ruoli comici, il
coprotagonista Chalamet sfoggia lacrime di coccodrillo che vengono
presto a noia. Gli ambienti luminosi e confortevoli delle ville
alto-borghesi, distanti dai ghetti malfamati dell'immaginario
collettivo, incorniciano le levatacce del primo e le notti in bianco
del secondo; le ansie, i sospetti innumerevoli e le bugie impenitenti
di un adolescente carismatico ma difficile da amare. L'amore di un
padre, così, ispira una ricerca sul campo in una tragedia comune a tante,
troppe famiglie, con un epilogo per una volta eccezionalmente
fortunato. Ma la guarigione, scontata e didascalica, passa attraverso
lunghi abbracci, discorsi motivazionali e ricadute snervanti in quanto continue. Depotenziando un dramma familiare già compassato,
nonostante i duetti da Actor's Studio, la cui maggiore delusione è
attribuibile al lavoro del regista. Dopo il meraviglioso Alabama Monroe, Felix Van Groening usa
il marchio di fabbrica di un montaggio frammentario – nel film
precedente una poesia contemporanea, qui fonte perenne di
sconcentrazione – per girare senza un piano costruttore, al suon
dell'invadente colonna sonora indie, un brutto episodio di This
is us. In quale vicolo sudicio
ripescare Nic; in quale clinica ricoverarlo? Molto meno affannosa, al
contrario, la domanda che ci ponevamo all'inizio, sapendo Beautiful
Boy tagliato fuori dalla
stagione dei premi: perché il cuore freddo di critici e giurati,
davanti a un caso di coscienza che – a torto, su carta – ci sembrava
struggente? (5,5)
Lui
è un lupo di mare con un'amante focosa in ogni porto. Lei, femme
fatale poco convincente sin dalla tinta bionda, è una ex in cerca di
aiuto contro il marito manesco. Potrebbe sembrare un giallo
hitchcockiano, se non fosse per la presenza di un personaggio
secondario che proprio non ci si spiega: un omino occhialuto e bizzarro, così
fuori posto e dal ruolo così imprevedibile. Su una bellissima
isola che non c'è, dove tutti sanno tutto di tutti, si muovono con
il pilota automatico personaggi in crisi: irrisolti, incompresi, si
consolano ora con il rum a fiumi, ora con i tuffi spericolati dalle scogliere a picco.
Nel mentre, pianificano il delitto perfetto o aspettano l'arrivo delle
mareggiate. Se la collega Anne Hathaway, qui al suo peggio, è un
pesce fuor d'acqua, Matthew McConaughey ha sprezzo dei suoi
cinquant'anni portati alla grande: fuma e trinca, praticando l'amore libero,
e concede più del solito a favor di telecamera un lato B estraneo
alla forza di gravità. La fotografia assolata e il sex appeal dei
protagonisti, comunque, non distraggono: il bastonatissimo
Serenity, altro film
sabotato dalla critica, a volte incappa in scivoloni grossolani o
buchi di sceneggiatura grandi quanto voragini; altre nella stranezza
di colpi di scena talmente campati in aria da risultare quasi degni
di stupore. Alla deriva, senza una meta condivisibile, Steve Knight –
altro che ha perso la bussola, dopo il successo di Locke–
si dà a una risoluzione tanto inattesa quanto surreale, incoerente
con il resto ma toccante a modo suo, in cui il McConaughey nudista
sembra tornare a indossare la tuta spaziale del padre di Intestellar.
Un po' thriller erotico anni Ottanta, un po' videogioco avventuroso,
Serenity finisce per
essere un divertente nulla di fatto. Un incrocio bizzarro, difficile
da incasellare nel cinema dello sceneggiatore americano e,
soprattutto, nella carriera di due premi Oscar. Come hanno potuto
abboccare? (5)
Ci
si aspettava poco. Dalla riproposizione di un cartone niente affatto
apprezzato da bambino. Dall'ennesimo live action di cui in fondo non
si sentiva il bisogno, con Aladdin e Il re leone già
attesi al varco nei prossimi mesi. Dal ritorno al cinema di Tim
Burton, mio regista del cuore, che purtroppo non indovina il film
giusto dai tempi del sentito Frankenweenie. Si è andati in
sala senza grandi pretese, con il biglietto pagato tre euro in
promozione e un pubblico misto di pargoli e nostalgici. La sorpresa,
se di sorpresa si può parlare, è che Dumbo risulti efficace nel suo niente di indispensabile. La fiaba animalista,
debitamente aggiornata alla luce di una morale necessaria,
più che a un adattamento somiglia a un seguito non dichiarato. Cos'è
stato dell'elefante bullizzato per le orecchie a sventola, dopo le
sue magiche lezioni di volo? La prima parte, a metà fra omaggio e
ammodernamento, è il cartone originale: qualcosa resta, come la
toccante Bimbo mio o
la famosa sequenza degli elefanti rosa; qualcosa si perde, come il
topolino per aiutante qui rimpiazzato dal reduce Farrell e dalla
terribile bambina protagonista, scelta più per mamma Thandie Newton
che per un'espressività che lascia molto a desiderare. Nella
seconda, da emarginato a stella, il protagonista attira le attenzioni
di Keaton, cattivo bidimensionale con al seguito l'incantevole e
ribelle Eva Green: la scalcagnata compagnia di De Vito, già circense
nell'insuperato Big Fish,
viene inglobata da una multinazionale da sogno. O da incubo? La
bestialità degli uomini e l'umanità degli animali emergerann, come
da copione, in una chiusa che è la parte debole: un trionfo di fuochi
e fiamme, d'ingombrante CGI, che perdeo amaramente il confronto con
la riuscita animazione dell'elefantino. Perché il nuovo Dumbo è
sempre lo stesso: imbranato e tenerissimo, cerca la mamma tenuta in
cattività e minaccia di commuoverci spesso da dietro i suoi grandi
occhi azzurri. Perché Burton, nel bene e nel male, è Burton:
scolastico ma in discreta forma, nonostante il lavoro alla buona
degli sceneggiatori, ripropone con trasporto la classica parabola
dell'emarginato: la poetica del freak, che perde d'originalità in
casa Disney, ma lascia spunti di riflessione ai giovanissimi. È il
compito di un film per famiglie tanto godibile quanto convenzionale,
che condanna la barbarie fuori moda del circo, omaggia la tecnologia
e la creatività degli artisti tutti e, nel suo piccolo, sa farti
volare a mezz'aria grazie alle orecchie di un'attrazione principali
davanti cui è impossibile non sospirare, inteneriti. (6)
Marwen
è un villaggio fittizio in Belgio, assiepato dai nazisti e difeso da
un esercito di donne armate fino ai denti. Marwen, ancora, è un
mondo in miniatura che si rivela essere ben presto lo specchio
consolatorio della realtà: l'elaborazione di un uomo sofferente, con
la testa spaccata da una gang di teppisti, mentre si perde appresso
agli amori platonici e a missioni di salvataggio degne di una spy
story. Disegnatore e miniaturista, divorziato, Mark Hogan nutre una
venerazione per il gentil sesso e il pallino per le scarpe con il
tacco. Un'ossessione mai chiarita, che suo malgrado l'ha reso
protagonista di un tragico attacco omofobico. Traumatizzato, adesso
vive attraverso i suoi giocattoli. Lì è un soldato valente e
fascinoso, che porta con orgoglio le cicatrici di guerra. Lì la sua
vicina di casa, una deliziosa Leslie Mann, accetterebbe di sposarlo
su due piedi. Apologo per grandi e piccini, a sorpresa flop al
botteghino, Benvenuti a Marwen ha la regia di un Zemeckis in
forma smagliante benché sottovalutato, effetti visivi ineccepibili –
con loro, scenografie e costumi –, un attore protagonista che fa la
differenza. Steve Carrell, senza scimmiottare il ben più famoso
Forrest Gump, è come Carrey: un attore comico che, cosa ormai
assodata, fa faville nei drammi, grazie a un sorriso svagato che
riesce ad essere tenero e struggente insieme. Peccato che la
sceneggiatura fatichi a decollare. Se l'idea di girare un biopic a
confine fra animazione e live action appare brillante,
sfortunatamente non segue a ruota una scrittura senza guizzi che
lascia fare tutto al comparto tecnico; all'espressività del
mattatore Carrell, colto nel divenire di un viaggio che racconta i
meccanismi di difesa, la dipendenza da antidolorifici, il velo di
Maya dei filosofi moderni. Quello che ottunde i sensi, ammortizza e
c'inganna. Insieme a Mark, un superstite, dovremmo perciò imparare a
discernere: la vita, infatti, non è una casa di bambole. (6,5)
Chiunque
abbia avuto la sfortuna di sedere in un'aula di tribunale ricorderà
le sedie sbrindellate, le attese estenuanti, le domande degli
avvocati che scavano come vanghe. La sensazione di
disagio, la ferrea volontà di non rimetterci mai più piede. Ma una sera, per
caso, ho scoperto che i tribunali non servono soltanto alla caccia
alle streghe; alle famiglie che finiscono. Realizzarlo, durante la
visione dell'inatteso Instant Family, mi ha commosso in
poltrona. Questa è la storia di una coppia senza figli, liberamente
ispirata alle vicissitudini dello stesso regista, che si sobbarca
un'impresa difficile il triplo: adottare, sì, ma un'orfana ormai
adolescente. E i suoi due fratelli minori. Con la loro età
malsicura, con i loro traumi, con la voglia di riabbracciare ancora la
mamma spacciatrice. Sulle orme di Una scatenata dozzina e This
is us, a metà fra l'intrattenimento godereccio e i mèlo dai
buoni sentimenti, Sean Anders indovina gli equilibri vincenti di una
commedia affatto originale, ma a modo suo sorprendente. Un film
vecchio stile che è proprio quello che appare, ma anche l'esatto
contrario. Ben scritto, recitato con contagiosa armonia – accanto a
Wahlberg e Byrne, occhio alle esilaranti caratteriste Spencer,
Cusack, Martindale –, in una serata leggerissima mi ha strappato
lacrime e risate in quantità. Rischiava di passare inosservato,
eppure, per via del solito poster, per colpa del solito cast. Un tema
lodevole è affrontato con realismo inatteso, invece, e note scorrette che non
guastano. Perché genitori si diventa, si diventa
una famiglia. Basta imparare: insieme. (7+)
E
se un invito anonimo promettesse di renderti finalmente felice?
Succede a una trentenne in crisi, con una carriera fallimentare in
campo artistico e una convivenza forzata sotto il tetto di mamma e
papà. Si improvvisa a malincuore segretaria, benché nel frattempo
punti ai mondi impossibili del proprio inconscio grazie a un
pigmalione dai completi variopinti: un Samuel L. Jackson istrionico
ai limiti dell'irritazione, che alla protagonista con la testa fra le
nuvole spalanca all'improvviso le porte del sogno. Invitandola a
prestare fede all'immaginazione. Ma quando è un bene, quando un
male, quando alienazione pura? I bontemponi sono definiti eterni
Peter Pan, ma le donne si figurano segretamente addestratrici di
unicorni. Store Unicorn, commedia strampalate dalle
scenografie arcobaleno e le luci iridescenti, ricorre al bagaglio di
uno spirito fanciullesco come antidoto a un'infanzia solitaria e a
una giovinezza interrotta. In questo bailamme di personaggi dolci e
surreali, dotati di un umorismo talmente particolare che potrebbe non
piacere a tutti, spicca il “capitano” Brie Larson: qui impegnata
in una doppia veste. Che piacere rivederla alle prese con i pregi e i
difetti del cinema indie, momentaneamente in pausa dai blockbuster
Marvel! Che piacere rivederla alle origini, nei panni di
un'infaticabile sognatrice, mentre mette in scena i mostri e le fate
negli armadi del suo passato, in una fiaba sui generis tutt'altro che
memorabile ma comunque molto sentita! Mentre si prepara ad accogliere
l'amico mitologico allestendo una mangiatoia, per la prima volta torna a vivere. Si guarda intorno, e non è
da sola. Un po', la aspettavamo noi. (6)