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sabato 4 gennaio 2020

I ♥ Telefilm: The Morning Show | You S02

Con il suo bagaglio di tematiche scottanti – scandali sessuali, fake news, donne di potere, metoo – si è rivelata la serie più attuale dell’anno appena passato. Recuperata a fine dicembre e aggiunta al listone all’ultimo momento, di The Morning Show potrei parlare come di una sorpresa inaspettata. Ma, in parte, mentirei. Che senso ha dirsi meravigliati della perfetta riuscita di una produzione che vanta un cast di sole stelle, per cui gli sceneggiatori hanno scritto alcuni dei migliori copioni in circolazione? Hanno già parlato le candidature ai Golden Globe nelle categorie principali. Hanno già commentato i social, divisi tra Jennifer Aniston e Reese Whiterspoon: chi è la più bella, chi la più simpatica, chi la più brava? Sin dalla prima puntata, è sfida aperta. Se la prima è una conduttrice sul viale del tramonto con un divorzio nell’aria, conservatrice e perbenista, l’altra è una cronista volgare e battagliera le cui sfuriate sono già diventate virali: donne dalle vedute opposte – sul lavoro, sulla vita, sul tacere o sul denunciare – si troveranno sedute alla stessa scrivania all’indomani della denuncia che ha rovinato la reputazione di Steve Carell. Ex volto del notiziario del mattino, fascinoso e piacione, il cinquantenne ha davvero stuprato un’assistente? Alla forza dei cinque episodi iniziali sono purtroppo fatti seguire i toni meno incisivi dei restanti, e la piega degna di un thriller d’inchiesta – per quanto importante – risulta un po’ prevedibile. Molto più di una semplice catfight, molto più di un je accuse ai tempi di Harvey Weinstein, la serie Apple si regge però sulla potenza delle performance – per me, questa volta, la spunta una Aniston che non ti aspetti – e sulla caratterizzazione magistrale di protagonisti e comprimari – occhio a Crudup e Duplass, accanto a una struggente Gugu Mbatha-Raw – indagati sin nelle contraddizioni più profonde. Poteva il dramma sui retroscena del mondo della televisione non finire nel meglio di un anno di TV? La domanda è retorica, la risposta scontata: soprattutto se, nel parlare della cultura del silenzio, intervengono dialoghi tanto clamorosi. (7,5)

Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Il nostro psicopatico preferito, abbandonata Brooklyn per Los Angeles, cambia nome e città. Dopo il finale shock della prima stagione, ha trovato in fretta un altro impiego, un’altra ragazza, altri guai. Lavora sempre coi libri. E la sua vicina di casa, benché questa volta provvista di tende, riaccende prestissimo il fuoco dell’ossessione nonostante il proposito di diventare buono. Joe, ribattezzato Will, ci prova davvero. Ma come fare con le due dirimpettaie, pericolosamente vicine  a un personaggio noto per molestie? Dove piantare in asso Forty, datore di lavoro con velleità da sceneggiatore? E, soprattutto, possibile smettere di pensare alla sorella gemella di quest’ultimo se ha un nome che è tutto un programma: Love? Catapultato in una metropoli di luci e ombre, il protagonista si troverà a non essere l’unico pazzo in circolazione. Inizialmente prodotto da Lifetime, poi passato a Netflix in corso d’opera, il thriller sullo stalking e gli amori tossici purtroppo o per fortuna non aggiusta il tiro nel passaggio: perfino più trash degli esordi, sanguinosissimo ma leggero altrettanto, You rinuncia agli ultimi scampoli di serietà – la prima stagione, al contrario, conservava ancora l’impronta dell’omonimo romanzo – per confermarsi il guilty pleasure definitivo. Tra app d’incontri, pasticcini ed ex che ritornano, calca la mano sulla componente umoristica e si affida al carisma innegabile di Penn Badgley – che bei maglioni che sfoggia qui – accompagnato da un’ottima Victoria Pedretti, indimenticabile in The Haunting of Hill House e superiore sia per talento che per bellezza alla defunta Elizabeth Lail. Il finale, scoppiettante, preannuncia una terza stagione altrettanto borderline. Peccato per qualche svolta da soap opera nel mezzo, con tanto di ridicolo trip sotto LSD: troppo, anche per uno spettatore che non si formalizza come il sottoscritto. Insomma: la si divora, ma si preferisce la prima; la si prende in giro, ma segretamente ne vorremmo ancora. Senza mezze misure, questo guilty pleasure è così colpevole che potremmo buttare via la chiave. E andarlo a trovare saltuariamente, dietro le sbarre, come se You fosse Hannibal Lecter e noi la povera Clarice. (6,5)

venerdì 28 giugno 2019

Mr. Ciak: La mia vita con John F. Donovan | Beautiful Boy | Serenity

Il cinema, la sessualità, le mamme. Alla luce del mio recente recupero, impossibile non pensare alla poetica di Pedro Almodòvar: uno dei pochi registi stranieri a non avere mai ceduto alle sirene delle major. Nell'errore, al contrario, è incappato l'adoratissimo Xavier Dolan: il ragazzo prodigio, ormai cresciuto, sognava Hollywood sin dall'infanzia. Il suo sogno americano, non a caso, contiene tracce innumerevoli di lui. Attore bambino con la cameretta tappezzata di poster, tormentato a scuola al suon di insulti omofobici, fa dell'ambizioso Jacob Tremblay il suo alter-ego; trova rifugio, per fortuna, nell'intrattenimento – vengono citati Jumanji, Il giardino segreto, la saga di Harry Potter – e nella venerazione di un teen idol sulla cresta dell'onda. Come starà vivendo il suo mito i giorni di gloria? Partito per l'estero ma sempre nella sua comfort zone, Dolan cerca compromessi che non lo accontentano fino in fondo. Ma la stessa frustrazione, diciamolo subito, non è vissuta anche dagli spettatori. Lontano dal disastro descritto dagli statunitensi, La mia vita con John F. Donovan non è forse l'opera della maturità che si domandava a un regista trentenne ma, benché mainstream, mostra un Dolan che non si tradisce. A differenza dei classici tranche de vie della provincia canadese, il suo ultimo film è un triplice melodramma: macchinoso giacché scrittissimo, scricchiola a causa di una scrittura romanzesca che nel bene e nel male limita i colpi di testa dell'autore. Rivestito di tutto punto, il regista in trasferta porta con sé la coperta di Linus dei temi cari pur rivestendoli con la patina attraente del cinema a stelle e strisce. Mentre la giornalista Thandie Newton prende appunti, assistiamo alla biografia fittizia di una stella emergente che vendette l'anima al successo. Particolarmente coraggiosa, allora, appare la scelta di un Kit Harington a un passo dall'implodere: la star della HBO polemizza con il suo ruolo di mentore del piccolo schermo e, con amara ironia, anticipa le dipendenze che di recente lo hanno condotto in rehab fra un pettegolezzo all'altro. Omosessuale represso, si ritrova nelle canzoni a squarciagola alla radio o nella vasca di mamma: una Saradon invadente quanto la miglior Dorval, a cui si contrappone dall'altra parte una Portman fredda e disattenta. La sceneggiatura è un taglia e cuci a cui neanche il montaggio funambolico riesce a star dietro. Per questioni di minutaggio sono stati tagliati personaggi e passaggi: su tutti, imperdonabile, quello a proposito della nascita di una scandalosa amicizia epistolare che nei fatti non c'è, quando dovrebbe essere invece il cuore della storia. Ma restano quel paio di scene madri da pelle d'oca; una colonna sonora che spazia da Florence ad Adele, dai Verve ai Green Day; un cast esageratamente assortito, con piani narrativi che combaciano purtroppo a fatica con il resto. Il regista canadese fa i conti con le aspettative altrui, la fama precoce e il bullismo subito, in un'altra questione privata che somiglia tanto a una seduta psicoanalitica. In poltrona, emozionati, vogliamo bene alla perseveranza e alla schiettezza mostrate. Peccato che a rendergliene merito, al cinema, fossimo appena in tre. Somigliassero tutti a questo Dolan fuori fuoco, i flop annunciati. (7)

Cosa significa essere il genitore di un tossicodipendente che non vuole lasciarsi salvare? Ispirato alle memorie del giornalista David Sheff, Beautiful Boy racconta la sua coraggiosa odissea accanto al figlio Nic: accettato da sei college alla fine del liceo, in cerca dello svago meritato, il diciassettenne ricade nel tunnel delle dipendenze. Se un dolcissimo Carrell regala ormai più soddisfazioni come attore serio che nei passati ruoli comici, il coprotagonista Chalamet sfoggia lacrime di coccodrillo che vengono presto a noia. Gli ambienti luminosi e confortevoli delle ville alto-borghesi, distanti dai ghetti malfamati dell'immaginario collettivo, incorniciano le levatacce del primo e le notti in bianco del secondo; le ansie, i sospetti innumerevoli e le bugie impenitenti di un adolescente carismatico ma difficile da amare. L'amore di un padre, così, ispira una ricerca sul campo in una tragedia comune a tante, troppe famiglie, con un epilogo per una volta eccezionalmente fortunato. Ma la guarigione, scontata e didascalica, passa attraverso lunghi abbracci, discorsi motivazionali e ricadute snervanti in quanto continue. Depotenziando un dramma familiare già compassato, nonostante i duetti da Actor's Studio, la cui maggiore delusione è attribuibile al lavoro del regista. Dopo il meraviglioso Alabama Monroe, Felix Van Groening usa il marchio di fabbrica di un montaggio frammentario – nel film precedente una poesia contemporanea, qui fonte perenne di sconcentrazione – per girare senza un piano costruttore, al suon dell'invadente colonna sonora indie, un brutto episodio di This is us. In quale vicolo sudicio ripescare Nic; in quale clinica ricoverarlo? Molto meno affannosa, al contrario, la domanda che ci ponevamo all'inizio, sapendo Beautiful Boy tagliato fuori dalla stagione dei premi: perché il cuore freddo di critici e giurati, davanti a un caso di coscienza che – a torto, su carta – ci sembrava struggente? (5,5)

Lui è un lupo di mare con un'amante focosa in ogni porto. Lei, femme fatale poco convincente sin dalla tinta bionda, è una ex in cerca di aiuto contro il marito manesco. Potrebbe sembrare un giallo hitchcockiano, se non fosse per la presenza di un personaggio secondario che proprio non ci si spiega: un omino occhialuto e bizzarro, così fuori posto e dal ruolo così imprevedibile. Su una bellissima isola che non c'è, dove tutti sanno tutto di tutti, si muovono con il pilota automatico personaggi in crisi: irrisolti, incompresi, si consolano ora con il rum a fiumi, ora con i tuffi spericolati dalle scogliere a picco. Nel mentre, pianificano il delitto perfetto o aspettano l'arrivo delle mareggiate. Se la collega Anne Hathaway, qui al suo peggio, è un pesce fuor d'acqua, Matthew McConaughey ha sprezzo dei suoi cinquant'anni portati alla grande: fuma e trinca, praticando l'amore libero, e concede più del solito a favor di telecamera un lato B estraneo alla forza di gravità. La fotografia assolata e il sex appeal dei protagonisti, comunque, non distraggono: il bastonatissimo Serenity, altro film sabotato dalla critica, a volte incappa in scivoloni grossolani o buchi di sceneggiatura grandi quanto voragini; altre nella stranezza di colpi di scena talmente campati in aria da risultare quasi degni di stupore. Alla deriva, senza una meta condivisibile, Steve Knight – altro che ha perso la bussola, dopo il successo di Locke – si dà a una risoluzione tanto inattesa quanto surreale, incoerente con il resto ma toccante a modo suo, in cui il McConaughey nudista sembra tornare a indossare la tuta spaziale del padre di Intestellar. Un po' thriller erotico anni Ottanta, un po' videogioco avventuroso, Serenity finisce per essere un divertente nulla di fatto. Un incrocio bizzarro, difficile da incasellare nel cinema dello sceneggiatore americano e, soprattutto, nella carriera di due premi Oscar. Come hanno potuto abboccare? (5)

mercoledì 8 maggio 2019

Mr. Ciak: Dumbo, Benvenuti a Marwen, Instant Family, Unicorn Store

Ci si aspettava poco. Dalla riproposizione di un cartone niente affatto apprezzato da bambino. Dall'ennesimo live action di cui in fondo non si sentiva il bisogno, con Aladdin e Il re leone già attesi al varco nei prossimi mesi. Dal ritorno al cinema di Tim Burton, mio regista del cuore, che purtroppo non indovina il film giusto dai tempi del sentito Frankenweenie. Si è andati in sala senza grandi pretese, con il biglietto pagato tre euro in promozione e un pubblico misto di pargoli e nostalgici. La sorpresa, se di sorpresa si può parlare, è che Dumbo risulti efficace nel suo niente di indispensabile. La fiaba animalista, debitamente aggiornata alla luce di una morale necessaria, più che a un adattamento somiglia a un seguito non dichiarato. Cos'è stato dell'elefante bullizzato per le orecchie a sventola, dopo le sue magiche lezioni di volo? La prima parte, a metà fra omaggio e ammodernamento, è il cartone originale: qualcosa resta, come la toccante Bimbo mio o la famosa sequenza degli elefanti rosa; qualcosa si perde, come il topolino per aiutante qui rimpiazzato dal reduce Farrell e dalla terribile bambina protagonista, scelta più per mamma Thandie Newton che per un'espressività che lascia molto a desiderare. Nella seconda, da emarginato a stella, il protagonista attira le attenzioni di Keaton, cattivo bidimensionale con al seguito l'incantevole e ribelle Eva Green: la scalcagnata compagnia di De Vito, già circense nell'insuperato Big Fish, viene inglobata da una multinazionale da sogno. O da incubo? La bestialità degli uomini e l'umanità degli animali emergerann, come da copione, in una chiusa che è la parte debole: un trionfo di fuochi e fiamme, d'ingombrante CGI, che perdeo amaramente il confronto con la riuscita animazione dell'elefantino. Perché il nuovo Dumbo è sempre lo stesso: imbranato e tenerissimo, cerca la mamma tenuta in cattività e minaccia di commuoverci spesso da dietro i suoi grandi occhi azzurri. Perché Burton, nel bene e nel male, è Burton: scolastico ma in discreta forma, nonostante il lavoro alla buona degli sceneggiatori, ripropone con trasporto la classica parabola dell'emarginato: la poetica del freak, che perde d'originalità in casa Disney, ma lascia spunti di riflessione ai giovanissimi. È il compito di un film per famiglie tanto godibile quanto convenzionale, che condanna la barbarie fuori moda del circo, omaggia la tecnologia e la creatività degli artisti tutti e, nel suo piccolo, sa farti volare a mezz'aria grazie alle orecchie di un'attrazione principali davanti cui è impossibile non sospirare, inteneriti. (6) 

Marwen è un villaggio fittizio in Belgio, assiepato dai nazisti e difeso da un esercito di donne armate fino ai denti. Marwen, ancora, è un mondo in miniatura che si rivela essere ben presto lo specchio consolatorio della realtà: l'elaborazione di un uomo sofferente, con la testa spaccata da una gang di teppisti, mentre si perde appresso agli amori platonici e a missioni di salvataggio degne di una spy story. Disegnatore e miniaturista, divorziato, Mark Hogan nutre una venerazione per il gentil sesso e il pallino per le scarpe con il tacco. Un'ossessione mai chiarita, che suo malgrado l'ha reso protagonista di un tragico attacco omofobico. Traumatizzato, adesso vive attraverso i suoi giocattoli. Lì è un soldato valente e fascinoso, che porta con orgoglio le cicatrici di guerra. Lì la sua vicina di casa, una deliziosa Leslie Mann, accetterebbe di sposarlo su due piedi. Apologo per grandi e piccini, a sorpresa flop al botteghino, Benvenuti a Marwen ha la regia di un Zemeckis in forma smagliante benché sottovalutato, effetti visivi ineccepibili – con loro, scenografie e costumi –, un attore protagonista che fa la differenza. Steve Carrell, senza scimmiottare il ben più famoso Forrest Gump, è come Carrey: un attore comico che, cosa ormai assodata, fa faville nei drammi, grazie a un sorriso svagato che riesce ad essere tenero e struggente insieme. Peccato che la sceneggiatura fatichi a decollare. Se l'idea di girare un biopic a confine fra animazione e live action appare brillante, sfortunatamente non segue a ruota una scrittura senza guizzi che lascia fare tutto al comparto tecnico; all'espressività del mattatore Carrell, colto nel divenire di un viaggio che racconta i meccanismi di difesa, la dipendenza da antidolorifici, il velo di Maya dei filosofi moderni. Quello che ottunde i sensi, ammortizza e c'inganna. Insieme a Mark, un superstite, dovremmo perciò imparare a discernere: la vita, infatti, non è una casa di bambole. (6,5)

Chiunque abbia avuto la sfortuna di sedere in un'aula di tribunale ricorderà le sedie sbrindellate, le attese estenuanti, le domande degli avvocati che scavano come vanghe. La sensazione di disagio, la ferrea volontà di non rimetterci mai più piede. Ma una sera, per caso, ho scoperto che i tribunali non servono soltanto alla caccia alle streghe; alle famiglie che finiscono. Realizzarlo, durante la visione dell'inatteso Instant Family, mi ha commosso in poltrona. Questa è la storia di una coppia senza figli, liberamente ispirata alle vicissitudini dello stesso regista, che si sobbarca un'impresa difficile il triplo: adottare, sì, ma un'orfana ormai adolescente. E i suoi due fratelli minori. Con la loro età malsicura, con i loro traumi, con la voglia di riabbracciare ancora la mamma spacciatrice. Sulle orme di Una scatenata dozzina e This is us, a metà fra l'intrattenimento godereccio e i mèlo dai buoni sentimenti, Sean Anders indovina gli equilibri vincenti di una commedia affatto originale, ma a modo suo sorprendente. Un film vecchio stile che è proprio quello che appare, ma anche l'esatto contrario. Ben scritto, recitato con contagiosa armonia – accanto a Wahlberg e Byrne, occhio alle esilaranti caratteriste Spencer, Cusack, Martindale –, in una serata leggerissima mi ha strappato lacrime e risate in quantità. Rischiava di passare inosservato, eppure, per via del solito poster, per colpa del solito cast. Un tema lodevole è affrontato con realismo inatteso, invece, e note scorrette che non guastano. Perché genitori si diventa, si diventa una famiglia. Basta imparare: insieme. (7+)

E se un invito anonimo promettesse di renderti finalmente felice? Succede a una trentenne in crisi, con una carriera fallimentare in campo artistico e una convivenza forzata sotto il tetto di mamma e papà. Si improvvisa a malincuore segretaria, benché nel frattempo punti ai mondi impossibili del proprio inconscio grazie a un pigmalione dai completi variopinti: un Samuel L. Jackson istrionico ai limiti dell'irritazione, che alla protagonista con la testa fra le nuvole spalanca all'improvviso le porte del sogno. Invitandola a prestare fede all'immaginazione. Ma quando è un bene, quando un male, quando alienazione pura? I bontemponi sono definiti eterni Peter Pan, ma le donne si figurano segretamente addestratrici di unicorni. Store Unicorn, commedia strampalate dalle scenografie arcobaleno e le luci iridescenti, ricorre al bagaglio di uno spirito fanciullesco come antidoto a un'infanzia solitaria e a una giovinezza interrotta. In questo bailamme di personaggi dolci e surreali, dotati di un umorismo talmente particolare che potrebbe non piacere a tutti, spicca il “capitano” Brie Larson: qui impegnata in una doppia veste. Che piacere rivederla alle prese con i pregi e i difetti del cinema indie, momentaneamente in pausa dai blockbuster Marvel! Che piacere rivederla alle origini, nei panni di un'infaticabile sognatrice, mentre mette in scena i mostri e le fate negli armadi del suo passato, in una fiaba sui generis tutt'altro che memorabile ma comunque molto sentita! Mentre si prepara ad accogliere l'amico mitologico allestendo una mangiatoia, per la prima volta torna a vivere. Si guarda intorno, e non è da sola. Un po', la aspettavamo noi. (6)