La polizia fa irruzione in una casa dei sobborghi inglesi. Cercano il
responsabile di un omicidio. Ha tredici anni. L'ultima miniserie Netflix, già
destinata a rimanere tra le più memorabili di un anno ricco, non è
tratta da una storia vera, ma potrebbe. I quattro episodi, girati in
quattro piani sequenza, seguono senza stacchi una
terribile presa di coscienza. Gli straordinari attori protagonisti —
Stephen Graham, anche sceneggiatore, e l'esordiente Owen Cooper —
recitano in apnea. La macchina da presa si muove, invisibile, in
un'elaborata coreografia che passa dalla sala interrogatori alle
classi di una scuola media, da un teso faccia a faccia con una
psicologa a un cinquantesimo compleanno da dimenticare. Si parla di
cyberbullismo, revenge porn, violenza di genere. Ancora,
dell'incomunicabilità tra genitori e figli. Ma
mentre spezza il cuore seguire la routine della famiglia del
carnefice, in lotta per la normalità, atterriscono i primi piani del
piccolo Jamie: ora serafico, ora inquietante, ha una sessualità
oscura e ricordi in cui serpeggia il disagio di un bambino che non
voleva giocare a calcio né tirare di boxe, ma soltanto disegnare.
Dolorosissima, Adolescence
è un miracolo di tecnica destinato a seminare più
domande che risposte. Conosciamo i nostri figli? Siamo certi che,
nelle loro camerette, siano al sicuro dal mondo? E il mondo, è al
sicuro da loro? (8,5)
Quando
Il Gattopardo
uscì, fu un flop. Non soltanto il romanzo, rifiutato da molti
editori, ma anche il film, ormai un classico. Bisognerebbe essere più clementi con l'ultimo adattamento di
Tomasi di Lampedusa. Vittima di inutili paragoni, è una coproduzione
con tutti i pregi e i difetti del caso. Si avvicendano ben tre
registi in sei episodi; i membri del cast perdono talora l'accento
siciliano, che ricordano di sfoggiare soltanto nei momenti più
convincenti (Lancaster, Delon e Cardinale – ricordiamolo – erano doppiati). Con la stessa cura impiegata nel favoloso comparto
tecnico, Il
Gattopardo
avrebbe potuto essere un trionfo. Invece si accontenta di essere un
solido period drama, a tratti vittima della disattenzione, che nella
seconda parte sa trovare una sua direzione. Più ci si
affranca dal romanzo e più acquisiscono spessore i
personaggi. Il principe del superbo Rossi Stuart assistente con
amarezza al tramonto dell'aristocrazia; questa volta, però, c'è
speranza nella generazione successiva. Se Porcaroli si rivela la vera protagonista, nei panni
di una Concetta finalmente al centro della scena, perfino la Angelica
della magnetica Cassel stupisce: consapevole della sua bellezza, fa
dell'erotismo un mezzo di ascesa per lo scialbo Nanni. È realmente
tutto perduto per i nobili — nobili d'animo compresi? Doveva
cambiare tutto perché nulla cambiasse. E la miniserie, sospesa tra
omaggio e innovazione, fa sua la lezione. (7)
Chi
ha ucciso il presidente degli Stati Uniti? Ambientata in una
idilliaca cittadina americana,
Paradise
parte come un giallo politico. Ma niente è come sembra. Sin dal
primo episodio si rivela un mix al cardiopalma, in cui la tensione è
alta e la critica sociale semplice ma di impatto. Un po' thriller
catastrofico, un po' dramma post-apocalittico, un po' distopia, è
una serie solidissima, fieramente vecchio stile e piena zeppa di
colpi di scena. Non c'è un singolo episodio che non riservi un twist
finale. Non c'è un singolo personaggio senza ombre. Scrivono gli
autori di This Is
Us:
i flashback abbondano, così come i monologhi pieni di enfasi. Ancora
una volta, il protagonista è Sterling K. Brown: i muscoli guizzanti
e il cuore d'oro. Con lui Nicholson, cattiva degna dei migliori Bond,
e Marsden, nel miglior ruolo della sua carriera alle prese con un
presidente tragico e sbruffone. Non si contano i segreti. Le stanze
del potere vibrano di rivelazioni. Dietro questa utopia all'apparenza
perfetta, senza armi né sbavature, si nasconde un prodotto di grande
intrattenimento che, dopo Baker e Corbet, smantella nuovamente il sogno
americano. Il paradiso è un truman
show per
pochi privilegiati; una farsa da sabotare con un colpo alla Die
Hard.
(7,5)
Fausto,
papà single e malato terminale a poco più di trent'anni, si domanda
cosa resterà della sua famiglia — allargata, disfunzionale,
napoletana — quando non ci sarà più. Attraverso una serie di
lunghi messaggi vocali, li educherà all'elaborazione del lutto e
alla convivenza. Morirà già nel primo episodio, ma non andrà mai
realmente via. Il rischio? Quello di plasmarli involontariamente a
sua immagine e somiglianza. Possiamo diventare quello che qualcun
altro ha decretato, seppure a fin di bene, per noi? Benché diriga il
solitamente valido Claudio Cupellini, Storia
della mia famiglia
ha la foggia dozzinale di una serie Rai — ma di quelle ben riuscite
e realizzate con innegabile cuore. Televisiva ma sobria,
sorprendentemente in equilibrio tra comicità e tragedia soprattutto
nell'ottima prima metà, è un family drama sulla scia di
This is us
e Parenthood.
Insomma, a dispetto della piega giudiziaria del finale — a chi
saranno affidati i bambini, contesi nel frattempo da una madre
mentalmente instabile? —, le si vuole bene. Il merito spetta tutto
al cast, trainato dal sempre più bravo Eduardo Scarpetta e
impreziosito da Vanessa Scalera, mattatrice straordinaria nei panni kitsch di una giovane nonna sopra le
righe. (7)
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