mercoledì 29 novembre 2017

Mr. Ciak - Torino Film Festival: The Disaster Artist, Wind River, Final Portrait

Greg, la faccia d'angelo di James Dean e una San Francisco che non crede in lui, vorrebbe fare l'attore. Troppo timido, troppo dimesso, ha bisogno di un miglior amico come Tommy Wiseau: il fenomeno da baraccone della sua classe di recitazione, con un indefinito accento dell'est Europa (anche se giura di essere nato a New Orleans) e introiti inspiegabili (contante a non finire, case dappertutto, ma di un impiego neanche l'ombra), gli fa infatti da spalla e promotore. Giurin giurello, mignoli intrecciati, e in nome del loro affetto lo invita a Los Angeles; gli scrive un film su misura. Girato in tempi biblici, assurdamente costoso, The Room rimarrà nella memoria collettiva come uno dei peggiori film mai realizzati. Scritto male, diretto peggio, ispirato a Tennessee Williams eppure involontariamente ridicolo. Il biopic al cinema dovrebbe essere un genere rigoroso, serio, patinato. Dovrebbe meritarselo qualcuno all'altezza. Si può fare un bel film – una commedia che farà senz'altro faville ai prossimi Golden Globe – ispirandosi alle gesta dell'Ed Wood dei nostri tempi? Si può far bene, anzi benissimo, partendo dalle peggiori premesse? Sì, si può. Tommy Wiseau ci mise la faccia e i mezzi. Checché se ne dica, ci mise l'amore. Per il proprio ego spropositato. Per una settima arte in cui lascerà l'impronta, ma non come avrebbe voluto. Un po' come lo strano caso di James Franco: paradossalmente ha adattato Faulkner e Steinbeck, in tempi e festival recenti, non rimanendo impresso. Questa volta invece, scemo ma con innata intelligenza, caratterista strepitoso, miete consensi all'unanimità. A unirlo a Wiseau, il fatto che un po' ci sia e un po' ci fatta; il mettersi in gioco a tutto tondo dirigendo e recitando. E come Wiseau parla, sghignazza, si muove: un conte Dracula dagli occhi di ghiaccio, i capelli unti fino alle radici, che sbaglia le battute, ha violenti attacchi di gelosia e, fra una grassa risata e un'emozione inattesa, sa regalargli a sorpresa il miglior ruolo dai tempi di 127 ore. Sarà che Franco, vulcanico e contraddittorio, ha due anime di solito inconciliabili. Quella trash, che qui trova a scatola chiusa terreno fertile. E l'altra più nobile, che legge e riscrive la letteratura americana a piacimento: in questo The Disaster Artist ricerca con successo, così, un'epica tutta sua, le avventure più sconsiderate, i desideri di gloria contro i mulini a vento. Particolarmente nel suo, l'attore impersona un giullare esilarante, disperato, che ha sprezzo del ridicolo e le mani bucate. Con i suoi soldi da buttare può comprarsi l'amicizia di Dave Franco (e di comprimari o comparse che comprendono Rogen, Hutcherson, Efron, Cranston, la Stone e la Griffith), le sale vuote di Hollywood, ma non i sogni. Che non stanno nel proverbiale cassetto. Che non distinguono, nel suo caso, il fine dal mezzo. Le risate buone da quelle cattive. Un applauso da un fischio. Il trionfo, appunto, dai dolori del disastro. (7,5)

Le orme conducono al cadavere di un'adolescente pellerossa. Mezza nuda, abusata, ha corso per dieci chilometri prima di morire assiderata: annegata nel suo stesso sangue. Da chi fuggiva? Jeremy Renner – di solito spalla da poco, qui protagonista tormentato e convincente come mai prima d'ora – imbraccia il fucile, si mimetizza, e va a caccia di felini e assassini a sangue freddo: la giovane vittima e una figlia morta allo stesso modo, invendicata, sono accomunate da un simile destino e da una lunga amicizia tra i banchi di scuola. Con lui, nuovamente nella stessa squadra dopo le poco fantastiche avventure degli Avengers, il dolce e agguerrito agente dell'FBI di una Elizabeth Olsen che, per colpa di una sceneggiatura che non approfondisce, a tratti sembra purtroppo un pesce fuor d'acqua: impreparata alle temperature in picchiata, al maschilismo, alla cattiveria vera. Dopo Sicario e Hell or High Water, Taylor Sheridan – al suo esordio alla macchina da presa, già premiato per la miglior regia a Un Certain Regard – torna con un terzo film di frontiera. Gli riconosco ancora una volta un grande talento, una lodevole propensione per un cinema alla Clint Eastwood, ma è ancora una volta che non mi convince fino in fondo. E non so perché. Wind River è un western atipico, ad alta quota. Un thriller che ai colpi di scena sensazionali e all'ironia dissacrante di Fargo preferisce il piglio rigoroso delle storie vere. Potente nelle immagini e nelle razioni al dolore. Artico, ma accorato nei drammi umani. Si scava nei problemi familiari della vittima, in una vita amorosa di cui in pochissimi sapevano, nello sporco ben celato del candido Wyoming. Si parla dei contro dell'immobilismo, della noia che genera mostri; della (mancata) integrazione delle poche riserve indiane rimaste in piedi. Di senso di colpa, vendetta e infinita crudeltà. Quella di una Madre Natura che non guarda in faccia nessuno. Quella dei nostri simili, che ti sbranano se gli volti le spalle, dando poi la colpa ai lupi. (7)

In posa per il pittore Alberto Giacometti. Italiano a Parigi, amico-nemico di Picasso e Chagall, artista minuzioso e cronicamente insoddisfatto. Mani fra le ginocchia, mento basso, sguardo fisso. Vietato accavallare le gambe, vietato sorridere, vietato alzarsi prima della fine della seduta. James, scrittore americano in vacanza con un ritorno da posticipare all'infinito, ha l'onore e l'onere di fargli da modello. Immobile, all'inizio incuriosito e poi semplicemente stremato, viene osservato e a sua volta osserva: il disordine nello studio del pittore, la doppia relazione con la moglie e l'amante, la collaborazione con il fratello Diego. Final Portrait, ambientato qualche anno prima della sua morte, racconta la lunga gestazione dell'ultima opera lasciata in eredità al mondo. Il ritratto dell'americano sarà ultimato e cancellato ogni volta. Perché l'artista, capriccioso e sboccato, fragilissimo, riteneva fermamente che non esistessero ritratti finiti. E film così, che d'arte e incompiutezza vorrebbero parlare, loro malgrado vanno incontro a esiti simili. Si ha l'impressione, infatti, che finiscano senza neanche cominciare. Rush, impeccabile e somigliante istrione, porta le tempere, le bizze e un umorismo caustico tipicamente britannico. Armie Hammer, pare in odore di nomination per l'atteso Chiamami col tuo nome, mette la voce conciliante e quella sua bellezza noiosamente squadrata. Ancora più di loro, eppure ugualmente in parte, brilla la sorprendente regia di uno Stanley Tucci dall'altra parte della barricata: elegantissima, mai laccata, con la caligine malinconica del cinema d'oltralpe e la palette di colori di un Tom Hooper. Colto, teatrale, riuscito a metà, Final Portrait è il biopic atipico che descrive non i drammi del pittore, ma gli alti e bassi del processo creativo. Dalla creazione, in novanta minuti appena, perciò il fascino, gli sbaffi di colore e, purtroppo, la ragionevole monotonia. (6)

8 commenti:

  1. Non leggo nulla su Wind River che vedrò domani.
    The disaster artist l'ho adorato, il Wiseau di Franco è spettacolare e "oh, hi Mark!" è diventato il mio mantra della settimana...

    ho trovato molto carino il film di Stanley Tucci, con una bella fotografia e due buone interpretazioni. Non entro nel merito della storia in quanto di Giacometti non so una mazza.

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    1. "Oh, hi Mark". Tanti, tanti cuori. Ho riso come se non ci fosse un domani.

      Giacometti era sconosciuto anche a me. Il film non mi è dispiaciuto, ha la bella fotografia che dici tu, ma era quello che mi aspettavo, né più né meno.

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  2. Non vedo l'ora di vedere The Disaster Artist XD
    Le ricostruzioni dei momenti iconici di The Room rendono?

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    1. The Room non l'ho visto (purtroppo?) ma rendono, certamente! Prima dei titoli di coda, lo schermo diviso in due confronta Franco e Wiseau nelle scene più scriteriate. :)

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  3. James Franco è una garanzia -o quasi- e il suo artista disastroso lo attendo con ansia. Promosso per me Wind River -che per fortuna è arrivato prima che a Torino-, atmosfere tese e da frontiera, e personaggi magari non approfonditi, ma a favore di una storia ben curata.
    Final Portrait me lo segno, in attesa di una sua programmazione normale.

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    1. Adorerai Franco, e Final Portrait chissà. Di arte e dintorni, sei senz'altro più appassionata di me. E poi, come dice la Poison sopra, Tucci ha belle intuizioni stilistiche.

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  4. Per The Disaster Artist la curiosità sale ulteriormente.
    Non so però se vedermi prima The Room per "prepararmi" o meno. Tu l'avevi guardato?

    Wind River io l'ho trovato bellissimo e, per fortuna, non troppo eastwoodiano. E manco western, atipico o meno. :=)

    Final Portrait mi sa di film da sbadiglio e il paragone con Tom Hooper mi preoccupa assai. Quindi mi sa che me lo risparmio.

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    1. No, The Room mi manca (che culo!), però il film lo ricostruisce in maniera molto esaustiva. Lo adorerai, ti conosco.

      Wind River, in realtà, lo avevo visto già a casa. Mi ha emozionato molto, mi ha fatto arrabbiare, ma qualcosa non arriva mai. Cosa? Perché?

      Final Portrait sì, puoi risparmiarlo. A modo, curato, ma tutt'altro che indispensabile.

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