Claire
ha i nervi a pezzi e un corpo che l'ha tradita. Non sa che fare delle
sue gambe piene di ferri; non sa che fare della sua vita,
adesso che nella sua casa c'è una porta chiusa e tutti sono fuggiti via. Claire sogna tutte le notti di uccidersi e
quando si sveglia vuole che accanto a lei
ci sia un'altra persona: un amante occasionale, un'anima solitaria. A
volte c'è il giardiniere, altre il fantasma di una trentenne che si
è buttata da un cavalcavia. Tra sonno e veglia, Cake è
una torta di compleanno per esprimere l'ultimo desiderio. Una
commedia drammatica che mostra un cinema del dolore sempre più
evoluto. La tragedia della protagonista è risaputa, ma
coinvolge, grazie ai toni adorabilmente arcigni, alle visioni e ai
lunghi viaggi oltre la dogana, a
un personaggio bisbetico che sembra sbucato dalla sit-com Mom
a cui vuoi bene
proprio perché vorrebbe farsi detestare. Quello di Barz è un film che nel suo
desiderio di tranquillità scorre e funziona, pur non restando a
lungo in testa, se non fosse per le singole prove attoriali. Lo
spiritello malinconico della lanciatissima Anna Kendrick; il vedovo di un Sam Worthington che nella lingua madre, risulta
più convincente del solito; soprattutto, la quarantenne graffiante di una Jennifer Aniston sorprendente. Forse non da Oscar
come molti hanno giurato, ma abile nel ricordarci che la stella di
Friends,
quand'è lontana dalla commedia, ha tanto da
mostrare. E non aspettatevela stravolta, imbruttita:
struccata, con qualche chilo in più, è radiosa come sempre, grazie a uno script un po' blando, ma che non indugia nel
patetismo; grazie a una macchina da presa che di rado ci
mostra gli sfregi della sua musa. Un altruistico percorso di guarigione in cui si mettono al
vaglio tutti i modi possibile per farla finita, prima di accorgersi
che intanto stiamo già meglio. Ma
il treno ha fischiato. Le gambe ci sosterranno per il tratto più
importante, quando vorremo allontanarci dal nostro scomodo letto tra
le rotaie? (6,5)
Jennifer Lawrence e Bradley Cooper, stavolta strizzati in abiti demodè, hanno girato tre
film insieme. Sono bravi; si portano fortuna. Ma le loro storie non filano sempre liscie, come nel caso di
Leo e Kate, ma guai a paragonarmeli: in Una folle passione
non si sa bene cosa capiti loro, ma comunque non se la passano
benissimo. Lui le ha promesso fedeltà eterna; ma cosa succede però
quando una donna perde ciò che la rende donna e sulla coppia cala la gelosia? I critici già
mi avevano messo in guarda, e non posso che concordare coi loro giudizi su questo melodrammone evitabile, scolastico,
che non ha un vero perché.
Guardarlo non è una sofferenza, ma dove lo colloco? Non
di certo nella filmografia di Susanne Bier, che lascia la
sua Danimarca per un'avventura che non soddisfa.
Dal suo nuovo viaggio a Hollywood ci manda una suggestiva
cartolina, con un pensierino elementare scritto dietro.
Una trama con svolte quasi illogiche, una storia di pazzia che lascia indifferenti. La Lawrence, eroina tragica, è intensa, ma ricicla qualche scenata della Tiffany che le valse un'immeritata
statuetta e con il caschetto biondo perde fascino. La macchina da presa la adora e i primi piani dei
suoi occhi disperati ipnotizzano. Bradley Cooper è credibile, ma lontano dal suo meglio.
Pensavo di guardare l'ultimo film della Bier e mi sono imbattutoin unincrocio discutibile tra Il segreto
e una fiction Rai. Ho sentito per tutto il tempo la mancanza di Beppe
Fiorello e di Vittoria Puccini: dove stanno quando servono? (4,5)
Non
mi è mai capitato di essere in attesa di un film italiano. Però con Noi e la Giulia è stato diverso. Avevo
letto il romanzo e sapevo che la storia di Bartolomei meritava: l'avventura dei quattro perdenti che sfidavano la camorra sarebbe
diventata una semplice barzelletta? Il sospetto
che potessero semplificare tutto, in una trasposizione frettolosa e
godereccia, in realtà non lo nutrivo: mi fidavo di Leo e sapevo che, sveglio, non avrebbe toppato. Ho notato che
la sua regia si è affinata e che circondato da un manipolo nutrito
di attori – sempre i soliti, ma sono convincenti: accontentiamoci – fa bene. Mette a punto qualche
modifica, guida l'intera squadra con polso fermo e
interpreta il coatto Fausto. A volte, sono vere e proprie migliorie quelle che apporta: il
personaggio di Elisa, interpretato da Anna
Foglieta, mi è piaciuto di più. Perché la Foglietta ha portato il
suo pancione sul set e ha caratterizzato a modo suo un
comprimario irrisolto; misterioso, forse, come sono le donne.
Divertenti Fresi e Amendola; magnifico Buccirosso; buon padrone di
casa un Luca Argentero mai
impreparato. Il mio punto di vista, quindi, è quello del lettore che ha trovato una prima parte fedelissima
e una seconda alleggerita dei temi che mi avevano scosso: eppure
si riempiono così due ore, senza annoiare, ma senza esplorare gli aspetti più necessari.
Qualcosa di importante manca, ma non avrei saputo come farle spazio,
senza appesantire una produzione che risente di qualche
dilungaggine. Si ride con leggerezza, ma è onnipresente il
retrogusto amaro; e si pensa,
soprattutto, in quell'epilogo emozionante e aperto, che è
esattamente come lo avevo immaginato. Insomma: la mia preoccupazione è che questa commedia come
tante e come nessuna – il "canovaccio" esisteva ben prima dei più spigliati Smetto quando voglio e Song'e
Napule - in realtà, possa risultare più ricca e
raffinata del previsto: la ciccia al fuoco è tanta, e sarà carne,
pesce o nessuna delle due? (6,5)
Nonostante il sangue non mi turbi, cresciuto da un papà che ama
Fulci, Argento e gli horror vintage, la visione di Big Bad Wolves l'avevo rimanda più volte. Mi fidavo di
Tarantino, ma
piuttosto non mi fidavo dei miei nervi. Se
da una parte l'idea della vendetta non mi rovina il sonno, dall'altra il tema della pedofilia sì che dà gli incubi. Brutto pensarci,
brutto assistervi, soprattutto se quel crimine contro l'umanità è
mostrato nella maniera più cruda: certe cose non andrebbero indagate
a fondo, tanto mostruose sono. Conoscendo la trama,
temevo che quello che avrei visto mi avrebbe roso il fegato. Un
genitore e un poliziotto che, in un sottoscala, in piena campagna,
torturano un maestro di scuola. Un sospettato omicida di bambine. La partentesi delle torture occupa in realtà solo l'ultima
mezz'ora. Per il resto, è una sorpresa. A parte che l'inizio,
memorabile, ha del miracoloso, ma poi – tra il ritrovamento del
cadavere straziato e il rapimento del presunto killer – si snoda
un'indagine sui generis, grottesca e arguta, che ha l'umorismo
assurdo degli horror importati dalla sperduta Nuova Zelanda o da
quella Spagna famosa giusto per la sangria, unito al ritmo ballerino
dei polizieschi d'oltralpe. Tutt'altro che oscuro e ermetico, Big Bad Wolves ha una fotografia
precisa e scenette indecorosamente comiche, insieme a una violenza
copiosa ma intelligente e a una resa che fa invidia agli americani.
Internazionale ma con un'impronta solo sua, la commedia istraeliana nero
petrolio che ha conquistato anche Hollywood si sottrae alle
definizioni nette, coinvolge e sconvolge, sapendo saggiamente
quando fermarsi, per lasciare che i tagli del montaggio glissino
sull'abuso e per far sì che una fantasia assassina galoppi per conto
proprio, nei terreni dell'anarchia, fantasticando su delitti e
castighi. Spietato, cattivo, spassoso, è una punizione
perfetta che lascia lo spettatore soddisfatto e gli aguzzini della
pellicola in preda al dubbio. (7,5) Jason
Reitman ci aveva abituati a commedie
col dente avvelenato, ma già col malinconico
Labor Day sembra volere indagare
nuove tematiche. Ha una bella sensibilità, davvero. Perciò mi fa strano sapere che
il suo Men Women & Children, non totalmente riuscito, ma notevole, arriverà da noi in homevideo. Passando inosservato. Dura due ore che scorrono senza mai pesarti addosso e l'abilità di coinvolgerti con storie che si incontrano senza mai incastrarsi. Il poster
originale rende bene l'idea. Un marito e una moglie che
colmano con amanti occasionali la loro infelicità; un
adolescente che, abituato agli standard del porno, non riesce ad
eccitarsi con una ragazza vera; la quindicenne che non mangia, quella
che mangia gli uomini, la mamma che è andata via e quella che mette online le foto sexy della figlia. Poi, al centro, nell'indifferenza della folla, due ragazzini che si
abbracciano: un rapporto finalmente sano che l'anonimato di internet tenterà di corrompere. Sono gli adulti che sbagliano e i ragazzi a darci lezioni di vita; quelle con il famoso istinto materno ad
abbandonarti e i giochi di ruolo ad alienarti. Riflessioni sparse, dunque: le solite ma necessarie al
solito; un'ottima squadra di protagonisti, tra i quali spiccanno un serio Adam Sandler; Judy Greer e Jennifer Garner, nei panni di due donne
agli antipodi ma spregevoli ugualmente; l'intenso Ansel Elgort di
Colpa delle stelle, che vi avevo detto nel mio "classificone" di
fine anno fosse da tenere d'occhio e così è. I
personaggi non riescono ad andare oltre il proprio naso o al di là
dello schermo dei loro cellulari: chiusi in una solitudine che gela, camminano nello
spazio di mondo che riescono ad illuminare – non con i lanternini
di Pirandello, ma con le applicazioni per iPhone – inconsapevoli
che, accanto, ci sia l'altro: alle prese con la stessa ricerca, a un passo da loro. Se non piace del tutto, forse è perché
qualche tematica risulta superflua e perché qualcosa di assai simile
ci era stato raccontato in Disconnect, ma colori più accesi e
vicende comuni giovano,
insieme a un cast ricco e a una voce narrante aliena che ci parla dallo spazio di noi, delle nostre
mancanze, delle nostre dipendenze irrinunciabili d'affetto. (7)
Ben
e George vivono insieme da quarant'anni e si amano come due
ragazzini. Anziani, decidono di convolare a nozze. Ricorderanno quello come uno dei
giorni più felici: i parenti, il fiore all'occhiello, un candore che
stringe il cuore, soprattutto in un Paese – il nostro – che va
allo sfascio, ma il pensiero continua a ruotare intorno al superfluo.
Ci si domanda a voce alta cosa rende una
famiglia normale e cosa no, quando invece la risposta è semplice. Al
contario di ciò che dice il titolo, l'amore tra questi uomini in
là con gli anni è tante cose, ma strano mai. Uno è un artista, l'altro è insegnante di musica in una scuola cattolica: la
religione si mette in mezzo e anche se tutti, alunni e docenti,
conoscono da sempre il legame tra Ben e George, quel matrimonio
sfacciato appare troppo. Licenziato su due piedi, a sessant'anni si
deve reinventare dal niente; rinunciare alla casa condivisa col marito e andare in cerca di un piano b. Nel
frattempo, ospiti chi da un nipote e chi da una giovane coppia, i due
vivono con malinconia e sofferenza i giorni della loro lontananza. Ira Sachs crea una perla che diverte
e intenerisce; mai superflua. Una metropoli dai
tratti alleniani, coi taxi gialli e la vita sbirciata da un tetto, fa
da pulsante sfondo a una luna di miele mancata, in cui il miracolo
dell'accettazione dell'altro si unisce a una scrittura dalla grazia
emozionante che mette sul piatto della bilancia una famiglia
tradizionale e una un po' meno, per vedere che quei cuori e quelle
storie hanno lo stesso peso specifico. Il pianoforte ci accompagna
per tutto il tempo, insieme all'idea che una coppia omosessuale che
convive con la crisi economica, i cuori fragili e i corpi cascanti,
raramente – mi viene in mente giusto Vicious –
ci è stata mostrata, come se costanza e fedeltà non fossero
contemplate in un rapporto forse diverso, ma profondissimo. Applausi per John Lithgow e Alfred Molina, familiari come
due nonnini; puliti e dolci come Neil Patrick Harris e consorte che,
sul Red Carpet, si sistemavano il papillon a vicenda. E l'amore è
pure questo. E per fortuna ci viene mostrato come si deve, con garbo, leggerezza e un finale un po' poetico. (7)
Piove
a dirotto, domani ho l'esame; dovrei ripassare ma non mi va. Così,
nonostante la mia reclusione forzata, mi sono connesso cinque minuti
e ho deciso di parlarvi dell'ultimo romanzo che ho letto. Ho bisogno
di un vostro in bocca al lupo, ché è quasi fatta, dai. Buon
mercoledì, o quel che ne resta.
E
questo era stato il vero sbaglio. Chiudersi in un solo amore e
chiedergli tutto. Semplicemente perché di tutto hai bisogno.
Titolo:
Nessuno si salva da solo
Autrice:
Margaret Mazzantini
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 188
Prezzo:
€ 10,00
Sinossi:
Delia
e Gaetano erano una coppia. Ora non lo sono più, e stasera devono
imparare a non esserlo. Si ritrovano a cena, in un ristorante
all'aperto, poco tempo dopo aver rotto quella che fu una famiglia.
Lui si è trasferito in un residence, lei è rimasta nella casa con i
piccoli Cosmo e Nico. La passione dell'inizio e la rabbia della fine
sono ancora pericolosamente vicine. Delia e Gaetano sono ancora
giovani, più di trenta, meno di quaranta, un'età in cui si può
ricominciare. Sognano la pace ma sono tentati dall'altro e
dall'altrove. Ma dove hanno sbagliato? Non lo sanno. Tre anni dopo
"Venuto al mondo", Margaret Mazzantini torna con un romanzo
che è l'autobiografia sentimentale di una generazione. La storia di
cenere e fiamme di una coppia contemporanea con le sue trasgressioni
ordinarie, con la sua quotidianità avventurosa. Una coppia come
tante, come noi. Contemporaneamente a noi.
La recensione
Lo
scorso anno ho scoperto che Margaret Mazzantini è la sola che può
rattristarmi quando e come dice lei. Glielo consento. Quando cerco
una storia aspra, una narrazione che se ne infischia delle censure e
dei limiti, uno stile che resta appiccicato addosso, è lei che leggo.
Mi sfrego il pollice sul palmo, contro le dita, e la Mazzantini è
esattamente lì che sta. Così la spiego a chi non la conosce. Lei la
leggi, la sfiori e, anche quando il romanzo finisce, volente o
nolente, non ti abbandona. Come una traccia di farina, dopo aver
impastato il pane; come colla sotto le unghie, che si annerisce col
tempo e va via quando vuole; quando ormai ti eri scordato che –
sgradevole e appiccicosa – era lì, magari, dal pomeriggio prima. E
la Mazzantini sgradevole può risultarlo spesso, è vero, qui come
poche volte in precedenza, ma per quel che vale incolla: te alle
pagine, i suoi personaggi alle due estremità di un tavolino, gli
occhi nel profondo dell'anima... ed è una morsa che ti strapazza e
ti lascia confuso. L'ho conosciuta un'estate, all'epoca del ginnasio,
con Non ti muovere e non
l'avevo capita. Ero troppo piccolo io. Ma, in realtà, con questo
Nessuno si salva da solo è
accaduto qualcosa di simile, e adesso sono grande, quindi che scusa
ho? Non ho vissuto abbastanza, immagino. I pensieri sconci di Timoteo
mi turberebbero ancora, ho realizzato, come adesso mi hanno turbato
le confessioni maleducate di due vecchi sposi in un ristorante del
centro. Lui con le maniche della camicia arrotolate, lei con un
tubino nero. L'estate che si avvicina, i bambini lasciati dalla
nonna, ritrovarsi soli dopo tanto. A quattr'occhi, dopo una
separazione voluta da entrambi, ma tremenda; sofferta. Tragico dire
al mondo di non avercela fatta, di aver perso. Ci vuole coraggio, ci
vuole l'orgoglio calciato da un lato per sventolare bandiera bianca e
ammettere a denti stretti che l'amore è perduto, insieme alla
gioventù. E si pensa ai bambini, che avranno una mamma e un papà
che non dormono più nello stesso letto e che non si lavano più i
denti allo stesso lavandino, guardandosi nello specchio di sempre; si
pensa agli errori grandi e a quelli minuscoli, alle tavolette
lasciate abbassate e a un piatto non lavato, a un'amante passeggera e
a un lavoro di cui portavamo a casa la noia e lo stress, il peggio.
Si ripensa però anche agli inizi.All'amore,
quando era così forte, così vorace e presente, che non li faceva
dormire, se non l'uno addosso all'altra. Appiccicati e bagnati. Cosa
mi hai fatto? Cosa ci siamo fatti? In
poche pagine, ma poche pagine con un peso che si avverte e affonda,
l'autrice rievoca gli inizi, la fine e quello che c'è nel mezzo, in
una specie di strano dialogo fatto di poche battute e ricordi
profondi che vincono, alla fine, sul chiacchiericcio. Seziona i baci,
esplora i giochi delle lingue sui denti corrosi dai succhi maligni
dell'anoressia e ne riporta l'umidità, la saliva, l'odore. Smantella
le armature, i filtri e va al nocciolo più segreto e velenoso: i
pensieri di una cattiva madre, la felicità spiata alle altre
famiglie, le tentazioni di un padre che cova un risentimento che
potrebbe massacrarli. Delia e Gaetano sono le coppie testarde e in
frantumi che escono dai tribunali, dagli studi degli avvocati,
insoddisfatte del verdetto finale. Vogliono avere ragioni entrambi,
vogliono lottare, vogliono volersi. Ogni occasione è buona per
bruciarsi a un gioco che non diverte più, perché non si può
confidare nemmeno nei benefici del sesso riparatore, ma la fiamma è
viva, scalda ancora, e calorosi e sanguigni chissà che non possano
ritornare sui loro passi, solo per litigare a sangue e fare di nuovo
pace.
In una storia tutt'altro che facile – e quando mai sono
facili, le sue storie? - la Mazzantini a modo suo, con la poesia e il
turpiloquio, con le metafore audaci e i “cazzi” disegnati nei
bagni e nei metrò, mostra quant'è banale una storia d'amore che
fallisce e quant'è facile, invece, come cantava Samuele Bersani,
dirsi in faccia “sei solo la copia di mille riassunti”. Ci ha
fatto commuovere con la guerra e con la forza delle madri, ci ha
spezzati con un amore omosessuale lungo una vita intera e, adesso,
abile nel rendere difficile ciò che sembra tanto immediato, ma
“troppo cerebrale per capire che si può stare bene anche senza
complicare il pane”, gira intorno, come un cane affamato, a un
matrimonio messo in tiro per una sera sola, che puzza come una
carogna sotto il sole. Altrove ho parecchio apprezzato i giri di
parole, i voli pindarici, i capelli spaccati in quattro o in cento
parti, ma questa volta non del tutto, non abbastanza. Mi sono
distratto un po'. E a capire li ho capiti i personaggi, ma mi hanno
messo angoscia, lì dove gli altri avevano lasciato altro, il meglio
di sé, al loro passaggio. Più romanzati, più costruittivi, più
buoni. Qui ci sono le macerie e la forza di metterle insieme non
sapevo sinceramente dove trovarla. Salvarli, e a me chi mi salva? Con
Gillian Flynn l'amore era bugiardo, ma qui è fin troppo vero,
sconvolge per quello, e tra Gae e Delia non ci sono parole
trattenute, taciute, anche se per il bene comune e per il cuore –
che non vede, e perciò non sta male – quattro bugie a cena hanno
il potere miracoloso del conforto. Una Mazzantini in pillole – ma
niente imbrogli, sono pillole grosse e amare che vanno giù senza un
sorso d'acqua – per lettori con il pelo sullo stomaco, più maturi
di me, che comunque mi ostino ancora a vederci il buono nei cuori
della gente e i lieto fine nell'ultima riga di un matrimonio al
capolinea. Per chi sa certe cose e certe scrittrici. Per tutti gli
altri, direttamente il film di prossima uscita, frutto di una coppia
consolidata e invidiata che per fortuna non scoppia. Sento che, perso
nelle immagini, potrei metabolizzarlo meglio e inquadrarlo in una
cornice fatta con le mani, con gli indici e i pollici; afferrarlo,
per dire di averlo posseduto, anche se non è del tutto vero, ma
vabbè.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Samuele Bersani – Giudizi Universali
“Leggera
leggera si bagna la fiamma, rimane la cera.
Buon
lunedì, amici! Oggi vi parlo di un libro che ho letto nel weekend e
che, da pochissimo, è uscito in libreria, facendo parlare di sé
soprattutto per la giovane età dell'autrice. Purtroppo mi
tocca dirvi che non mi è piaciuto, e il purtroppo è esclusivamente per la brava Alice, che un giudizio così “severo” non lo meritava. Spero di
essere stato delicato il giusto, perciò, ma soprattutto onesto. Ciò
che segue è quello che vi avrei detto se non avessi saputo nulla dell'identità della Ranucci e dei suoi diciassette anni. Con sincerità.
Le
stelle si intravedono appena, sperdute tra le luci abbaglianti della
città. Ecco io assomiglio a loro. A quelle stelle. Confuse,
smarrite, irrintracciabili in un cielo occupato da luci taroccate.
Come me.
Titolo:
In silenzio nel tuo cuore
Autrice:
Alice Ranucci
Editore:
Garzanti
Numero
di pagine: 166
Prezzo:
€ 13,90
Sinossi:
Claudia
ha sedici anni e ha imparato che il liceo è una giungla in cui vince
il più forte, in cui non c'è spazio per la sua timidezza e
insicurezza. Un po' di trucco, uno sguardo sfrontato e in un attimo
fai parte del gruppo dei ragazzi che contano: superiori e vincenti.
Ed è proprio lì che Claudia vuole arrivare. Perché essere diversi
non porta da nessuna parte, se non a sentirsi sempre più soli.
Perché quello è il mondo a cui appartiene Rodrigo, irraggiungibile
che non si lascia scalfire dai sentimenti: il più ammirato della
scuola, il più temuto, il più prepotente. Lui così diverso dal
ragazzo che Claudia avrebbe immaginato accanto a sé. Eppure vorrebbe
solo perdersi nei suoi occhi blu cobalto. E quando Rodrigo le chiede
di uscire, Claudia non riesce a credere che sia vero. Non c'è altro
da desiderare, tutto sembra perfetto. Ma all'improvviso la vita la
mette davanti alla prova più difficile, e niente può essere come
prima. La sua realtà si infrange in mille pezzi, come le sue
emozioni a cui non sa dare un nome. Ogni cosa intorno ora appare
falsa e inutile. Ogni persona è diversa da come la immaginava. Anche
quelli che pensava fossero amici. Anche Rodrigo. Persino lei stessa.
Senza più nessuna certezza, Claudia scopre che crescere vuol dire
guardarsi dentro per davvero, senza falsi alibi. Vuol dire decidere
chi si vuole diventare e tracciare il proprio percorso. Sicuri che
c'è sempre la possibilità di sbagliare, di scegliere, di fermarsi e
ripartire..
La recensione
Esordire
nel mondo dell'editoria a diciassette anni con una grande casa
editrice non è all'ordine del giorno. E il fatto che la cosa capiti
tanto raramente contribuisce ad attirare attenzione. Come in questo
caso, ad esempio. Io non avrei letto In silenzio nel tuo cuore,
se non mi fosse giunta alle orecchie la peculiarità di questo
esordio tutto italiano. Un'autrice adolescente, la Garzanti a dargli
fiducia e visibilità. Quella Garzanti che con le sue copertine tutte
simili – i volti in primo piano, il font sobrio, i colori tenui –
mi rassicura sempre un po'. Non saprei bene perché. I loro libri,
nel bene e nel male, li riconosci. Sai che non vanno troppo appresso
alle mode e che, in catalogo, non ci sono urban fantasy e young
adult, se non in via eccezionale. Vanno bene quando vuoi darti alla
narrativa – nazionale o internazionale – che vende e si piazza
alta in classifica. Il romanzo di Alice Ranucci, a tutti gli
effetti, è da inserire nella categoria dei titoli per ragazzi, e se
mi fosse stato presentato così, posto in un'altra collana e con una
copertina più colorata, non avrei voluto recuperarlo e forse non
avrei corso il rischio mi deludesse e mi spingesse a non parlarne
bene. Ci sono stati altri casi, certo. Ricordo Melissa P,
provocatoria e senza peli sulla lingua; Dorotea De Spirito, alla moda
e delicata; Gaia Coltorti, saccente e fastidiosamente sicura di sé.
Ragazze, poi donne, che si sono fermate lì o hanno continuato,
sull'onda del successo e delle chiacchiere. In punta di piedi, adesso
arriva la Ranucci e, a lettura ultimata, posso affermare con
sincerità che non ha attirato a sufficienza la mia attenzione. Da
una parte, ho avuto l'impressione che il suo primo romanzo mancasse
di freschezza: toni convenzionali per una storia fragile. Dall'altra,
l'ho trovato invece il perfetto frutto dei suoi diciassette anni: non
stupisce per guizzi, né per maturità. L'autrice è piccola, acerba,
e si nota. Non si può urlare al miracolo. Non si può dire che
scriva male. Ma non si può neppure negare che, altrove, ci saranno
senz'altro coetanee con idee più nuove. Aspettandomi poco
dall'intreccio, compensavo riponendo nutrite speranze nello stile. Lei ci racconta le
generazioni di Instangram e i giovani stupidi di Moccia. La Roma da
bere e da fumare, i licei come covi di vipere, i figli irriconoscenti
e i genitori distanti. Ma la storia va avanti a furia di cicchetti e
canne, niente di sconvolgente, e la metamorfosi interiore ed
esteriore della protagonista – eterna bruttina trasformatasi all'improvviso in una ragazza cattiva e popolare,
invitata dalla madre a rendersi utilile in un centro profughi – non
l'ho sentita mia.
Non mi ci sono riconosciuto in quel contesto, come
quando guardo i film americani e penso che le biondine snob che vanno
in rehab, i bad boy e i servizi socialmente utili siano cose da
cinema o d'altro mondo. Alice ci racconta la sua generazione, ma
vuoi la narrazione in prima persona, vuoi la coincidenza d'età tra
lei e il personaggio, non c'è il distacco necessario. Il suo flusso
di pensieri poteva essere più ragionato e solo l'ultima pagina, un
espediente – ammetto – intelligente, ti fa capire come mai non si
sia affidata alla terza persona, evitando di correre il rischio di
stare spesso sullo stomaco, insieme alla protagonista, inizialmente
schiava del culto delle apparenze, e ai suoi banalissimi amici. Ci
sono state cose che mi sono piaciute e cose che non mi sono piaciute,
facendo oscillare il mio giudizio fino alla fine. L'uso smodato di
puntini di sospensione, i punti esclamativi e interrogativi in rapida
successione, i periodi brachilogici che non vanno più, il fatto che
non fosse raccontato niente di nuovo, ma che ci fosse d'altra parte
un certo coraggio nel mettersi in ballo, con una voce secca e una
narratrice inedita poiché antipatica. C'è stata una parte centrale
molto intensa, in cui il dolore per un lutto improvviso ti tocca, e
un epilogo a tinte gialle che avevo intutito, sì, ma che comunque
funziona. Un'altra invece, la più importante, in cui la protagonista
dovrebbe portarti via con sé, fuori dal tunnel, fa
storcere il naso per l'educazione affettata del tutto. Senza rivelare
troppo, posso dire che il percorso di Claudia la porta dalle braccia
dell'iracondo Rodrigo all'assocazione a cui l'aveva indirizza sua
madre e che sentire rievocate le storie vere, costruttive (e
piagnucolose) di sfortunati immigrati e di mendicanti ha sulla
protagonista un effetto benefico, su di me molto meno: è stato come
guardare C'è posta per te. Le
sentenze, i giudizi universali, la morale facile lasciamola a
Alessandro D'Avenia, che può permettersi la retorica perché
insegnante di filosofia al liceo e persona adulta, fatta e finita. Da
una ragazza piena di vita, invece, mi aspetterei più verità. Urlato
come un dramma di Muccino degli anni duemila, piacerà più alle
mamme che ai figli, in quanto dirà loro ciò che vogliono sentirsi
dire. Che i grandi hanno ragione, che la gioventù è marcia dentro,
che non ci sono più il dialogo e le mezze stagioni. Un romanzo
generazionale educativo e sensibile, fin troppo, con una firma da
bambina che, nonostante i premi e i traguardi già raggiunti, deve
affinarsi ed affinarsi. Ci vogliono il tempo, la vita, una storia più
accattivante. In silenzio nel tuo cuore,
in attesa di qualcosa che sia maggiormente all'altezza della situazione, nel cuore silenziosamente ci entra e silenziosamente va via.
Il
mio voto: ★★
Il
mio consiglio musicale: Francesca Michielin – Sola
Ho bisogno che tu guarisca perché io sto guarendo, e il problema è che
non mi ricordo quello che facevo prima di conoscerti. Prima che ci
fosse un noi. Il
mondo sarà un posto più interessante se ci sarai pure tu.
Titolo: Il nostro anno infinito
Autore:
Matthew Crow
Editore:
Sperling & Kupfer
Numero
di pagine: 286
Prezzo:
€ 15,90
Sinossi:
Amber
e Francis sono come il sole e la luna: lei ribelle e impertinente,
lui romantico e imbranato. Chissà se nel "mondo fuori"
sarebbero stati insieme, chissà se lei lo avrebbe mai degnato di uno
sguardo. A farli incontrare è una malattia crudele, in una corsia
d'ospedale in cui i due ragazzi condividono canzoni, vecchi film,
piccoli istanti preziosi in cui il male concede una tregua ed è più
facile sognare il futuro, immaginarsi fuori di lì, insieme. Perché,
se hai quindici anni, è impossibile non sperare di avere tutta la
vita davanti. E quando il destino mostrerà il suo volto più duro,
quando tutto sembrerà ingiusto e sbagliato, sarà l'amore a dare un
senso a quell'anno così breve, così indimenticabile. "Il
nostro anno infinito" è una storia capace di commuovere e al
tempo stesso di far sorridere e trasmettere una grande gioia di
vivere. Grazie alla voce tenera e buffa di Francis, che la racconta,
e a quella decisa e sfacciata di Amber, che gli fa eco. Grazie al
coraggio di due famiglie imperfette e un po' bizzarre ma pronte a
tutto pur di proteggere i loro ragazzi dagli schiaffi della vita.
Grazie all'intensità di un primo amore capace di essere infinito
nonostante i giorni contati. Perché è il cuore, e non il tempo, a
decidere che cosa è per sempre.
La recensione
Se
ho letto Il nostro anno infinito è giusto per curiosità. Una curiosità negativa, di quelle cattive. In
realtà, partivamo già male. La fascetta promozionale che mi citava
Colpa delle stelle e Braccialetti rossi, il titolo che
richiamava Noi siamo infinito, la copertina similissima a
quella della trasposizione cinematografica di Green – che poi se sono i
ragazzini moribondi a stendersi nei prati in fiore o se sono i prati
in fiore, segretamente infetti, a rendere i ragazzini moribondi non
lo capirò mai: chiedete agli oncologi o, più semplicemente, ai
grafici italiani. Quella fascetta lì – io le butto, perché mi
danno un fastidio assurdo – però mi diceva anche che non era la
storia che immaginavo, e aveva un po' ragione. Il nostro anno
infinito, nonostante il tema, si legge in un paio di giorni, come
accade coi romanzi lievi, scritti bene, coinvolgenti. Perfetto non lo
è di certo, neppure memorabile, ma ci racconta una vicenda che è
l'esatto contrario di cupa e straziante: vi dirò, infatti, che
sprizza vita e sole da tutti i pori, che non ci sono scene
particolarmente piagnucolose e che la classica sinossi si concentra
solo sul più classico degli amori impossibili quando c'è quello,
sì, ma anche e soprattutto altro. Questo romanzo young adult della
Sperling & Kupfer, apparentemente da inserire dritto dritto in
quel piccolo filone letterario che ha fatto di stelle, giardini e
leucemia i nuovi vampiri, è inaspettato e bellino. Il tema è
quello, non ci girerò intorno, ma non è così sbandierato e
scontato come appare. Non conosciamo il procedere esatto della
malattia, non sappiamo quale parte del corpo di Francis e Amber stia
lentamente divorando, non sappiamo quanto veloce passi il tempo e
quanto tempo, quindi, i due abbiano ancora: fanno dentro e fuori
dall'ospedale, coi capelli rasati a zero che quando crescono è
sempre un buon segno, e non ci ricordano costantemente – quando si
abbracciano, quando litigano, quando provano a spacciare marijuana
medica in metro per racimolare qualche soldo per Natale – che la
vita è corta e che la loro lo è di più. Quindicenni che non si
piangono addosso e che ci fanno buona compagnia, senza volerci
instillare il pianto a forza. Senza chiamare mai per nome ciò che li rende deboli, diversi, o solo speciali.
I protagonisti pensati dal giovane
Matthew Crow – una voce riconoscibile che subito mi è andata a
genio, dosi massicce di umorismo britannico, stile vivace e a tratti
davvero davvero buffo – sono dolci, stralunati, stramboidi, un po'
come Eleanor e Park:
ragionano per metafore, filosofeggiano sui cult degli anni ottanta e
sono figure altamente adorabili da inserire in una galleria di
comprimari altrettanto curiosi e affascinati. Consuocere lontane come
il giorno e la notte (una ex modella, l'altra amante dei tarocchi e
della natura), ma che un bicchierino e una serata brava al karaoke
mettono d'amore e d'accordo; fratelli maggiori gay, simpaticissimi e
disordinati, che non sanno cucinarsi un uovo fritto, figurati se sono
esperti di sentimenti e prime volte; nonne brusche e misantrope che
ti vogliono bene, ti comprendono e tutto, ma guai se la chemioterapia
ti fa vomitare, poi, mentre danno una puntata della loro telenovela
argentina preferita. Che tu abbia il buon cuore di aspettare che in tivù
passi la pubblicità. E' più il tempo passato in casa che quello in
corsia. La malattia è una ottima scusa, per il narratore, per
indossare a tempo indeterminato il pigiama e per farsi accudire come
un bimbo, ma è meno assente che altrove. Fa da cornice e si
manifesta, inevitabile, in un finale che è il reale punto debole:
sarà che si immagina, sarà che non vorresti che l'intelligente
leggerezza del tutto ti rendesse insensibile nei loro confronti.
Discrezione o non curanza, dunque? Un'educazione alla vita, alla morte e all'amore
estremamente gradevole; frizzante. Non certamente incisiva, ma non
imperdonabilmente blanda. Carinissima: quello sicuramente. E non desideravo
altro, e non mi aspettavo di più. Un romanzo imperfetto, ma
scritto a modo suo, che non è la brutta copia di altro. Il lutto
incontra il buonumore e, anche se la love story di Francis e
Amber non è abbastanza romantica e tortuosa per diventerare futuro metro di
paragone, ha un disegno che cogli e un senso chiaro, che non
sfugge.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: The Band Perry – If I Die Young
"If
I die young, bury me in satin. Lay me down on a bed of roses...
Buongiorno,
amici! Come avrete letto, mi sono liberato di Letteratura Latina a
colpo sicuro. Ma il problema è che, in dieci giorni, dovrei
preparare qualcos'altro. E non so cosa. Mentre le letture vanno a
rilento, vi parlo di alcuni film, in un post che – se avessi avuto
il tempo necessario – magari vi avrei proposto a San Valentino.
Anche se soltanto Scrivimi Ancora e l'ultimo, che contiene
“amore” nel titolo, sarebbero stati i più in tema della puntata.
Sapete, perfino il film con Sasha Grey – l'autoerotismo è sempre
una forma d'amore, no? - è più delicato delle chiacchierate
Cinquanta sfumature di grigio, che ovviamente, come quando i
brutti film fanno parlare troppo di loro, ho visto. Aggratis. Nel post non c'è niente di indispensabile, ma mi serviva
un pretesto per aggiornare il blog. Quindi, a presto. E, se
possibile, buon lunedì a voi!
Lo
sanno pure le pietre di che parla. Magari, in questo momento, sul
Kindle – benedizione quando si vogliono leggere libri imbarazzanti – lo sta leggendo proprio il vostro vicino di
posto, in circolare. Cinquanta sfumature l'ho
iniziato, ma non l'ho mai finito: li ho venduti tutti e tre su Ebay,
in caso a fine visione mi fosse venuta voglia di ritornare
sui miei passi. Leggendo i primi capitoli, avevo trovato che la cosa più scandalosa
fosse la prosa dell'autrice: quello stile inesistente, i richiami
spudorati a Twilight,
quei milioni guadagnati senza possedere talento. E' pur vero che poi
c'è l'elemento sesso: il sesso vende e fa parlare, ma lì era
descritto male – da una, probabilmente, che non fa sesso da mai –
e il bondage era uno specchietto per le allodole. Se
avessi avuto compagnia, io alla festa degli innamorati sarei andato a
vedere l'ennesimo Romeo e Giulietta,
non di certo questa roba, ma ognuno ha la sua idea di romanticismo.
Quella altrui mi
sfugge. Mi aspettavo un filmaccio, ma mi aspettavo, almeno, un filmaccio
che avesse qualche pregio, venuto meno lo stile (stile?) della James
e potendo parlare le immagini al posto di aride descrizioni. Speranza
lecita, ma mal riposta. Il difetto di Cinquanta sfumature è
la sua incondizionata fedeltà al romanzo di partenza, e la fedeltà
– in una trasposizione cinematografica – è negativa solo se si
parla di una storia così. Si vociferava che Bret Easton Ellis si
fosse proposto come sceneggiatore e che Joe Wright ne avrebbe curato la regia, ma no: meglio rinunciarci, meglio trarre da un libro
inutile un film inutile. Sam Taylor Johnson –
altra sporcacciona che si è maritata con "Kick Ass",
vent'anni più giovane e mille volte più figo - collabora a stretto
contatto con l'autrice di tale capolavoro e, saggiamente, ci tiene a
salvare i dialoghi e gli attimi più improbabili. Anche al cinema,
emerge la pochezza della scrittura e il cattivo gusto dell'autrice:
il suo sogno erotico prende vita, ma resta un
sogno che non sta né in cielo né in terra: irrealistico, pallido,
assurdo. Non ha credibilità: per fortuna, persone
così non esistono. E non dico perverse; ma piatte, superficiali. Alcuni dei personaggi peggio caratterizzati degli ultimi anni,
la cui presenza sarebbe perdonabile solo all'interno di
un'infima soap, popolano un film patinato, che confonde
l'eleganza con il pacchiano, e che con una fotografia laccata e chic
tenta di velare una volgarità che in realtà non
c'è. Qualsiasi serie HBO ha più sesso; il sadomaso è un pretesto
per accoppiamenti noiosi e nella norma; il nudo è più ostentato che
in un film medio, ma i protagonisti sono belli,
proporzionati e non hanno una fisicità prorompente. Volgari sono i dialoghi, che vorrebbero stuzzicare ma
riescono solo a fare scendere un gelo artico e l'imbarazzo.
Lei che gli domanda cosa sia un dilatatore anale; lui che dice di non
fare l'amore, ma di scopare forte (tra “scopare” e “forte”,
prego, metteteci una pausa, ché fa scena). Ma sono solo parole: non
vengono tirati fuori giocattoli sessuali e lo scopare forte oscilla
dalla posizione del missionario, a lui che le dà due colpi sul
sedere, a un trastullo potenzialmente sexy con ghiaccio e champagne.
I protagonisti fanno quello che
possono: non è colpa di nessuno se lei risulta un'ochetta con un'incancellabile espressione di estasi mistica, o se lui cammina
come se avesse un palo su per il culo – magari ha
provato per gioco, chessò, e non è riuscito più a liberarsene? - e
non conosce espressioni al di là del sorriso sghembo e
dello sguardo corrucciato. Dakota Johnson è una bella
sorpresa: il personaggio è quello che è, ma lei, espressiva e
impacciata, è disposta a coprirsi d'imbarazzo e a scoprirsi al momento opportuno. Si chiama come una salsiccia, la nonna ha recitato
negli Uccelli... unite i puntini. Sta meglio nuda che vestita, i suoi capezzoli hanno più scene dei comprimari e, dotata di un fisico acerbo
ma grazioso, potrebbe girare perennemente senza veli senza
solleticare troppo la malizia. Il look non la valorizza, lo script è
atroce, ma la cosa buona è che il film potrebbe essere un trampolino di lancio. Jamie Dornan è un
bellissimo ragazzo, ha due occhi d'acciaio inox che manco le batterie
di pentole di Giorgio Mastrota, ma – rigido e austero per copione –
sfoggia una serie di ghigni che mostrano solo il suo sentirsi
fuori luogo. I complimenti perché riesce a pronunciare battute
irrisorie senza scoppiare a ridere. E capisco che il pubblico
femminile andrà in cerca di folgoranti primi piani e
di un potenziale nudo, ma, fanciulle, concede alla macchina da presa
soltanto la vista veloce del lato b. Volete vederlo bello,
carismatico, talentuoso e dannato? Recuperate The Fall.
Si entra più in sintonia con il suo assassino spietato che con il
suo edulcorato seduttore e lo valorizzano un personaggio intrigante,
il suo naturale accento irlandese, la barba incolta. L'inizio non è male: fresco,
potrebbe avere i toni di una commedia sofisticata. Se avesse
posseduto autoironia e maggiore ritmo, come il pimpante e canonico
incipit con I put a spell on you
lasciava intuire, avrebbe divertito con consapevolezza. Il difetto
sono i sospiri, gli sguardi languidi, la pretesa di serietà. Non
risulta nemmeno una storia d'amore scritta da un Nicholas Sparks
brillo e drogato di viagra, invece, perché manca l'elemento base: il
sentimento. Cinquanta sfumature
è un algido preliminare lungo due ore, con una colonna sonora pop e un
erotismo impalpabile che vive soltanto della seducente Crazy
in love di Beyoncé. Innocuo e superfluo, bruttino, non ha neppure i requisiti per diventare un gustoso, segreto
guilty pleasure. (4)
Alex
e Rosie si amano da tutta la vita, ma c'è un ma. Un'amicizia
profonda e lunga che con un salto più lungo della gamba potrebbe
complicarsi troppo. Così, vivono distanti e spesso infelici,
concedendosi un briciolo di pace solo quando sono insieme. Sognavano
di volare in America, un tempo, ma un preservativo che si rompe e lei
resta indietro, con una bambina che è un dono prezioso, anche se le
ha rovinato la gioventù, e un compagno che tardi è tornato per
assumersi le proprie responsabilità. Lui fa stragi di cuori e si
afferma nel mondo del lavoro; lei fa la mamma, la cameriera e si
immagina proprietaria di un alberghetto sul mare, mentre la vita va
avanti – a volte ingrata, altre miracolosa – e ora il lutto, ora
un invito per nozze imminenti, li fanno incontrare a periodi alterni.
Scrivimi ancora è
stato il mio tentativo, a San Valentino, di essere a tema. La
commedia romantica di Christian Ditter, accolta perlopiù
calorosamente, mi ha fatto pensare che avrei potuto scegliere
qualcosa di meglio, in quel moto momentaneo di dolcezza
incondizionata. Nonostante altri ne abbiano parlato piuttosto bene,
la trasposizione del romanzo di Cecilia Ahern – trasposizione che
immagino liberissima – non mi ha convinto granché. I pregi:
ironia, recitazione buona, comprimari strampalati che fanno il verso
al cinema di Richard Curtis. I difetti: una colonna sonora simpatica
e onnipresente che, veloce e condensato com'è, rende il film un
videoclip; nonostante i pezzi siano tutte hit da cantare, o forse
proprio a causa di quello. British, ma non troppo. Sdolcinato, ma non
troppo. Per nulla indipendente, ma non mero mainstream. Le risate non
mancano e la Collins e Claflin, alle prese con romanticismo,
friendzone e sketch piccanti, sono belli e convincenti; meno
convincente, invece, una sceneggiatura frettolosa che taglia, cuce e
confonde. Dieci anni in un'ora e trenta: troppe ripetizioni, troppi
tira e molla, troppe cose che cambiano mentre i protagonisti –
vampiri? - non invecchiano mai. Ha difetti, una trama già sentita,
ma toni sopra le righe che, a volte, hanno dell'irresistibile. Non è
il novello One day –
e la modesta Ahern non è Nicholls – ma, con un tocco di malizia
aggiunto e diffusa spigliatezza, non è il classico melò. Una
produzione senza infamia e senza lode, dunque, con due giovani stelle
che, in futuro, sapranno farsi ricordare. Di certo noi non li terremo
a mente come l'Alex e la Rosie di Scrivimi ancora;
coppia scoppiata piuttosto graziosa, ma che nemmeno alla lontana mira
a ricordi duraturi e ad inserirsi all'istante tra storici amanti del
cinema rosa. (6)
Un
appuntamento da sogno con la nostra attrice preferita. Una cena a tu
per tu con Jill Goddard: diva capricciosa e popolare, con un'agenda
piena di ingaggi e il pettegolezzo di un presunto video hard che fa
chiacchierare. Quando ti ricapita, se sei un nerd smanettone che non
ha niente di meglio da fare, se non gestire la fan page della stella
più brillante? Ma succede che Jill cambia idea. E che, mentre stai
per entrare in crisi mistica, ti contatta un hacker misterioso per
farti entrare di nascosto nella vita di lei, attraverso lo schermo di
un computer. Spiarla, parlarle: farle paura. Open Windows,
ultimo thriller dell'acclamato Nacho Vigalondo, è in realtà il
primo film che recupero del regista spagnolo. Perché la trama, che
promette una Finestra sul cortile
ai tempi di internet, prende? Perché la resa è originalissima? Ma
no, perché nel cast c'erano due miei idoli assoluti: Frodo e Sasha
Grey. Due creature mitologiche nello stesso film, che per di più ha
pure spunti fighi: visione imprescindibile, dunque. Elijah Wood,
bollato a vita come quello del Signore degli anelli,
ci prova a cambiare. Questo, Il ricatto,
Maniac: thriller a
volte interessanti e a volte no, in cui lui una discreta figura la
fa. Sasha Grey, furba e autoironica, bollata invece con altri
lusinghieri epiteti che non sto qui a dirvi, fa lo spogliarello in
webcam, ammicca e piange e, pregiudizi a parte, ammetti che come
scream queen se la cava. D'altronde, era tipo la Meryl Streep del
mondo a luci rosse, prima di chiudere bottega (e non solo) e di
aprire – come anticipa il titolo del film – finestre multimediali
(e non solo): bella e intraprendente, inoltre, ha un mistero
inspiegabile. Anche se ti ha mostrato, in passato, pure i risultati
intimi della sua colonscopia, ha fascino. Tralasciando questi
aspetti, che potranno risultare troppo tecnici agli sfortunati
profani (ma fatevi una cultura!), la struttura del film è
profondamente accattivante e il colpo di scena finale, eclatante,
complesso e, a onor del vero, alquanto improbabile, diverte un mondo.
Vuole stupire e ci riesce, anche se la credibilità traballa. Ma
chissene. Un thriller con due creature del mito, un hobbit e un raro
esemplare di Sasha Grey coi vestiti addosso, poteva forse non avere
la giusta dose di fantasia ed epicità? Giammai. (6,5) Le esigenze
di universitario fuori sede mi hanno reso bravo nell'arte di
arrangiarmi: non dico che sia diventato uno chef provetto, ma mangio cose
quantomeno commestibili. E non ricordo da quanto tempo non guardo
qualcosa in televisione, poi, ma all'ora di pranzo, ogni tanto, su
Cielo e La 7D, lascio che mi facciano compagnia – quando la casa è
silenziosa e il vuoto rimbomba – i programmi di cucina. Non perché sia
convinto, in questo modo, di imparare qualcosa. Ma perché mi piace
vedere all'opera qualcuno che eccelle in qualcosa che io ignoro del
tutto. E mi piace mangiare, ma a chi non piace? Quindi, vi dirò che lo sapevo.
Che anche se da The Hundred-Foot Journey era
misteriosamente diventato Amore, cucina e curry, da
noi, sarebbe stato un film bellino, molto. Perché il romanzo, in Italia, è
edito dalla Neri Pozza, che notoriamente non pubblica libri
immeritevoli, e perché Lasse Hallstrom – regista tanto
strapazzato, ma che zitto zitto vanta due candidature agli Oscar –
ha un tocco speciale quando deve maneggiare cuori e primi piatti. La
storia di integrazione e rivalsa tra due ristoranti, due culture, due
pensieri non piacerà certamente ai grandi critici – sarà che i
personaggi del film vanno in cerca di una seconda stella Michelin,
non di universale approvazione – ma io quella volta che l'ho visto
avevo gli esami alle porte, ero giù di corda e pur partito decisamente prevenuto, perché le due ore complessive mi sembravano
troppe, mi sono trovato in ottima compagnia: tranquillo, soddisfatto,
divertito. Tanto si perde con il doppiaggio italiano – gli accenti
diversi, la musicale mescolanza di inglese e francese, attori che
sperimentano una cadenza non loro – ma tanto resta. Come quella
grande Helen Mirren, mattatrice eccelsa, che quando, risentita e
altera, fa la francese snob ci piace quasi più del solito. Una solare
Francia da cartolina, scorci di luoghi che visiteresti e di pietanze
che assaggeresti, personaggi vari e numerosi che non conoscono, alla
fine, cosa sia il male. E quanto è bello, ogni tanto, vedere una
commedia specchio di un mondo suggestivo e un filino irrealistico, in
cui la cattiveria, anche se esiste, è disposta a svanire dopo
quattro chiacchiere tra gente civile? (7)
Allora
apprenda questa lezione da chi dottoressa non è: il mal d'amore
esiste, e uccide.
Titolo:
Una lunga estate crudele
Autrice:
Alessia Gazzola
Editore:
Longanesi
Numero
di pagine: 313
Prezzo:
€ 16,40
Sinossi:
Alice Allevi, giovane specializzanda
in medicina legale, ha ormai imparato a resistere a tutto. O quasi a
tutto. Da brava allieva, resiste alle pressioni dei superiori, che le
hanno affidato la supervisione di una specializzanda... proprio a
lei, che fatica a supervisionare se stessa! E lo dimostra anche la
sua tortuosa vita sentimentale. Alice, infatti, soffre ancora della
sindrome da cuore in sospeso che la tiene in bilico tra due uomini
tanto affascinanti quanto agli opposti: Arthur, diventato
"l'innominabile" dopo troppe sofferenze, e Claudio, il
medico legale più rampante dell'istituto, bello e incorreggibile,
autentico diavolo tentatore. E infine, Alice resiste, o ci prova,
all'istinto di lanciarsi in fantasiose teorie investigative ogni
volta che, in segreto, collabora alle indagini del commissario
Calligaris. Il quale invece dimostra di nutrire in lei più fiducia
di quanta ne abbia Alice stessa. Ma è difficile far fronte a tutto
questo insieme quando, nell'estate più rovente da quando vive a
Roma, Alice incappa in un caso che minaccia di coinvolgerla fin
troppo. Il ritrovamento dello scheletro di un giovane attore
teatrale, che si credeva fosse scomparso anni prima e che invece è
stato ucciso, è solo il primo atto di un'indagine intricata e
complessa. Alice dovrà fare così i conti con una galleria di
personaggi che, all'apparenza limpidi e sinceri, dietro le quinte
nascondono segreti inconfessabili.
La recensione
“Quando
non ci aspettiamo nulla, quando su qualcosa non scommetteremmo un
centesimo, è proprio quello il momento in cui accadono cose prorompenti.”
Toc
toc. E così bussano. E così, come ogni anno, me le porta il
postino. Alessia Gazzola, Alice Allevi: compagne fisse, ormai, dei
miei freddi freddissimi inverni. Si dice che la puntualità non sia
donna e che queste due, di donne, autrice e personaggio, mamma e
figlia, forse sorelle gemelle, non siano poi la famosa, spasimata
eccezione alla regola. Anzi. Non so Alessia com'è, in verità, ma se
c'è un po' di Alice in lei – come io, da anni, ormai sospetto –
scommetto che qualche fidanzato avrà dovuto aspettare al freddo e al
gelo che scendesse di casa, con la frangia ben pettinata, le scarpe
alte, un cappotto scelto con cura maniacale, tenendo a mente i colori
in voga, gli abbinamenti e anche gli aggiornamenti variabili delle
previsioni meteo. Logico, poi, che si becchino solo un'occhiataccia,
un commento sgarbato sui proverbiali ritardi del gentil sesso e
complimenti manco a pagare milioni. Ma quando sono dovuti sono
dovuti. Alessia, io ti dico brava. Perché ai tuoi lettori riservi un
trattamento speciale e loro un gennaio senza te non l'hanno mai
passato. Perché fai bene e, se hai fretta non lo so, sei sempre in
tiro: non un ricciolo, non una virgola, non un personaggio fuori
posto. Quando sai che verrà a farti visita è come se arrivasse
l'incarnazione del Natale o, chessò, una cugina fighissima. Ti fai
trovare ben vestito e attento, le mani protese verso le cartoline di
luoghi lontani e le orecchie rizzate, in attesa di una nuova storia
delle sue. Cosa avrà combinato in un anno di silenzio? Nuovo
caso, solita città. Quella bella, ma che fa troppo rumore. Quella
viva, ma che offre suggestivi spunti di morte. Per fortuna che è vicino alla
tranquilla Sacrofano, un'oasi a un passo di treno, in cui ci si deve
preoccupare solo di fratelli con piccoli problemi coniugali, nonne
che imbrogliano giocando a carte, rimpatriate da organizzare, essere
figlie modello – non esattamente cosa da poco, considerando
un'inspiegabile attrazione verso il macabro e la scarsa probabilità
di scodellare nipotini a breve, con la crisi economica e gli uomini
che non cambiano, come cantava la Martini. E per fortuna che ci sono
tante cose che non cambiano. Claudio Coltorti: bello, dannato, con
una strana poetica sentimentale e lo sguardo indecifrabile. Arthur
Malcomess, gran bravo ragazzo, ma pessimo compagno di vita, che forse
si godrà per un po' le gioie di stare fermo, senza aerei da prendere
e gente da salvare. Insieme a loro la frizzante Cordelia; la mitica
Nonna Amalia – il mio sogno?
Una serie di romanzi dedicati a lei,
con tanto di copertine Harmony che farebbero la gioia dell'arzilla
ava; il fedele Calligaris – ormai sfugge se lui sia Holmes o
Watson, perché la sua allieva è sempre più abile. E poi c'è
Alice, che è l'unica certezza che ci resta. Cuore e testa tra le
nuvole, due terzi intuito e un terzo indecisione, una voce che ti
entra in testa e ci resta, un nuovo spasimante a cui guardare con
ritrosia. Perché Sergio Einardi, quieto antropologo, sembra
perfetto, ma alle donne si sa che quelli mogi mogi non piacciono
granchè, e poi anche lui potrebbe avere un oscuro segreto a forma di
ex moglie. Alice... Ricordo di averla trovata più sciupata e malinconica,
trecentosessantacinque giorni fa. Non voleva lo zuccherò nel caffè.
Un'indagine più difficile delle solite l'aveva messa a dura prova,
infatti, e aveva poca voglia di parlare. Una collega scomparsa nel
nulla, una vittima sepolta a cui dare voce. In Le ossa
della principessa c'era forse
meno di lei – per via di una sapiente struttura a più strati che
alternava la sua voce a quella di un'amante infelice – ma più
giallo, ai margini della tavolozza, in cui immergere la punta del
pennello per disegnare nuove scene del crimine, altri moventi,
continui misteri. Nonostante l'inverno sia sbocciato in ritardo e
neppure febbraio, tra nevicate a bassa quota e geloni sulle mani, ci
voglia fare il generoso regalo di un raggio di sole, con Alessia
Gazzola arriva l'estate in anticipo. Una lunga estate
crudele incede allegro e
spedito, vestito di leggerezza e tintarella omogenea. Crudele giusto
un po', estivo parecchio, è un toccasana contro il Blue Monday –
fosse catastrofico, almeno, solo quel lunedì lì – e la Sessione
Invernale. La verve di Alice regna incontrastata, questa volta, e la
commedia romantica convola a nozze con il poliziesco, ma con un
pelino di convinzione in meno che in passato, secondo me. Tanto
infatti nel capitolo precedente il giallo era solido, tanto qui
l'indagine è tra le più classiche, prevedibile ma non troppo, e
messa in scena in un mondo che conosciamo da lontano, lasciandoci
ingannare dalle luci fatue dei riflettori che brillano e dal fascino
indiscreto del tendone rosso. Tanto nel capitolo precedente la nostra
narratrice preferita era matura e pensierosa, tanto qui – a
indicare che non si smette mai di crescere e che l'adolescenza è per
sempre – sembra vivere e rivivere un'eterna gioventù, con cotte da
quindicenni, viaggi post esame di maturità in Sicilia ma fatti sulla
soglia dei trenta, amicizie resistenti e felina curiosità. Ma, vi
dirò, davvero è un problema, per chi ormai è affezionato perso ad Alice,
aver beccato quello giusto, di indizio, tra un mare di depistaggi
e testimonianze spapagliate con intelligenza? Direi di no. Fino a
quando ci sarà lei, fino a quando a modo suo – strampalata,
estrosa e cronicamente indecisa, al solito – mi racconterà
l'arcobaleno e il delizioso pasticcio che viene fuori mescolando con
le dita il giallo e rosa, anche lo scoprire che l'assassino è il
notorio maggiordomo, giuro, saprà strapparmi un sorriso di quelli ampi, bianchi e stupiti.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Carmen Consoli - Amore di plastica
"Volevo
essere più forte di ogni tua perplessità.
Ma
io non posso accontentarmi, se tutto quello che sai darmi
Ieri,
tra le due e le tre del pomeriggio, scrivevo questo. E,
nelle ore successive, sono stato così bravo da rivedere quattrocento
versi. E da prendermi un febbrone di quelli potenti. Un abbraccio a
voi. M.
Nasciamo
con le mani piene. Per questo da neonati stringiamo i pugni, perche'
abbiamo i doni piu' meravigliosi che si possano desiderare:
l'innocenza, la curiosita', la voglia di vivere.
Titolo:
Giulia 1300 e altri miracoli
Autore:
Fabio Bartolomei
Editore:
E/O
Numero
di pagine: 281
Prezzo:
€ 9,50; € 16,00
Sinossi:
A
Diego, quarantenne traumatizzato da un lutto familiare, con un lavoro
anonimo e un talento unico per le balle, accade di imbarcarsi in
un'impresa al di sopra delle sue capacità, l'apertura di un
agriturismo; accade che decida di farlo in società con due individui
visti solo una volta e che in comune con lui hanno esclusivamente la
mediocrità; accade anche che a scongiurare il fallimento immediato
sia l'intervento di un comunista nostalgico e che la banale fuga in
campagna si trasformi in un atto di resistenza quando
nell'agriturismo si presenta un camorrista per chiedere il pizzo.
La recensione
Guardo
l'orologio e penso che non ho tempo. Sul serio, questa volta è
peggio del solito. So che sono paranoico e che ogni esame mi toglie
un mese o due di vita, ma questa volta la situazione è tragica.
Quando lo dicevo le altre volte, non avreste dovuto darmi ascolto. Il ripasso di Letteratura Latina è missione impossibile.
Qualche giorno appena per rivedere mille e ottocento versi
dell'Eneide, che ho già tradotto con cura, tra dicembre e
gennaio, e con altrettanta cura ho rimosso. Zero. Nero. Blackout,
proprio. Ma ho letto, nei ritagli scarsi di tempo, e anche se c'ho
messo una settimana intera per portare a termine un libricino piccolo
ma che fa una compagnia immensa, mi sono preso una pausa, a metà tra
il mio caffè senza zucchero e il ritorno a Virgilio,
e mi sono ripromesso che, senza troppi preamboli, dovevo dirvelo.
Che, dopo Lezioni in paradiso e
altri “leggilo, leggilo” da parte delle solite Sonia e Federica,
ormai comparse fisse nel blog e impiegate a tempo indeterminato nella
non abbastanza nutrita schiera delle fangirl della
narrativa italiana, ho comprato l'edizione tascabile dell'esordio del
buon Fabio e, prima che la versione cinematografica
venisse a tentarmi, ho scoperto i segreti e i prodigi di una storia
di prati musicali, quarantenni con sogni e amori precari, camorristi
col pallino dei concerti brandeburghesi e bijoux d'auto d'epoca.
Dirvi, poi,
che sono famoso per non avere post arretrati – i miei arretrati si
limitano alle lingue morte, e già – e che, ora come ora, non
vorrei rovinarmi da me la fama di blogger stacanovista, prolifico e
altamente logorroico, ma leggendo Giulia 1300 e altri
miracoli non ho preso in verità
manco uno stralcio di appunto. Però non è un altro buco nero,
un'altra lampadina saltata, la corrente che – insieme alle buone
intenzioni – va via in un pufff.
Più che altro, mi fa strano che sia già finito. Ho realizzato la
cosa dopo qualche giorno. Non è un libro particolarmente originale o
accattivante, né uno di quelli che ti tengono svegli nel cuore della
notte, almeno che tu non soffra di insonnia cronica di tuo. Mi ci è
voluto un po' per arrivare a leggere lo splendido messaggio contenuto
nell'ultimo rigo, ma non ho avuto fretta, durante il viaggio. Finché
è durata, è stata pura pace averlo a portata di mano e sapere che,
anche con la lettura di un capitoletto al giorno, era una finestra su
un più gradevole altrove. Dirvi, ancora, che spesso diverte, senza
ricercare la risata facile, e che altrettanto spesso, forse
involontariamente, rattrista, con toni agrodolci e bicchieri che, a
volte, sono solo mezzi vuoti, comunque tu li voglia vedere. Li
conoscerete tutti leggendo, ma li conoscete già. Come li conosco io.
Un Diego che si è avvicinato al padre, quando era tardi; un Claudio
un po' mammone che ha perso moglie, capelli, impresa di famiglia,
ricevendo in cambio solo nuove e continue manie; un Fausto arricchito
a sbafo, volgare e pacchiano, ma con un cuore grande così; un Sergio
che si infiamma per un nulla, ma che non crede più a destra o a
sinistra e che quindi, sinceramente, adesso non sa dove svoltare. Nella vostra vita, quanti esemplari simili ci sono?
Autentici
italiani medi, una televisione che manda porno a tutte le ore, una
donna che porta tanta allegria, un rapimento impossibile che non sai
come andrà a finire. Un paradiso privato che confina con una
discarica abusiva. E sembrerà una barzelletta, raccontata da me –
“la sapete quella del venditore di macchine, del
presentatore televisivo di serie b, del commerciante fallito? Ma sì,
quella in cui tutti insieme sfidano la camorra e i pregiudizi, capito
quale?” - e se (poveri voi!)
non conoscete le chicche che regala l'irresistibile dialetto
napoletano (io sono madre-e-padre-lingua, modestamente), ogni tanto vi
ci vorrà qualche sottotitolo o un ripasso veloce, ma guardando
l'ultima puntata di Gomorra, qui
camorristi simili ma più sorridenti, o il magnifico Song'e
Napule, e con i Manetti Bros sì che ci avviciniamo
di più allo stile spigliato, intelligente e rilassato di Bartolomei,
sarete a bordo. Un posto sulla Giulia non si nega a nessuno. Perché la vicenda di
quattro disadattati con le spalle al muro ma con la testa sempre
alta, che prendono in ostaggio una manciata di spietati camorristi, è
assurda ma non è che non stia né in cielo né in terra. La storia
rocambolesca di Giulia 1300 e altri miracoli non
è fuori dal mondo: al contrario. E' dentrissimo. Contemporanea;
nostrana come un piatto fresco fresco pomodoro, mozzarella e
basilico; di cuore. Una parabola, per una volta, sul sogno italiano.
Quello americano, noi che tanto amiamo Hollywood, va a
finire che lo conosciamo meglio del nostro. In un'Italia che è
quella che è, un sogno sotto sotto c'è – ma che brutta questa frase,
sembra un pezzo della sigla dei Puffi,
ma ricordatevi che non ho tempo, quindi non la cambio, no. Il sogno
italiano, dicevo: fare inversione di marcia e non scappare più.
Prendere in gestione un agriturismo per sentirti padrone di qualcosa,
tu che non hai avuto mai niente. Smettere di andare appresso alle
ragazzine, anche se universitari e quarantenni è un binomio
schifosamente alla moda, e capire che si può amare una che ha la tua
età, le rughe e i suoi pensieri scontrosi, anche senza la prova di
un primo bacio. L'amore non è mica come il melone d'estate, che devi
farci la prova. Insomma, quando si legge un bel romanzo italiano, scatta il paragone con l'estero. Sempre. E' internazionale, ormai, è la frase all'ordine del giorno. Ma che poi, mi chiedo, è un complimento? I romanzi di Fabio Bartolomei sono invece da leggere perchè di quel che è moda se ne infischiano coraggiosamente e, al tanto inflazionato internazionale, contrappongono due spaghetti al sugo; un fiasco di vino rosso, che fa pure buon sangue; la magia del casereccio.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Pino Daniele – Yes I Know My Way
Ciao a tutti,
amici. Come state? Oggi, per riempire un vuoto lungo quasi una
settimana, causa studio ed esami tragicamente imminenti, ho deciso di
proporvi una puntata della rubrica Mr. Ciak – che ormai,
quando le mie letture vanno a rilento e il blog è in stato comatoso,
è un po' il mio jolly. In realtà, non guardo un film da tipo una
settimana – e no, la mia maratona di How to get away with murder
non vale: le puntate sono corte! - quindi vi parlo di cosa ho
visto di recente. Avrei voluto aspettare, parlarvi di altro, perché
tutti quei sette e tutti quei film già noti creano solo monotonia,
ma boh. E poi se fino a quando non mi libero dalla sessione invernale
non riesco a guardare più niente di niente? Quindi, se vi va,
sorbitevi le mie chiacchiere sui drammi indie di Felicity Jones,
sugli italiani che portano (bene) al cinema un romanzo straniero
molto acclamato, sulla commedia francese che – con la bellissima
Gemma Arterton e con l'intramontabile Flaubert – fa al solito
faville. Un abbraccio, M.
Dopo
la scoperta che una Felicity Jones al giorno toglie il medico di
torno, ho dedicato una sera a Breathe In e
quella direttamente successiva a Like Crazy.
Invertendoli, guardandoli al contrario. Due visioni con la firma
dello stesso Drake Doremus, con protagonista la stessa inglesina
dagli occhi verdi verso cui a vent'anni ho sviluppato una cotta
mostruosa, che manco alle scuole medie. Per i motivi sbagliati – ma
la bellezza della Jones è poi un motivo sbagliato? - sono andato a
ripescare molti dei suoi film che, non so nemmeno io il motivo, mi
erano sfuggiti. Lei mi piace perché è lei e perché fa un genere
vagamente di nicchia che ha sempre saputo toccare le mie corde
segrete. E, a proposito di segreti, quando mi chiedevano “Ma
Felicity Jones chi?”, io rispondevo “Quella di Like
Crazy”, anche se Like
Crazy non l'avevo mica visto.
Tutti pensavano il contrario; io non davo smentite. Adesso però me
lo chiedo. A cosa diamine pensassi, dove diavolo fossi, quando
quattro anni fa al Sundance presentavano un film che anche allora mi
sarebbe piaciuto. Riassunta, condensata, ma mai compressa a forza –
violata – ci viene raccontata una storia d'amore nella sua
interezza. Anna e Jacob si piacciono un mondo, ma lui è americano,
lei è una studentessa inglese con un visto in scadenza. Imbrogliano
per qualche tempo, lei parte, quando ritorna non può ritornare
davvero. Problemi con la dogana. Problemi con chi la aspetta a casa.
Odorarsi, conoscersi, poi perdersi mai del tutto. C'è parecchio in
un'ora e trenta. La spensieratezza degli anni d'oro, il disincanto
dell'età adulta sperimentato anche da chi continua ad avere il volto
d'adolescente. La fiamma che si raffredda ma non si spegne. Anton
Yelchin e Felicity, insieme a una Jennifer Lawrence di passaggio,
sono i teneri e convincenti testimoni di un amore di quelli veri,
mentale e fisico, che ha bisogno di un tocco, d'un promemoria, per
farsi ricordare. O lo si scorda, con il silenzio e la lontananza.
Maturi ed immaturi, zelanti e pigri, sono la pioggia, e il sole, e i
check in in aeroporto, e le promesse (non) fatte tanto per. Un
Doremus più acerbo e introverso, ma già bravo, li inchioda con i
primi piani e le spalle al muro, mentre una fotografia opaca e nuda
ce li racconta alle prese con il rimpianto. Lui cattura il
significato più profondo dell'assenza, il nocciolo dell'attesa,
l'eroico tentativo di imbrogliare il tempo e, con una quiete solo
apparente, stupisce con trovate brillanti e un montaggio che mi ha
regalato spunti di una bellezza impensata – la serie di istantanee
di loro a letto, i campi e contro campi che alternano il corpo della
Jones a un posto vuoto sul bus, sei mesi di pratiche e ripensamenti
sbrigati buttatando avanti veloce. Il pane quotidiano per chi ama le
storie d'amore indie,
con dialoghi lunghissimi che sarebbero il sogno di ogni giovane
attore, momenti di una maturità che strappano il cuore e ti fanno
invecchiare con un singolo passaggio di macchina, svolte impreviste
per capire davvero le quali devi essere semplicemente un po'... come
loro. Un po' così. Così, senza definizioni. Così, come chi quando
guarda uno squarcio di storia d'amore pensa già a come andrà a
finire. (7,5)
Nella
lontana estate del quarto ginnasio, adolescente brufoloso dato in
pasto a una prof di letteratura indicibilmente maligna, leggevo in
spiaggia tutta una serie di romanzi minori che lo stesso Verga aveva
scordato di aver scritto e un grande classico, Madame
Bovary. Verga, mio acerrimo
nemico, l'ho odiato senza troppo sforzo; Flaubert no. Mentre, perciò,
qui aspettavano Dio solo sa cosa, io già avevo intercettato
Gemma Bovery tra le uscite
straniere e avevo avuto fiducia nei distributori italiani, che mi
vogliono bene e le buone commedie d'oltralpe non se le fanno
scappare. Chi mi legge, sa: che penso che il cinema francese abbia
una marcia in più, che non c'è posto più affascinante della
campagna normanna e che se ci sono toni irresistibili e una
protagonista bellissima, allora il gioco è fatto. L'ultimo film di
Anne Fontaine è una deliziosa produzione con suggestioni british e
carte in regola perfette. Echi letterari, un epilogo tragicomico
eppure divertentissimo, garbo, Gemma Arterton. E lo so che ho appena
giurato amore eterno a Felicity Jones, ma tanto mica capisce
l'italiano lei, no? Gemma Arteron, mai così bella, quasi da
combustione spontanea, ha lo stesso nome del suo personaggio e il
destino apparente dell'eroina di Flaubert. O almeno di questo è
convinto il suo vicino di casa, un fornaio ficcanaso che legge troppo
e vive troppo poco. Quanto può fare un romanzo? Tanto, questo è
certo, ma conoscere il finale in anticipo forse potrà cambiare il
destino di quella conturbante giovane venuta dall'Inghilterra, con
marito americano e una flotta di ammiratori segreti che minacciano la
sua serenità? Ispirato a una graphic novel, Gemma Bovery è
una riscrittura in chiave moderna di un polveroso capolavoro:
operazione rischiosa, ma salvata da quei francesi coltissimi,
autoironici, nostalgici, che fanno sembrare cosa da niente qualcosa
da maneggiare, invece, con cura. Saranno antipatici, o almeno così
dice la leggenda, ma hanno una leggerezza inimitabile. Inutile dire
che non ci si annoia mai e che quel loro sguardo malizioso, anche in
mezzo a presagi e giochi del destino, diverte. Fattura impeccabile;
una barriera linguistica impossibile da comprendere non guardano il
film in lingua originale, ma discretamente suggerita dal nostro
doppiaggio. Fabrice Luchini, con l'ormone non ancora in pensione, una
fantasia che fa guai e sogni erotici in costumi ottocenteschi, è
ottimo. Gemma Arteron, con un ruolo cucito addosso su quel suo corpo
burroso e cosparso di lentiggini, è erotica e ingenua: impastare il
pane è la cosa più sexy del mondo. Per non parlare di quando, in
una scena con il fortunato biondino già visto il Les
Amours Imaginaires, si sfila
l'impermeabile... Mi ha ricordato la Malena di
Tornatore, muta e raccontata dagli altri - vicini invidiosi che le
guardavano nella scollatura e nel buco della serratura; ma anche una
creatura inconsapevole, studiata e manipolata come nell'imperdibile
Nella casa, con lo
stesso Luchini nel cast, un regista più grande, riflessioni in rima
– tra sarcasmo e seduzione – sulla realtà che imita il falso e
viceversa. (7)
Gli
italiani che riadattano un altro romanzo scritto fuori dai nostri
confini. Un romanzo che chi ha letto definisce, spesso, un Carnage,
in cui quattro adulti si riuniscono per parlare di un misfatto più
grande di una scaramuccia tra bambini. In attesa di vedere I
nostri ragazzi – che ha
cambiato titolo, ambientazione e forse anche qualcos'altro – avrei
voluto recuperare il libro, per dirvi come siamo noi quando diamo
un'impronta altra a qualcosa che non ci appartiene. I protagonisti
sono due fratelli che non potrebbero essere più diversi. Uno crede
nell'onestà, l'altro nel potere dei soldi. Mettono da parte i litigi
e le divergente una volta all'anno, durante una cena che è un
trionfo di maschere, ipocrisie, chiacchiere stantie. Ma quando si
insinua il sospetto di un fatto terribile, quando un interrogativo fa
capolino attraverso la tivù che annuncia l'ultimo caso di cronaca,
allora tutto si ribalta e l'affetto seppellisce la ragione. Prima
distanti, poi quasi complici, i quattro si domandano cosa fare, alla
notizia che i loro figli perfetti hanno la coscienza sporca. Con una
direzione tutt'altro che pedestre, il regista colpisce per la qualità
della scrittura e per diverse scelte formali: i dialoghi densi e i
patinati luoghi chiusi si alternano a scene in cui il chiasso,
attraverso un uso capace della colonna sonora, è messo a tacere e in
cui quelle case futuriste, con le linee dritte e i colori freddi,
ricordano prigioni. Tra i quattro protagonisti, decisamente
convincenti, menzione per una Giovanna Mezzogiorno invecchiata, ma
sempre a fuoco, che è un piacere rivedere: il ruolo sgradevole di
una madre disposta a chiudere gli occhi davanti all'evidenza, i
vestiti castigati contrapposti a quelli provocanti dell'affascinante
Bobulova. Calato nel ruolo quell'Alessandro Gassman che spesso,
altrove, stona; padrone, sottile, complicato un Luigi Lo Cascio che
con i personaggi impegnativi va a nozze. Scomodo, curato,
preoccupantemente vicino, sa come non cadere nel facile moralismo:
sarà che una morale non c'è e che quel finale tronco, agghiacciante
e inaspettato, ribalta yin e yang. Un quartetto di intriganti
personaggi calati in una situazione pericolosa, riflessioni e colpe
già mostrate ma che incatenano, un epilogo tragico e farsesco, di un
nero che soffoca. Notevole, tutto. E tu, persona corretta e generosa,
proprio tu: cosa faresti se i tuoi figli fossero gli assassini di cui
hai sentito parlare in televisione? (7)
La
famiglia perfetta che apre le porte di casa a una studentessa
straniera. Una ragazza timida, pacata: una lettrice e una musicista.
Una con gli occhi sterminati, che parla la loro stessa lingua, ma con
un accento diverso. Quello britannico, che rende tutto più elegante
e formale. Sono in tre, in una villa di campagna lontana dalle luci
della città, ma quell'estranea, un posto aggiunto a tavola, un'altra
bocca da sfamare, un'altra testa pensante, metterà alla prova i loro
equilibri. E nulla è dato per certo, quando ci si mettono di mezzo
l'attrazione fisica e qualcosa che, forse, somiglia all'amore che
tutti sognano. Le tazze da collezione della mamma cadono a terra in
mille pezzi; le vecchie amicizie della figlia sembrano avere occhi
solo per la nuova arrivata; i desideri autentici del padre, uomo di
mezza età che insegna in un liceo ma insegue la grande musica, fanno
prepotentemente capolino, mentre il signor Reynolds si scopre
innamorato della dolce Sophie. Breathe In è
un dramma indipendente di qualche anno fa, che ho recuperato per la
voglia di conoscere meglio e più da vicino quella giovane attrice
che in La teoria del tutto
mi aveva incantato. Ma quant'è bella Felicity Jones? E quanto è
delicato questo film? E quante scarse sono le probabilità di vederlo
anche da noi? Sarebbe strano vederlo distribuito. Doppiato. Contro
natura, quasi, strappare la Jones da quelle atmosfere tenui a cui
appartiene e rendere in italiano i dialoghi intimi che costruiscono
questo storia d'amore, che poi è una lezione di respirazione. In
inglese, come saprete meglio di me, non c'è differenza tra il
tu e il voi.
You è pronome di
seconda persona singola e plurale, e sono le situazioni a farci
capire se, formali, ci si dà del lei,
oppure se si è passati, con la conoscenza reciproca, a un rapporto
più confidenziale. Mi sono chiesto per tutto il tempo quando i due
protagonisti avessero oltrepassato la soglia delle buone maniere per
scoprirsi confidenti. Ma, in verità, impossibile dire se la loro
relazione vada mai oltre qualcosa. Nascosta, trattenuta, platonica.
Breathe in parla di un
uomo sposato che intraprende una relazione clandestina con la ragazza
che ospita per un semestre, ma non esiste malizia. E poi, ai paesaggi
bucolici e ai primissimi piani su quei volti acqua e sapone, si
aggiunge la musica classica; la professione del musicista. Bravissimi
e naturali la Jones e Guy Pearce, in una prima parte in perfetto
equilibrio, pure un po' magica, che quando si scopre terrena, dotata
di un peso suo, perde qualcosa. Il film di Drake Doremus è
l'equivalente di un sussurrare, di uno sfiorarsi, di un non dirsi, di
un camminare in punta di piedi. Un mezzo gesto, perlopiù nascosto,
che è significativo proprio perché destinato a non completarsi: a
non diventare un dialogo, una carezza, un confronto, una fuga. (7)