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L’ultimo marinaio, di Andrea Ricolfi. Garzanti, € 16, pp.
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Ci sono quei romanzi in cui sarebbe splendido trasferirsi. Ci pensate mai? A me è accaduto di recente con l’esordio di Andrea Ricolfi. Leggendo di acque tumultuose, scogliere a picco ed eremi immaginari, durante la lettura ho desiderato di volare in Norvegia per riprendermi dai dispiaceri dell’anno corrente. Sull’isola di Noss, partorita dalla fantasia dell’autore, è possibile fronteggiare un mare straordinariamente grande e imbattersi in bellissime case con le persiane tinteggiate di blu. In una di queste case Matias e il suo migliore amico hanno inaugurato una scuola nautica. Vinden Hus fungerà anche da ostello per allievi e maestri, sarà aperta tutto l’anno, e gli ospiti potranno fermarsi lì per tutto il tempo che serve: imparare i segreti della navigazione, infatti, è stancante. Dopo aver letto un annuncio sul giornale, alla porta di Matias si presenta Tomas: sgualcito e appassionato, conosce il mare come le proprie tasche ma ammette di non averlo mai saputo domare. L’insegnante di navigazione si muove nel mondo con leggiadria, parla come un poeta, somiglia a un vulcano attivo: spericolato, a volte esplode in azioni tanto avventate quanto coraggiose.
Un saluto su un’isola equivale a dire: “Mi sono accorto che ci sei anche tu, e guarda: ci sono anch’io”. Per questo mi piacciono le isole”.
L’ultimo marinaio è la breve cronaca di vite semplici, invisibili, senza ambizione. Ormai anziano e vedovo, il protagonista – in procinto di lasciare la scuola in eredità al figlio – ripensa con malinconia contagiosa agli amici, alle avventure, agli amori. Racconta di un mare talora ostile, di grigliate deliziose animate dai canti dei balenieri, di tragedie sventate ed epifanie, di animali colossali da cacciare fino in capo al mondo: l’animale più crudele di tutti, però, resta sempre l’uomo. In una narrazione d’altri tempi, dove si avvicendano dettagli macabri e momenti di contemplazione, la voce di Andrea Ricolfi e quella del suo Matias risuonano timide ed essenziali: in sole centocinquanta pagine, perciò, non hanno il tempo di mettersi al servizio di una storia degna di memoria. Questo romanzo Garzanti sui generis, con una copertina che ricorda quella degli Einaudi Supercoralli, è fatto di atmosfere palpabili, non di fatti. Di personaggi puri di cuore, vecchio stile, che stanno bene lì dove stanno. Farebbero male a seguire invece gli stimoli esterni, i sentimenti, l’ignoto delle colonne d’Ercole?
Eravamo entrambi inerti, come intrappolati in una bolla. Un po’ era la giovinezza, che con l’impeto che si porta dietro non aiuta a fare scelte sagge. Un po’ era colpa del mare. Anche se non ti sommerge, in qualche modi ti ingloba e presto non se più in grado di concepire, se mai lo sei stato, un solo pensiero, desiderio o speranza che non si incastri con le sue esigenze. Può essere più o meno delicato nel fartelo sapere, ma è lui che decide tutto della tua vita.
Il risultato è una storia di uomini e natura, in cui l’ambientazione norvegese è un pregio e un difetto insieme: se da un lato regala lunghi passaggi descrittivi – i più belli –, dall’altro a volte fa storcere il naso per via dei natali italiani dell’autore. Nonostante Ricolfi conosca bene la Norvegia, leggendo il suo esordio non ho mai trovato traccia della magia o della fascinazione che ad esempio accompagnano i romanzi della Iperborea. La sua delicatezza, purtroppo, finisce per somigliare a una mancanza di fermezza tanto nello stile quanto negli intenti. Lento, dolcissimo e contemplativo – troppo per i miei gusti –, il romanzo avrebbe avuto bisogno di una storia più appassionante. Invece è come un modellino di barca, piccolo e cesellato, che a causa di dialoghi troppo enfatici e di figuranti appena abbozzati non riesce mai a portarti al largo. Reduce da questa lezione di sopravvivenza, ho avuto la sensazione di non aver imparato a sufficienza. Per il resto, buon vento a tutti.
Il mio consiglio musicale: Molly Sandén – My Hometown (dal film Eurovision Song Contest)