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giovedì 15 ottobre 2020

Recensione: L'ultimo marinaio, di Andrea Ricolfi


| L’ultimo marinaio, di Andrea Ricolfi. Garzanti, € 16, pp. 156 |

Ci sono quei romanzi in cui sarebbe splendido trasferirsi. Ci pensate mai? A me è accaduto di recente con l’esordio di Andrea Ricolfi. Leggendo di acque tumultuose, scogliere a picco ed eremi immaginari, durante la lettura ho desiderato di volare in Norvegia per riprendermi dai dispiaceri dell’anno corrente. Sull’isola di Noss, partorita dalla fantasia dell’autore, è possibile fronteggiare un mare straordinariamente grande e imbattersi in bellissime case con le persiane tinteggiate di blu. In una di queste case Matias e il suo migliore amico hanno inaugurato una scuola nautica. Vinden Hus fungerà anche da ostello per allievi e maestri, sarà aperta tutto l’anno, e gli ospiti potranno fermarsi lì per tutto il tempo che serve: imparare i segreti della navigazione, infatti, è stancante. Dopo aver letto un annuncio sul giornale, alla porta di Matias si presenta Tomas: sgualcito e appassionato, conosce il mare come le proprie tasche ma ammette di non averlo mai saputo domare. L’insegnante di navigazione si muove nel mondo con leggiadria, parla come un poeta, somiglia a un vulcano attivo: spericolato, a volte esplode in azioni tanto avventate quanto coraggiose.

Un saluto su un’isola equivale a dire: “Mi sono accorto che ci sei anche tu, e guarda: ci sono anch’io”. Per questo mi piacciono le isole”.

L’ultimo marinaio è la breve cronaca di vite semplici, invisibili, senza ambizione. Ormai anziano e vedovo, il protagonista – in procinto di lasciare la scuola in eredità al figlio – ripensa con malinconia contagiosa agli amici, alle avventure, agli amori. Racconta di un mare talora ostile, di grigliate deliziose animate dai canti dei balenieri, di tragedie sventate ed epifanie, di animali colossali da cacciare fino in capo al mondo: l’animale più crudele di tutti, però, resta sempre l’uomo. In una narrazione d’altri tempi, dove si avvicendano dettagli macabri e momenti di contemplazione, la voce di Andrea Ricolfi e quella del suo Matias risuonano timide ed essenziali: in sole centocinquanta pagine, perciò, non hanno il tempo di mettersi al servizio di una storia degna di memoria. Questo romanzo Garzanti sui generis, con una copertina che ricorda quella degli Einaudi Supercoralli, è fatto di atmosfere palpabili, non di fatti. Di personaggi puri di cuore, vecchio stile, che stanno bene lì dove stanno. Farebbero male a seguire invece gli stimoli esterni, i sentimenti, l’ignoto delle colonne d’Ercole?

Eravamo entrambi inerti, come intrappolati in una bolla. Un po’ era la giovinezza, che con l’impeto che si porta dietro  non aiuta a fare scelte sagge. Un po’ era colpa del mare. Anche se non ti sommerge, in qualche modi ti ingloba e presto non se più in grado di concepire, se mai lo sei stato, un solo pensiero, desiderio o speranza che non si incastri con le sue esigenze. Può essere più o meno delicato nel fartelo sapere, ma è lui che decide tutto della tua vita.

Il risultato è una storia di uomini e natura, in cui l’ambientazione norvegese è un pregio e un difetto insieme: se da un lato regala lunghi passaggi descrittivi – i più belli –, dall’altro a volte fa storcere il naso per via dei natali italiani dell’autore. Nonostante Ricolfi conosca bene la Norvegia, leggendo il suo esordio non ho mai trovato traccia della magia o della fascinazione che ad esempio accompagnano i romanzi della Iperborea. La sua delicatezza, purtroppo, finisce per somigliare a una mancanza di fermezza tanto nello stile quanto negli intenti. Lento, dolcissimo e contemplativo – troppo per i miei gusti –, il romanzo avrebbe avuto bisogno di una storia più appassionante. Invece è come un modellino di barca, piccolo e cesellato, che a causa di dialoghi troppo enfatici e di figuranti appena abbozzati non riesce mai a portarti al largo. Reduce da questa lezione di sopravvivenza, ho avuto la sensazione di non aver imparato a sufficienza. Per il resto, buon vento a tutti. 

Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Molly Sandén – My Hometown (dal film Eurovision Song Contest)

mercoledì 19 giugno 2019

Recensione: Doppio vetro, di Halldóra Thoroddsen

|Doppio vetro, di Halldóra Thoroddsen. Iperborea, € 15, pp. 128 |

Osservare la vita in differita per non lasciarsi scalfire. A una certa età, sedersi accanto a una finestra e aspettare. L'inevitabile va accolto sferruzzando, facendo il conto di tutte le volte in cui il telefono squilla per annunciare che un altro amico è passato a miglior vita. Ma qualcosa, qualcuno, a sorpresa ha il potere di risvegliare il desiderio del mondo esterno. Come ignorare la chiamata di una seconda opportunità? La protagonista, sulla soglia degli ottant'anni, lavora a maglia, scribacchia i propri pensieri, scruta: il divario generazionale, la prevedibilità di storie destinate nel bene e nel male a ripetersi, il disinteresse di quei nipoti ormai disaffezionati alle favole della buonanotte. Pur considerandosi un residuo del secolo passato, a modo suo cerca di stare al passo. Nella Parigi degli anni Cinquanta, d'altronde, frequentava gli intellettuali alla moda e studiava matematica per accontentare la famiglia intransigente, filosofia per diletto. 
Il mondo è cambiato in fretta, e i telegiornali le portano notizie dal mondo direttamente in soggiorno. Nei giorni storti, infatti, perfino la caduta del governo o una manifestazione studentesca risultano essere fiammelle sparute contro le giornate buie dell'inverno nordico. Invecchiando, la vedova ha imparato ad apprezzare gli uomini medi, un po' noiosi. Invecchiando, sono cambiate le priorità imminenti: in caso ci si innamori, non si parlerà più di andare in vacanza bensì di case di riposo da mettere al vaglio.

La passione richiede sacrificio. Sempre la stessa storia, eterni sacrifici. Ma la vecchiaia non deve bruciare tra le fiamme, semmai tenere vive le braci. Prendersene cura, badare alla continuità. “I desideri non si avverano in un attimo pavido”, le sussurra una voce dentro di lei. Vuole davvero rallentare la discesa, raffreddare il fuoco per pura e semplice grettezza e starsene a casa con i suoi doni?

Affezionata alla propria autonomia, la protagonista biasimava i coetanei che cercavano un partner a ogni costo. Ma in una caffetteria è saltato fuori Sverrir, arzillo ma non troppo, con un'onorata carriera da chirurgo alle spalle e una famiglia negli Stati Uniti: fra loro mancheranno il fuoco e lo struggimento, ma senza etichette si godono comunque nella buona e nella cattiva sorte una convivenza guardata di cattivo occhio dagli eredi. Che pensano maliziosamente al sesso vissuto a fatica, ai risparmi sperperati e, invano, desidererebbero condurli sulla retta via. Agli occhi degli altri questi innamorati della terza età non sono niente. Possono forse viversela senza promesse solenni, con tanto di ex sospettose fra le scatole? Quale nome si leggerà per primo sui necrologi? 
Il doppio vetro dell'ultimo successo Iperborea ammortizza la pioggia, il sole e il vento. I suoni e i rumori violenti. Le emozioni, mai. Dall'altra parte, tuttavia, qualcosa si perde. Sommesso, essenziale, delicatissimo, il romanzo della Thoroddsen incanta e lascia estranei quanto o più di Le nostre anime di notte: storia d'amore e senilità, interrotta in fase di scrittura dalla scomparsa dell'autore Kent Haruf. Al punto da risultare più vicino al racconto che al romanzo; una vicenda irrisolta. Le padrone di casa restano per tutto il tempo prive del nome di battesimo. Alcuni comprimari entrano ed escono disordinatamente: a volte senza annunciarsi, altre senza congedarsi. La leggerezza impalpabile dello stile, insieme a coloriture politiche poco lampanti agli occhi dei lettori disinformati, piacciono a metà.

È brutto non sentire se si è vivi.

Come superare la paura di morire? Ci si rifugia prima in casa, poi nell'illusione di un amore speciale perché tardivo. Infine, nei vaneggiamenti della fantasia: la testa persa fra le nuvole, come succede al soggetto della meravigliosa copertina illustrata. Romanzo realistico e quotidiano, benché perdutamente proiettato nella dimensione poetica del sogno per contrastare così l'avanzata dell'oblio, Doppio vetro si legge in un pomeriggio dolce-amaro. E lascia di pari passo fascino e confusione, davanti a una sensibilità, a un lirismo, così diverso dai nostri. L'Islanda non è soltanto un punto sulla carta geografica, ma tutto un mondo di nomi impronunciabili, scenari mozzafiato e politici fanfaroni. È un altro mondo, lontano dal mio gusto, di raccontare e raccontarsi. A cuore aperto, a porte chiuse.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Ornella Vanoni - Domani è un altro giorno

venerdì 17 agosto 2018

Recensione: Tu l'hai detto, di Connie Palmen

| Tu l'hai detto, di Connie Palmen. Iperborea, € 17, pp. 291 |

Che fossero sin dall'inizio infelici e male assortiti. Che fossero entrambi in cerca di fama letteraria, e per questo eternamente in competizione. Che amarono, forse, fino a morirne o impazzire. Lei fragilissima lepre, lui despota dalla furbizia di volpe. Lo dici tu. Che conosci della Plath giusto il nome e le modalità di un suicidio ormai famigerato. Che essendoci in ballo crisi di nervi e tradimenti coniugali, a scatola chiusa, dai all'uomo la colpa esclusiva del triste sfacelo. Cosa ne penserebbero loro, se potessero contraddirti dal profondo della tomba? Come rigetterebbe le accuse il marito fedifrago, per anni messo a tacere da una schiera di estimatori con i paraocchi in nome del culto postumo dell'autrice della Campana di vetro? Dev'essere nato così Tu l'hai detto: un'apologia fittizia dal punto di vista inedito dell'istigatore; una raccolta a tappeto di falsità e menzogne, e la loro matematica ritrattazione. L'occasione, a vent'anni dalla morte, per lasciarlo finalmente dire proprio a Ted Hughes.

Per la maggior parte delle persone esistiamo solo in un libro, la mia sposa e io. Negli ultimi trentacinque anni ho dovuto assistere con impotente ribrezzo a come le nostre vite reali sono state sommerse da un’onda fangosa di racconti apocrifi, false testimonianze, pettegolezzi, invenzioni, leggende; a come le nostre reali, complesse personalità sono state sostituite da stereotipi, ridotte a immagini banali tagliate su misura per un pubblico di lettori affamati di sensazionalismo. E così lei era la fragile santa e io il brutale traditore. Ho taciuto. Fino ad ora.

A lui, che in fondo credeva negli astri e nell'occultismo, l'incontro con Sylvia – loquace americana con le cicatrici dell'elettroshock e quelle di un precedente suicidio non andato a buon fine – era parso subito una disastrosa collisione astrale. L'intensità dell'attrazione, tuttavia, lo aveva spinto a ignorare i segnali celesti. Lei gli morde una guancia nel suo vestito da sera, lui la sposa in gran segreto. Da lì i viaggi fra i luoghi di Cime tempestose e gli Stati Uniti in fermento, con Ted pronto a privarla delle sovrastrutture, a educarla, a liberarla. La scrittrice in caduta libera che si sognava Virginia Woolf aveva paura in verità della bomba atomica, dell'appendicite, della fama. Affetta da insicurezza cronica, non si perdonava l'assenza del padre e provava frustrazione all'idea dei bestseller o dei figli. Sylvia e Ted, segretamente in lotta per la prima pagina, avrebbero voluto vivere di parole e fantasia. Non tagliati per affrontare il contingente, erano troppo simili, e per questo si respingevano: la pienezza dell'essere, infatti, pare essere negli opposti. Lei troverà la pace infilando la testa nel forno a gas: i bambini che inconsapevoli dormono al piano di sopra, le carte di una separazione consensuale appena firmate. Per il consorte, invece, avrà inizio un supplizio infinito per scagionarsi dal senso di colpa; dalle voci di femministe che lo volevano a tutti i costi un mostro. Farsi giustizia a parole non significa però perdonarsi. Ammantato dallo stesso fatalismo di una tragedia greca, con i reali attanti trasformati grazie a una prosa straordinaria in personaggi di interessante levatura drammaturgica, il romanzo dell'olandese Connie Palmen è un lungo flusso di coscienza in cui tutti appaiono comparse passeggere nella corrente: l'amante di Ted, detta Lilith alla stregua di un demone sanguinario, che sette anni dopo imiterà la Plath nella morte; figli, il secondo dei quali erediterà, stando alla nota biografica in appendice, la stessa indole autodistruttiva della madre; perfino Sylvia, messa in ombra da un narratore che – sarà per vendetta? - non rifrange la luce della personalità di lei.

Chi vuole creare deve morire decine di volte nella vita. Deve separarsi, svincolarsi dai suoi cari, da terra, paese, famiglia, amici e soprattutto dalle idee nelle quali è barricato. Non esiste rinascita senza prima la morte. La letteratura ama la distruzione quale condizione per rendere possibile una nuova vita.

Glamour e cronachistico, Tu l'hai detto fa pesare a lungo andare i rari dialoghi e le dense elencazioni di eventi: scartafacci, viaggi, coincidenze magiche e fatali, e un protagonista che a volte minimizza i colpi di testa e mostra una Plath tutt'altro che amabile – e se ne apprezza vivamente il coraggio, lontano dalla stucchevolezza dell'elogio funebre, ma la donna suscita nel lettore incomprensioni e antipatie frequenti. 
C'è sempre bisogno di un colpevole. Serve a semplificare le difficoltà insite in ogni matrimonio. Un capro espiatorio a cui attribuire gli sgarbi, e la presa diretta sulla manopola del gas. Impeccabile esercizio di stile, meticolosissimo nel suo lavoro di ricostruzione metaletteraria, il romanzo Iperborea mi ha lasciato affascinato ma distante. Sette anni insieme che non conoscono poesia, strano ma vero; una relazione di amore-odio che non poteva essere ridotta ai minimi termini. Si ricostruiscono infatti tante cose, con il senno di poi. Mai, purtroppo, i lieto fine.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Karliene (Kate Bush) – Wuthering Heights 

lunedì 6 agosto 2018

Recensione: Luce d'estate ed è subito notte, di Jòn Kalman Stefànsson

| Luce d'estate ed è subito notte, di Jòn Kalman Stefànsson. Iperborea, € 9,90, pp. 276 |

È stata la lettura dell'intenso Isola, la scorsa primavera, ad allargare i miei orizzonti – sapevo quanto fosse interessante il catalogo Iperborea, da quel romanzo in poi, e possedevo qualche informazione in più sulla bellezza di alcuni arcipelaghi dispersi fra le onde del Mare del Nord. Punto la mia bussola ancora lì, dove ho avuto la fortuna di sentirmi già una volta bene. Torno a perdermi in mezzo ai prodigi e ai misteri di quella Finlandia che mi ha sempre ispirato brividi di freddo e grandi avventure, e lo faccio, al solito, leggendo. Questa volta una ristampa dalla copertina di un magnetismo irrinunciabile, a cura del Corriere della sera, che in edicola ha aperto ai collezionisti le porte della narrativa boreale. Ho il piacere di dirvi che sono stato in un anonimo paesello alla fine del mondo. Meno impermeabile al progresso di quanto in verità ammetta, ma comunque perfetto come scenario di una casa di riposo esclusiva per continentali eternamente stressati. Pensate che non ci sono né chiese né cimiteri. Che la morte, al pari di un'ospite sgradita, è stata messa al bando. Anni fa circolava di mano in mano una petizione per accogliere finalmente sacerdoti e becchini, ma i più non l'hanno firmata per una forma di scaramanzia: perché attirarsi la malasorte, croci e lapidi all'orizzonte, se abbastanza in pace da essere longevi per natura? A morire si muore, certo: non si fanno mica miracoli. Ma i dirimpettai andati al Creatore e gli avi incartapecoriti riposano nelle campagne tutto attorno: gli addetti alle pompe funebri, infatti, sono anche un po' contadini, o viceversa.

A volte nei posti più piccoli la vita diventa più grande.

Un magazzino, una cooperativa, una maglieria con appena dieci impiegati: questi i perni della vita di tutti i giorni. Qualora pensaste però che l'anonimato riguardi anche la routine dei cittadini, vi scoprireste colti in contropiede: il destino, e uno scrittore come Jòn Kalman Stefànsson, a volte sanno essere molto fantasiosi. Uno stimato imprenditore locale, tormentato da inspiegabili sogni in latino, ha trasformato la sua casa in uno spettacolare osservatorio e ha scelto di consacrarsi all'astronomia, benché tutti gli diano del pazzo; una postina sfaccendata, con il dente avvelenato per le email e il sopravvalutato diritto sulla privacy, sbircia e manipola la corrispondenza dei compaesani improvvisandosi dea ex machina; un poliziotto frustrato muore perché senza crimini efferati da combattere, e un ottantenne perché portato via dal vento; i campi intanto ospitano a periodi alterni atti di vandalismo gratuito, fantasmi, infuocate relazioni clandestine. Qualcuno ritorna dopo sei anni d'assenza in nome dell'amore, qualcun altro si dà agli elogi della vita da camionista se il mondo ammette spesso furbastre scorciatoie. Un contadino in viaggio a Londra scopre che i musei egizi non sono che polvere, in confronto ai dettami del cuore; un politico scrive invano la propria autobiografia e un modesto attore si reinventa proiezionista, mentre a largo, come fossero sirenette belle e fatali, danno nell'occhio donne straniere con costumi sgambati.

Per quale motivo ho vissuto? Che questi racconti di vita e di morte nel nostro paese e nelle campagne intorno siano una sorta di risposta a quella domanda, e al senso d'incertezza che ne deriva? Parliamo, scriviamo, raccontiamo di piccole e grandi cose per cercare di capire, di arrivare a qualcosa, di afferrare l'essenza che però si allontana sempre più come l'arcobaleno. Nelle storie antiche si dice che l'uomo non possa guardare Dio, equivarrebbe alla morte, e senza dubbio vale lo stesso per quello che cerchiamo – la ricerca stessa è lo scopo, il risultato ce ne priverebbe.

Buffo, malizioso e trasognato, Luce d'estate ed è subito notte è un romanzo per racconti in cui un ironico narratore collettivo immortala quattrocento anime e una manciata dei loro pittoreschi portabandiera, affinché per il bene dei posteri e dei turisti siano preservate le bizzarrie, le peculiarità e la magia natale. I tratti, infatti, sono quelli propri della tradizione del realismo magico; di un lirismo venato di leggerezza che si lascia amare, sì, ma a piccoli bocconi. Pagine incredibili e scorci da incorniciare fanno divorare il romanzo (inoltre è estate: c'è luce fuori, come da titolo, e sono ancora lunghe le giornate d'ozio), e il rischio che venga un po' a noia, che si faccia indigestione di storie come di dolci in mano a un bambino goloso, potrebbe essere elevato. Senza troppa sorpresa, tuttavia, il calore (umano soprattutto) non manca. Di questa vacanza piena di cartoline e souvenir resteranno i ricordi di una colazione con vista sul mare; una raccolta di aneddoti ed esistenze straordinarie a confine ora con i poli artici, ora con l'antologia poetica.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Coldplay – A Sky Full of Stars

lunedì 12 marzo 2018

Recensione: Isola, di Siri Ranva Hjelm Jacobsen

Isola, di Siri Ranva Hjelm Jacobsen. Iperborea, € 17, pp. 218 |

Apro Wikipedia, digito Faroe. Uno schizzo a matita, una virgola su un'ampia tela di sfumature oltremare. Punto il cursore tra Islanda e Norvegia. Ingrandisco. Eccole lì, diciotto isole nel blu dipinto di blu. Non abbastanza defilate da risultare irreperibili per le brutte notizie, non abbastanza piccole da sfuggire alle imperscrutabili strategie dei conflitti armati. Navi-spia per i soldati inglesi negli anni Quaranta, punto d'ascolto prediletto dagli Stati Uniti durante le intercettazioni della Guerra Fredda, le Faroe domandavano con orgoglio indipendenza dal Regno di Danimarca e con lo stesso orgoglio accartocciato a forza nel pugno affidavano i loro figli minori alle navi in partenza, se il rincorrersi delle onde a riva prometteva sogni e lavoro. Qualcuno, come me, le Faroe deve andarsele a cercare su una mappa. Qualcuno, come un'autrice qui al suo esordio, dovrebbe invece considerarle casa. L'anonima protagonista – probabilmente la stessa Jacobsen, che fra le pagine mescola autobiografismo e poesia ripecorrendo a ritroso i solchi dell'albero genealogico di famiglia – vive gli anni, le inquietudini e il disagio giovanile di chi si sente altro dal proprio corpo, dal proprio sangue. Immigrata di terza generazione, da bambina visitava l'arcipelago in estate, come una turista oziosa. La morte a distanza ravvicinata di omma e abbi, nonna e nonno, spinge lei e i genitori a infagottarsi in un cappotto pesante, la sciarpa fin sopra il naso e un biglietto aereo in tasca. La meta, a Nord dell'Oceano Atlantico, è uguale ma diversa dal solito: non ha le fattezze della vacanza, ma del viaggio di scoperta. Dei silenzi che hanno custodito i parenti, di leggende su sirene e rupi del malaugurio, di sé stessi.

Pensavo che tutti i presenti erano estranei. Stranieri. Erano venuti in aereo da casa loro, e adesso erano lì con noi. Io non avevo idea di chi noi fossimo. Ecco cosa pensavo. Che fluttuavamo.

Isola è il dramma di una ragazza che a un certo punto, crescendo, si accorge di non saper pronunciare bene il proprio nome. La storia di due genitori a metà, i suoi, e quella di due antenati coraggiosi che, fin quando la loro morte non ha portato la nebbia a valle, hanno parlato fluentemente danese e pensato clandestinamente in faroese. Settant'anni fa sono fuggiti senza voltarsi indietro dalla puzza di merluzzo che dalle cassette marcescenti del porto, dagli anfratti dei mercantili, si incollava ai cuori, ai capelli, alle mani. Si chiamavano Marita e Fritz, prima di essere per l'autrice semplicemente nonna e nonno. Lei – innamorata però del fratello sbagliato, il comunista Ragnar – raggiungeva il promesso sposo sulla terraferma con un doloroso segreto sotto il vestito della domenica. Lui – che di quei cinque fratelli pescatori era il penultimo, il più ambizioso – diventava maestro di scuola a Copenhagen e recitando Omero con voce commossa, tramandando alla nipote malinconia e tradizioni, imparava a non rinnegare Itaca. Si può provare nostalgia per luoghi che non abbiamo mai visto con gli occhi giusti, per persone che non abbiamo mai conosciuto davvero? Ci si può tormentare una generazione in ritardo per il taglio di un cordone che ci ha lasciato in eredità le fitte delle cicatrici?

La terza generazione è una coperta troppo corta [...] La generazione povero-me, sono-solo. La generazione né-né. La terza è una generazione invisibile, teorica, la cui pelle si confonde con la tappezzeria, e che lo si sappia o no, si porta dentro il viaggio come una perdita.

Isola, semplicissimo ma denso come possono esserlo alcuni ritratti d'autore, è fare ammenda. Venirsi incontro. Un albo di miti, scorci, memorie, con personaggi uniti dal fiuto per gli affari e da una meravigliosa telepatia. A separarli: la politica, le donne, le eterne promesse dell'acqua salata. Le streghe degli abissi sabotano le reti, i gabbiani si rivelano amabili animali domestici per vedove inconsolabili, gli orsi polari a riva sollevano la testa verso i pescherecci. Gli abitanti avranno forse i modi rozzi, ma un cuore d'oro e un fiasco d'acquavite sempre a portata di sorso. I ricordi, i “se” degli espatriati, parlano una lingua straniera da sciogliera con parole in libertà e una traduzione esemplare. Il primo romanzo che leggo dell'Iperborea – una meravigliosa copertina illustrata, lo strano formato allungato delle guide da viaggio – ha un albero genealogico ingarbugliato, fotografie che non so immaginare, nomi di cose persone e città difficili da trascrivere.

Nessun'isola è un'isola.

Ma quanto riconoscersi nella poesia un po' affranta di noi viandanti, nati in una valigia. Quanto calore, a sorpresa, a confine con l'Artico. C'è gente sradicata con il bagaglio pesante e l'anima alla deriva. Ci sono isole che si spostano con le maree. Prendono il largo, di notte. Le spingono a emergere, pare, le manate dei giganti. Scritture come questa, che creano intrighi e radici, e poi vedrai che germogli.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Francesca Michielin – Io non abito al mare