Grace ha violato il quinto comandamento. Ha ucciso. Condannata
all'ergastolo, ha evitato
l'impiccagione per il beneficio del dubbio. Immigrata irlandese poco
più che adolescente, avrebbe massacrato i padroni di casa con la
complicità di un garzone. Un giovane psichiatra, quindici anni dopo,
la interroga. La verità sfugge. La
protagonista taglia e cuce, inventa e soggioga, si difende con parole
studiatissime, lo seduce. Con il suo viso angelico, coi suoi misteri
insolvibili, diventa un'ossessione. Sarà innocente o colpevole? O
l'una e l'altra cosa, se scrive Margaret Atwood, sceneggia Sarah
Pauley, dirige Mary Harron e le piccole sfumature, sì, contano?
Period drama in sei puntate, senza particolari guizzi ma con un cuore
bugiardo fino all'ultimo, Alias Grace inquieta
e confonde. Ha i suoi difetti in qualche svolta soap di
troppo – il prevedibile transfert vissuto da un imbambolato Edward
Holcroft, eppure intenso amante di Ben Whishaw in London Spy, o il doppio ruolo del
furfante Zachary Levi – e in un epilogo accelerato, dopo qualche
episodio a metà scorso invece a rilento. Ispirata a una storia
vera ma con una fortissima matrice letteraria alla
base, la miniserie della regista di American Psycho si
muove sul filo. La coerenza, sacrificata per fedeltà assoluta a una
protagonista manipolatrice: Sarah Gadon,
assassina impenetrabile e incantevole. Paranormale, follia, o forse
semplice menzogna? E quel finale ambiguo, che svela e non svela:
sospeso o inconcludente? Gli sguardi in camera che tanto mi avrebbero
fatto dannare l'anima in un'ora e trenta, i puntini di sospensione, a
lungo hanno invece finito per infastidirmi. A volte, soprattutto in
un tocco femminile impossibile da fraintendere, Alias Grace
somiglia alla Maurier di My Cousin Rachel: una caccia alle
streghe guidata dal pregiudizio dei tempi, dalla misoginia, in cui
l'essere donne era il vero crimine da scontare. Altre a un Gone
Girl in costume, in cui a una
protagonista messa con le spalle al muro spetta l'ultima parola.
Altre ancora, e lì non convince chi come me non apprezza il genere, a un
feuilleton che sacrifica il dramma giudiziario, la seduzione del
doppio gioco, in nome di una classica storia di orfane sfortunate e
grandi soprusi. Di The Handmaid's Tale,
inevitabile metro di paragone, mancano purtroppo la sorpresa, lo
spessore, la doppiezza. E dalla penna della Atwood – per un soffio,
mancato premio Nobel – quest'anno ci si aspettava l'impossibile en
plein. (6)
Siede
nell'angolo più estremo di una tavola calda. L'uomo, un affascinante
cinquantenne con la giacca elegante e il taccuino sempre aperto, non
abbandona il suo posto fino all'orario di chiusura. In un bar ai
confini della realtà, il protagonista fa accomodare davanti a sé
interlocutori innumerevoli. Presta ascolto, prende nota. Ci sono
uomini e donne, anziani e perfino qualche bambino. Ognuno brama
disperatamente qualcosa. Una famiglia unita, la bellezza, l'eterna
giovinezza, il denaro, l'amore, Dio. L'uomo senza nome, che ha le premure di un
analista e i poteri del genio della lampada, può esaudire le loro
richieste in cambio di un prezzo salatissimo. Ci si vende l'anima con il
furto a mano armata, le stragi in piazza, l'infanticidio, la tortura,
il concepimento di un figlio indesiderato, la corruzione da cui non
sono esenti né gli agenti di polizia né le spose di Cristo. Mi ha
dato il suo biglietto da visita Paolo Genovese: forse a corto di
buone idee dopo il successo del magnifico Perfetti Sconosciuti,
forse sinceramente interessato a farci riscoprire una piccola serie
dal grande potenziale. Le due
stagioni di The Booth at the End –
in totale, dieci episodi di venti minuti ciascuno – spaventano con
i loro spunti faustiani, degni delle ispirazioni di Black
Mirror, ma si trasformano in
qualcosa di impercettibilmente diverso pur non
tradendo l'originalità del menù. Restano il leggero umorismo nero e i dilemmi etici. Il meglio e il peggio degli
avventori rievocato a voce, se non ci si può allontanare da quello scenario fisso. A cavallo di una stagione e
l'altra, invece, le costanti sono questa misteriosa cameriera che sa molto più di quanto
crediamo; una ragazza riportata in vita dall'egoismo del padre in
lutto; lo straordinario Xander Berkeley, forse un diavolo spregevole
o forse la personificazione del nostro angelo custode, che rischia di
rimanere a tal punto invischiato nei drammi mortali da non
poter più rinunciare alla loro compagnia. E da scoprire bricioli di
mortalità, di moralità, perfino in sé stesso. The Booth
at the End ha richieste tremende
e una delicatezza conciliante. L'uomo spinge i suoi clienti l'uno tra
le braccia dell'altro con incastri perfetti, per combattere la
solitudine e l'infelicità. A volte si incontrano, trovano il lieto
fine. Altre cozzano, collidono, in tragedie agghiaccianti già
predette e scritte sul suo fedele quadernino. Qualcuno, in una tavola calda
qualsiasi, ha il potere di esaudire i tuoi peggiori desideri. Ti
spinge al limite, ti ascolta arrabbiarti per quello che non hai. Nel
mentre – proprio quando progetti ordigni esplosivi, rapimenti,
cuori spezzati, remake italiani – ti ravvedi, magari, e ti accorgi
del bicchiere mezzo pieno; di ciò che hai già. (7,5)
Alias Grace l'ho aggiunto alla mia lista su Netflix e credo che lo guarderò appena porto a conclusione Downton Abbey (mi mancano solo due puntate e non trovo mai il tempo per terminarlo!). Appartiene ad un genere che mi piace per cui ti farò sapere ;)
RispondiEliminaConfido che quello, Anna, farà la differenza. Io sono un po' allergico al period drama, invece, e dalla Atwood mi aspettavo un'eccezione alla regola che purtroppo non c'è stata. Però che eleganza, e quanto è bella Sarah Gadon. D'altri tempi.
EliminaThe Both at the end è su Netflix Italia? Ho appena iniziato Mindhunter ma dopo la guarderei volentieri...
RispondiEliminaLa prima stagione sì, Beatrix.
EliminaLa seconda, invece, la trovi sottotitolata su Youtube. Mi sono tanto scapicollato, dal momento che tutti i link erano off-line, e invece la soluzione era a un passo. ;)
Bravo che mi hai ricordato di Alias Grace! Me l'ero segnata solo mentalmente e visto che come sai sono in crisi e le serie da recuperare attirano fin là, la precedenza se la prende.
RispondiEliminaThe booth at the end aspetta buona buona la visione di Genovese, che arriverà nei prossimi giorni, e quel voto promette bene ;)
Chissà se ti convincerà, Alias Grace.
EliminaAlti livelli, al solito, ma dalla Atwood mi aspettavo non il solito period drama. Per fortuna, mi sono rifatto gli occhi con Sarah Gadon. :)
Alias Grace stavolta la passo. Mentre mi hai incuriosito con the boot at the end.. intanto sto guardando jane the virgin stag 3 ç.ç e american horror story ò.ò
RispondiEliminaQuelle le sto guardando anch'io. ;)
EliminaAlias Grace invece a me è piaciuto parecchio. Il primo e l'ultimo episodio sono due belle bombe. Il ritmo in mezzo cala parecchio e non tutto funziona allo stesso modo, però nel complesso mi ha convinto, nonostante pure io non sia un amante del genere.
RispondiEliminaThe Booth at the End la vidi ormai parecchio tempo fa. Spunto di partenza geniale, poi però avevo perso un po' l'entusiasmo e non credo di averla mai finita. Sarà che gli episodi troppi brevi mi sembravano un po' frammentari...
Chissà cosa ne avrà tirato fuori Paolo Genovese...
L'ultimo episodio, effettivamente, è ai livelli del primo, ma quel salto in avanti troppo brusco - e le sorti dello psichiatra - non mi ha convinto. Per fortuna, tanto fa la bellissima scena dell'ipnosi.
EliminaCapisco la sensazione di The Boot at the End, ma ho visto gli epsiodi tutti insieme, come un unico film (anzi, due). Ai tempi, magari, dovevi perfino aspettare l'arrivo della seconda stagione, anche un po' difficile da reperire... Confido in Genovese, ma l'ottima idea viene da qui. Lui che ci metterà? Vediamo.