Indignazione è stato il mio primo Philip Roth: a sorpresa, il romanzo più bello
della scorsa annata. C'era il rischio, a fine lettura, di non vedere la trasposizione cinematografica con i giusti occhi, nonostante la buona accoglienza al Festival di
Berlino e i plausi qui e lì: inevitabile quando una storia ci tocca,
ci scuote. Un po' per sicurezza, un po' per noia, ho lasciato passare
undici mesi. Sono servite le dovute precauzioni, la giusta distanza,
a farmi prendere a cuore quest'altro avvocato delle cause perse,
questo Marcus fattosi di carne e ossa? La sua educazione
sentimentale, la sua silenziosa ribellione nei primi anni Cinquanta,
passa attraverso le tappe che ricordavo: l'interrogarsi sulla vita
sessuale della ragazza con cui esce; gli insospettabili genitori che
pensano al divorzio; l'opporsi strenuamente alla guerra e a Dio.
Marcus ci crede: si impunta, fino a farsi venire i travasi di bile;
fino a una tragedia tutt'altro che annunciata. Tutto accade dietro la
scrivania del superbo Tracy Letts, o a colloquio al capezzale del
protagonista. Al cinema, Indignazione
sembra già vecchio. Sarà la fedeltà filologica, per una volta
eccessiva, verso un coming of age che ha la maleducazione dei
vent'anni e la velocità del racconto; sarà una sceneggiatura
elegante e misurata, emotivamente lontana, che non si getta mai a
capofitto nel travaglio interiore di lui; sarà che risulta più
pesante, più teatrale, più sconfitto. Lo accompagnano le scale al
pianoforte, la fotografia patinata, le fattezze rassicuranti di due
protagonisti eppure bravissimi – la fragile e fatale Sarah Gadon e
un Logan Lerman, dopo Noi siamo infinito,
che torna a interpretare con convinzione un altro dei
personaggi del mio cuore di lettore. Roth bolle e sbolle.
Esplode di rabbia repressa. La regia di Schamus, invece, ha il grande difetto di
risultare impersonale: imperdonabile con un protagonista di
tale levatura. Che alza sempre la voce, che sa come farsi notare. Per
Marcus, inevitabilmente, tutto va come deve andare. Ma questa
lentezza, questa flemma, questa vaga leziosità, con l'indignazione
del titolo purtroppo poco hanno a che fare. (6)
Universitaria
ai vertici di una sorellanza viene assassinata la sera del suo compleanno. Il
maniaco omicida indossava la maschera di un bebè e non si svelava
guardandola morire. Chi c'era dall'altra parte? Chi voleva il male,
ma soprattutto il bene, di un'aspirante Mean Girl con
più rivali che compagni? Jessica Rothe, una Lively meno clamorosamente bella, ha tutto il tempo per farsi domande,
esami di coscienza e scartabellare la nutrita lista dei sospettati.
L'ultimo giorno della sua vita, in realtà, è il primo di un loop
temporale in cui si agonizza e ci si risveglia dal nuovo, con un
corpo che va indebolendosi e una mente che non dimentica. Come nella
commedia cult con Bill Murray, si ricomincia da capo. Come nel già
non memorabile Prima di domani,
di cui Auguri per la tua morte sembra
la riscrittura in chiave sanguinosa ma non troppo, una ragazza
superficiale è costretta a guardarsi dentro, a mettersi in
discussione come amica, figlia e fidanzata, prima di essere pugnalata
per l'ennesima volta. L'ultima? Commedia (poco) slasher dal regista
del delizioso Manuale scout per l'apocalisse zombie,
Auguri per la tua morte è
un horror innocuo e già visto, a cui avremmo potuto trovare giustificazione giusto nella penuria dell'estate. In ritardo
per Halloween, invece, con un serial killer semiserio che scimmiotta
Scream e La
bambola assassina, è un incubo
dalla morale facile e dall'esito scontato, che diverte meno del
previsto e di certo non sorprende. Spegniamo in fretta candeline e
luci sull'ennesimo prodotto mordi e fuggi, pronto all'uso,
che riempie le pance con le tentazioni passeggere dei dolcetti
preconfezionati. (5,5)
Cercasi
domestica, diceva l'annuncio sulla bacheca di un alimentari della Nuova Scozia. Nessuno, eppure, si capacita di come Maud sia finita sotto
lo stesso tetto di Everett, maleducato pescatore ben lontano dal
ravvedersi in nome della vita insieme. La protagonista – sola al
mondo, piccola e artritica – non ha il physique du role. Né per
essere una buona tuttofare né per improvvisarsi, come insinuano i
conoscenti maliziosi, una schiava d'amore. Il delicatissimo biopic
irlandese che porta il nome della donna racconta di come le sue mani
nodose non le impedirono di riempire quella casetta
condivisa con disegni di fiori, uccelli e fate, dal pavimento fino
al soffitto. Di uno strano ménage domestico che prima si fece
amicizia, poi strano amore. E di come il sentirsi amata, degna di
fiducia, la rese un'illustratrice richiesta perfino da
Nixon. Maud Lewis, artista a me finora sconosciuta, aveva la mente di
una bambina, la maledizione di un corpo deforme e un marito burbero,
incapace di buone maniere ma non di una certa pazienza, che zitto
zitto vedeva il mondo con i suoi stessi colori. Se a Ethan Hawke
donano le camicie grezze e le tenerezze farfugliate come fossero
insulti, a commuovere e a impressionare è la straordinaria Sally
Hawkins, scomparsa dietro i tic e i sorrisi dolorosi del suo
personaggio: non tocca aspettare The Shape of Water per
assistere alla sua consacrazione. Ballano schiacciandosi la punta
delle scarpe. Vendono stampe sull'uscio di casa. Invecchiano, e
diventano marito e moglie, in maniera impercettibile. Sono, come dice
Everett, un paio male assortito di calzini: scuro e sbrindellato lui,
sgargiante lei. Fa sinceramente piacere ritrovarli riposti nello
stesso cassetto. Nello stesso film lieve, ad acquerello, che in un
pomeriggio di pioggia, con il gatto e il plaid sulle ginocchia, una
tazza di tè accanto, te li fa conoscere (soprattutto, te li fa piangere) per la
prima e ultima volta. (7,5)
Per
ironia della sorte porta un nome augurale. Eppure, mamma single che
si arrangia come parrucchiera in attesa che si realizzi il sogno di
aprire un istituto di bellezza, Fortunata tale non è. La vediamo ancheggiare nella sua minigonna di jeans,
correre a perdifiato sulle zeppe scomode, come se avesse sempre
fretta; come se inseguisse chissà che. I numeri vincenti della
lotteria, i capricci delle spose di borgata e degli altri inquilini,
l'amore di un Accorsi che si merita la nostra antipatia.
Jasmine Trinca, meritatamente premiata a Cannes, si sbraccia,
strilla, si spoglia e si riveste, in un dramma – non sprovvisto di
una certa ironia di fondo – in cui c'è troppo in ballo. L'ultimo
film di Castellitto, tratto da un racconto inedito dell'immancabile
Mazzantini, la ribattezza e la plasma: la tinta per
capelli, la volgarità dell'accento romano, due ali
a metà tatuate sulla schiena. La bravura della Trinca non si perde
nella sovrabbondanza di temi e tragedie, nelle piazze di una Roma
grezza e multiculturale, nella folla di comprimari che si trascinano
storie pesanti appresso – un plauso all'intensità di
Alessandro Borghi, sensibile tatuatore della porta accanto con mamma
smemorata al seguito. Dopo il buon equilibrio del precedente Nessuno si salva da solo, che per
impostazione e dialoghi faceva il verso al dramma da camera,
Castellitto ci riprova con una vicenda che non riesce ad arginare, e
forse neanche vorrebbe. La scrittura
fiume della moglie scrittrice non sa contenersi. Colpa di toni che
vorrebbero virare al lirismo grottesco di Sorrentino; di
interpreti tutti bravi e tutti sguaiati; di una regia che non lavora
purtroppo a togliere, bensì a mettere. E più che generoso, di
cuore, Fortunata
appare così esagerato. Meno a sua agio coi bagagli pesanti e
l'equilibrio mantenuto pur se in bilico di una donna che, al
contrario del film stesso, si fa bastare con un sorriso stanco il
poco che ha. (6,5)
Eli
– trent'anni, un marito disoccupato, quattro figli – esce di casa
quando fuori è ancora notte. Scivola
dal letto senza far rumore e macina chilometri da Ostia a Roma per tirare su la saracinesca del
bar in cui lavora per ottocento euro al mese, sette giorni su sette,
come cameriera, cuoca e donna delle pulizie. Vale, sua coetanea,
conduce invece una vita indipendente e solitaria che suscita vergogna
nella madre alto-borghese: agile come una perfetta étoile,
calca però le piste dei locali notturni. Eli e Vale
sono vicine di casa. Amiche, diremmo, se non fosse che la prima esce
quando l'altra rincasa. L'ultimo dramma di Daniele Vicari racconta
gli spossanti viavai, il loro incrociarsi quando capita, con la voce
asciutta ma partecipe del cinema di Loach e dei Dardenne. Le
accompagnano una bella colonna sonora jazz, le sfarfallanti luci
notturne e più di qualche dubbio verso la struttura, se la storia
dell'androgina Eva Grieco appare quasi incidentale, sempre all'ombra
della meraviglia di una Ragonese che non ha nulla da invidiare alla
Marion Cotillard di Due giorni, una notte.
In una scena, arriva la canzone di Valeria Rossi: così leggera, così
spensierata, in un film pesantissimo, eppure, che scava rughe di
preoccupazione in mezzo agli occhi. Il cuore si
affanna e cerca riposo. Il sole ci si scorda che faccia abbia, al
chiuso, tra le chiacchiere querule di un bar e le luci al neon di una
discoteca. L'amore è quello verso una famiglia che chiede un po'
troppo, per un Francesco Montanari che ci aiuta arrangiandosi, ma a
mancare è quello più necessario, per se stessi. Quanto
male mi ha fatto Sole cuore amore.
Gli ingredienti di una banale canzonetta amata dai bambini. Gli
ingredienti di una vita banale, che in due ore con Vicari finisci per
scambiare per verità. E ti domandi che senso abbia tutto questo
correre e sacrificarsi, e per cosa poi? E ti confonde l'idea che sia
inutile tutto il dolore in cui indugia – vivere è difficile,
soprattutto in questi tempi disperati, e lo sappiamo già, chi più e
chi meno – ma che allo stesso tempo siano un dolore, un'amarezza,
che van provate. Ti fai venire i sudori freddi, perché al contrario di Eli
– a modo, vitale, educata – tu in certi giorni non conosci
decoro. Appunti i segreti dei suoi sorrisi perciò: sinceri,
nonostante tutto. Aspetti che il lorogorio
di una vita in nero, sempre in moto eppure ferma immobile, faccia il
suo corso. Una routine a tempo indeterminato in cui domani è un
altro giorno, sì, però scritto con i migliori auspici e il
copia-incolla. (7,5)
Di questi ho visto solo Auguri per la tua morte. Non l'ho trovato male, è un thrillerino abbastanza divertente adattissimo per il cazzeggio.
RispondiEliminaVoglio vedere Fortunata, mentre in realtà gli altri tre li avevo scartati. Potrei farci un pensierino per Sole, cuore, amore
Un'occhiata, secondo me, la meritano tutti, chi più e chi meno. Ad Auguri per la tua morte male non ho voluto, assolutamente, ma avrei trovato comunque compagnie migliori una domenica pomeriggio qualsiasi. Sarà colpa di Prima di domani, visione troppo fresca?
EliminaQuesta volta opinioni molto distanti dalle tue.
RispondiEliminaAuguri per la tua morte è una figata, ma si sa che quando si tratta di horror difficilmente la pensiamo uguale.
D'altra parte definisci delizioso l'orrido Manuale scout... °___°
Sole cuore amore l'ho trovato invece un film ruffiano e poco riuscito, a meno che il suo scopo non fosse quello di essere deprimente.
Inspiegabili le scelte musicali, dalla soundtrack con il peggior jazz alla canzonetta di Valeria Rossi messa lì a caso.
Marion Cotillard in Due giorni, una notte me l'ha ricordata invece Jasmine Trinca nel per me più riuscito Fortunata, per quanto esagerato e pure quello funestato da una scelta musicale finale disastrosa... :D
Indignazione non mi era dispiaciuto, ma nemmeno mi aveva sconvolto. L'aver letto il libro probabilmente ti ha rovinato la visione. Per questo è meglio aspettare il film. ;)
Sarà per la prossima.
EliminaSugli horror che arrivano in sala sono sempre molto scettico, sono sempre molto critico: nei post a tema Halloween, c'era molto di meglio. Film sfortunati, piccoli, meno strombazzati però, che purtroppo in sala non arriveranno mai.
Sole cuore amore è deprimente, decisamente, ma io a distanza di dieci giorni ho ancora una rabbia che non mi abbandona. E suscitare tentazioni così forti, no, non è cosa da tutti. Neanche per Jasmine Trinca, che eppure per bravura è alla pari con la Ragonese (anche se l'ho sempre trovata, non so perché, bella e antipatica).
Indignazione l'ho trovato fedele, ma scarico. Roth non è così compassato, non è così pesante. Però perfetto Lerman, al solito.
Quanto a Maudie non mi ispira troppissimo, però quasi quasi...
RispondiEliminaMaudie, presentato a festival vari ma in sordina, inspiegabilmente lontano dalla stagione dei premi, ha una Hawkins che comunque merita la visione. Scalpito per vederla in Del Toro, ma ora non troppo. Sono stato accontentato.
EliminaTanti film che non mi avranno, vuoi perchè horror troppo teen, vuoi perchè il libro l'ho letto -e un po' dimenticato, tra i tanti Roth- e confermi che su carta è meglio, vuoi perchè qualcosa mi puzza, e Fortunata non sembra fare per me.
RispondiEliminaFatto per me Sole cuore amore, come sai, che resta una ferita aperta, ma non Maudie. Mi aspettavo di più, o forse solo qualcosa di diverso, e la lentezza ha avuto la meglio. La Hawkins, però -e pure Hawke- non si discutono.
Mi dispiace per Maudie. L'ho trovato davvero delicato, e loro due impressionanti.
EliminaSole cuore amore, sì, che male...
è stato pompatissimo "auguri per la tua morte" per me anche meno del mediocre, poi ha un plot twist che risolve la questione abbastanza abominevole :-)
RispondiEliminaOh, qualcuno che ha visto il mio stesso film, finalmente!
EliminaIo auguri per la tua morte l'ho trovato molto divertente anche se avrei preferito un po' più sangue!
RispondiEliminaCome ho scritto a Marco, il sangue manca proprio. E per un teen horror... Una trasfusione, subito!
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