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L'invenzione occasionale, di Elena Ferrante. E/O, € 18, pp. 113
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l'anonimato, ma il passaparola ha fatto presto di quel nome di penna un mistero. La stampa, uscendo spesso fuori dal seminato, ha
tentato di venirne a capo con mezzi leciti e non. Chi è Elena
Ferrante? Un uomo, una donna, la creazione a tavolino di un
assortimento di autori bravissimi? Rispettoso della discrezione
altrui, confesso di non essermi mai posto domande.
Le supposizioni mi hanno raggiunto, certo, ma cosa farsene? Tutto quello che c'è da sapere è contenuto fra le righe di quei romanzi che sto volutamente centellinando per paura di un domani senza l'amicizia delle geniali Lila e Lenù. Qualcos'altro, qualcosa di più immediato e personale, si scorge invece qui: in un bellissimo volume illustrato da Andrea Ucini, dove si registra un evento assai raro. Elena Ferrante si racconta in prima persona. A ruota libera, brutalmente sincera giacché non messa sotto torchio, mescola aneddoti autobiografici, riflessioni linguistiche, politica e attualità, ospite presso il Guardian. Una volta a settimana, sfidando l'ansia da prestazione, ha risposto così agli stimoli del giornale statunitense. Non si sentiva all'altezza, ma a sorpresa è stato semplice scrivere una rubrica su richiesta. Non le piace parlare di sé, tende a specificarlo qui e lì, ma non è una sorpresa se le parole – quelle scelte, argute, illuminatissime – puntualmente contravvengono alla sua proverbiale timidezza.
Le supposizioni mi hanno raggiunto, certo, ma cosa farsene? Tutto quello che c'è da sapere è contenuto fra le righe di quei romanzi che sto volutamente centellinando per paura di un domani senza l'amicizia delle geniali Lila e Lenù. Qualcos'altro, qualcosa di più immediato e personale, si scorge invece qui: in un bellissimo volume illustrato da Andrea Ucini, dove si registra un evento assai raro. Elena Ferrante si racconta in prima persona. A ruota libera, brutalmente sincera giacché non messa sotto torchio, mescola aneddoti autobiografici, riflessioni linguistiche, politica e attualità, ospite presso il Guardian. Una volta a settimana, sfidando l'ansia da prestazione, ha risposto così agli stimoli del giornale statunitense. Non si sentiva all'altezza, ma a sorpresa è stato semplice scrivere una rubrica su richiesta. Non le piace parlare di sé, tende a specificarlo qui e lì, ma non è una sorpresa se le parole – quelle scelte, argute, illuminatissime – puntualmente contravvengono alla sua proverbiale timidezza.
La realtà
non riesce a stare dentro gli stampi eleganti dell'arte, tracima
sempre scompostamente.
Preferisce
i gatti ai cani, ha il pollice verde. Ama la lingua italiana e la forza viscerale del dialetto, non il campanilismo. Odia esclamazioni e
puntini di sospensione, spesso inseriti a tradimento nelle traduzioni dei suoi romanzi, meno il candore dei luoghi comuni.
Non è una mangiatrice vorace di pizza o spaghetti, dal momento che trova entrambi poco digeribili. Al cinema va a vedere i film con Daniel Day-Lewis; se potesse proporrebbe in sala una rassegna su Tarkovskij; mette bocca sul destino delle sue trasposizioni soltanto quando teme di essere fraintesa nel passaggio – di Maggie Gyllenhaal, che esordirà alla regia con La figlia oscura, ammette già di fidarsi ciecamente.
La preoccupano l'ascesa inarrestabile di Matteo Salvini, gli sconvolgimenti climatici che le hanno rubato la gioia delle mezze stagioni, i lati oscuri delle Sacre Scritture, la banalizzazione del desiderio al tempo di YouPorn. Fumava, ma ora ha smesso. Usa il caffè come carburante e talismano. Sente nostalgia del vizio del fumo, mai del passato, ed è una di quelle persone che nelle foto e nei video si schermano con la mano per vergogna. Ha un senso dell'ironia per pochi, la memoria corta e, reduce da un apprendistato lungo e fatico, ha appreso la rarità delle amicizie elettive, l'importanza di caratterizzare protagonisti talora sgradevoli, l'urgenza del racconto. Ha sviluppato un'opinione per tutto, a furia di informarsi, ma raramente la impone al prossimo. È una donna contro, in tutto e per tutto, e la generosità di questo monologo che diventa magicamente colloquio, in fondo, ci rende onorati dall'inizio alla fine.
Non è una mangiatrice vorace di pizza o spaghetti, dal momento che trova entrambi poco digeribili. Al cinema va a vedere i film con Daniel Day-Lewis; se potesse proporrebbe in sala una rassegna su Tarkovskij; mette bocca sul destino delle sue trasposizioni soltanto quando teme di essere fraintesa nel passaggio – di Maggie Gyllenhaal, che esordirà alla regia con La figlia oscura, ammette già di fidarsi ciecamente.
La preoccupano l'ascesa inarrestabile di Matteo Salvini, gli sconvolgimenti climatici che le hanno rubato la gioia delle mezze stagioni, i lati oscuri delle Sacre Scritture, la banalizzazione del desiderio al tempo di YouPorn. Fumava, ma ora ha smesso. Usa il caffè come carburante e talismano. Sente nostalgia del vizio del fumo, mai del passato, ed è una di quelle persone che nelle foto e nei video si schermano con la mano per vergogna. Ha un senso dell'ironia per pochi, la memoria corta e, reduce da un apprendistato lungo e fatico, ha appreso la rarità delle amicizie elettive, l'importanza di caratterizzare protagonisti talora sgradevoli, l'urgenza del racconto. Ha sviluppato un'opinione per tutto, a furia di informarsi, ma raramente la impone al prossimo. È una donna contro, in tutto e per tutto, e la generosità di questo monologo che diventa magicamente colloquio, in fondo, ci rende onorati dall'inizio alla fine.
Sognare il
ritorno del passato è la negazione della gioventù e mi addolora
quando scopro che a sognare quei sogni sono anche giovani donne. Amo
invece i ragazzi che pretendono una vita buona per l'intero genere
umano e si battono per dare al loro tempo una forma mai vista prima.
Mi auguro che le mie figlie siano così a lungo. Poi – è
nell'ordine naturale delle cose – invecchiando faranno posto a un
po' di passato, e mi ritroveranno dentro di loro, scopriranno
dettagli fisici, guizzi caratteriali, pensieri miei, mi accoglieranno
con affetto. Come è successo a me con mia madre, non avranno più
paura di essere se stesse, pur essendo anche un po' me.
Finestra
aperta sulla routine delle sue stanze, interessante tanto dal punto
di vista documentario quanto per la cura ineccepibile dell'edizione E/O, L'invenzione occasionale è bello da leggere e altrettanto da
rimirare. Nel mentre l'ho sottolineato a matita e riempito di
post-it colorati. Elena Ferrante, che alle interviste risponde
soltanto per iscritto, dopo opportuna meditazione, è una persona un
po' burbera, educata ma con distacco. Schietta e poco compiacente,
non crede né nel Padreterno né negli psicoanalisti, ma nelle sue
figlie – l'orgoglio di tutta una vita – sì. La curiosità
intellettuale le toglie il sonno, vuole leggere e scrivere senza
orari, a oltranza, e le storie che prende in prestito è poi incapace
di riportarle senza taglia e cuci, aggiustamenti grandi o piccoli.
Tutto diventa narrazione, così: anche la vita stessa. Anche, forse, questa intervista impossibile. Quanta
invenzione c'è nella verità? Quanta verità, invece, nell'invenzione?