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venerdì 31 maggio 2019

Recensione: L'invenzione occasionale, di Elena Ferrante

| L'invenzione occasionale, di Elena Ferrante. E/O, € 18, pp. 113 |

Cercava l'anonimato, ma il passaparola ha fatto presto di quel nome di penna un mistero. La stampa, uscendo spesso fuori dal seminato, ha tentato di venirne a capo con mezzi leciti e non. Chi è Elena Ferrante? Un uomo, una donna, la creazione a tavolino di un assortimento di autori bravissimi? Rispettoso della discrezione altrui, confesso di non essermi mai posto domande. 
Le supposizioni mi hanno raggiunto, certo, ma cosa farsene? Tutto quello che c'è da sapere è contenuto fra le righe di quei romanzi che sto volutamente centellinando per paura di un domani senza l'amicizia delle geniali Lila e Lenù. Qualcos'altro, qualcosa di più immediato e personale, si scorge invece qui: in un bellissimo volume illustrato da Andrea Ucini, dove si registra un evento assai raro. Elena Ferrante si racconta in prima persona. A ruota libera, brutalmente sincera giacché non messa sotto torchio, mescola aneddoti autobiografici, riflessioni linguistiche, politica e attualità, ospite presso il Guardian. Una volta a settimana, sfidando l'ansia da prestazione, ha risposto così agli stimoli del giornale statunitense. Non si sentiva all'altezza, ma a sorpresa è stato semplice scrivere una rubrica su richiesta. Non le piace parlare di sé, tende a specificarlo qui e lì, ma non è una sorpresa se le parole – quelle scelte, argute, illuminatissime – puntualmente contravvengono alla sua proverbiale timidezza.

La realtà non riesce a stare dentro gli stampi eleganti dell'arte, tracima sempre scompostamente.

Preferisce i gatti ai cani, ha il pollice verde. Ama la lingua italiana e la forza viscerale del dialetto, non il campanilismo. Odia esclamazioni e puntini di sospensione, spesso inseriti a tradimento nelle traduzioni dei suoi romanzi, meno il candore dei luoghi comuni. 
Non è una mangiatrice vorace di pizza o spaghetti, dal momento che trova entrambi poco digeribili. Al cinema va a vedere i film con Daniel Day-Lewis; se potesse proporrebbe in sala una rassegna su Tarkovskij; mette bocca sul destino delle sue trasposizioni soltanto quando teme di essere fraintesa nel passaggio – di Maggie Gyllenhaal, che esordirà alla regia con La figlia oscura, ammette già di fidarsi ciecamente. 
La preoccupano l'ascesa inarrestabile di Matteo Salvini, gli sconvolgimenti climatici che le hanno rubato la gioia delle mezze stagioni, i lati oscuri delle Sacre Scritture, la banalizzazione del desiderio al tempo di YouPorn. Fumava, ma ora ha smesso. Usa il caffè come carburante e talismano. Sente nostalgia del vizio del fumo, mai del passato, ed è una di quelle persone che nelle foto e nei video si schermano con la mano per vergogna. Ha un senso dell'ironia per pochi, la memoria corta e, reduce da un apprendistato lungo e fatico, ha appreso la rarità delle amicizie elettive, l'importanza di caratterizzare protagonisti talora sgradevoli, l'urgenza del racconto. Ha sviluppato un'opinione per tutto, a furia di informarsi, ma raramente la impone al prossimo. È una donna contro, in tutto e per tutto, e la generosità di questo monologo che diventa magicamente colloquio, in fondo, ci rende onorati dall'inizio alla fine. 

Sognare il ritorno del passato è la negazione della gioventù e mi addolora quando scopro che a sognare quei sogni sono anche giovani donne. Amo invece i ragazzi che pretendono una vita buona per l'intero genere umano e si battono per dare al loro tempo una forma mai vista prima. Mi auguro che le mie figlie siano così a lungo. Poi – è nell'ordine naturale delle cose – invecchiando faranno posto a un po' di passato, e mi ritroveranno dentro di loro, scopriranno dettagli fisici, guizzi caratteriali, pensieri miei, mi accoglieranno con affetto. Come è successo a me con mia madre, non avranno più paura di essere se stesse, pur essendo anche un po' me.

Finestra aperta sulla routine delle sue stanze, interessante tanto dal punto di vista documentario quanto per la cura ineccepibile dell'edizione E/O, L'invenzione occasionale è bello da leggere e altrettanto da rimirare. Nel mentre l'ho sottolineato a matita e riempito di post-it colorati. Elena Ferrante, che alle interviste risponde soltanto per iscritto, dopo opportuna meditazione, è una persona un po' burbera, educata ma con distacco. Schietta e poco compiacente, non crede né nel Padreterno né negli psicoanalisti, ma nelle sue figlie – l'orgoglio di tutta una vita – sì. La curiosità intellettuale le toglie il sonno, vuole leggere e scrivere senza orari, a oltranza, e le storie che prende in prestito è poi incapace di riportarle senza taglia e cuci, aggiustamenti grandi o piccoli. Tutto diventa narrazione, così: anche la vita stessa. Anche, forse, questa intervista impossibile. Quanta invenzione c'è nella verità? Quanta verità, invece, nell'invenzione?

martedì 28 maggio 2019

Recensione [Strega 2019]: Lux, di Eleonora Marangoni

| Lux, di Eleonora Marangoni. Neri Pozza, € 17, pp. 250 |

All'inizio c'è: la sensazione che la fascetta in copertina stia dichiarando il falso. Immersi nella lettura di uno dei dodici titoli candidati al Premio Strega, infatti, si ha l'impressione di leggere in traduzione italiana un romanzo straniero. Sicuri che l'esordiente Eleonora Marangoni, nuovo ingresso nella prestigiosa scuderia Neri Pozza, sia nostra connazionale? Che quella lingua sfavillante e calorosa, tutt'uno con le ambientazioni esotiche e le suggestioni del realismo magico, non abbia nessuna parentela con l'aplomb britannico o le festose armonie caraibiche? La nota biografica non mente. L'autrice, italianissima nonostante la formazione parigina, è vicina a noi ma promette di portarci lontano grazie alle suggestioni sparse della sua opera prima. La meta: un'isola rocciosa, a forma di punto e virgola, fra i flutti del Mediterraneo. È così piccola, così malsicura, che gli avventori si domandano se sia possibile che da un momento all'altro affondi. All'ombra di un vulcano sopito, dei segreti dei baobab e degli scherzi dei ruscelli, sorge l'Hotel Zelda: un po' tempio consacrato alla nostalgia, un po' mercato del baratto, è un posto che farebbe la gioia dei robivecchi di ogni dove; si arriva pesanti, ma a casa si torna alleggeriti. Cosa non fanno lo iodio, che mette sempre appetito, le terrazze con vista mare e le chicche degli arredi shabby chic? Quel paradiso apparteneva alla buon'anima di zio Valentino, giramondo eccentrico e senza eredi, ma dal giorno della sua scomparsa è ufficialmente sul mercato immobiliare. In attesa di prendere accordi con il nuovo proprietario, atteso per l'indomani, allo Zelda si incontrano dipendenti affaccendati e villeggianti. Possono prendere tutti un souvenir, hanno carta bianca, prima di dire addio al soggiorno.

Ma laggiù, tra quelle valli e la loro gente, “mai” non era una minaccia: era una promessa e aveva dentro qualcosa di dolcissimo. A saperlo guardare, “mai” era più bello di “sempre”. Era la stessa identica cosa, solo vista dall'altra parte del mare.

Ci sono gli strani Gero e Bembo, un custode e un tuttofare poco pratici con le richieste dei continentali; la memorabile Agave, prostituta dall'animo nobile; Gugliemo Gandini, di mestiere scrittore, con un cognome che riecheggia il personaggio di Fante e una lista ormai polverosa di successi sentimentali e lavorativi; Olivia, biologa marina al settimo mese di gravidanza, che in seguito all'ennesimo cuore infranto ha smesso di credere ai fatti prodigiosi dei romanzi di Marquez. Nella stanza 555, la migliore, dorme sonni incerti Thomas G. Edwards: sopravvissuto a mamma e padre, facoltoso ma insoddisfatto, ha ereditato l'immobile dallo zio ma ha scelto all'istante di lavarsene le mani. Chiamato a sbrigare le ultime questioni burocratiche, nella confusione generale degli atti di proprietà e in quella delle chincaglierie stipate alla rinfusa, non ha viaggiato da solo – con lui ci sono la fidanzata Ottie e il figlio Martin, scoraggiati presto dalla presenza di serpenti, meduse urticanti, nuvole acciambellate in salotto – ma fra sé e sé avrebbe desiderato un'altra compagnia. Ogni amore ha la sua stagione, tuttavia, e quella di Thomas e Sophie, la sua storica ex, è finita: non si sentono da sette anni, ma agli imbarchi entrambi guardano ancora le porte automatiche dell'aeroporto sperando di vedere apparire l'altro.

Parlare di nuovo in quella lingua gli dava la sensazione di camminare verso una casa in cui non metteva piede da tempo ma di cui ricordava ogni dettaglio. Quando era piccolo voleva sempre parlare in inglese, l'italiano gli pareva inutile, gli pesava, ed ecco che adesso quasi lo commuoveva. Forse perché intravedeva sua madre dentro le parole, dietro agli aggettivi, ed era la prima volta che gli capitava da quando lei non c'era più. “A presto”, disse, anche se non pensava sarebbe mai tornato.

Il protagonista deve avere uniformato il suo carattere uggioso ai climi londinesi, ma sull'isola appartenuta al ramo materno – quello più propenso alla magia, al senso del meraviglioso – le cose, le case, sono infuse di luce. In fretta, così, Thomas ricorda il suono della lingua italiana e le emozioni provate. Per un uomo assetato d'assoluto cos'ha da offrire il vicino ruscello oltre le sue chiare, fresche e dolci acque? Sulla scia di L'imperfetta meraviglia e del recente Benevolenza cosmica, Lux è una commedia surreale dal respiro classico e dall'eleganza signorile. Racconta poco, intrattiene a tratti, ma ha uno stile che incanta: sarà che la morale – a proposito dell'arte del riuso, del reinventarsi daccapo – invita per una volta a preferire il bello all'utile, il caos all'ordine prestabilito. Mi ha ricordato un certo cinema francese. Colto con leggerezza, raffinatissimo senza farsene un vanto, è irto di difficoltà ma sa mascherarlo con una grazia squisitamente femminile. Tralasciando lo strascico superfluo delle ultime cinquanta pagine, gira infatti tremendamente a vuoto ma sa misteriosamente come non annoiare mai. 

Cerchiamo nei libri quello che non capiamo dalla vita, e nella vita quello che leggiamo nei libri. Forse è questa, la nostra condanna all'infelicità: cercare risposte e trovare solo commozione.

Non a caso tanto rivela il mestiere di Thomas, che a Londra è un architetto molto particolare: non saggia la solidità delle case, infatti, ma progetta abbinamenti e danze di luci. Un lavoro forse inservibile per chi è abituato a sporcarsi le mani, a sbracciarsi, a preferire la pratica all'arte. Simili potrebbero allora essere, lecite ma per me non condivisibili, le sensazioni davanti al romanzo di Eleonora: una riflessione esistenzialista sul tempo e sui sentimenti, sulla ricerca della propria identità, che con gentilezza arriva anche a chi, come il protagonista, si sentiva a torto già pienamente sé stesso. Gli ospiti dell'hotel torneranno cambiati per sempre nell'intimo e lo stesso, in fondo, non mi sento di promettere agli aspiranti lettori. Ma se le cose deliziose possono davvero salvare il mondo, lezione preziosissima, Lux e i suoi bagagli di piccole gioie sono un pregevole passo verso la soluzione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Franco Battiato – La stagione dell'amore

venerdì 24 maggio 2019

Mr. Ciak: Dolor y gloria | Stanlio e Ollio

Sapendolo un ritorno di fiamma, ho recuperato i lavori che l'hanno preceduto. Non volevo che mi sfuggissero i passaggi e le sfumature di questo lascito con antecedenti illustri: da Fellini all'ultimo Cuarón, la settima arte si è rivelata spesso una diva vanitosa. Ama essere continuamente vezzeggiata, proprio come la memoria, a discapito della discrezione dei registi stessi. In questo caso parliamo di Pedro Almodóvar. Sempre nascosto dietro le sue storie di finzione, o sotto le maschere tirate a lucido dei suoi attori feticcio. Chi era l'adolescente che sognava Bette Davis in poltrona? Quanto c'era di lui nell'educazione sentimentale di Bernal, studente dalla voce d'angelo? Perché le corsie d'ospedale di Parla con lei? E i ritorni alle origini di Volverquanto erano sentiti da chi sperava di morire nella propria terra natale? A sua madre, donna dai modi spicci, non piaceva che i panni sporchi venissero lavati in scena. Erano cose di famiglia. Ha aspettato morisse per smentirla. Ha aspettato il vuoto conseguente al lutto, altra sofferenza, per sommarlo al bagaglio delle pene fisiche e spirituali: quelle che rendono Banderas, qui regista ipocondriaco dipendente dall'eroina e dal bisogno d'amore, la sua ombra perfetta. L'attore, in odore di Palma d'oro, presta all'amico gli alti e bassi di una collaborazione lunga trentadue anni, una carriera in caduta libera e l'ansia per il recente infarto. Più vicini anche anagraficamente, attore e autore vengono conciliati dalla presenza di mamma Cruz: prosperosa come la Loren, ascolta Mina e trascina il figlio in una splendida caverna imbiancata dove conoscere le prime prurigini e il desiderio di eccellere. Tornare lì, allora, dove tutto ha avuto inizio: lo consiglierebbe tanto un maestro di scrittura creativa quanto uno psicoanalista. Il risultato è un romanzo di formazione a ritroso, a rovescio, da intitolare ai dolori del vecchio Almodóvar. Un canto di Natale in cui sfidare i fantasmi dei capolavori passati, attraverso un'accorata via crucis che con garbo presta le sue tappe fondamentali ai meccanismi colti e godibili del melodramma. Mai autoindulgente, semplice e frammentario, Dolor y gloria ondeggia fra gli antipodi del titolo. A metà fra gravità e leggerezza, se ne va a colloquio ora con un attore arrivista che all'improvviso, rievocando a teatro una passione giovanile, si erge a narratore di terzo grado; ora con un indimenticato ex che una sera bussa alla porta, ripulito dalle droghe e innamorato delle donne; ora con un imbianchino analfabeta dalla presenza destabilizzante, con le mani d'oro e la bellezza telegenica dello sconosciuto César Vicente. Dolor y gloria è tutto su Almódovar. Non c'è migliore invenzione, infatti, dell'esistenza. Il copione sarà una tragedia o una commedia, domanderebbe il medico curante? In combutta, Pedro e Antonio fanno spallucce per godersi la vaga magia di questo sodalizio. Forse inferiore ai lavori dei primi Duemila, ma destinato a rimanere uno dei film dell'anno. Perché, ho scoperto, alla sensibilità del regista spagnolo non resisto: soprattutto se, finalmente, è più sé stesso che mai. (8)

Sono venuti a mancare trent'anni prima che nascessi, ma sono cresciuto con le repliche dei loro sketch in bianco e nero: gli accenti esagerati del doppiaggio italiano, gli sberleffi e i capitomboli di un cinema muto che avrei imparato a comprendere soltanto all'università. Nonostante l'abisso cronologico, infatti, per coloro che sono stati bambini con me, Stanlio e Ollio non sono così diversi da Mr. Bean o La Tata: compagnia nei pomeriggi domenicali, quando fuori pioveva. La fama, se meritata, rende immortali. Il leggendario duo composto da Stan Laurel e Oliver Hardy non se la passò sempre bene. La loro amicizia conobbe spiacevoli fraintendimenti e, nel dopoguerra, ormai rancorosi e mal in arnese, tornarono a malincuore a collaborare durante un tour in Gran Bretagna. Amati ma in decadenza – vuoi anche la concorrenza dei nuovi mezzi d'intrattenimento, di Charlot, Gianni e Pinotto –, i protagonisti si ritirarono gradualmente dalla ribalta. Questo piccolo film è il loro canto del cigno. Cos'era di loro mentre le luci dei riflettori stavano per spegnersi? Chi erano gli uomini dietro i personaggi? Stanlio, uno straordinario Coogan, preservava la collaborazione con assoluta fedeltà: fantasticava su una parodia dissacrante ispirata a Robin Hood, purtroppo mai andata in porto, e scriverà copioni per il duo anche all'indomani della morte del collega. Ollio, il somigliante Reilly, faceva invece i conti con gli acciacchi del fisico e gli strascichi di un insospettabile tradimento professionale. Se ogni attesa, ogni arrivo in stazione, ogni trovata pubblicitaria è uno sketch degno delle loro celebri comiche, al contrario poco interessano ai profani i segreti del lavoro produttivo, le chiacchiere verbose con gli addetti stampa, il frustrante andirivieni. L'emozione, innegabile, arriva al cuore soltanto nell'ultima mezz'ora: colpa di una sceneggiatura troppo cauta e televisiva, che per imperscrutabile volontà racconta poco. Nello stile di Marilyn e Film Stars Don't Die in Liverpool, ma clamorosamente inferiore a entrambi, l'atteso Stanlio e Ollio potrebbe lasciare un po' delusi. Se non fosse per il mimetismo degli attori protagonisti, affiancati da due mogli irresistibili. Se non fosse per le lacrime in agguato, davanti a cotanto spirito di abnegazione, che fanno apprezzate molto l'omaggio, meno il biopic, per la stima verso due stelle splendenti – nonostante l'assenza del colore e la distanza generazionale – che in fondo non si spegneranno mai. (6)

mercoledì 22 maggio 2019

I ♥ Telefilm: Dead to me | Chambers

Si dice che la sincerità sia il fondamento di ogni relazione che si rispetti. Che si parli d'amore o d'amicizia, non importa. I rapporti interpersonali, davanti al non detto, scricchiolano. Senza bugie di mezzo, però, che divertimento ci sarebbe al cospetto di una commedia nera che di amori – bugiardi – e amicizie – insincere – parla? Alle prese con le migliori prove delle loro carriere, sempre in bilico fra ilarità e disperazione, Christina Applegate e Linda Cardellini sono agguerrite per farsi strada durante la stagione dei premi. Hanno personaggi finalmente sfaccettati e il supporto di una sceneggiatura brillante che, nel segno della solidarietà femminile, celebra la rivincita delle mogli nell'ombra e di attrici ridotte troppo a lungo a ruoli di supporto – anche se, nel caso della Cardellini, il 2019 può dirsi un anno davvero fortunato: compagna prima di Viggo Mortensen in Green Book, poi di Jeremy Renner in Avengers: Endgame, ha preso parte ai maggiori successi del botteghino. Una agente immobiliare con due figli a carico, l'altra pittrice stremata per l'ennesimo aborto, si conoscono in un gruppo di supporto dove servono pessimo caffè. Passano presto al vino rosso, alla maggiore confidenza del tu, in una splendida villa con piscina. Ma c'è poco da invidiarle: la Applegate, ossessionata dal senso di colpa, cerca infatti giustizia per il marito falciato da un pirata della strada. Chi guidava a velocità folle un'introvabile auto d'epoca? Perché, soprattutto, un padre di famiglia dovrebbe uscire a correre all'una del mattino? Ritmi esilaranti, dialoghi al vetriolo e toni indovinati sono i trucchi segreti di una novità Netflix che misteriosamente sa come non eccedere né sul versante del grottesco, né su quello delle leggerezza. Tutt'altro che innovativo ma d'alti livelli, Dead to me schiera sin dall'episodio introduttivo colpi di scena a raffica e mezze verità, anche a rischio di andare incontro a un finale più telefonato del resto. La commedia con qualcosa in più eccede, diverte, ma si lascia prendere assolutamente sul serio: il merito spetta all'impegno del cast, che poco ha a che spartire con il trash di Desperate Housewives, e alla premiata accoppiata Ferrell-McKay fra i produttori esecutivi. Non meritava la nostra fiducia, su carta, eppure si classifica in silenzio come la vera sorpresa della prima parte dell'anno: per soffrire meno la fervente attesa di Big Little Lies, così, ecco a voi un rimedio in pillole già pronto all'uso. (7+)

I primi due episodi, diretti dalla mano eccezionale di Alfonso Gomez-Rejon, erano così stilosi da lasciare ben sperare. Con le sue immagini curatissime e tanta attenzione nella descrizione di una comunità indiana ai margini degli Stati Uniti, Chambers univa le visioni di David Lynch alle atmosfere indie del cinema di Andrea Arnold. O così, a torto, sembrava. La storia è quella rivista e corretta di The Eye. In seguito a un trapianto d'urgenza – questa volta di cuore –, un'adolescente irrequieta eredita segreti e lati oscuri della ragazza che, morendo, le ha salvato la vita. L'opportunità le regala presto l'iscrizione a una scuola di lusso e la frequentazione di una famiglia in lutto. Cos'è successo alla sfortunata Becky? Cosa cercano di rivelarle il suo spettro, e il suo cuore? Dieci episodi di un'ora son tanti. Se i primi affascinano, gli altri – con un'antipatica nemesi femminile a metà fra Hannah Baker e Alison DiLaurentis – si trasformano in un monotono teen drama che tradisce il brivido per le schermaglie fra liceali; la possessione demoniaca per un'abusata setta di santoni new age, con una schiera di adepti più o meno sospettabili fra le proprie fila. La serie, con a carico spunti interessanti e ambientazioni originali, è vittima del troppo. Troppi nodi mai sciolti, oltre che troppe puntate. Troppa carne al fuoco. La scarsità di buone idee viene mascherata con la ridondanza, con la confusione. E il finale, aperto in vista di un prosieguo che vedo quanto mai difficile, nega soluzioni, offrendo soltanto stranezze aggiunte. Restano impressi il viso insolito di Sivan Alyra Rose, protagonista esordiente su cui scommetterei i miei soldi; il glamour di una coppia di cinquantenni bellissimi e bravissimi, composta da Tony Goldwyn e Uma Thurman – quest'ultima particolarmente intensa nel ruolo di una mamma inconsapevole, sull'orlo del collasso. A fine visione resta la sensazione delle occasioni perse, simili per frustrazione a un trapianto non andato a buon fine. Di Chambers, infatti, mi è venuto il rigetto strada facendo. E sul petto, nell'agenda delle serie spuntate, spunta una cicatrice a forma di delusione. (5,5)

lunedì 20 maggio 2019

Pillole di recensioni: Enrico (Francesca Garofalo) | Respira con me (Raffaella Romagnolo)

Enrico, di Francesca Garofalo
Bookabook, € 11, pp. 123
★★★½
Sono nato negli anni Novanta e mi sento fortunato. Ho conosciuto le lire, i televisori con il tubo catodico, le videocassette e i walkman, i floppy disk. E mi ha cresciuto, fra librerie e cinema, una J.K. Rowling a cui resto tutt'ora affezionatissimo. Su un quaderno era nata perfino una storia su quei mondi: Harry Potter, occhialuto come me, era più vicino di quanto pensassi. Abbastanza da diventarmi amico. A fantasticherie simili devono essersi dati anche Francesca Garofalo, che frequenta l'ambiente cinematografico e si sente, e il suo adorabile protagonista. In un paesello di centoventinove abitanti, l'ingenuo Enrico rischia ogni primo settembre una commozione cerebrale. Pensando che l'invito da Hogwarts non sia giunto per i ritardi delle poste, si schianta contro i muri della stazione di Zapponè. Che fine ha fatto il binario 9 e ¾? Proprio come Harry, l'omonimo pugliese ha una cicatrice che pulsa – il graffio di un topo sul naso –, un volatile in gabbia – un piccione affetto da dissenteria –, una famiglia disfunzionale – nato dall'amore di un giostraio e una giramondo, è cresciuto con la zia in un bar che disconosce gli aperitivi cenati, figuriamoci la burrobirra. Enrico e i suoi inseparabili amici hanno fatto di una cava il santuario della Divina Rowling. Ma quel paese senza librerie e senza internet non è un posto per fanboy. Ed Enrico Epitaffio, trentacinque anni, non ha più l'età per sognare. Questo esordio divertentissimo, con personaggi degni di Fabio Bartolomei e una spigliatezza invidiabile, è la storia di un ultimatum. Il protagonista sta pensando di rinunciare alle pozioni fai-da-te, alle visite presso i robivecchi, alla coltivazione delle erbe mediche. L'autrice gli dipinge attorno un mondo crudele e pessimista, che ordisce truffe e sbeffeggiamenti ai danni dei puri di cuore. E se i servi del Signore Oscuro si fossero davvero trasferiti a un passo da lui? Nato come soggetto cinematografico, a Enrico si addice bene il formato del racconto lungo nonostante il desiderio di averne ancora. Con la scusa che ci sarebbe altro da dire, che vorrei sapere sviluppati meglio sketch comici e comprimari, ammetto che mi piacerebbe volentieri ritrovarmi a Zapponè. Non domando mica una saga in sette volumi: soltanto qualche capitolo in più! Don Chisciotte combatteva mulini a vento, Enrico insegue binari invisibili. Si sollazza nel mentre con caciocavallo e vini rossi, e attinge con leggerezza al folklore del Sud, facendo del malocchio l'antenato degli Horcrux. Il suo romanzo potrebbe somigliare alle pozioni che inventa, un semplice pasticcio: in realtà, è pieno di magia. Ogni lasciata è persa. Il proverbio vale anche per i treni in transito? Quello per Hogwarts, speriamo da oggi, farà tappa anche in Puglia.

Respira con me, di Raffaella Romagnolo
Pelledoca Editore, € 15, pp. 133
★★★
L'ho conosciuta con Tutta questa vita, romanzo per ragazzi con una protagonista femminile memorabile, e l'ho ritrovata al premio Strega con La figlia sbagliata, dramma domestico con la tensione della tragedia greca. Da poco è tornata in libreria con Destino, saga familiare tradottissima e già in attesa sul mio comodino. Ma Raffaella Romagnolo, insegnante prestata alla narrativa, non ha scordato i suoi ragazzi né l'importanza delle loro letture. Insieme a lei ci ha pensato anche un editore in crescita, specializzato sin dal nome in storie da (piccoli) brividi, mentre l'alta montagna ha prestato sfondi e pericoli. Siamo a ottobre, ma sembra estate. Lontano dalle nebbie di Milano, un padre e un figlio ai ferri corti si spingono su alture dove volano le aquile. Amedeo soffre di vertigini: sotto il cappuccio calato si finge impavido e adulto come può, ma la sua idea di natura corrisponde a un balconcino fiorito per il gatti Oliver. L'adolescente, nell'indifferenza generale, marina la scuola da un mese. Colpa di una mamma che se n'è andata all'improvviso, lasciando liste della spesa incomplete e portando con sé il segreto delle parole giuste. Colpa di un padre che ci prova, sì, ma a mancare sono purtroppo il dialogo e la sincerità. Quale famiglia felice si regge su una messinscena? Tagliato fuori dal mondo per due giorni, e per di più con un genitore che sente estraneo, il protagonista abbandona a malincuore il cellulare nel cruscotto e si accompagna con le schitarrate dei Pearl Jam nelle orecchie. Fino a quando prima un rifugio chiuso per ristrutturazioni, poi una frana, lo costringeranno a diventare eroe della sua stessa avventura: lui che, in balia del lutto, aveva rinunciato a vivere. Semplice e immediato, fatto di capitoli lampo e grandi consigli musicali, Respira con me è un survival intimista e toccante ma inferiore all'affine Voce di lupo. Un inno alla resistenza, fisica e psicologica, i cui esiti prevedibilmente lieti annullano ogni suspance. Nella sua ora d'aria lontano dai romanzi più impegnati, così, Raffaella Romagnolo corre pochi rischi e non sorprende nel cambio di genere, ma garantisce un discreto viaggio interiore all'ombra di una natura splendida perché terribile.

venerdì 17 maggio 2019

Recensione: Ogni tuo passo, di Alice Feeney

| Ogni tuo passo, di Alice Feeney. Nord, € 19, pp. 350 |

L'esistenza di Aimee Sinclair è finzione scenica. Fasulle le generalità, illusori i successi lavorativi e sentimentali. Per sua fortuna, però, ha fatto delle bugie di cui si nutre una professione remunerativa: è un'attrice sulla cresta dell'onda. Il suo compito, farti pendere dalle sue labbra. Dopo un lungo apprendistato è riuscita a soggiogare i fan, costantemente in crescita; un agente che a sorpresa le ha proposto un provino con David Fincher in persona; il marito giornalista, Ben, che la venera nonostante l'esagerata gelosia. Quanto possono stare in equilibrio i castelli di carta? Pochissimo nel mondo del cinema, fabbrica di sogni e incubi che in fretta chiude le porte alle sue stelle splendenti. E ancora meno nel nuovo romanzo della giallista inglese Alice Feeney, maestra indiscussa dei tracolli coniugali e delle protagoniste inaffidabili.

Non tutti vogliono essere qualcuno. Alcuni vogliono essere qualcun altro.

Qualche estate fa mi aveva stregato con Ogni piccola bugia, ingegnosa opera prima che in quanto a cattiveria rivaleggiava con L'amore bugiardo, e nel fervore generale ci riprova con un intreccio costruito nuovamente fra passato e presente, con una donna che ha perso il bandolo delle sue stesse matasse. Tutto ha iniziato quando Ben scompare senza lasciare traccia e l'agente Alex Croft, poliziotta inutilmente sul piede di guerra come previsto dal cliché, punta il dito contro quella moglie sotto i riflettori. Prima per i successi hollywoodiani, poi per i presunti misfatti. La violenza domestica, infatti, colpisce anche gli uomini: era forse lei l'aguzzina del giornalista, schiaffeggiato in pubblico in seguito a una lite al tavolo del ristorante? Lo ha ucciso? Se sì, lo ha dimenticato per proteggere la propria sanità mentale? Salteranno fuori corpi dalla dubbia identità, rivali in amore, stalker a immagine e somiglianza della tormentata Aimee, mentre i salti temporali ci condurranno implacabilmente nell'infanzia della protagonista: lì si annidano le prime ambizioni – un paio di inavvicinabili scarpette rosse in vetrina, come quelle indossate da Dorothy –, i primi stratagemmi per salvarsi dal provincialismo irlandese – lezioni di dizioni, favole da ascoltare con il mangianastri, blockbuster anni Ottanta noleggiati in videocassetta –, i primi crimini. La norma se sei la figlia di due spiantati allibratori, Maggie e John, e devi imparare a difenderti con le maniere cattive dai creditori. Inevitabile se un bel giorno sei stata sequestrata, ripenso a tal proposito alla lettura del toccante Ellie all'improvviso, e due perfetti sconosciuti ti hanno intimato di chiamarli mamma e papà.

Sposiamo chi ci fa da specchio: è il nostro opposto, ma a noi sembra un riflesso. E, se lui è un mostro, io cosa sono?

Non si può dire che Alice Feeney sonnecchi sugli allori. Moltissimi i colpi di scena, nonostante abbia purtroppo intuito il principale a cento pagine dalla fine, e altrettanti i momenti da pelle d'oca. Il vademecum di thriller così, sordidi, sanguinosi e malati fino all'ultimo, esige figure borderline e tabù infranti. Il rischio corso, in questo caso, è stato quello di ripetersi per paura di fare peggio che in passato. Simile al romanzo precedente ma più maldestro, Ogni tuo passo ripropone con capitoli rapidi e stile accattivante – per gusto personale, preferisco tuttavia qualche frase ad effetto in meno – scambi di persona, doppie identità, flashback a raffica. Aveva tutte le carte in regola per farmi suo ma, pur funzionando senza sbadigli di sorta, rimesta nei temi caldi del successo precedente e nel classico repertorio delle narratrici bugiarde, citando più volte sé stesso. All'ombra di Ogni piccola bugia, i pregi dell'uno diventano con una punta di dispiacere i difetti dell'altro.
Torna a mentirci, Alice: irretiscici, fallo meglio e di più. Sperando che a ogni passo, a ogni romanzo, non riprenderai puntualmente a raccontarci l'ennesima storia in assonanza di donne-mantidi e relazioni pericolose.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Doris Day – Perhaps, Perhaps, Perhaps

mercoledì 15 maggio 2019

Mr. Ciak: Pet Sematary, The Prodigy, Climax, 7 Sconosciuti a El Royale, Escape Room

Citando un altro dei suoi successi, a volte ritornano. È successo prima alle liceali vessate, poi ai pagliacci assassini, infine ai membri della famiglia Creed. I remake, negli anni, hanno dato nuova linfa agli incubi di Stephen King. A trent'anni dal film originale, Pet Sematary ha seguito l'esempio di Carrie e It. Il risultato, poco clamoroso ma comunque godibile, è nella media. All'attenzione filologica della prima parte – notevole l'interesse per l'inconscio dei protagonisti, i fantasmi di lui e i sensi di colpa di lei, insieme agli effetti mortiferi di una terra maledetta che supera i confini della radura e tormenta la famiglia in gran completo – seguono le canoniche concessioni al mainstream della seconda, con tanto di bambine possedute appostate in cantina e vedute di un cimitero gotico a livelli caricaturali. Il cambio di rotta dell'epilogo, nerissimo e perfino più tragico, seminerà un certo disappunto nei lettori più fedeli ma, nel mio caso, è stato una felice variazione sul tema: un aggiornamento con i tratti della riscrittura, che non stravolge il messaggio complessivo. I problemi del film, purtroppo, non stanno tanto nei limiti di una sceneggiatura non abbastanza rimodernata quanto nell'assenza di un protagonista sfaccettato o di un regista degno di questo titolo: Jason Clarke, inespressivo come il peggiore Affleck, appare talmente monolitico da non riuscire mai a comunicare la sofferenza di un medico alle prese con una scelta impossibile – insomma, non ha l'intensità richiesta a Toni Collette in Hereditary –; i registi chiamati a sbrigare il compito sono ben due, ma sembrano aver dato forfait. I risvolti agghiaccianti non impediscono allo spettatore di nascondersi qui e lì il viso fra le mani. Il gatto Churchill e la sua spiritata padroncina, Ellie, potrebbero diventare presenze fisse nella galleria dei personaggi inquietanti. Ma chi l'ha letta lo sa: quella di King, in realtà, era una tragedia inesorabile. Purtroppo centrava meglio l'obiettivo il televisivo 1922, e non l'ennesimo horror mordi e fuggi, per quanto decoroso appaia. A volte la morte è meglio. Ma il remake? (6,5)

Le abbiamo festeggiate la seconda domenica di maggio, le mamme. Cosa non farebbero per proteggere i loro figli? È lo sguardo amorevole a distogliere la convincente Taylor Schilling dalle stranezze del piccolo Miles, bambino dall'intelligenza precoce e dagli incubi inenarrabili. Mentre lui veniva al mondo, in un'altra città moriva un serial killer. Spirando, il mostro ha lasciato in eredità al nascituro un occhio di colore diverso rispetto all'altro e una questione di morte ancora irrisolta. Si parlerà allora di doppie personalità. Di reincarnazioni, a cavallo fra Oriente e Occidente. Un po' Omen, un po' La bambola assassina, The Prodigy – giunto in sala fuori stagione, con a bordo lo stesso sceneggiatore di Pet Sematary – appartiene al classico filone del bambino crudele. Non supera i modelli di riferimento, non ambisce a diventare pietra miliare, ma per essere un prodotto d'intrattenimento uscito durante le vacanze pasquali sa difendersi discretamente senza sfoggiare l'artiglieria pesante dei film di serie B. Ritratto di una convivenza infernale e di un genitore sull'orlo di una crisi di nervi, ha alle spalle luoghi comuni solidissimi e qualcosa di buono, fra interpreti in parte e ritmi accattivanti. Ne viene fuori un thriller paranormale di buona foggia, che sgomita con eleganza in un sottobosco di pellicole ormai intercambiabili fra loro e che, a colloquio con l'infido Jackson Robert Scott, trova un antagonista da brivido. Pur al servizio di una storia che, strano ma vero, senza nessuna novità da proporre, non è ancora venuta a noia. (6)

Ci ha raccontato l'amore in Love, lo scandaloso porno d'autore che aveva diviso Cannes. È tornato, ora, per raccontarci la morte: con la grazia selvaggia della danza contemporanea e tutta la bellezza perturbante del suo cinema. Gaspar Noé, il Lars Von Trier argentino, non balla da solo né tanto meno in punta di piedi. Siamo in una sala piena di ballerini professionisti. La danza è il loro lavoro, il loro hobby, la loro vita. Non fanno altro, e di danza parlano in tutte le lingue del mondo. Climax mostra la loro ultima sera dopo nove mesi di lavoro a stretto contatto. Proiettati nel bel mezzo di relazioni, tradimenti e alleanze, carpiamo qualche informazione dalle chiacchiere altrui. E capiamo che c'è qualcosa che non va. La sangria a fiumi li rende su di giri: chi l'ha drogata? Se in Suspiria il movimento era armonia, qui conduce invece allo sfacelo. A incesti, aborti, stupri, aggressioni. In un rito bacchico durante il quale tutto è lecito, tutto è possibile, la compagnia garantisce orrori indicibili e un'esperienza visiva eccezionale. Le prove stesse sono l'esibizione. Il resto, invece, è un flashmob lunghissimo su cui giganteggia la bandiera francese e l'onnipotenza di Noé. Un regista che inserisce i titoli di coda all'inizio del suo film e quelli di testa a metà, dopo quarantasei minuti di visione. Un portento alla macchina da presa che si concede ora piroette da capogiro, ora interminabili piani sequenza: la telecamera, fissa, mentre i protagonisti diventano invasati. All'esagerato virtuosismo di fondo, però, corrisponde simmetricamente l'inutilità della trama; atmosfere psichedeliche che nella prima parte entusiasmano e poi, pian piano, vengono a noia. Mancando d'un passo l'acme del titolo, mentre nel dramma precedente – fra contenuto e forma, provocazione e commozione – la pienezza dell'orgasmo era assicurata. (7)

Sette sconosciuti dal passato criminoso, un hotel da cui fuggire. Il giallo e il pulp, sposalizio già vincente nel sopravvalutato The Hateful Eight, chiamati a raccolta insieme a un cast di sole stelle per renderci partecipi di una vicenda di bulli e pupe, sangue in quantità e soldi sporchi. El Royale sorge a cavallo fra due stati e, nella classica note buia e tempestosa, ci assicura scenografie sopraffine, splendide canzoni al juke-box e una manciata di sequenze degne di nota: quel piano sequenza lungo un sordido corridoio segreto, ad esempio, o l'esibizione canora della grandissima Cynthia Erivo intervallata ai piani imperscrutabili di Jeff Bridges. La compagnia, data la portata degli ospiti, sarà di quelle con cui rifarsi gli occhi – che bombe sexy Dakota Johnson e Chris Hemsworth! –, anche se nel cuore mi è rimasto l'imprevedibile portinaio di Lewis Pullman. Strabordante, sfacciato e autoironico, il ritorno al cinema di Drew Goddard è un nuovo omaggio, dopo i fasti di Quella casa nel bosco: lì omaggiava l'horror, qui il thriller. Non vuole lasciarsi prendere troppo sul serio, e ci saranno allora la stessa leggerezza, la stessa passione, lo stesso tocco promettente. Nonostante una superba prima parte e un prosieguo all'insegna della fatalità, è sempre bello far congetture e vederle smantellate: si sfoderano le armi pesanti, infatti, e senza troppi rancori vengono meno l'aplomb iniziale e attori il cui ruolo, a torto, era considerato chiave. Scoraggiato dalle oltre due ore di durata e dalle recensioni tiepide, rischiavo di perdermi un soggiorno pericoloso ma confortevole in mezzo alla bellezza kitsch e ai deliri metacinematografici di Goddard: un piccolo Tarantino che fa simpatia, per le grandi ambizioni e un cognome da Nouvelle Vague. (7,5)

Cinque sconosciuti dal passato traumatico, un complesso da cui fuggire per salvarsi la pelle. Il giallo all'inglese di Agatha Christie incontra i morti ammazzati di Saw e i grattacapi di The Cube. A ogni scenario (fra i tanti: un forno crematorio, un cottage sotto zero, un salotto distorto dalle droghe, una biblioteca pronta a schiacciarti) corrispondono un indizio e una dipartita violenta. Qual è il filo rosso che unisce i protagonisti? Chi li manipola dall'alto? Soprattutto, chi avrà la meglio in questo purissimo gioco di sopravvivenza senza trucchi né inganni? Il survival – genere tipicamente estivo, questa volta elegante nella resa e piuttosto ben assortito – a sorpresa potrebbe divertire più gli amanti dei grattacapi che quelli dello splatter gratuito, grazie alla sintesi fresca e dinamica delle sue influenze da cardiopalma. Invito a cena con delitto multiplo, cavalca la moda delle escape room già diffusa nelle grandi città e rinuncia all'efferatezza, intrattenendo con l'ingegno delle scritture a incastro; gli ambienti vari e insidiosi; una chiusa aperta ma non troppo, in vista di un papabile seguito che, qui lo ammetto e qui lo nego, in futuro mi concederei di volata. (6,5)

lunedì 13 maggio 2019

Recensione: Lena e la tempesta, di Alessia Gazzola

| Lena e la tempesta, di Alessia Gazzola. Garzanti, € 16, 40, pp. 192 |

Ci siamo salutati lo scorso inverno sperando non fosse l'ultima volta. Ma, in pausa dalle indagini dell'Allieva, l'inarrestabile Alessia Gazzola non ha impiegato molto a rimboccarsi le maniche. A sorpresa è tornata in libreria prima del previsto, e a sorpresa può contare su un personaggio femminile che durante la lettura non fa sentire troppo la mancanza della pasticciona Alice Allevi. Congedata a tempo indeterminato la reginetta del giallo, la scrittrice siciliana si è presa una pausa dallo stress degli omicidi e dei romanzi in serie, staccando il biglietto per una destinazione suggestiva. È maggio, ma le vacanze estive sembrano proprio essere giunte in anticipo. Fra le pagine e fuori, allora, si parla di fughe dal traffico di Roma, di nuovi inizi altrove, e ancora una volta scrittrice e protagonista sembrano avere molto in comune. Destinazione, Levura: un'immaginaria isola del Mediterraneo all'ombra di un vulcano sopito, senza aria condizionata, wi-fi, automobili. Un paradiso sponsorizzato perfino dalle riviste newyorchesi, consigliatissimo per staccare la spina da giugno a settembre. Ma per andarci in esilio? Lena, trent'anni e un'esistenza in forse, raggiunge la casa di villeggiatura prendendo l'aliscafo da Palermo: manca da lì dalla bellezza – o dall'orrore – di tre lustri.

Galleggio nella vita come le estremità di certe alghe che solo all'apparenza affiorano in superficie, ma in realtà sono radicate nell'oscuro fondale del mare, e quello che sembra movimento, non è che inerzia. La mia stessa esistenza potrebbe dirsi molto fortunata, al di là del fatto che non ho soldi né un compagno. Questo tipo di assenze, tuttavia, possono sempre mutare ed essere colmate, in quello che mia madre chiama il tourbillon de la vie.

Ogni stanza affacciata sul mare le ricorda cose belle e brutte. Quanti tradimenti e quanti incontri, quante amicizie elettive e quanti matrimoni hanno scelto l'incontaminata Levura come sfondo. Quante grigliate e quanti ospiti dell'ultimo minuto, durante l'adolescenza della protagonista, passavano a trovare mamma e papà: lei autrice di romanzi rosa trapiantata a Parigi, che per temperamento vi ricorderà un po' l'esilarante nonna Amelia; lui scrittore naturalizzato a Brooklyn, con prole internazionale a carico e conoscenze elitarie degne del “Supremo” Malcomess. Su un'isola con una superficie di cinque metri quadrati dove tutti sono potenzialmente imparentati e tutti hanno Giovanna per domestica, purtroppo è facile trovarsi al centro di reunion sgradite o spiare il fare sospetto del fascinoso dirimpettaio. Romantica ma dai modi pratici, intimidita dagli uomini e per questo di indole solitaria, Lena è un'illustratrice in crisi creativa e una donna in guerra contro sé stessa: le inibizioni la frenano, le conversazioni languono, il sesso è tabù. A differenza di Alice, non giunge mai a conclusioni affrettare davanti a una bugia, non cerca l'amore eterno, non conosce leggerezza. Ma puntualmente sarà l'amore a trovare lei nella persona di Tommaso, un altro spasimante in camice bianco, insieme a tutta l'ironia di Alessia Gazzola. Cosa sarà di loro due a fine stagione? E di Cassius, tenero cagnetto in prestito? E della piccola Poppy, adorabile turista straniera la cui famiglia ha affittato casa Santoruvo per le vacanze? Quella di Lena e la tempesta, parafrasando le parole della stessa protagonista, non sfigurerebbe nel bel mezzo delle classiche storie di tenacia e ripartenze in onda negli afosi pomeriggi Mediaset. Sotto il sole a picco, a parte i dolori annidati nell'adolescenza della padrona di casa, niente di nuovo: lo si constata, tuttavia, senza recriminatorie.

Ho navigato acque tempestose, ho dormito in stanze molto buie, ma sono approdata a una nuova storia, tutta da scrivere.

Da quest'ordinaria vicenda di resilienza su uno sfondo da cartolina, infatti, nasce un riuscitissimo ritratto di signora. Lena in passato ha ceduto alle scappatoie delle raccomandazioni, è stata l'amante di un uomo sposato, prende appuntamento con un'analista junghiana, custodisce i suoi pochi averi nel garage di un'amica. Disegna senza scadenze, senza ansie, senza destinatari. E laggiù, in esilio, cerca la voce perduta. I trucchi di una soddisfacente riuscita sono rintracciabili, allora, nel tocco delicato della solita autrice, nella suo inimitabile senso dell'umorismo e in una protagonista, al contrario della Emma di Non è la fine del mondo, lodevole per maturità e fardelli. Alessia Gazzola racconta la rinascita di una donna che volta pagina: lei stessa, lontana dai tavoli autoptici, volta pagina ma non troppo. Intimista senza mai tradire l'intrattenimento delle lettura da ombrellone, turbolento senza preoccupanti nuvole l'orizzonte, il suo ultimo romanzo – ce ne ha promesso un altro entro l'anno, prendiamola in parola – vanta nel titolo una tormenta sia letterale che figurata, nonostante la prevedibilità immancabile dell'arcobaleno in agguato. Nessun uomo è un'isola. E nessun uomo, Lena, può rubarti il sereno dopo la tempesta.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Hooverphonic – Amalfi

sabato 11 maggio 2019

Recensione [Strega 2019]: L'età straniera, di Marina Mander

L'età straniera, di Marina Mander. Marsilio, € 16, pp. 206 |

Milano città. L'insopportabile pigrizia delle vacanze estive. Il desiderio di fare una scappata sulla costa ligure per il piacere del mare nella bella stagione. In una famiglia disfunzionale ma di larghe vedute – di quelle con i preservativi in un cestino all'ingresso –, lo scostante Leonardo prova gusta nel dare sui nervi a una mamma troppo speranzosa e al suo compagno, un anonimo tassista amante dei passi a due. D'altronde, comprendiamolo: ha diciassette anni e ogni diritto di avere il mondo contro. Figlio degli anni Novanta e della democrazia progressista, patisce l'ingombro della verginità e la frustrazione per i sogni di gloria mancati: si sognerebbe l'epigono ribelle di Kurt Cobain, a cui somiglia perfino un po' per via della zazzera bionda, ma a rubargli il nirvana sono i drammi quotidiani. Prima il suicidio del padre, eterno Peter Pan scomparso in mare con addosso il suo pigiama migliore; poi la convivenza forzata con Florin, ragazzo dell'Est accolto in casa per l'inguaribile spirito da crocerossina della capofamiglia. Se Leo non è abbastanza adulto, Florin non è abbastanza bambino. Il nuovo compagno di stanza si prostituiva: ha piedini di fata, mani lunghe per soddisfare i piaceri altrui, frequenta cinema a luci rosse e quartieri sconosciuti. Accondiscendente fino al fastidio, si nutre di dolciumi preconfezionati e attira occhiate ora indifferenti, ora indignate. Il gatto di casa, un randagio, lo riconosce come padrone. La sofferenza degli altri, però, ci rende persone migliori?

Noi siamo una famiglia di larghe vedute e questo è un fatto importante perché, a forza di guardare più in là, è diventato sempre più difficile guardarsi negli occhi.

Se lo domanda a lungo il protagonista, che dovrebbe usare la compagnia di Florin – brutto e sfigato, citandolo – a proprio vantaggio. Con queste premesse potrà forse nascere un'amicizia sincera? Leo ci prova. E prova anche con l'analisi, con la marijuana a scopo terapeutico, ma la rabbia di vivere lo segue perfino in incubi dov'è messo sotto processo. Lui il giudice, lui l'accusato, lui l'accusatore. 
L'età straniera, finalista al Premio Strega, è l'apprendistato di un adolescente che deve capire come gira il mondo. Il narratore non crede nei mezzi termini, nelle sfumature di grigio, ma nella giustizia sì. Suona disilluso e antipatico, un nichilista provetto, ma fra sé e sé nutre speranze esagerate verso il futuro. Al contrario degli adulti, che gli insegnano il bene ma soprattutto l'utile. Al contrario del coinquilino extracomunitario, che parla poco perché in Italia purtroppo non ha voce. La scrittura verbosa e cervellotica di Marina Mander ci porta nel clou dell'irrequietezza. In un'età che sputa fuori parole ciniche e parole d'amore, riflessioni amareggiate e finali preferibilmente dolci.

E tu, Iwazaru, riesci a capire quanto mimetizzarsi sia vantaggioso? Bastano cento parole di vocabolario, dieci capi di vestiario, due o tre accessori non troppo cafoni, sono sicuro che mamma saprà indicarti quali, e tutti vedranno in te una personcina affidabile; confezionati bene anche se hai l'inferno dentro, impara un altro modo di spaccarti in due, ma senza mai darlo troppo a vedere, mi raccomando, è questo l'essenziale. E se dentro di te ci fosse davvero il nulla, rivestilo di diamanti.

La sua lingua, ben affilata contro il perbenismo e il politicamente corretto, spesso suona artificiosa. Mi ha ricordato quella di una Mazzantini più lieve ma a tratti irritante, fatta di allitterazioni e giochi, di stridori e parolacce. È la scrittura, in effetti, a dare il vero guizzo – una parvenza fortemente autoriale – a una commedia edificante a proposito di crescita e integrazione che al cinema vedrei bene sotto la direzione del bravo Francesco Bruni. Ma è proprio la scrittura, originale perché ardita, a non avermi conquistato. 
Benché l'autrice parli a nome di un diciassettenne senza falsi moralismi né censure, regalandoci nell'ultima parte la struggente lettera che Leo indirizza a sé stesso per il futuro, il suo romanzo di formazione resta un paradosso. Incentrato sul dialogo fra culture, di dialoghi ne ha stranamente pochissimi. Il protagonista e Florin non si parlano neanche a gesti. Il narratore, straripante e megalomane, ma almeno onesto, parla per tutti e due. I voli pindarici e gli sproloqui: quelli del Giovane Holden. Come già successo con il classico di Salinger, ne ho apprezzato la compagnia a piccole dosi, più in teoria che in pratica, trovandolo non sempre godibile eppure toccante nel suo imperscrutabile diritto all'egoismo. Perché Leo storpia il nome di Florin in Iwazaru, lo chiama scimmia per disprezzo, ma intanto si commuove davanti ai primati in gabbia allo zoo.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Jovanotti – Mi fido di te

mercoledì 8 maggio 2019

Mr. Ciak: Dumbo, Benvenuti a Marwen, Instant Family, Unicorn Store

Ci si aspettava poco. Dalla riproposizione di un cartone niente affatto apprezzato da bambino. Dall'ennesimo live action di cui in fondo non si sentiva il bisogno, con Aladdin e Il re leone già attesi al varco nei prossimi mesi. Dal ritorno al cinema di Tim Burton, mio regista del cuore, che purtroppo non indovina il film giusto dai tempi del sentito Frankenweenie. Si è andati in sala senza grandi pretese, con il biglietto pagato tre euro in promozione e un pubblico misto di pargoli e nostalgici. La sorpresa, se di sorpresa si può parlare, è che Dumbo risulti efficace nel suo niente di indispensabile. La fiaba animalista, debitamente aggiornata alla luce di una morale necessaria, più che a un adattamento somiglia a un seguito non dichiarato. Cos'è stato dell'elefante bullizzato per le orecchie a sventola, dopo le sue magiche lezioni di volo? La prima parte, a metà fra omaggio e ammodernamento, è il cartone originale: qualcosa resta, come la toccante Bimbo mio o la famosa sequenza degli elefanti rosa; qualcosa si perde, come il topolino per aiutante qui rimpiazzato dal reduce Farrell e dalla terribile bambina protagonista, scelta più per mamma Thandie Newton che per un'espressività che lascia molto a desiderare. Nella seconda, da emarginato a stella, il protagonista attira le attenzioni di Keaton, cattivo bidimensionale con al seguito l'incantevole e ribelle Eva Green: la scalcagnata compagnia di De Vito, già circense nell'insuperato Big Fish, viene inglobata da una multinazionale da sogno. O da incubo? La bestialità degli uomini e l'umanità degli animali emergerann, come da copione, in una chiusa che è la parte debole: un trionfo di fuochi e fiamme, d'ingombrante CGI, che perdeo amaramente il confronto con la riuscita animazione dell'elefantino. Perché il nuovo Dumbo è sempre lo stesso: imbranato e tenerissimo, cerca la mamma tenuta in cattività e minaccia di commuoverci spesso da dietro i suoi grandi occhi azzurri. Perché Burton, nel bene e nel male, è Burton: scolastico ma in discreta forma, nonostante il lavoro alla buona degli sceneggiatori, ripropone con trasporto la classica parabola dell'emarginato: la poetica del freak, che perde d'originalità in casa Disney, ma lascia spunti di riflessione ai giovanissimi. È il compito di un film per famiglie tanto godibile quanto convenzionale, che condanna la barbarie fuori moda del circo, omaggia la tecnologia e la creatività degli artisti tutti e, nel suo piccolo, sa farti volare a mezz'aria grazie alle orecchie di un'attrazione principali davanti cui è impossibile non sospirare, inteneriti. (6) 

Marwen è un villaggio fittizio in Belgio, assiepato dai nazisti e difeso da un esercito di donne armate fino ai denti. Marwen, ancora, è un mondo in miniatura che si rivela essere ben presto lo specchio consolatorio della realtà: l'elaborazione di un uomo sofferente, con la testa spaccata da una gang di teppisti, mentre si perde appresso agli amori platonici e a missioni di salvataggio degne di una spy story. Disegnatore e miniaturista, divorziato, Mark Hogan nutre una venerazione per il gentil sesso e il pallino per le scarpe con il tacco. Un'ossessione mai chiarita, che suo malgrado l'ha reso protagonista di un tragico attacco omofobico. Traumatizzato, adesso vive attraverso i suoi giocattoli. Lì è un soldato valente e fascinoso, che porta con orgoglio le cicatrici di guerra. Lì la sua vicina di casa, una deliziosa Leslie Mann, accetterebbe di sposarlo su due piedi. Apologo per grandi e piccini, a sorpresa flop al botteghino, Benvenuti a Marwen ha la regia di un Zemeckis in forma smagliante benché sottovalutato, effetti visivi ineccepibili – con loro, scenografie e costumi –, un attore protagonista che fa la differenza. Steve Carrell, senza scimmiottare il ben più famoso Forrest Gump, è come Carrey: un attore comico che, cosa ormai assodata, fa faville nei drammi, grazie a un sorriso svagato che riesce ad essere tenero e struggente insieme. Peccato che la sceneggiatura fatichi a decollare. Se l'idea di girare un biopic a confine fra animazione e live action appare brillante, sfortunatamente non segue a ruota una scrittura senza guizzi che lascia fare tutto al comparto tecnico; all'espressività del mattatore Carrell, colto nel divenire di un viaggio che racconta i meccanismi di difesa, la dipendenza da antidolorifici, il velo di Maya dei filosofi moderni. Quello che ottunde i sensi, ammortizza e c'inganna. Insieme a Mark, un superstite, dovremmo perciò imparare a discernere: la vita, infatti, non è una casa di bambole. (6,5)

Chiunque abbia avuto la sfortuna di sedere in un'aula di tribunale ricorderà le sedie sbrindellate, le attese estenuanti, le domande degli avvocati che scavano come vanghe. La sensazione di disagio, la ferrea volontà di non rimetterci mai più piede. Ma una sera, per caso, ho scoperto che i tribunali non servono soltanto alla caccia alle streghe; alle famiglie che finiscono. Realizzarlo, durante la visione dell'inatteso Instant Family, mi ha commosso in poltrona. Questa è la storia di una coppia senza figli, liberamente ispirata alle vicissitudini dello stesso regista, che si sobbarca un'impresa difficile il triplo: adottare, sì, ma un'orfana ormai adolescente. E i suoi due fratelli minori. Con la loro età malsicura, con i loro traumi, con la voglia di riabbracciare ancora la mamma spacciatrice. Sulle orme di Una scatenata dozzina e This is us, a metà fra l'intrattenimento godereccio e i mèlo dai buoni sentimenti, Sean Anders indovina gli equilibri vincenti di una commedia affatto originale, ma a modo suo sorprendente. Un film vecchio stile che è proprio quello che appare, ma anche l'esatto contrario. Ben scritto, recitato con contagiosa armonia – accanto a Wahlberg e Byrne, occhio alle esilaranti caratteriste Spencer, Cusack, Martindale –, in una serata leggerissima mi ha strappato lacrime e risate in quantità. Rischiava di passare inosservato, eppure, per via del solito poster, per colpa del solito cast. Un tema lodevole è affrontato con realismo inatteso, invece, e note scorrette che non guastano. Perché genitori si diventa, si diventa una famiglia. Basta imparare: insieme. (7+)

E se un invito anonimo promettesse di renderti finalmente felice? Succede a una trentenne in crisi, con una carriera fallimentare in campo artistico e una convivenza forzata sotto il tetto di mamma e papà. Si improvvisa a malincuore segretaria, benché nel frattempo punti ai mondi impossibili del proprio inconscio grazie a un pigmalione dai completi variopinti: un Samuel L. Jackson istrionico ai limiti dell'irritazione, che alla protagonista con la testa fra le nuvole spalanca all'improvviso le porte del sogno. Invitandola a prestare fede all'immaginazione. Ma quando è un bene, quando un male, quando alienazione pura? I bontemponi sono definiti eterni Peter Pan, ma le donne si figurano segretamente addestratrici di unicorni. Store Unicorn, commedia strampalate dalle scenografie arcobaleno e le luci iridescenti, ricorre al bagaglio di uno spirito fanciullesco come antidoto a un'infanzia solitaria e a una giovinezza interrotta. In questo bailamme di personaggi dolci e surreali, dotati di un umorismo talmente particolare che potrebbe non piacere a tutti, spicca il “capitano” Brie Larson: qui impegnata in una doppia veste. Che piacere rivederla alle prese con i pregi e i difetti del cinema indie, momentaneamente in pausa dai blockbuster Marvel! Che piacere rivederla alle origini, nei panni di un'infaticabile sognatrice, mentre mette in scena i mostri e le fate negli armadi del suo passato, in una fiaba sui generis tutt'altro che memorabile ma comunque molto sentita! Mentre si prepara ad accogliere l'amico mitologico allestendo una mangiatoia, per la prima volta torna a vivere. Si guarda intorno, e non è da sola. Un po', la aspettavamo noi. (6)

lunedì 6 maggio 2019

Recensione: L'inverno di Giona, di Filippo Tapparelli

| L'inverno di Giona, di Filippo Tapparelli. Mondadori, € 17, pp. 190 |

Non ha che un maglione rosso, presumibilmente un modello femminile, per ripararsi dai rigori dell'alta montagna. Giona, quindici anni, vive in un villaggio senza nome e senza tempo. Per lui non esistono né il passato né il futuro. Soltanto un eterno presente, fatto di temperature in picchiata, terribili violenze – fisiche e psicologiche – e pochi ripari contro un gelo che pian piano ha messo radici anche nel cuore. Questa è la storia di un convivenza insostenibile: da qualche parte, in una casupola buia che sormonta tutto e tutti, il protagonista condivide i pochi spazi vitali con il nonno Alvise. Un vecchio dalle mani ferme e pesanti, dagli occhi di un azzurro impenetrabile, che con la stessa meticolosità con cui intreccia rami di castagno per fare gerle si ostina a tormentare il nipote: quintessenza della virilità, esempio di durezza e cattiveria, risulta elegante anche nel pestaggio. Nelle nocche lucide di sangue, nelle suole delle scarpe che calciano e spezzano le ossa. Questa è la storia del paese di Alvise: un microcosmo di case nude e argilla, di cieli dello stesso colore dell'orzata, che si regge a malapena su un ciottolo e sta perdendo misteriosamente il suo centro. Come sopravviverà senza il suo leader, e senza la complicità delle nebbie perenni?

Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Non sono tue le mani che mi spezzano la carne quando il vecchio mi punisce. Non è il tuo volto che mi tocco quando il freddo d'autunno mi congela le guance. Non sono volto, non sono labbra, non sono dita, denti, né altro. Io sono figlio del niente, senza padre né madre. Ma lei, a differenza tua, me la ricordo a ogni colpo che arriva, perché è il suo nome che invoco nella gola quando il male diventa più grande di me. Tu invece non sei mai esistito. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Ricordo la tua assenza, quando invece vorrei poter dimenticare la tua presenza inconsistente. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Sei vecchio come Alvise. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno. Le tue schegge non sono dolci, sono vetriolo che scende nello stomaco. Bruciano tutto quello che trovano, anche le grida.

Vincitore del premio Calvino sulla scia del bellissimo L'animale femmina, L'inverno di Giona racconta di un fragile universo che un singolo atto di ribellione minaccia di ridurre in polvere. Anche se niente è quel che sembra. L'ordine è rigoroso, il silenzio di tomba. Le case hanno le porte aperte e le scatole, che all'interno nascondono indizi indicibili, rifiutano lucchetti: lo spietato Alvise, sicuro della propria autorità, è infatti il peggiore deterrente. Suo nipote è nel fiore dell'adolescenza, ma al cospetto del vecchio sembra un bambino sperduto. Logoro e infreddolito, sozzo di sangue, nella prima parte mette alla prova le resistenze del lettore descrivendo una routine che fa impallidire: l'apice, quando è costretto a scegliere fra il passare una notte all'addiaccio o gettare nella fornace il suo maglione – già rattoppato alla bell'e meglio, per tutte le volte in cui Alvise lo ha strappato e bucherellato all'indomani di qualche sgarro. Solo al mondo, a digiuno di abbracci, Giona ha dato un nome di battesimo ai dodici gradini che conducono in cantina e ben presto sperimenta l'orrore delle strade vuote, dei boschi labirintici, come nella versione amara di Hansel e Gretel. La seconda parte, un soliloquio dai toni lisergici ma poetici, tratta di un doppio affrancarsi; di una fuga tanto letterale quanto metaforica, lontano da un villaggio giunto al collasso.

Sai come nasce un albero che sa fare i frutti? Non in modo spontaneo, non secondo natura. Non da solo. Scegli una pianta selvatica resistente, gli spacchi il legno e gli innesti dentro un ramo buono, con le gemme. Poi la mutili per anni con la potatura, lasci solo i rami più forti e li deformi per renderli adatti alla raccolta. Con il dolore, Giona. Solo con il dolore si impara.

Lì dove libertà fa rima con redenzione, l'animo smarrito del protagonista punta a mete sconosciute con lo spirito dei classici viaggi dell'eroe: gli fanno compagnia la spettrale Norina, una coetanea seguita a ruota da uno sfuggente gatto nero; la dolcezza di Anna, che mette in ordine una canonica rimasta purtroppo senza prete; i litigi aspri fra Attilio e Anna, che sparlano della figlia sciagurata che ha osato voltare loro le spalle. La terza parte invece, forse intuibile attraverso indizi ben seminati ma comunque agghiacciante, è la riflessione a ruota libera sulle fate e i demoni della nostra fantasia: qualche volta salva, qualche volta ammazza.
Sorretto da una scrittura dalla bellezza perturbante, vibrante com'è delle angosce e del candore delle infanzie di ogni dove, il premiato esordio di Filippo Tapparelli è un'allegoria esistenzialista consigliata a chi ha amato e sofferto con Sette minuti dopo la mezzanotte e Vita di Pi. Una strada senza uscita, che gira in tondo e porta sempre al punto di partenza. Tutto, pur di affrontare una scomoda verità. L'andamento perciò sarà di quelli vari e frastagliati. Ancorati a una prosa ispirata e scabrosa, piace tuttavia fidarsi a occhi chiusi. Non sapendo in principio dove porterà, il viaggio dell'autore veronese.

Non ci sono cose più fragili della verità. Per questo motivo va detta a bassa voce. Le parole la sporcano e la confondono, non sanno riportarla in modo fedele. La verità è fatta di silenzio. Un silenzio che riesce a rendere sordo il mondo, quando ciò che cela è troppo grande per essere compreso.

Seguiamo allora i sentieri di un microcosmo sdrucciolevole e impermeabile al divenire, che si sbriciola come un biscotto raffermo – le parole che diciamo a voce alta costruiscono, infatti, mentre quelle che tacciamo distruggono. Seguiamo, ancora, la bussola di un maglione rosso: tratto distintivo su una sagoma che sfreccia, si sporca, e infine ti coglie alla sprovvista alle spalle. Cosa accade quando un cane, spezzato il guinzaglio, si rivolta contro il padrone? Dove il tempo è relativo quanto mai e i freddi, interminabili, possono fiorire in gemme primaverili sotto le palpebre abbassate degli instancabili sognatori, un sacchettino con cinque pietre e la sagoma di una porta ci regaleranno il miraggio del sole all'insegna degli epilogo evocativi perché sospesi nel mezzo dei nostri forse. La fantasia è una catena. La fantasia è una liberazione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - Ho visto Nina volare