Le
orme conducono al cadavere di un'adolescente pellerossa. Mezza nuda,
abusata, ha corso per dieci chilometri prima di morire assiderata:
annegata nel suo stesso sangue. Da chi fuggiva? Jeremy Renner – di
solito spalla da poco, qui protagonista tormentato e convincente come
mai prima d'ora – imbraccia il fucile, si mimetizza, e va a caccia
di felini e assassini a sangue freddo: la giovane vittima e una
figlia morta allo stesso modo, invendicata, sono accomunate da un
simile destino e da una lunga amicizia tra i banchi di scuola. Con
lui, nuovamente nella stessa squadra dopo le poco fantastiche
avventure degli Avengers, il dolce e agguerrito agente
dell'FBI di una Elizabeth Olsen che, per colpa di una sceneggiatura
che non approfondisce, a tratti sembra purtroppo un pesce fuor
d'acqua: impreparata alle temperature in picchiata, al maschilismo,
alla cattiveria vera. Dopo Sicario e Hell or High Water,
Taylor Sheridan – al suo esordio alla macchina da presa, già
premiato per la miglior regia a Un Certain Regard – torna con un
terzo film di frontiera. Gli riconosco ancora una volta un grande
talento, una lodevole propensione per un cinema alla Clint
Eastwood, ma è ancora una volta che non mi convince fino in fondo. E non so
perché. Wind River è un western atipico, ad alta quota. Un
thriller che ai colpi di scena sensazionali e all'ironia dissacrante
di Fargo preferisce il piglio rigoroso delle storie vere.
Potente nelle immagini e nelle razioni al dolore. Artico, ma accorato
nei drammi umani. Si scava nei problemi familiari della vittima, in
una vita amorosa di cui in pochissimi sapevano, nello sporco ben
celato del candido Wyoming. Si parla dei contro dell'immobilismo,
della noia che genera mostri; della (mancata) integrazione delle
poche riserve indiane rimaste in piedi. Di senso di colpa, vendetta e
infinita crudeltà. Quella di una Madre Natura che non guarda in
faccia nessuno. Quella dei nostri simili, che ti sbranano se gli
volti le spalle, dando poi la colpa ai lupi. (7)
In
posa per il pittore Alberto Giacometti. Italiano a Parigi,
amico-nemico di Picasso e Chagall, artista minuzioso e cronicamente
insoddisfatto. Mani fra le ginocchia, mento basso, sguardo fisso.
Vietato accavallare le gambe, vietato sorridere, vietato alzarsi
prima della fine della seduta. James, scrittore americano in vacanza
con un ritorno da posticipare all'infinito, ha l'onore e l'onere di
fargli da modello. Immobile, all'inizio incuriosito e poi
semplicemente stremato, viene osservato e a sua volta osserva: il
disordine nello studio del pittore, la doppia relazione con la moglie
e l'amante, la collaborazione con il fratello Diego. Final
Portrait, ambientato qualche anno prima della sua morte, racconta
la lunga gestazione dell'ultima opera lasciata in eredità al mondo. Il ritratto
dell'americano sarà ultimato e cancellato ogni volta. Perché
l'artista, capriccioso e sboccato, fragilissimo, riteneva fermamente
che non esistessero ritratti finiti. E film così, che d'arte e
incompiutezza vorrebbero parlare, loro malgrado vanno incontro a
esiti simili. Si ha l'impressione, infatti, che finiscano senza
neanche cominciare. Rush, impeccabile e somigliante
istrione, porta le tempere, le bizze e un umorismo caustico
tipicamente britannico. Armie Hammer, pare in odore di nomination per
l'atteso Chiamami col tuo nome, mette la voce conciliante e
quella sua bellezza noiosamente squadrata. Ancora più di loro, eppure
ugualmente in parte, brilla la sorprendente regia di uno Stanley
Tucci dall'altra parte della barricata: elegantissima, mai laccata,
con la caligine malinconica del cinema d'oltralpe e la palette di
colori di un Tom Hooper. Colto, teatrale, riuscito a metà, Final
Portrait è il biopic atipico
che descrive non i drammi del pittore, ma gli alti e bassi del
processo creativo. Dalla creazione, in novanta minuti appena, perciò il
fascino, gli sbaffi di colore e, purtroppo, la ragionevole monotonia.
(6)
Non leggo nulla su Wind River che vedrò domani.
RispondiEliminaThe disaster artist l'ho adorato, il Wiseau di Franco è spettacolare e "oh, hi Mark!" è diventato il mio mantra della settimana...
ho trovato molto carino il film di Stanley Tucci, con una bella fotografia e due buone interpretazioni. Non entro nel merito della storia in quanto di Giacometti non so una mazza.
"Oh, hi Mark". Tanti, tanti cuori. Ho riso come se non ci fosse un domani.
EliminaGiacometti era sconosciuto anche a me. Il film non mi è dispiaciuto, ha la bella fotografia che dici tu, ma era quello che mi aspettavo, né più né meno.
Non vedo l'ora di vedere The Disaster Artist XD
RispondiEliminaLe ricostruzioni dei momenti iconici di The Room rendono?
The Room non l'ho visto (purtroppo?) ma rendono, certamente! Prima dei titoli di coda, lo schermo diviso in due confronta Franco e Wiseau nelle scene più scriteriate. :)
EliminaJames Franco è una garanzia -o quasi- e il suo artista disastroso lo attendo con ansia. Promosso per me Wind River -che per fortuna è arrivato prima che a Torino-, atmosfere tese e da frontiera, e personaggi magari non approfonditi, ma a favore di una storia ben curata.
RispondiEliminaFinal Portrait me lo segno, in attesa di una sua programmazione normale.
Adorerai Franco, e Final Portrait chissà. Di arte e dintorni, sei senz'altro più appassionata di me. E poi, come dice la Poison sopra, Tucci ha belle intuizioni stilistiche.
EliminaPer The Disaster Artist la curiosità sale ulteriormente.
RispondiEliminaNon so però se vedermi prima The Room per "prepararmi" o meno. Tu l'avevi guardato?
Wind River io l'ho trovato bellissimo e, per fortuna, non troppo eastwoodiano. E manco western, atipico o meno. :=)
Final Portrait mi sa di film da sbadiglio e il paragone con Tom Hooper mi preoccupa assai. Quindi mi sa che me lo risparmio.
No, The Room mi manca (che culo!), però il film lo ricostruisce in maniera molto esaustiva. Lo adorerai, ti conosco.
EliminaWind River, in realtà, lo avevo visto già a casa. Mi ha emozionato molto, mi ha fatto arrabbiare, ma qualcosa non arriva mai. Cosa? Perché?
Final Portrait sì, puoi risparmiarlo. A modo, curato, ma tutt'altro che indispensabile.