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lunedì 29 luglio 2019

Mr. Ciak: Midsommar, Burning, Border e altre gioventù allo sbando

Quando l'horror divide mi sono sempre trovato a far parte della schiera degli estimatori. Così è accaduto anche per Hereditary, tragedia mascherata da ghost story. Per far capire la differenza con il nuovo film del regista, retto nuovamente da una protagonista sull'orlo di una crisi di nervi, descriverò la reazione della sala davanti a una scena che si ripresenza, a un assordante urlo di donna: se quello della Collette ammutoliva, quello della Pugh ha scatenato al cinema grasse risate. Colpa di una brutta interpretazione da parte dell'interprete di Lady Macbeth, o forse di compagni di visione troppo rumorosi? La colpa, in realtà, spetta a un horror ambizioso e provante, che flirta con i toni camp rovinando la nostra percezione complessiva. La trama, né più né meno di quella di un found footage del decennio passato: una cinepanettonesca comitiva di studenti, in cerca di sballo e sesso, punta alla Svezia con la scusa della tesi. Come se non bastasse la presenza della lacrimosa fidanzata del protagonista, unica sopravvissuta al suicidio dell'intera famiglia, a rovinare i piani saranno anche gli abitanti di un'inquietante comune. A canti folkloristici, rune e riti corrisponderanno di pari passo orge, suicidi e roghi. Midsommar è tutto girato alla luce del sole. La fotografia, incantevole, risulta abbacinante e cupissima. Quel cielo troppo azzurro disorienta, tanto quanto gli espedienti al confine col trash per rendere i turisti parte della comunità. Il teen horror cita Hereditary, riprendendone i culti esoterici – la parte peggiore del film precedente – e la pesantezza inusitata. Il rischio: dare eccessiva importanza a personaggi immaturi, a dettagli impercettibili, che nel finale caricano la pellicola di un enfasi incomprensibile. Non si parla della morte scioccante di un figlio, infatti, bensì di due ventenni spaventati da un amore finito. Servivano 140 minuti per venirne a capo? Serviva l'ennesimo film sull'orgoglio femminile – la morale, ebbene sì, lì va a parare –, con sprezzo del ridicolo aggiunto? Sempre geometrico e perturbate, con una poetica che al secondo lungometraggio già inizia a sembrare ripetitiva, Aster firma un ritorno sopravvalutato ma dal fascino inconfutabile. Una natura morta rubata al puntinismo di Seurat, che brucia nel falò della sua stessa vanità. Svegliandoci a metà di ques'incubo di una notte di mezza estate. (5,5)

Lui è un ragazzo di campagna, scrittore aspirante. Lei, ex compagna di scuola inconsapevolmente seducente, è la storia di una notte e via. L'altro, novello Jay Gatsby, è ricchissimo e sospetto: soprattutto quando la ragazza, al centro di un triangolo degno del cinema francese, scompare nel nulla. Burning, ispirato a un racconto di Murakami, è un melodramma a tinte gialle tanto conturbante quanto difficile da scomporre. Gli atteggiamenti sconnessi dei protagonisti, i ritmi dilatati fino allo spasimo e quel finale sfuggente, intessuto di falsi ricordi e inquietanti fantasie masturbatorie, sono oggetto fino all'ultimo dell'interpretazione di ciascuno. Per quanto non abbia mai fatto miei gli enigmi del giovane protagonista – silenzioso e monoespressivo, lontano da me per lingua e cultura – sono rimasto folgorato dalle danze in topless sulla colonna sonora jazz, dalle sessioni di jogging sugli sfondi di una fotografia meravigliosa, dall'istinto piromane dei protagonisti. Qualcuno ha bruciato i vestiti della madre traditrice, qualcun altro arde invece granai periodicamente. Cosa rappresenta la ricerca dei suddetti? Che fine ha fatto la ragazza scomparsa? Perché quel finale tragico e precipitoso, dopo la flemma del resto? Si parla di conflitti di classe. Di ventenni belle e annoiate, solitarie come serre in stato d'abbandono, che cercano loro stesse nei viaggi, nelle droghe, nel mistero. Se sparissero, chi le cercherebbe? Buring brucia lentamente, senza vampate e senza calore. Ma forse non si esaurisce qui. Come il sapore di un'arancia immaginaria che la protagonista, esperta di pantomima, sbuccia e pilucca a piacere, consapevole del confine fra vuoto e presenza. (7)

Dopo aver rivoluzionato il genere vampiresco nell'era consacrata a Twilight, l'autore svedese di Lasciami entrare torna a regalarci un'altra gemma gotica d'amore e diversità. Questa volta i protagonisti non sono due bambini: bruttissimi a vedersi, piuttosto, attirano occhiate stranite per il loro aspetto esteriore. Non soltanto deforme ma dotata di un utile sesto senso – un fiuto eccezionale –, Tina lavora alla dogana fiutando in anticipo cattive intenzioni: che siano droghe o materiale pedopornografico, non le sfugge niente. Fino a quando, lei che è tanto abile a fiutare l'odore delle bugie, non incrocia un altro della stessa specie. Complementari, hanno paura dei fulmini, un'apparente malformazione cromosomica e le stesse cicatrici. Vore, che ammansisce gli animali con uno sguardo ed è un tuttuno con la natura, la invita a correre nuda nei boschi, a banchettare con i vermi: a mettere in discussione la propria origine. Nel mentre, ci regaleranno la visione di uno degli amplessi più strani e affascinanti che vedremo mai: tutto grugniti, ansiti e denti, con tanto di bizzarri genitali adocchiati di fretta, riassume alla perfezione lo spirito di Border. Quanto splendore c'è in quella bruttezza? Suggestiva leggenda nordica che attinge a piene mani nella mitologia nord-europea, il film è una storia di autoaffermazione e moderni troll che mescola la cronaca nera al fascino dell'inconsueto. Poetico ma ammantato di una grezza patina realistica – ho ripensato al nostro Lazzaro Felice –, regala brividi impensati e immagini che sfido a dimenticare. Cosa separa il bene dal male? Le creature di Border vengono sorprese mentre si muovono lì, a confine, e decidono da che parte della barricata schierarsi; se restare umani o diventare mostri, tutto per amore. (8)

Bionda, alta, bellissima, è un incrocio fra Lily James ed Elle Fanning. Un corpo statuario e, sotto le fasciature, un segreto a cui porre rimedio. Nata in un corpo maschile, Lara fa i conti con una doppia difficolà: farsi strada in una scuola di danza di cui forse non è all'altezza; diventare donna. Talentuosa ma non abbastanza tecnica, graziosa ma non abbastanza femmina, come se la caverà fra ballerini d'alto livello e nell'universo delle donne? Non paga del sostegno di un papà dolcissimo, la protagonista vive una prigionia la cui fine non è mai vicina a sufficienza. Allora ha fretta: vorrebbe saltare le attese, le visite, e anche l'adolescenza. S'impunta, sulle punte, ma i traguardi si allontanano anziché avvicinarsi. Senza grandi gesti di bullismo né parole di intolleranza, scabroso ma mai gratuito, Girl è il romanzo di formazione di una ragazza a metà con una nuova casa, una nuova scuola, una nuova sé. Il regista – classe 1991 – sfoggia un tocco così delicato da rendere universali i sentimenti della ballerina. La visione, meno pesante del previsto, altro non è che un tuffo nei turbamenti dell'adolescenza visti da una prospettiva, all'inizio, diversa soltanto in teoria. C'è sofferenza nella routine di lei, ma anche tanta bellezza, gioia, sollievo. Sarà per questo che il finale, seppure speranzoso, giunge tanto doloroso da spingere a coprirsi gli occhi in poltrona? Perché l'adolescenza è un sentimento universale, la protagonista è tale e quale a come siamo stati noi alla sua età, ma alcune sofferenze restano inimmaginabili. Grazie alla grandezza di un certo cinema, per fortuna, non inviolabili. (7,5)

Un'altra ragazza che cambia corpo e città. Un'altra vicenda di maturazione fisica e psicologica sullo sfondo di una rivoluzione epocale: quella di un corpo che cambia con l'arrivo del ciclo mestruale. Mia, sedici anni, si sente strana. Colpa delle sigarette, delle droghe, dei furti e del sesso selvaggio, che la lasciano a smaltire incubi e doposbornia. Colpa di un'indole che si risveglia, e la spinge a commettere atti di crudeltà verso persone e animali, pesci rossi soprattutto; a nutrire una destabilizzante voracità sessuale. Blue my mind, notato per il titolo bellissimo e per il ritardo nella distribuzione – in Svizzera, infatti, è uscito ben due anni fa –, sceglie un nuovo elemento – l'acqua – per raccontare il passaggio dall'adolescenza all'età adulta. I riti di iniziazione: la classica cricca di cattive ragazze presso cui farsi ammettere; un'amicizia a tinte saffiche che porta a fondo con sé risposte e misteri, ma nel mentre intriga grazie a una mitologia dosata con cura e al realismo degli effetti visivi. Ritratto giovanilistico nello stile di Sofia Coppola, con una splendida protagonista che ricorda la Johansson degli esordi, sconfina infine nel body horror: peccato che dopo l'ennesimo festino rumoroso, dopo l'ennesimo squallido amplesso di gruppo degno della pagina più pruriginosa di Melissa P., la visione venga a nausea per i motivi sbagliati. Presentissime l'inquietudine e la confusione, intelligente la metafora acquatica. Ma foto promozionali e recensioni, purtroppo, rovinano in anticipo l'effetto sorpresa preannunciando la deriva finale – e frenandone, quindi, l'onda d'urto. (6,5)

Avvertenze prima della visione: il film che segue, in ordine sparso, riporta parole di omofobia, transfobia e sessismo; mostra consumo di alcol, stupefacenti e materiale pornografico; sfocia nell'epilogo in un esilarante bagno di sangue. Nella Salem dei giorni nostri si consuma una novella caccia alle streghe dalle immancabili tinte politiche, al tempo dei nudi hackerati e della presidenza Trump. Prima il sindaco, poi il preside finiscono nella rete dello scandalo. Ma ben presto il pirata informatico colpisce l'intera cittadina – online: foto, video, segreti sbandierati –, e capro espiatorio diventa una studentezza con la fama di sfasciafamiglie. Può l'intera popolazione scagliarsi contro una diciottenne e la sua cricca di amcihe? Commedia adolescenziale a metà fra Schegge di follia e La notte del giudizio, l'irresistibile Assassination Nation è l'ultima succulenta frontiera dell'home invasion dove l'unione fa la forza. Ritratto dei Millennials tanto impietoso quanto stiloso, va recuperato da coloro che in queste settimane stanno ammirando sul piccolo schermo la regia straordinaria di Euphoria: Levinson, figlio d'arte, era un fuoriclasse già ai tempi del suo esordio cinematografico. Se i temi sono simili a quelli poi approfonditi con la serie HBO, chi non vorrebbe vederlo alle prese con i giochi di luci e ombre del miglior Carpenter o le spose assassine di Tarantino? Da recuperare, insomma: per rifarsi gli occhi e le coscienze. (7)

venerdì 26 luglio 2019

I ♥ Telefilm: Big Little Lies S02 | La casa di carta S03

Il libro è sempre meglio del film. Al giorno d'oggi il luogo comune vale anche per le serie TV? Aiutato dai tempi più estesi, il piccolo schermo può trasporre un romanzo meglio del cinema. Cosa succede, però, quando non ci si vuol fermare al primo ciclo di episodi? Quando la televisione scavalca gli autori, va oltre a tentoni, e quei romanzi autoconclusivi li supera per trarne a ogni costo una seconda stagione? Lo abbiamo scoperto in anticipo con The Handmaid's Tale: il soggiorno a Gilead era faticoso lo scorso anno, quindi figuriamoci adesso – il terzo di fila. A giugno, invece, lo abbiamo visto accadere con la commedia a tinte thriller sulle disavventure delle cinque di Monterey: spesso in conflitto fra loro, si scoprivano amiche inseparabili davanti a un segreto di troppo. L'omicidio di uno stupratore. Se il romanzo terminava lì, all'insegna della solidarietà femminile, la serie al contrario doveva andare oltre: troppa la voglia di riunire quel cast d'eccezione, troppo grande il capriccio di bissare i fasti passati alla stagione dei premi. Ma chi troppo vuole, diciamolo, nulla stringe. E nei sette episodi del ritorno di Big Little Lies si fa fatica a trovare un senso. Lo si capisce dalla durata delle puntate, più brevi che mai. Lo si legge nero su bianco in rete, fra i disastri commessi in post-produzione e le resistenze da parte della new entry verso Andrea Arnold: di solito bravissima, la regista fa rimpiangere l'incredibile lavoro di Vallée a causa di un montaggio brusco e di una colonna sonora, questa volta, scelta senza amore. Il problema maggiore resta però la trama assente. Lo spunto: i sospetti verso le protagoniste. Ma agli sceneggiatori interessano la crisi matrimoniale della Whiterspoon fedifraga, i debiti di una Dern sull'orlo di una crisi di nervi, la timida relazione della Woodley, il passato di una sorprendente Kravitz con ridicola mamma medium al seguito, lo scontro titanico fra la Kidman e la Streep. Celeste, da poco vedova, rischia infatti di essere trascinata in tribunale dalla suocera sospettosa. Al pari del figlio scomparso – il fascinoso Skarsgard, che portava sesso e contraddizioni nella prima stagione –, il nuovo personaggio è così subdolo e malpensante, un misto di falsa gentilezza e tic nervosi, che potrebbe regalare a Meryl nuovi trionfi: il suo urlo a cena, non a caso, è già cult. Poco interessata a rivangare i traumi di Perry, così come a seguire le indagini della polizia, la serie risulta di conseguenza poco interessante. Un inutile strascico che, escluso l'affiatamento delle attrici, quest'anno forse non aveva ragione d'essere. La sola consolazione: dati i costi esorbitanti e gli impegni del cast, probabilmente ci si fermerà qui. Di grande, parafrasando il titolo, per un po' resterà soltanto la mia delusione. (6)

A proposito di ritorni forzati. A proposito di incipit improbabili. A proposito di serie TV che non si accontentano di fermarsi quando sarebbe meglio, ma macinano instancabilmente consensi e denaro. La settimana scorsa, su Netflix, ha fatto nuovamente capolino la maschera di Dalì. Dopo un recupero recentissimo, risalente appena allo scorso aprile, a separarmi dalla banda di rapinatori ci sono stati pochi mesi: l'attesa, dunque, non l'ho doppiamente sentita. Sia perché il ritorno era alle porte, sia perché – anche a costo di ripetermi – dico che sarebbe stato più saggio fermarsi alla fuga rocambolesca della seconda stagione. Ma i criminali, com'è ormai noto, fanno sempre di testa loro. Mentre si godono la refurtiva in luoghi esotici, vengono riuniti d'urgenza: Rio è stato catturato. La colpa, ovviamente, è dell'odiatissima Tokyo: gatta morta volubile e scostante, che pianta in asso l'innamorato e per tre giorni va altrove a folleggiare. Il pensiero di Rio torchiato, torturato, mobilita il Professore a organizzare un nuovo colpo: l'ideatore originale era il compianto Berlino, che pur di non abbandonare la produzione s'intravede spesso in qualche nostalgico flashback italiano. Si punta allo scambio degli ostaggi. Si punta non ai soldi, ma all'oro. Qualcosa, come si diceva all'inizio, non torna: La casa di carta fa storcere il naso per la poca necessità del tutto, per il fanservice spudoratissimo, eppure funziona anche con tanto di intoppi. Non mancano le novità: l'ingresso in squadra di Palermo, cattivo che non fa rimpiangere Berlino; la sbirra Alicia, irresistibile cane da caccia con un pancione di nove mesi; il rapporto tenerissimo fra Helsinki e Nairobi, i miei personaggi preferiti, sospeso fra amicizia e amore impossibile. Nessuna menzione, invece, meriterebbe il Professore: fuori forma, patisce l'intromissione a gamba tesa di Raquel. Non mancano, ancora, le spettacolarità di sorta: un caveau sommerso, da perlustrare con la muta da sub; i dirigibili che gettano denaro contante per distrarre la folla; le lezioni di mimetizzazione quando si è messi alle strette. Aggiungete a fantasia ritmo, colonna sonora, montaggio. Partito sotto i peggiori auspici, l'heist movie spagnolo mi ha smentito strada facendo con la furbizia intelligente di chi – vedasi il finale shock – sa rendere indispensabile il binge di un'ennesima stagione. Quando si entra nel vivo dell'azione, e del trash, La casa di carta si conferma l'intrattenimento perfetto. (7)

mercoledì 24 luglio 2019

Recensione: Il party, di Elizabeth Day

| Il party, di Elizabeth Day. Neri Pozza, € 18, pp. 350 |

Ci sono quei personaggi talmente disturbati da risultare subito irresistibili. Prendete Martin Gilmour, ad esempio: critico d'arte sulla quarantina, autore di unico insuperato best-seller, che ci apre le porte della sua anima nerissima mentre il migliore amico, Ben, apre quelle della sua casa. Piacente e ben vestito, potrebbe quasi confondersi nella fauna pullulante della Londra bene. Ma è né più né meno che un mistificatore, un intruso. Cosa ci fa lì, in un ex monastero convertito per capriccio in villa di campagna, fra imprenditori, starlette, vecchi bulli prestati alla politica e camerieri dai pantaloni troppo attillati sul didietro? Lui, impopolare ai tempi del collegio, è diventato quello che è – un abile parvenu – grazie ai favori del padrone di casa. Inseparabili da sempre, nella buona e nella cattiva sorte, gli ex compagni di scuola si sono spalleggiati e protetti reciprocamente. Se Ben teneva lontani i bulli a colpi di connaturato carisma, però, qual era il ruolo di Martin? A dodici anni il protagonista ha ucciso a sassate un passerotto, la mascotte della classe, confessando subito il crimine agli insegnanti. L'anno successivo, con un peluche acquattato sul fondo della valigia, altrove, è diventato la piccola ombra del rampollo della famiglia Fitzmaurice. Conquistarne l'amicizia è stato un letterale campo di battaglia, e Martin ha seguito le istruzioni dell'Arte della guerra per farsi notare. Dopo l'assassino dell'animale, aggiungiamo pure alla lista delle sue pazzie il furto – gli album preferiti di Ben pur di condividerne i gusti musicali, i suoi carteggi con i parenti –, la tossicodipendenza – lo tradiscono i muscoli facciali, sui quali non ha alcun controllo –, l'emulazione pedissequa – somigliare al coetaneo anche nello stile, allora, ordinando negli Stati Uniti lo stesso paio di scarpe da corsa rosa shocking. Di cos'altro potrebbe macchiarsi in una serata d'alcol a fiumi e nodi al pettine, dove ogni colpo di testa è concesso?

Alla fine siamo solo i due ventricoli dello stesso cuore avvelenato.

Prendete le affinità elettive di Dio di illusioni o del sottovalutato Non è colpa della luna. Aggiungete l'umorismo caustico e il glamour della serie Big Little Lies, ma con la variante dell'accento british. Forse inutile specificarlo, o forse no: nei gesti del protagonista c'entrano sia l'arrivismo, sia una pulsione sessuale inespressa verso il festeggiato. All'inizio del romanzo, thriller satirico dalle atmosfere patinate, sappiamo che i personaggi sono sotto indagine: alcuni torchiati dagli agenti di polizia, altri sull'orlo di una crisi nervosa. Si parla di un semplice incidente domestico. Quanto sporco, in realtà, hanno nascosto sotto il tappeto persiano del salotto? Acuto osservatore e narratore affascinante, a sorpresa il protagonista si lascia rubare la scena dalla moglie Lucy: rotonda e sarcastica, vittima in passato di amori totalizzanti e violenti, si rimpinza simpaticamente senza ritegno alcuno e tracanna aperitivi, al buffet, incurante degli ingredienti a chilometro zero o dei carboidrati in eccesso. Anni prima l'hanno sedotta l'indipendenza e il rigore di Martin. Adesso, tuttavia, il partner appare talmente distaccato da risultare uno sconosciuto. Moglie e marito si concedono brindisi e bollicine, si mimetizzano con la tappezzeria. Meglio non sottovalutarli: sanno più di quanto non dicano. Loro, così come il lettore purtroppo. Assolutamente ben scritto, acuto e scorrevole, il primo romanzo di Elizabeth Day giunto in Italia vive di ambienti sopraffini e compagnie stimolanti, ma altresì di alibi banali e moventi intuibili. La sensazione predominante, arrivati all'ultima pagina, è che il meglio stia proprio per cominciare.

Quando si è sposati con qualcuno di cui non ci si fida, si deve prestare attenzione a un sacco di cose. Quando ti rendi finalmente conto che, nonostante i tuoi tentativi di vedere il meglio in ogni cosa faccia tuo marito, lui non è una persona particolarmente a posto, devi stare in guardia. Devi mettere da parte ogni minima informazione, guadagnare potere a poco a poco. E non devi lasciar capire che sai.

I Fitzmaurice danno un prezzo a tutto. Anche all'amicizia, anche al silenzio. Non basteranno i capogiri dei mojito a distrarre Martin dal pensiero che, in cima a un piedistallo, più si stis in alto più ci si faccia male nella caduta. Dichiaratamente inscindibili, i protagonisti cadranno davvero insieme? A rendere interessante la classica amicizia a senso unico, in bilico fra venerazione e amore, contribuiscono senz'altro l'umorismo britannico sparso a piene mani e la solida struttura polifonica. Eppure a Il Party – titolo doppio, che allude sia alla festa per farli riunire, sia al partito politico di Ben – mancano i guizzi, le sorprese. Al menu, tutt'altro che insolito, sono state applicate rare variazioni sul tema. Gli ospiti coinvolti sono tutti ugualmente scintillanti, tutti ugualmente avidi. E non mi sono parse sufficienti la raffinatezza della confezione, il rigore della farsa, l'indiscreto appeal dei ritardatari accorsi all'ultimo, per fugare la sensazione di conoscere già le loro facce, la loro tappezzeria. Di esserci già stato, in passato, a una festa da cui sono tornato con un po' di emicrania e lo stomaco semivuoto.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: LP – Other People

lunedì 22 luglio 2019

Recensione: Canta, spirito, canta, di Jesmyn Ward

| Canta, spirito, canta, di Jesmyn Ward. NN Editore, € 18, pp. 270 |

Bentornati, se siete di ritorno nell'affascinante Bois Sauvage. Benvenuti, se invece è la prima volta. Sembrano accoglierci queste precise parole – formule di saluto, sintomo di accoglienza sincera – all'inizio del secondo romanzo della bravissima Jesmyn Ward. L'autrice afroamericana, che la scorsa estate mi aveva strappato il cuore dal petto con Salvare le ossa, ci porta per mano nei luoghi del nostro colpo di fulmine. Gli stessi che, nelle ultime pagine del capitolo precedente, erano stati spazzati via dalla forza distruttrice di Katrina: un uragano con un programmatico nome di donna. Questa volta, salutati Esch e i suoi fratelli, conosciamo i membri della famiglia Stone. Possibile non rimpiange i personaggi al centro della passata vicenda? Per quanto ne abbia sentito la mancanza, preferendo in definitiva l'altro romanzo a questo, è stato impossibile non affezionarsi anche alla voce di Jojo: tredici anni, le gambe chilometriche e le ginocchia grassocce, divide la casa con i nonni paterni e accudisce la piccola Kayla, che del fratello maggiore ha fatto il suo universo. Giù alle prese con gli sconvolgimenti della pubertà, nel giorno del suo compleanno fa i conti con due drammi: suo padre, Michael, sta per essere scarcerato; i primi spiriti errabondi stanno cercando nel frattempo di attirare la sua attenzione. Di razza meticcia, con nascenti doti da medium ereditate dal ramo materno, il protagonista parla con i morti e gli animali e, nel tempo libero, pende dalle labbra di nonno Pop, tanto accorto nel prendersi cura della moglie malata quanto disordinato qualora ci sia una da raccontare una storia dall'inizio alla fine.

Un uomo ha dentro delle cose che lo muovono. Come le correnti d'acqua. Cosa che non puoi farci niente. Più passano gli anni, più mi rendo conto che è così. Quello che ha dentro Stag è come acqua, così nera e profonda che non riesci a vedere la fine.

Com'è stata la sua reclusione a Parchman, campo di lavoro in cui fu rinchiuso per colpa dello strapotere dei bianchi? Qual è la verità su Richie, prigioniero della stessa età di Jojo, che piange incessantemente la sua giovinezza interrotta e, sotto forma di apparizione, tormenta il nipote per sbrogliare un'ultima questione irrisolta? Questa è la storia di un'iniziazione triviale e poetica. Ma è, soprattutto, la storia di un lungo viaggio in macchina. Direzione: il famigerato penitenziario. Si va a recuperare Michael. Guida Leonie, la mamma tossicodipendente del protagonista, e dietro siedono Jojo e Kayla. Più che stretti, i due sono avvinghiati. La donna li guarda con un misto di fastidio e invidia, sentendosi inadeguata: il primogenito vorrebbe rubarle il posto, essere un genitore migliore di lei. 
A punti di vista alterni, così, si danno il cambio mamma e figlio: il primo, di una tenerezza disarmante, con sin troppo da fronteggiare; l'altra, facilmente influenzabile, che preferisce il fidanzato alla prole e inconsciamente ha fatto propri i poteri di una famiglia di donne magiche. Trasporta cristalli di meth in un vano dell'automobile, non bada al vomito della figlia in preda all'influenza, eppure quando è fatta vede il fratello – Given, ammazzato in un presunto incidente di caccia – e distingue le piante medicamentose da quelle letali. La mela è caduta lontana dall'albero? Jesmyn Ward smuove mari e monti, apre in due la terra con la violenza dei sismi, e fa rotolare il frutto della discordia alla portata dei suoi personaggi. Irresponsabili e disperati, recuperano un nuovo passeggero e puntano a casa: si scontreranno con il braccio violento della legge – struggente il rapporto simbiotico fra Jojo e Kayla nella scena del posto di blocco – e matureranno riflessioni sulle loro origini rinnegate, nonché sui segreti taciuti a fin di bene – lo scioccante destino di Richie sembra proprio sbucato dalle migliori pagine di Uomini e topi.

Diceva che c'è uno spirito in tutte le cose. Negli alberi, nella luna, nel sole, negli animali. Diceva che il più importante è il sole, Aba, come lo chiamava lui. Ma per avere un equilibrio ci vuole tutto lo spirito che c'è in ogni cosa. Solo così le piante crescono, gli animali nascono e ingrassano per darci nutrimento. Ecco come me lo spiegava: se c'è troppo sole e niente pioggia, le piante seccano. Se c'è troppa pioggia, marciscono. Lo spirito deve trovarsi in equilibrio. Il corpo, mi diceva, è uguale.

Il tragitto è un po' un calvario, un po' un incanto. Scabroso, essenziale, pieno zeppo di magia, Canta, spirito, canta è l'avventura di un gruppo di sconosciuti con in comune il medesimo DNA e una sorprendente propensione allo straordinario. Le generazioni passate hanno subito deportazioni e schiavitù, l'onta dei crimini d'odio: l'odore di un bambino sarà abbastanza dolce da cancellare il puzzo di sangue? Sorretto dall'andamento classico e delicato del realismo magico, bello ma meno perturbante del precedete, il viaggio tocca facilmente il cuore parlando di bambini cresciuti in fretta, sorelline bisognose, razzismo e altre ingiustizie. Lo spunto abusato della trasferta on the road e l'impressione che ci fosse troppa carne al fuoco, tuttavia, mi hanno fatto trovare leggere stonature in questo intenso coro gospel. La litania funebre di Jesmyn Ward, stavolta, è un'armonia piena ma imperfetta. Una canzone già sentita, ma ugualmente capace di toccare le corde giuste. Il nostro spirito le risponderà in un doloroso controcanto.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Alice Merton – No Roots

venerdì 19 luglio 2019

I ♥ Telefilm: Chernobyl | When They See Us

Nella primavera del 1986 un reattore nucleare esplode in Ucraina. È notte: disastri e misfatti, fateci caso, succedono sempre con il favore del buio. Quando possono cogliere più alla sprovvista. Le conseguenze, si prevede, dureranno per millenni. L'esplosione infetta la flora e la fauna; il pulviscolo infernale si propaga attraverso l'aria. Scorie radioattive, come fossero coriandoli, si depositano sugli spettatori inconsapevoli: inquietati dallo spettacolo, si sono radunati in strada tutt'altro che pronti alle conseguenze. Si può vivere accanto a una bomba a orologeria all'oscuro dei contro? Il disastro si poteva evitare giocando d'anticipo? Harris, Skarsgard ed Emily Watson sono i membri di un'impegnata task force di addetti ai lavori: scavano fra le lastre di grafite, nel marcio, e ricercano un colpevole da assicurare alla giustizia. Abbondano allora i tecnicismi, i discorsi fitti e settoriali, e il rischio di smarrirsi nel tentativo di decifrarli è alto, in particolare negli episodi centrali. Chiamano a rapporto minatori, esperti, ulteriori vittime sacrificali. Gettano colate di sabbia sul nocciolo e sventano il pericolo maggiore: inquinare la falda acquifera. Ma c'è tanta complessità e, soprattutto, troppa freddezza. Alle loro, quindi, si preferiscono senz'altro le storie delle persone comuni: la gravidanza a rischio di una giovane vedova o il duro apprendistato di un novellino, nell'episodio più potente, chiamato a freddare gli animali domestici infetti. Il KGB vorrebbe mettere a tacere i testimoni. Ma l'ossessione per la verità e il peso delle bugie, per fortuna, porteranno pochi coraggiosi a parlare. Più interessante che appassionante, più importante che bella, la serie di Craig Mazin – autore, in passato, delle peggiori commedie demenziali – è l'ultimo tassello di quei (tele)film d'inchiesta nello stile di Il caso Spotlight, The Post o Sulla mia pelle. Produzioni dall'indiscutibile lavoro documentario, che al pari del migliore approfondimento giornalistico mostrano ricostruzioni fedelissime e rivangano pagine di storia recente, risultando rigorose dal punto di vista tecnico e meno sul piano narrativo. Lente e angosciose, con esterni che ricordano il grigiore spaventoso dell'ultimo Suspiria, le cinque puntate si seguono con le orecchie ben aperte e il cuore altrove. La forse sopravvaluta Chernobyl, miniserie già da record, comunque ci illumina: nato a otto anni dalla tragedia pensavo di essere nelle fila di chi ne sa poco. Amaramente, mi sono accorto, ne sapevamo poco tutti quanti. Di quell'Unione Sovietica che non sbaglia mai o, se succede, è così brava a nascondere i danni sotto il tappeto. Di quell'Unione Sovietica che non vuole ammettere resa, dichiarare l'oscurità dei propri costumi, e pertanto tiene dipendenti e civili nel dubbio. Ignoranti e impreparati, vittime non soltanto delle radiazioni ma anche della legge del silenzio; di una forma ingiustificabile di disinformazione programmata. Che il piccolo schermo, tornato a essere finalmente un mezzo d'informazione, possa istruirci. (7)

Cinque ragazzi, bambini o poco più. Nella maggioranza dei casi, non si conoscono. Si trovano la sera sbagliata nel posto sbagliato, Central Park. Ridono, scherzano, folleggiano. Hanno seguito in corteo una folla di coetanei che prometteva divertimento. Quando gli altri si disperdono, a causa di una retata, restano loro. A sventolare bandiera bianca. A prendersi le colpe di un crimine mai commesso. Poco più là, infatti, una jogger è stata stuprata. Perché mettersi a cercare il colpevole, però, se tutto sembra così semplice; se ci sono cinque monelli dalla pelle scura contro cui puntare l'indice? Ha inizio un'odissea processuale che dura quindici anni. Prima le deposizioni raccolte svogliatamente da una polizia che fa orecchie da mercante, poi il processo con un verdetto shock, infine il reinserimento in società mentre il mondo esterno è andato avanti e loro, in fermo, al contrario sono stati lasciati indietro da famiglie, amori, affari. La lettera scarlatta fiammeggerà sui loro petti fino ai giorni nostri. Quando proprio Donald Trump, lo stesso pagliaccio che proponeva per loro la pena di morte, è diventato presidente degli Stati Uniti. Quando Netflix, in vena d'impegno, promette di fare chiarezza. Molto più che un dramma d'inchiesta, When They See Us è una ferita aperta. La ricostruzione necessaria di un'onta irreversibile, che fa riflettere – in lacrime e scossi dai travasi di bile – sul disinteresse della giustizia di fronte alla verità. Accorato e coinvolgente, al punto che gli si perdona anche la vaga retorica del finale, trasuda intensità in ogni puntata. Cresce l'indignazione, così come la compassione verso cinque ragazzini interrotti, che nel migliore dei casi finiscono in riformatorio e nel peggiore in carcere – commuovo, in particolare, le tribolazioni del povero Korey, che al parco non ci doveva essere, che sedici anni li ha soltanto su carta. Come sopravvivere all'isolamento se non rifugiandosi nei sogni a occhi aperti? Come ripulirsi la reputazione se non aspettando che il vero colpevole si faccia avanti? Tutte le star – da Vera Farmiga a Felicity Hoffman, da Joshua Jackson a Logan Marshall-Green – scelgono così di sacrificarsi, in sordina. I giovani del cast, diventati un tutt'uno con i personaggi, invece sembrano a lungo persone reali anziché attori, al punto che non si è tentati di memorizzarne i nomi o di andare a sbirciarne la filmografia in rete. Se un giudice li condanna, per quel che vale, lo spettatore li assolve. Anche se in ritardo, tifa per loro e sbraita. Con la consapevolezza che non sia inutile; che ci siano altre battaglie da vincere. Fino a quando gli americani, qui alle prese con i lati oscuri del famoso sogno, non guarderanno la proverbiale trave nel loro occhio – e gli sbagli commessi. (8)

mercoledì 17 luglio 2019

Recensione: Le siamesi, di Alessandro Berselli

Le siamesi, di Alessandro Berselli. Elliot, € 14,50, pp. 126 |

Che cosa misteriosa sono i gusti personali. Che cosa misteriosa, ancora, sono i gusti che cambiano all'improvviso. Quelle storie che anni fa avresti amato – quando, ragazzino, ti nutrivi di scritture al vetriolo e incubi nichilisti – ma che oggi sopporti a malapena. 
Si cambia come persone, dentro e fuori. Si cambia come lettori. Promessa doverosa per spiegare il mio disamore verso il romanzo di Alessandro Berselli: finito in fretta nello scatolone dei Remainders ma rispolverato da molti grazie ai consigli della fidatissima Silvia. Rivelare la seguente verità, amarissima, dispiacerà a me e forse anche un po' a lei. 
Benché si sia fatto divorare, Le siamesi mi è parso una lettura difficoltosa dall'inizio alla fine. Questione di stili che a pelle non piacciono. Di un'antipatia epidermica verso i personaggi e il loro mondo, che ha reso la lettura provante per i motivi sbagliati. Cercavo proprio un romanzo breve e destabilizzante. Un riempitivo con qualcosa in più: un graffio feroce. Ho trovato effettivamente una piccola storia crudele, di amicizie al femminile e vendette trasversali, ma dalla quale sono uscito, in definitiva, senza mai entrare.

La morte non è sempre la cosa peggiore che ci può capitare.

Siamo nella Milano della peggio gioventù. Universitari ricchi e annoiati, affetti da un immotivato mal di vivere, combattono la noia esistenziale con conversazioni radical chic – arte, architettura, massimi sistemi – e s'incontrano ora durante i vernissage delle matrigne approfittartici, ora in discoteca. Parlano un inglese misto a italiano, ossia il frutto inevitabile della globalizzazione, e sfuggono alla routine ficcanasando nell'occulto; sfidando ad armi impari la morte. A capo di questa dissoluta corte dei miracoli c'è lei, Ludovica: vent'anni, la risposta sarcastica sempre sulla punta della lingua, figlia maggiore di un avvocato distratto e di una mamma morta suicida. È alta un metro e settanta, pesa quaranta chili scarsi, ingolla soltanto alcol per una dieta che rifugge i carboidrati. L'incontro con Emanuele e Laura – il primo regista di snuff movie, l'altra migliore amica allontanatasi dopo una bravata di troppo – le spalanca le porte di una casa stregata appartenuta a un architetto col pallino dell'occulto, all'insegna di un sabato sera da ricordare. Maestra dei giochi pericolosi, la ragazza è chiamata ad alzare l'asticella. Anche i ricchi piangono, e muoiono. Accetterà la sfida?

Non mi piace questa gente. Confondono l'edonismo con le gerarchie, come se tra Epicuro e Hitler non ci fosse nessuna differenza.
Vivere senza obiettivi. Non problematizzare le questioni. Prendere le cose che si hanno voglia di prendere quando ti capitano. Essere indulgenti con se stessi. Anteporre il piacere al dovere. Non legarsi a nessuno. Interpretare ogni giorno come se fosse l'ultimo. Essere parassiti nei confronti della vita.
Questa va bene, è la filosofia di vita che mi appartiene.

Da cacciatrice a preda, nel torbido thriller di Berselli, il passo è breve. Tutto punti fermi e periodi ellittici, tutto grandi marchi in sfilza e dettagli di gelido interior design, lo stile potrà ricordare a qualcuno gli esordi di Chuck Palahniuk, Bret Eston Ellis o della nostra Isabella Santacroce; il residuo di una letteratura cannibale tipicamente anni Novanta, insomma, che da sinonimo di dinamicità futurista si è trasformato, oggi, nel suo opposto. Risultando, purtroppo, compassato. Sarà che il compito di una scrittura camaleontica è quello di rispecchiare alla lettera il modus operandi dei suoi protagonisti? Per raccontarceli, così, Berselli si sacrifica per forza di cose alla loro logica alienata; al loro gusto kitsch. Non poteva fare altrimenti, ma non mi è piaciuto. Ho realizzato infatti che gli rimprovero difetti soggettivi e che, semplicemente, almeno a questo giro, la sua penna non fa per me. 
Al centro di un macabro ed esilarante quiz a premi degli orrori, Ludovica diventa il cuore nero di una storia di rivalsa più o meno godibile, basata su prove di dantesca memoria e una chiusa alla Saw – L'enigmista. Parlerà fino all'ultimo come un libro stampato, rintracciando pretenziose implicazioni filosofiche nei meccanismi della sua roulette russa; si darà a notazioni da arredatrice d'interni, con tanto di brand snocciolati a campanello, anche nella cattiva sorte. La conoscenza delle Siamesi potrebbe ispirare di pari passo nel lettore una sintesi di magnetismo e repulsione. Il sottoscritto, per una volta, va controcorrente. Il romanzo ha lo stesso spessore di un aperitivo sui Navigli: un mordi e fuggi istantaneo, che ricorda la sorte delle olive nei drink di Ludovica. Quelle che la ragazza mordicchia e lascia da parte, senza mangiarle, interessata com'è solo all'ebbrezza della sbronza.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Poker Face 

lunedì 15 luglio 2019

Recensione: Storia di chi fugge e di chi resta, di Elena Ferrante

| Storia di chi fugge e di chi resta, di Elena Ferrante. E/O, p. 384, € 19,50 |

Dopo la promessa di rivederci presto, mi sono rimangiato le mie stesse parole: all'appuntamento con Lila e Lenù ho tardato. Mi sono presentato con sei mesi di ritardo, io che lo scorso gennaio mi dicevo eppure pronto, prontissimo, a proseguire nell'immediato. In passato avevo già fatto lo sbaglio di lasciare gli intrighi del rione per un lasso di tempo troppo lungo. Questa volta si sono intromessi a gamba tesa il tempo che scarseggiava sempre più, gli impegni per la stesura della tesi e qualche parere contro – in definitiva, tutt'altro che immotivato – che descriveva il terzo capitolo come l'ostico della serie. Avrei faticato, mi assicuravano tutti, a tollerare gli ennesimi sgarbi fra le due amiche; accanto all'asprezza della rapporto, inoltre, mi toccava mettere in conto anche le difficoltà del contesto storico – non più il dopoguerra, bensì gli anni della contestazione giovanile e del femminismo battagliero, della tentata rivoluzione proletaria. Ho fatto bene a frenare l'impazienza. Ad aspettare la rilassatezza di questi giorni d'estate rinfrescati dai temporali. Sarà perché debitamente avvisato, a sorpresa non ho fatto fatica. Anzi, quando ci sono entrato la cosa più complicata è stato uscirne incolume: tanto grandi sono l'immedesimazione e il trasporto, questa volta, che ho apostrofato le protagoniste con le peggiori parole – soprattutto Lenù, maestra di scelte incondivisibili – e per riprendermi dalla mia arrabbiatura, dai loro passi falsi, mi ci è voluto un po'. Capisco, adesso, la fatica della narratrice a mantenere l'aplomb necessario, le pose innaturali di signora perbene, ritornando in una città che ti tira fuori l'accento meridionale e la voglia di mandare affanculo gli automobilisti incerti. Il rione, il luogo delle radici, ti diseduca all'istante. Tornando a casa per un'occasione o per un'altra, si ha paura di rimanere incastrati per sempre lì. Un quartiere che è lo specchio di Napoli, o forse del mondo. Che la secondogenita dei Cerullo, non uscendo dal seminato, sia stata davvero lungimirante?

Abbiamo troppa roba dentro e questo ci gonfia, ci rompe. […] Puoi copiarmi, farmi il ritratto preciso come fanno gli artisti, ma la mia merda resterà sempre la mia, e la tua la tua. Ah, Lenù, che ci succede a tutti quanti, siamo come i tubi quando l'acqua gela, che brutta cosa è la testa scontenta. Ti ricordi quello che facemmo con la mia foto di sposa? Voglio continuare per quella strada. Viene il giorno che mi riduco tutta a diagrammi, divento un nastro bucherellato e non mi ritrovi più.

Lila, madre del piccolo Rino e coinquilina senza vincoli del dolcissimo Enzo, lavora nella ditta Soccavo. Abusata e malpagata, schiva le mani viscide del proprietario e si trova coinvolta in una lotta furibonda fra il sindacato e il datore di lavoro. La tensione è la stessa che respirava da bambina, quando il tirannico don Achille dettava legge: l'incubo, nel fermento degli anni Sessanta, è rappresentato dagli scontri sanguinosi fra fascisti e comunisti; dall'ossessione di Michele Solara, innamorato non corrisposto, che potrebbe riscattare la giovane donna introducendo le tecnologie nel calzaturificio – operaia di giorno, infatti, di notte Lila si trasforma in un'autodidatta interessata al funzionamento dei calcolatori. Per una buona causa, è giusto scendere a compromessi? L'amica, trasferitasi a Firenze, la immagina intanto come una fuorilegge da film western. 
Lenù, comprimaria assorta al ruolo di protagonista suo malgrado, prende posto ai margini: mentre gli altri si schierano in prima linea, lei ha i suoi quotidiani da spulciare; i suoi quaderni d'appunti. Reduce dal tour promozionale di un esordio inaspettatamente controverso – come se non bastassero, poi, le nozze con l'integerrimo professor Pietro: scandalose giacché celebrate con il rito civile –, collabora con L'unità e cade vittima della sindrome post parto. Invidiosa, guarda Lila dall'alto al basso. Tutt'intorno va infatti affermandosi un modello femminile che, tanto inconsciamente quanto brillantemente, la spregiudicata migliore amica incarna da anni. Che Lenù possa avere la sua rivalsa, per quanto impigrita dalla maternità e dal blocco dello scrittore, con la comparsa dell'indimenticato Nino?

Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima volta solo in quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo era certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un'ambizione determinata. Ero voluta diventare qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei.

Si parla di piacere sessuale e pari opportunità. Di matrimoni di cui ci si stanca in fretta. Di personaggi meno numerosi che in passato, che qui si muovono però anche su altri sfondi – tutto il mondo, in fondo, è paese. Sono gli anni del terrorismo d'estrema sinistra e della confusione, delle droghe da sperimentare, delle rimostranze in pubblico e in privato. I telefoni fissi non tacciono un attimo, e la bolletta della luce sarà salatissima. Sono le interurbane delle amiche per curiosare nella reciproche vite, gli squilli di un flirt.
Elena Ferrante, spietatissima, le mette in vivavoce. A Lila e Lenù fa le pulci. Ce le rende due serpi antipatiche e opportuniste: sgradevoli ma perfino più che umane, sovrumane. Io, che da grande amerei fare questo mestiere, sarei in grado di raccontare il peggio dei personaggi principali – di una saga, per di più – senza aver paura di allontanare il lettore, che a torto giudica il libro in base alla simpatia del protagonista? Saprei volere male, non soltanto bene, alle mie creature; ai figli miei?

Volevo che si acquietasse ma lei non ci riusciva, mi rovesciava addosso frasi in disordine: non farmi leggere più niente, non sono adatta, mi aspetto da te il massimo, sono troppo sicura che sai fare di meglio, voglio che tu faccia meglio, è la cosa che desidero di più, perché chi sono io se tu non sei brava, chi sono?

Ho terminato Storia di chi fugge e di chi resta affascinato, turbato, ammiratissimo. Per le vie poco concilianti che imbocca, pur apparendo sempre coinvolgente. E per quei lati oscuri che mi metterebbe in soggezione scandagliare. Oggettivamente meno accattivante degli altri, è un plumbeo ingresso nell'età della ragione: mancano le magiche suggestioni di un'infanzia da monelle, o la spensieratezza dell'estate dei diciotto anni in quel di Ischia. Il terzo romanzo, un giro di boa, sa destabilizzare: manca il carisma di Lila, c'è troppa Lenù per i miei gusti, e la stizza indicibile verso l'epilogo ti farebbe dire alla storia grazie tante, a mai più rivederci. Ci si aspettava, infatti, un consolidamento; un capitolo filler. Ma l'autrice, piuttosto, ne fa una prova del nove per testare la fedeltà dei lettori, per vedere se – come da titolo – fuggiranno o resteranno. Signora Ferrante, io resto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Luigi Tenco – Ciao amore, ciao

venerdì 12 luglio 2019

Recensione: Un certo Paul Darrigrand, di Philippe Besson

| Un certo Paul Darrigrand, di Philippe Besson. Guanda, € 16, pp. 192 |

Philippe amava Thomas. Erano gli anni del liceo, entusiasmanti e pieni di dubbi. Tanto dipendente il primo quanto riottoso il secondo, non andava a finire come avremmo sperato. Dopo l'exploit di Chiamami col tuo nome, dalla Francia arrivano altri sospiri e altri rimpianti; un'altra storia autobiografica su uno struggimento color seppia, rievocato a decenni di distanza. Il motore di Non mentirmi: un incontro inaspettato nella hall di un albergo di lusso e il conseguente tuffo in un fiume a ritroso – quello della giovinezza. Questa volta, nel secondo capitolo di un'educazione sentimentale di cui non contemplavo ulteriori tappe, la rievocazione parte da uno scatolo stipato di fotografie. Una ritrae il solito Philippe – l'autore stesso – accanto a un ragazzo più grande, con i ricci castani e il fisico da nuotatore. In basso si legge una data. Mancava qualche giorno all'arrivo del Natale e, in compagnia di amici di amici, erano entrambi in vacanza sull'isola di Ré. All'epoca dello scatto c'era già stato del tenero? Un certo Paul Darrigrand è ambientato sul finire degli anni Ottanta.
Lasciati il liceo e Thomas, il ventenne fresco di laurea in marketing si prepara a trascorrere nove mesi a Bordeaux: ha scelto di proseguire con un master, ma specializzarsi significa soprattutto riempire il tempo libero. Ingannarsi con un'occupazione come un'altra, in attesa di diventare adulto. Timido e un po' saccente, al primo giorno di corso incrocia lo sfrontato Paul: che gli si siede davanti in mensa e fa il diavolo a quattro per accompagnarlo sotto casa. Philippe fraintende. Il presunto corteggiatore, infatti, è sposato da ormai quattro anni con l'infermiera Isabelle.

Perché ogni estate finisce. E ogni volta la sensazione è straziante. Quando ero piccolo il segnale me lo dava la morte dei girasoli, il momento in cui le loro teste gialle si annerivano e si inclinavano verso la terra secca, capivo che si avvicinava il ritorno a scuola, che il sole e l'ozio erano ormai agli sgoccioli, e precipitavano in un abisso di malinconia. Ho scritto spesso, dopo, sui fine stagione, sulla scomparsa dell'estate; viene tutto da lì.

Il protagonista, a sorpresa, diventa un ospite fisso in casa loro. Cosa sta cercando di fare l'altro: rassicurare la partner sospettosa o, al contrario, testare l'adorazione del compagno di studi? Ma quell'attrazione all'apparenza tramontata sul nascere ha più di qualche speranza di concretizzarsi, nonostante il lieto fine sia fuori portata. L'amicizia al maschile diventa altro assecondando una provocazione di troppo; il possibile si trasforma in inevitabile. E ci si trova, così, a interpretare un ruolo scomodo: quello dell'amante. Cos'è Philippe: un capriccio? Quella di Paul è omosessualità repressa, o un sentimento elettivo che si nutre dell'intelligenza dell'altro? Lo scrittore è il primo uomo della sua vita o l'ennesimo? 
Il nostro Luca Guadagnino aveva intenzioni simili. Riprendere le avventure amorose di Elio Perlman, in un sequel già annunciato, raccontandocene il destino al college. Reduce dalla lettura del mio secondo Besson, per quanto appassionante sia il risultato, mi sentirei comunque di scoraggiarlo in partenza. Un certo Paul Darrigrand, infatti, non ha né la memorabilità né la magia del capitolo introduttivo: un romanzo di formazione dalla morale universale, al contrario, che profumava di malinconia.

È vero, avevo perso la testa per un uomo irraggiungibile e avevo giocato pericolosamente con la morte. Ma potevo dire che avevo amato ed ero ancora vivo.

Con lo stesso espediente, non contento, l'autore francese ci racconta lo stesso amore in forse: se le bugie del fragile Thomas però commuovevano, la nuova fiamma – un surfista che, dominando le onde, cerca contemporaneamente l'equilibrio personale – non suscita simpatia. Per quanto disconosca qualsiasi moralismo, la mia correttezza rende spesso difficoltoso entrare in storie che parlano con leggerezza di tradimenti coniugali e terzi incomodi – la moglie di lui, Isabelle – condannati a vivere nell'ombra. La cronaca nera, inoltre, ci mette frequentemente lo zampino: l'Aids preoccupa, dando falsi allarmi, ma a Philippe non viene risparmiata in ogni caso una lunghissima degenza. La seconda parte, interamente ambientata nella stanza di un ospedale, segue un protagonista passivo nell'affrontare tanto i sentimenti quanto la malattia; i cicli di cortisone e una lontananza fisica che, da un lato e dall'altro, gli amanti non fanno nessuno sforzo per colmare.
Lo scorcio di mare in copertina mi aveva ingannato. Più pesante e meno spontaneo, il romanzo riesce bene quando racconta l'intimità dei corpi e delle parole. Sa usarne davvero di bellissime, Besson. E sa custodire i segreti. Leccarsi da solo le ferite. Ma non sa, non ancora, che l'amore può essere anche sereno se corrisposto. A differenza della magia della sua prima volta, tuttavia, quest'ultima la si scorderà.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Dalida – Je suis malade 

mercoledì 10 luglio 2019

I ♥ Telefilm: Stranger Things S03 | Black Mirror S05

Ero partito annoiato in partenza. Negativamente prevenuto, e per via di un passaparola che, fra fumetti, romanzi e pubblicità, aveva reso poco sentito il ritorno a Hawkins. Sono uno spettatore che si annoia presto: la seconda stagione, troppo seriosa per i miei gusti, aveva già smorzato gli entusiasmi iniziali. Sono un pioniere solitario che alle mete frequentatissime – per esempio Game of Thrones, mai seguita – non s'interessa. Per fortuna cambiare idea si può. Così come, partiti sulla difensiva, ritrovarsi a guardare con gli occhi a cuoricino una sorprendente terza stagione: forse la migliore. Il merito non spetta, no, all'inventiva degli sceneggiatori. Stranger Things è sempre lo stesso, ma quest'anno c'è magia nel contenitore con all'interno il meglio degli anni Ottanta. Non soltanto creature alla Tremors o invasati che ricordano gli zombie di Romero, ma anche l'umorismo delle commedie adolescenziali: ironiche e smaliziate, con tanto di conflitto maschi contro femmine o di giochi da tavolo traditi, infine, per i primi baci. I protagonisti sono diventati grandi. A un passo dall'adolescenza sperimentano pomiciate e gelosie; imboccano strade differenti ma la paura li raduna comunque nello stesso luogo. Più horror che in passato ma anche più spassoso, Stranger Things si veste di leggerezza per l'estate. Mentre il quattro luglio si avvicina, e distrae gli adulti con le giostre in piazza o i cieli di mille colori, nessuno sembra accorgersi del pericolo in agguato: i russi trafficano con il paranormale e come laboratorio segreto hanno il nuovo centro commerciale. La Ryder e Harbour, abbastanza sopra le righe da risultare irritanti, torchiano un sovietico già idolatrato in rete; l'esilarante Steve, lasciata la noiosa Nancy a indagare, serve gelati accanto a una nuova arrivata – la splendida figlia di Uma Thurman e Ethan Hawke – e s'intrufola in cunicoli proibiti guidato da Dustin e dalla sorellina di Lucas, altra inaspettata spalla comica; Eleven, confusa dai sentimenti verso Mike e ancora al centro del ciclone, questa volta preferisce affidarsi ai pregi della coralità nella lotta al male. Il Mind Flayer, infatti, non è andato via. Splatter e irriverente, un tempo poteva contare soprattutto sull'effetto nostalgia e sui poteri straordinari della sua eroina: al centro di un assedio adrenalinico, queste otto puntate aggiuntive spaziano invece dal survival allo spionaggio, regalandoci un'avventura basata su comprimari vincenti e toni sempre indovinati. La sensazione che ci assale, ai titoli di coda, è una malinconia simile a quella del mese di settembre. Come rinunciare all'incanto di vacanze in cui ogni stranezza è possibile, se ci aspettano la scuola e le responsabilità degli adulti? Spaventano i viaggi e il dolore; spaventano i cambiamenti. Ma a tirarci su, sotto forma di duetto, c'è una canzone iconica finora associata alla Storia infinita: canta di mondi di fantasia e favole senza fine. Sarebbe stato bellissimo, tuttavia, se Stranger Things avesse voluto contraddirla per fermarsi qui: a un finale con i fuochi d'artificio, che piace immaginare risolutivo perché perfetto. (8)

Lui, lei, l'altro: un triangolo a tinte gay, consumato fra realtà virtuale e vita vissuta. C'è lo spunto, ma manca lo sviluppo. Un tassista sull'orlo di una crisi di nervi prende in ostaggio lo stagista di una società di comunicazioni: c'è un attore incredibile, ma manca una riflessione che risulti meno didascalica di così. Un'adolescente emarginata trova un'amica nella bambola progetta a immagine e somiglianza di una cantante sulla cresta dell'onda, ma la quotidianità di una star generazionale non è tutta applausi o luccicori: a bordo c'è un'ospite chiacchieratissima, Miley Cyrus, ma manca il senso. La superficie dello specchio nero di Charlie Brooker era già incrinata da un po'. Quest'anno apre le ennesime, preoccupanti crepe, ma spiace meno dello scorso anno grazie a pochi episodi – tre in totale – che almeno invogliano al binge. Attento non tanto alla fantascienza quanto all'umano, Black Mirror riflette sui social media e sull'importanza della comunicazione faccia a faccia: cosa mai accaduta prima, si apre perfino alla speranza. Su carta, quelli descritti potrebbero sembrare i segreti di una stagione che reagisce alla stanchezza rinnovandosi. Ma, un po' delusi, ci si accorge che sono semplicemente le avvisaglie di una serie che in assenza di fantasia sta perdendo la ferocia delle idee iniziali. Realizzando episodi con la lunghezza dei mediometraggi, di buona qualità ma niente affatto memorabili, che chiudono la satira fra parentesi tonde e passano dal dramma omosessuale al thriller alla Locke, fino a concedersi una tappa inclassificabile nella commedia adolescenziale. Caro Brooker, ora fermati. Prenditi il tempo che serve, per scrivere e metabolizzare le critiche ricevute. Frena le pressioni dell'emittente e, se necessario, non proseguire. Cerca il brillantante per il tuo specchio opaco, o cambiagli titolo; trovagli un nuovo impiego. Non basta l'indiscutibile bravura di Andrew Scott, preferibile al Vetril, per tirarlo a lucido come pretenderemmo. (6,5)

lunedì 8 luglio 2019

Recensione: Sadie, di Courtney Summers

| Sadie, di Courtney Summers. Rizzoli, € 17, pp. 367 |

Se fosse un film sarebbe di quelli da festival, che in chiusura includono le preoccupanti statistiche su quante ragazze ogni anno spariscano negli Stati Uniti. Diventando, in tal modo, gli ennesimi spettri di popolose città fantasma. Cosa succede alle giovani destinate a non fare più ritorno a casa? Quella raccontata in Sadie, primo romanzo dell'acclamata Courtney Summers a essere tradotto in Italia, è la storia di una di loro. Al bordo della strada è stata ritrovata una macchina in panne: dentro c'è uno zaino verde, appartenuto a una diciannovenne irrintracciabile già da un po'. Si penserebbe a un allontanamento volontario – chi potrebbe biasimare, infatti, una fuga lontano dalle sabbie mobili della provincia – se non fosse per la tragedia vissuta dalla ragazza in tempi recenti. Sua sorella, Mattie, è stata trovata in un meleto: assassinata. Disobbedendo agli insegnamenti di tutta una vita, è salita su un furgone non meglio identificato; si è fidata delle caramelle offerte da uno sconosciuto. La superstite pretende giustizia. Ma, secondo un noto adagio, chi cerca vendetta farebbe meglio a scavare due tombe. Fin dove si è spinta la protagonista in nome della legge del taglione?
La narrazione si dirama così: da un lato abbiamo la caccia all'uomo di Sadie, sulle tracce di un mostro presentatosi la prima volta con il nome di Keith; dall'altro, invece, un originalissimo podcast in otto puntate in cui uno speaker radiofonico scava in lungo e in largo setacciando le parole di amici, compaesani e testimoni in un'indagine all'apparenza senza precedenti. Partiamo da un parcheggio per roulotte a Cold Creek, uno spiazzo polveroso che Sadie e Mattie chiamavano casa, e in un accidentato viaggio della speranza percorriamo un'autostrada per la dannazione eterna: passerà attraverso villaggi dimenticati dal Padreterno e sobborghi falsamente idilliaci, facendo tappa, di notte, in motel a un passo dalla demolizione.

Io sono il risultato di biberon pieni di gassosa al limone, ho un organismo che non sa elaborare le cose belle della vita. Il mio corpo è abbastanza affilato da tagliare il vetro e ha un bisogno disperato di affinarsi, ma a volte non mi importa. Un corpo può anche non essere sempre bello, però sa rappresentare un inganno perfetto: io sono più forte di quanto sembro.

Per affrontare la traversata con un cuore impavido, probabilmente, ci vorrebbe l'amazzone di un rape and revange degli anni Settanta, ma Courtney Summers sceglie Sadie: una bambina cresciuta in fretta, con gli occhi ostinati e il viso misteriosamente tumefatto. 
Si è tinta i capelli di biondo, agli altri si presenta con il secondo nome per non essere rintracciata dalle autorità e, ogni tanto, è tradita dai tentennamenti di una balbuzie congenita. Sprovvista di spirito di autoconservazione e armata di coltello a serramanico, è un pericolo ambulante da non sottovalutare. Ha sensi di colpa a non finire. E ha sete, di sangue. Nonostante i sei anni di differenza e i padri diversi, a legarla alla piccola Mattie c'è una devozione viscerale. Cresciute allo sbando, con una madre tossicodipendente che portava nella roulotte stupefacenti e compagni dalle mani lunghe, le due inseparabili sorelle sono state l'una il rifugio dell'altra fino a quando non le ha divise l'ennesima uscita di scena della genitrice. Da Los Angeles, l'inaffidabile Claire ha mandato loro una cartolina e la secondogenita, adorante, voleva seguirla a ruota. Proprio il desiderio di raggiungerla sarà la sua condanna. Arrabbiata con il mondo, opportunista per necessità, la protagonista si concede nell'arco del viaggio sporadici e meritati attimi di dolcezza in compagnia di qualche fortunato sconosciuto – un ragazzo carino, un'automobilista bagnata fradicia dal temporale. E, grazie agli incubi e alle contraddizioni che porta come bagaglio a mano, fa la differenza in un romanzo meno spiazzante del previsto ma ben scritto.

Le ragazze spariscono continuamente. E non sapere è una benedizione. Non volevo questa storia, perché avevo paura. Avevo paura di ciò che non avrei trovato e avevo paura di ciò che avrei trovato.
E continuo ad averne.

Lo squallore delle ambientazioni, la presenza di famiglie disfunzionali e il tema raccapricciante della pedofilia mi hanno fatto pensare alla terza stagione di True Detective, con cui la Summers ha in comune anche la straordinaria presa emotiva e un finale sospeso. Narrazione semplice ed empatica, che suggerisce appena gli orrori perpetrati ma, nel mentre, mette la nausea ugualmente, deve forse più agli spunti della cronaca che al giallo tradizionale. 
Niente è dato per scontato; nulla appare certo. Il romanzo concede al lettore poche risposte, al punto che a qualcuno potrà sembrare perfino irrisolto, e imbocca con coraggio un sentiero senza uscita. Parabola on the road terribile e istruttiva, servirà ad aprire gli occhi tanto agli adulti quanto agli adolescenti – non si è mai abbastanza preparati ai colpi di scena che ha in serbo per noi un mondo spietato –, ma scuoterà soprattutto chi, per gusti o per età, è poco abituato ai tiri mancini del genere. Che, per definizione, vive di rapporti malati e sentimenti al limite dell'illecito. Che crede fermamente nell'incalzare martellante dei dubbi, non nella consolazione del lieto fine annunciato. Questa strada per l'inferno, a confine fra amarezza e speranza, è lastricata di loschi figuri e buone intenzioni. Porterà anche a Sadie, smarritasi nei grigi asfalto del bene e del male?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mark Ronson feat. Miley Cyrus – Nothing Breaks Like a Heart

venerdì 5 luglio 2019

Mr. Ciak: Il traditore, Capri-Revolution, La paranza dei bambini e gli altri film del Flaiano Film Festival

Se anche non conoscessi la storia, basterebbe la levatura di un personaggio shakespeariano a rendere Il traditore comunque un'opera riuscitissima. Ma sono nato a Palermo, da un padre carabiniere, e allora qualche ricordo riaffiora. Per tutti gli altri, chi fu Tommaso Buscetta? Aveva la licenza elementare e, con il narcotraffico, aveva fatto fortuna a sufficienza per condurre un'esistenza da pascià a Rio. Conquistò l'amore di tre mogli e la simpatia di Falcone, che in tribunale gli offriva le sigarette e lo illuminava sulla fine di un'era intitolata a Cosa nostra. Suscitò le antipatie di Riina, suo rivale per eccellenza, ed ebbe l'ardore di citare in giudizio Andreotti. Fu il primo dei pentiti. Padre di otto figli, due dei quali massacrati, ci mise la faccia; tanta furbizia, dal momento che non confessò mai alcun misfatto; un po' di cuore. Bellocchio, ottantenne in forma smagliante, lo racconta uomo, marito, padre. Lo mostra nell'arco di trent'anni, lasciandolo alticcio e malinconico a un karaoke. Lo indaga nelle contraddizioni e nell'orgoglio, nel bene e nel male, indugiando con un montaggio sorrentiniano sulle pressioni psicologiche e il senso di spaesamento. Alla maestosa prima segue un processo farsesco e urlatissimo, con personaggi teatrali che cozzano con lo spessore drammaturgico del resto. Ma quella, eppure, è la giustizia italiana: lo si realizza con paura, davanti a un'umanità grottesca che schiamazza in TV e gioisce per l'omicidio di un magistrato. Importante non solo come documento storico, Il traditore vanta un Favino da palmarès: recita in tre lingue, prende peso, e sfoggia un misto di dolore e sfrontatezza che straziano. Davanti alla poetica anacronistica di un gangster decaduto, tuttavia, è giusto entrare in empatia con l'uomo sradicato ma guai a risultare troppo indulgenti. Lo ricorda una chiusa che riporta tutto nella giusta prospettiva: la mafia esiste, ed è una storia bruttissima. Anche quando a raccontarcela è la bellezza del cinema di cui andare fieri a Cannes. (8)

Dopo Il giovane Favoloso, Martone torna al cinema. E in cattedra. Un altro lungo dramma in costume, un'altra ricostruzione per spiegare agli spettatori gli uomini e la Storia. Siamo a Capri, all'alba del conflitto mondiale. È subito scontro fra tre logiche inconciliabili, incarnate da personaggi in disaccordo fino alla fine. Da un lato abbiamo gli isolani, religiosi e maneschi, che confidano nella sicurezza di accasare le figlie femmine con il miglior partito; dall'altro il medico del villaggio, uomo di scienza con simpatie comuniste; infine un gruppo di asceti sfaccendati, che praticano il nudismo e il sesso libero e fanno scalpore per lo scarso contributo che apportano alla comunità. Alla protagonista tocca intraprendere uno di questi cammini già tracciati o, coraggiosamente, percorrerne uno ignoto? Ingiustificatamente pesante, indeciso fra l'intendo pedagogico e quello teoretico, Capri-Revolution indugia in scarpinate mozzafiato e in coreografie alla Matisse. Il tentativo, vincente nel film passato, si ritorce contro il suo stesso autore. La sua ultima fatica è tanto degna di meraviglia per il comparto tecnico quanto pedante nell'andatura. Marianna Fontana, acerba ma sempre intensa, a tratti si lascia intimidire dai concetti astrusi del suo regista e dalle incongruenze del suo personaggio. La scagiona un elogio alla libertà che prende infine il largo da Capri, da Martone, e punta al futuro. Quello minacciato dalla guerra, che inizia a far tremare gli isolani. Quello in cui tutto è possibile, in pratica e in teoria. (5,5)

Un ragazzino sogna la bella vita. Non sembra esserci altra via, a parte darsi alla criminalità, per ottenerla in fretta. L'euforia della guerra coinvolge anche i suoi coetanei. I protagonisti hanno insospettabili facce d'angelo; il sangue è mostrato a malapena. L'avventatezza e la bellezza della gioventù esplodono ora in parate di palloncini rossi, ora in colpi di mitra, mentre ci si appassiona più del previsto a questo racconto di bambini che desideravano mangiare al tavolo dei grandi. Mettici una bella ragazza che vuole andare a ballare a Gallipoli; mamme e i fratelli minori che non sanno bene se essere fieri o spaventati per il successo del primogenito. Aggiungi poi una fotografia scarna, che fotografi con toni neorealisti una povertà che ama vestirsi di kitsch. Ispirato al romanzo di Saviano, l'ultimo Giovannesi sembra una copia sbiadita della Terra dell'abbastanza. La paranza dei bambini racconta con coinvolgimento la medesima storia allo sbando; ma cambia dialetto e scenario, abbassando un po' l'età dei protagonisti. Meno raffinato, ha un'identica morale di fondo ma la lezione poteva essere più esemplare. Colpa o merito di una delicatezza che, nella chiusa, si scambia per mancanza di fermezza. (6,5)

Una coppia di amici si riunisce per la malattia terminale di uno dei due. Si incontrano all'ombra del Colosseo, con un cagnone al guinzaglio, dandosi a un giro di ultime volte fra l'Italia e Barcellona. Domani è un altro giorno, sin dalla trama risaputa, è un film che non osa. Collage agrodolce di dialoghi, incontri e addii, ha lo stampo televisivo e pregi che devono derivare dal film che lo ha ispirato, Truman. Il solito Mastandrea, non nuovo alle riflessioni sulla morte, si muove in silenzio alle spalle del compagno di scena con un'aria malinconica che in questi casi calza a pennello. Giallini, con un istrionismo alla Proietti, non si scrolla invece di dosso il solito ruolo del burino dongiovanni ma dal cuore generoso; il ruolo poteva mostrarne altre sfaccettature, le lacrime e le fragilità, ma la sceneggiatura non lo aiuta. Simone Spada sceglie di mostrare i gesti d'affetto, mai la malattia. Non fa mai il salto sperato al dramma. La sua rilettura di un successo estero, così, resta un buddy movie solido ma senza guizzi. Davvero serviva puntare sempre sugli stessi attori, già insieme sul set in Perfetti sconosciuti? Davvero serviva ispirarsi agli stranieri, se la commedia all'italiana ha un nobile e lunghissima tradizione di tragicomiche su ruote? (6)

Non ho visto niente o quasi di Moretti. Non sapevo niente o quasi del golpe cileno. Quante probabilità c'erano di trovare commovente un documentario del regista su un tema tanto ostico? Negli anni Settanta, il socialista Allende fu assassinato per scongiurare la guerra civile. Le consuete immagini di repertorio e le parole degli inviati descrivono le agghiaccianti torture verso i ribelli – scariche di elettricità negli organi genitali – e la mancanza di pentimento dei militari finiti sotto processo. Restano l'omertà diffusa, le cicatrici per gli oltre tremila morti ammazzati, ma per fortuna questa è una storia a lieto fine. Santiago, Italia sta infatti dalla parte di chi ha avuto diritto a un'altra patria. Per ricordare una pagina di storia recente tristemente sconosciuta. Per ricordarci, fra orgoglio e amarezza, la magnanimità di cui un tempo siamo stati capaci. I cileni che riuscirono a scavalcare il muro dell'ambasciata italiana furono accolti a Roma. Parte di un popolo autoironico e poco rancoroso, i rifugiati raccontano aneddoti a volte buffi, altre struggenti. Il documentario serviva non tanto al Cile quanto a noi. Ce n'era bisogno sì, in un'epoca in cui l'intolleranza è di casa, al punto che si fa fatica a riconoscere la fotografia di un Paese che accoglieva a braccia aperte e si angosciava per le tragedie altrui. Cinematograficamente di scarso valore, l'ultima fatica di Moretti è un documento umano e mai politico, che non fustiga né Pinochet né Salvini. Ma evidenzia come eravamo, e le differenze con l'oggi addolorano. Adesso che, come afferma uno degli intervistati, il Cile sembriamo noi. (7,5)

Avere ventisette anni e nutrire un nichilismo fuori moda. Avere ventisette anni e voler sfondare come fumettista. Qualcuno, Zerocalcare, ci è riuscito senza montarsi la testa. Non ha dimenticato, perciò, la sua Roma di borgata né i passi dolorosi degli esordi. Zero, suo alter-ego nel primo film ispirato alle sue tavole, è un giovane di periferia che sbarca il lunario fra ripetizioni private e un lavoro in aeroporto. Legato suo malgrado alle telefonate di mamma Morante, ammazza il tempo in compagnia dell'esilarante Castellitto e consiglia a ogni piè sospinto la visione dell'Odio. Vorrebbe proprio vivere in un film post-adolescenziale girato in Francia, ma si accontenta di Rebibbia e dei consigli di un armadillo per amico immaginario. La svolta arriva attraverso una telefonata: Camille, amica d'infanzia, è morta. Cosa le è successo? E cos'è successo al gruppo affiatatissimo che formavano da bambini? Accolto tiepidamente, La profezia dell'armadillo mi ha divertito ed emozionato da morire. Tenero e rabbioso, fa sfoggio di vestiti neri e di un cuore puro. Come il suo protagonista, un bravissimo Simone Liberati, non crede nei compromessi o nel cambiamento. Condannato a un eterno presente, nella rievocazione di un'infanzia immaginata a torto senza fine, deve imparare a rinunciare alla nostalgia per voltare pagine. E colorare, così, nuove storie. (7)

Gli americani sono sul piede di guerra. Qualcuno, in Sardegna, ha reclamato il possesso della luna. Preservare gli equilibri internazionali mandando sul campo una spia: Jacopo Cullin, di genitori isolani ma nato e cresciuto a Milano, deve sopravvivere all'addestramento per mimetizzarsi in una terra chiusa allo straniero. Capire come muoversi, imparare a parlare, significa però abbracciare anche le proprie origini rinnegate. Completamente inatteso, sorretto da un umorismo nerissimo e da un cast di grandi caratteristi, l'opera seconda di Paolo Zucca è un gioiello indipendente che non avrei mai visto altrimenti. Questo entroterra inesplorato, da vecchio West, vive parimenti di violenza e splendore. Deserto incontaminato, aperto a cuor leggero a derive fiabesche, ha una corsia preferenziale verso il cielo grazie a poeti romantici che si danno a promesse impossibili. Inseguito da una banda di contadini armati di lupara, il protagonista si imbatterà in un rifugio paradisiaco; a un certo punto, senza dire troppo, salteranno fuori perfino sottomarini statunitensi e militari armati fino ai denti. Commedia strampalata dalla regia degna di attenzione, L'uomo che comprò la luna ci conduce nei paesaggi di Figlia mia e nei toni utopici di Tito e gli alieni, galeotto un satellite solcato di recente anche dall'astronauta Ryan Gosling. Sembrerebbe un pasticcio, ma invece è capace di portarti lontano senza passare dal via. Lassù, dove riposano il nonno di Jacopo, Antonio Gramsci e Grazia Deledda. Dove, fiera, sventola la bandiera sarda. (7+)

Ancora la provincia, ancora il dialetto. Questa volta, però, siamo in una Campania insolita: in una periferia affatto degradante, dove ci si nobilita con il sogno del pallone. In un primo momento, Un giorno all'improvviso sembrerebbe raccontare un rapporto di amore-odio alla Dolan: e lì interessa, con le sue atmosfere in stile Dardenne; e lì emoziona, grazie alla tenerezza impareggiabile verso il giovane protagonista. Peccato che il dramma d'esordio di D'Emilio si perda nella cronaca di allenamenti di scarso interesse; in amicizie e dissapori presto abbandonati, lasciando ai margini gli strepiti di una Foglietta ottima ma poco presente in scena e gli sguardi persi di un adolescente combattuto. A una narrazione fino ad allora verisimile e pacata, senza furberie, non ho perdonato la cupezza gratuita di un epilogo tutt'altro che ineluttabile. La storia interpretata da un dolcissimo Giampiero De Concili non sapeva bene cosa raccontare. I pregi e i difetti di una convivenza instabile? I personaggi di mamma e figlio dividono la scena meno del previsto. L'impossibilità di un cambiamento nel bel mezzo della provincia stagnante? La convocazione del protagonista dimostrerebbe il contrario. Le conseguenze di quelle che accade, un giorno all'improvviso? Di improvvisi, a malincuore, si ricorderanno soprattutto i passaggi della sceneggiatura. (6)

È il film che non ti aspetteresti da uno come Veltroni. Politico e saggista, cosa ha a che spartire con una storia sulla scia di About a Boy? Era lecito aspettarsi un maggiore impegno; era giusto confidare in qualcosa di meglio. Ma la sua leggerezza, in poltrona, spiazza e incuriosisce. In verità presto abbandonato per scandire le tappe di un ennesimo viaggio on the road, lo spunto iniziale racconterebbe l'incontro fra due fratelli lontani per età e stili di vita. Da Roma la strada si allunga fino a Parigi, però, in un tour tanto dispersivo quanto istintivo scandito dalle visite a un'ex fidanzata omosessuale e a una mamma malata di Alzheimer; cene e concerti in compagnia della cantante Simona Molinari, qui interprete bella e convincente. Fresi insegue arcobaleni per professione, e per sport rifugge le responsabilità. Ma quel fratellino ingessato, che a lungo gli dà del lei, ha ovviamente qualcosa da insegnargli. Ingenuo all'inverosimile, C'è tempo glissa sui dispiaceri e non va a fondo, mantenendosi al sicuro in superficie grazie alla piacevolezza del cast e alle citazioni a Truffaut. Godibilissimo, somiglia a un arcobaleno duraturo, sbucato all'orizzonte senza acquazzoni in anticipo. Omaggia I quattrocento colpi, ma farà colpo più su un pubblico da Giffoni. (5,5)