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mercoledì 30 gennaio 2019

Recensione: Sperando che il mondo mi chiami, di Mariafrancesca Venturo

| Sperando che il mondo mi chiami, Mariafrancesca Venturo. Longanesi, € 16, 90, pp. 405 |

Ho finito gli esami della magistrale in un soffio. Ad aprile, se tutto va come vorrei, mi laureerò perfettamente in tempo sulla tabella di marcia: sempre stato bravo a rispettare le scadenze. La mia è una specializzazione in Filologia moderna che, non lo nascondo, poco mi rappresenta e altrettanto poco mi avrebbe allettato cinque anni fa, ma tant'è: questo passavano l'ateneo vicino e il cosiddetto convento. Ora cosa farai di bello? Di bello, rispondo a denti stretti davanti alla domanda fatidica, proprio niente. Io che intanto ho la tesi da scrivere in due mesi scarsi, una bibliografia sterminata da padroneggiare e gli ultimi moduli da consegnare, a tempo debito ho accumulato da brava ape operaia tutti i CFU che servono, le attestazioni di PEF o FIT che dir si voglia, i voti altissimi e un filo di rassegnazione. Se hai ventiquattro anni e sei fresco di laurea in Lettere, almeno su carta, hai inevitabilmente poche possibilità: e che fai, allora, l'idea dell'insegnamento non la contempli per tracotanza? Mi dico che non ho pazienza né spirito di abnegazione a sufficienza; che i bambini mi inteneriscono, vero, ma forse non a tempo pieno: per via di una mamma che per anni ha fatto la tata quando capitava, ho diviso spesso il tavolo della cucina con seienni alle prese con il dettato, mucchi di Barbie e Lego alti così, echi di tabelline a campanello e lettere dell'alfabeto da scandire per bene. Mettici anche il precariato imperituro, i concorsi annunciati sempre all'ultimo momento, gli andirivieni di sorta: la lotta con le unghie e con i denti per un mondo che finora ho guardato piuttosto distrattamente; per un gioco che forse non vale la candela, secondo la dichiarata presunzione delle giovani leve che in dirittura d'arrivo sotto sotto si aspettavano un'alternativa fortunata. Un po' per caso, un po' per desiderio, io che credo nei segni del destino e nelle piccole simmetrie, in questi giorni cruciali ho cercato la compagnia del romanzo perfetto: un esordio da ricordare, che per l'appunto di insegnanti e alunni, sacrifici e bivi, parla.
Siamo a Roma, la meta per eccellenza presa d'assalto dagli insegnanti del Sud in una gara fra poveri a chi arriva primo in graduatoria. L'irriducibile Carolina, ventotto anni, vive in una famiglia convinta ciecamente che quella dell'insegnante sia una missione sociale – maestri da generazioni e generazioni, i suoi parenti le hanno tramandato il gene segreto dell'essere educatore e precario – e tutte le mattine punta la sveglia alle cinque. Indossa gonne eleganti, rossetti poco appariscenti e lascia che la metropolitana la scorti nei luoghi strategici: passeggia nel cuore della capitale, ne conosce ormai gli scorci suggestivi e le vecchiette chiacchierone, e tutte le mattine aspetta che una scuola di Roma la chiami. Con una chitarra acustica in spalla e una borsa piena di giochi e chincaglierie a fantasia, Carolina corre i cento metri per insegnare all'occorrenza italiano, matematica o musica. Non può concedersi vacanze, non può pianificare nel dettaglio progetti futuri.

Ho il cuore pesante ma sono pronta, con il rossetto a posto e la gonna al ginocchio. Pronta a non sapere dove andare. L'incertezza richiede una certa preparazione. […] Perché insegnare è il mestiere più bello del mondo. Dicono le maestre. Perché insegnare è come imparare per sempre. Dico io. Tutte le mattine vado a piazza Venezia o alla stazione Termini perché da lì posso raggiungere il mondo. Sperando che il mondo mi chiami.

I suoi contratti, rinnovati mese per mese, durano sempre poco: quanti libri non portati a termine nell'ora di narrativa, quanti programmi lasciati a metà, quanti bambini di cui dimenticare i nomi e i sogni per non affezionarsi troppo. E l'amore come va, se fa rima con l'incostante Erasmo? Qualche anno prima la protagonista si è malauguratamente innamorata di lui, docente milanese arrivato nel Lazio per un convegno a metà tra scienza e poesia: mentre i capelli del fidanzato vanno imbiancandosi sulle tempie, Carolina pensa alla loro impossibilità di definirsi coppia. La relazione a distanza, per ironia della sorte, è l'ennesimo elemento saltuario in una vita senza solide radici. Per fortuna rallegrano i racconti della splendida nonna Fortunata, emigrata siciliana che racconta di valigie piene di farfalle ai tempi del fascismo e confida negli effetti taumaturgici di una buona granita al limone; Titti e Federico, compagni di sorte e di slalom disperatissimi nella giungla dei pendolari; una quarta elementare in cui desiderare gettare le ancore. Non mancano le maestre di ruolo arcigne, qualche cancellino volante, un dirigente con la faccia da schiaffi che risponde al nome di Violoni, ma fra le altre cose c'è che all'ultimo banco siede Sara: una bambina dallo smalto mangiucchiato e la famiglia disastrata, al centro di una specie di giallo da vivere come fosse una questione personale. 
La penna irresistibile di Mariafrancesca Venturo rende alla perfezione in queste quattrocento pagine dalle sfumature tragicomiche la frustrazione dei forse, la ripetitività spasmodica della routine, lo sforzo di mantenersi propositivi e al passo. Perché non investire nell'ennesimo master online su suggerimento del sindacato? Cosa ne penserebbe il fedele Federico, amico che è un autentico signor so tutto io in fatto di punti, trucchi, corsi e strategie? Qualcuno fa il pendolare, qualcuno si arrangia pur di prendere una stanza in affitto, qualcuno dorme addirittura in stazione per arrivare presto a scuola l'indomani mattina. Qualcun altro, in barba al politicamente corretto, pensa invece di accasarsi e di considerare le supplenze un lusso: per le mogli e le mamme, fra l'altro, si ha un occhio di riguardo in graduatoria. I bambini, nati già grandi fra gli stimoli di Internet e quelli della tivù, hanno sempre meno curiosità nell'apprendimento. I maestri, tanto reperibili e scattanti da perdere per forza di cosa le staffe, hanno perso sia l'umanità che l'amore intrappolati all'interno di un'anonima catena di montaggio. Questa è la commedia pastello su un'eccezione alla regola: una giovane idealista animata da una contagiosa missione – leggendo di lei ho pensato alla signorina Honey della Matilda di Dahl, il classico per l'infanzia –, che non vuole abbandonare, dimenticare, né voltare pagina. Un'eroina che alleggerisce le giornate storte con delicatezza, filosofeggiando sui proverbiali bicchieri mezzi pieni e sul privilegio immenso di cambiare – e incrociare – storie su storie.

Raccontami di un secolo fa, nonna, cosa facevi davanti a un bambino in difficoltà? […] Ripasso a mente i tuoi buoni consigli. Sposa un uomo buono. Lavora in allegria. Sii gentile ma anche forte. Non ti arrendere. Ama. Mira in alto quando lanci un sogno, poi vola per riacchiapparlo, non è detto che ce la fai a riprenderlo ma almeno vedi dove arrivi. La felicità è fatica. Si generosa, gentile, ma arrabbiati se serve. Grida. Fatti sentire.

Cos'è meglio per lei? Cosa per i suoi alunni? Poco male se in segreteria la considerano una ruota di scorta, se del coro diretto con la maestra Livia si farà poi un nulla di fatto. Nell'utopia che il mondo la chiami, Carolina Altieri vive continue avventure: sempre di corsa, come in quella famosa pubblicità; sempre sinceramente meravigliata, giacché lei in primis ha ancora molto da imparare. E, si spera, da raccontarci. Ringrazio Mariafrancesca per la compagnia, il tempismo, il miele sul bordo di un bicchiere altrimenti amarissimo da mandare giù. A fine lettura ho cercato una mia maestra delle elementari su Facebook: in famiglia ne ricordiamo ancora nome e cognome. Doveva avere all'incirca l'età che ho io adesso e, dopo il primo anno di elementari, l'aveva sostituita un'altra collega, un'altra precaria, nel dispiacere generale della classe. Uno di questi giorni le inoltro la richiesta d'amicizia, le chiedo se era proprio lei a impartire lezioni d'italiano a Palermo nel 2001, le dico grazie perché qualche decennio fa mi ha insegnato a leggere e scrivere. Quindi, a vivere.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Cesare Cremonini – Possibili scenari

lunedì 28 gennaio 2019

Recensione: Unastoria, di Gipi

| Unastoria, di Gipi. La biblioteca della Repubblica. Coconino Press, € 10, pp. 126 |

Si chiama Silvano Landi, ha cinquant'anni e il suo nome forse potrebbe farti accendere la proverbiale lampadina. Scrittore affermato, sempre all'inseguimento dell'idea vincente, un giorno è stato trovato in spiaggia rannicchiato su se stesso e in stato confusionale. Degente in un ospedale psichiatrico, per il bene suo e soprattutto per quello degli altri, adesso farnetica senza posa di una stazione di servizio e di un grande albero dai rami spogli. Nella sua testa si affollano così le sensazioni, i flashback dolorosi, le immagini di un'altra vita. La follia, sin dall'origine dei tempi tutt'uno con le arti grafiche, sulla carta trova spazio vitale e colori vorticosi. Trova un senso, anche se all'inizio sembra sfuggire. A pagine alterne, infatti, leggiamo di un altro uomo, suo nonno: giovane soldato mandato in avanscoperta da superiori sprezzanti del pericolo, che sotto il fuoco incrociato del nemico tedesco trova riparo all'ombra di un albero isolato – un miracolo, in un conflitto che guarda caso ha reso tutto cenere – e pensa intanto a come sarà riabbracciare la moglie Teresa, a cosa fare per le ferite profonde dell'amico Luca.

Malevola è la nostra natura, quanto amorevolmente protettiva è la nostra cecità.

Non mancano le digressioni curiose e gli sprazzi surreali – una baronessa capricciosa e annoiata che desiderava armi più letali in guerre lampo, lacrime copiose che hanno plasmato goccia a goccia i volti dei primi uomini della Creazione – e ritornano immancabilmente i temi cari del pacifismo e dell'eterna incomprensione di cui sono vittima gli animi sensibili. Acclamato all'unisono come suo capolavoro e candidato al premio Strega, Unastoria appare più degno di meraviglia ma meno immediato di S., altro flusso di coscienza tipicamente autoriale che dalla sua, però, aveva un carico emozionale superiore a questo. Semiautobiografico, come ho scoperto spulciando le interviste e la bibliografia di un dolcissimo Gipi spesso in crisi d'identità; costruito meglio, vero, ma anche costruito di più. Le storie, a dispetto del titolo, in verità sono proprio due. Non si toccano mai, ambientate in epoche diverse. Ma si sovrappongono, si scontrano, si rubano la scena. Per la prima volta, a sorpresa, mi scopro del tutto impossibilitato a parlarvi della trama e dei singoli personaggi, tanto complessa è l'esperienza della lettura, tanto parola e colore compongono un inscindibile e lisergico tutt'uno.

Mi chiedo, amore... Da dove viene questo chiarore? Non dalle stelle che son troppo lontane. Non dalla luna, assente. Viene dai nostri desideri, forse? Che siano i nostri cuori, le speranze, a illuminare il cielo? O le nostre famiglie? Le loro preghiere. I nostri bambini. Tu.

Frammentaria, a metà strada fra la confusione da antidepressivi e la magia dei sogni che l'indomani scordi amaramente al risveglio, questa graphic novel è il soggiorno scomodo nella mente di un professionista sul ciglio del baratro. Uno scrittore che scivola, cade in una tavolozza ricchissima e si riscopre, infine, nelle orme lasciate sulla tela un tempo bianca. Padre distratto e marito anaffettivo, Landi testimonia quanto sia solitario e infido il lavoro del narratore e lentamente viene a patti con i demoni del successo. Con le mani sporche di sangue dell'antenato. Con i propri ricordi. Insieme a lui, sempre a un bivio, sempre in armi contro se stesso, c'è il nonno partigiano. Uno in un reparto psichiatrico, l'altro in trincea. Disposti a fare carte false, a fingersi guariti, pur di perdonarsi. Quanti compromessi, quanti passi falsi, quanti errori siamo disposti a commettere pur di tornare a casa sulle nostre gambe? Tutto – tutto l'egoismo, tutta l'umanità del mondo – pur di alzarci, guardarci allo specchio contando fra disgusto e fierezza le rughe d'espressione e con un moto di amore improvviso, in corner, scoprirsi “mica male”.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Gino Paoli – Il cielo in una stanza

venerdì 25 gennaio 2019

Recensione: L'abbandonatrice, di Stefano Bonazzi

| L'abbandonatrice, di Stefano Bonazzi. Fernandel, € 15, pp. 208 |

Le persone tristi si somigliano e si pigliano. Non si piacciono, non necessariamente, ma sentono di appartenersi. Perché, forse, non hanno altra scelta. Affinità elettive, oppure costrizione? Se lo domanda Davide, che a vent'anni sfoggia con una punta d'orgoglio i suoi vestiti scuri, un malumore imperituro e una famiglia intollerante: mancanze che, al posto di isolarlo, nei giorni sì hanno lo strano potere di farlo sentire straordinariamente fortunato. È stato proprio un attacco di panico in segreteria ai tempi dell'immatricolazione a renderlo parte della coppia formata da due giovani con in comune il mondo contro e il sogno dell'arte: un'illustratrice bravissima, quando non impegnata a servire coni al bar, e un figlio di papà con le conoscenze giuste (ma il talento?) per diventare un pianista jazz. Sono belli e derelitti. Benché studente in sede, la matricola Davide preferisce sgobbare come cameriere in nome dell'indipendenza da mamma e papà: la domenica a pranzo pur di ignorare il proverbiale elefante in mezzo alla stanza, ossia l'outing del figlio, parlano della stitichezza del gatto della vicina o dell'allarme femminicidio alla tivù. Oscar si lascia invece ammirare in boxer per casa, e lascia intravedere soltanto la punta di un iceberg che durante un tour in Gran Bretagna minaccia di far danni. E poi c'è Sofia, un po' hippy e un po' dark: giovane donna che ama tutti e nessuno, di certo non se stessa, con l'incombenza dei fratelli minori da salvare dai servizi sociali.

Cos'è oggi la mia famiglia? È il desiderio morboso di un “ciao”, di un “come stai?”, di un “vi voglio bene”. A diciott'anni avevo capito che il dolore è come una matrioska, ogni nuovo dolore contiene tutti i precedenti. Così non ti puoi abituare mai, è un meccanismo perfetto.

Schiacciati ora dalla tragedia delle eredità genetiche, ora dal peso dell'ambizione, questi tre angeli neri hanno perso le ali – eppure non gli ammiratori, non il sex appeal – nella Bologna del Dams, degli studenti morti di fame, delle droghe leggere o pesanti. Vorrebbero vivere come la Tosca, d'arte e d'amore, e stesi sotto il cavalcavia guardare le stelle confessandosi i reciproci dispiaceri nel rombare dei motori. Stare illusoriamente meglio.
Questa è la storia di Davide: migliore degli altri due, senz'altro più candido all'interno, che sceglie tuttavia di sporcarsi, di star loro accanto, anche a costo di dannarsi l'anima. Tutto fuorché le serate in solitaria, i silenzi ostinati, l'invisibilità sopportata nei peggiori giorni del liceo. Quando nascondeva natura e creatività per non brillare mai. Brilla di luce riflessa, allora, stretto fra il seducente Oscar – prima suo coinquilino, poi suo compagno: soprattutto nella cattiva sorte – e la sfuggente Sofia, che a un certo punto fa le valigie e se ne va. 
Lei, che in fondo aveva capito tutto. Che la tristezza genera tristezza e che un'anima buona come Davide, no, non se la merita. Scopriamo il suicidio della ragazza circa a pagina uno. Una corsa a perdifiato a Londra, al diavolo le gioie della prima esposizione fotografica del protagonista, e lì l'ennesimo fardello: Diamante, quindici anni e i toni sprezzanti, omofobici, che sputa sulla tomba di una madre troppo debole per stare al mondo e addita impietosamente la mancanza di carattere del solerte Davide e il corpo del fidanzato Oscar, strafatto sul divano. La convivenza improvvisata, la nuova formazione, sarà difficile. Manca il tocco solerte di una donna, un pizzico di ordine nell'appartamento a soqquadro. Manca qualcuno, soprattutto, che faccia luce sui misteri postumi di Sofia.

Era sempre stata attratta dal dolore, perché il dolore era parte di lei. Le persone come noi si riconoscono, si fiutano e poi si legano. Per un po' parlammo d'altro. Poi si alzò in piedi, si voltò verso di me con un lieve ghigno che le inarcava le sottili labbra perfette e mi disse: Ti va di urlare?

La verità del punto di vista esterno di Diamante, intanto, brucia. E brucia quello che ancora i personaggi non sanno dirsi. Una giovinezza da rievocare, un malessere di cui venire a capo e un triangolo che sin da subito ha confuso i limiti d'amicizia e attrazione. 
Che i lettori si figurino pure il grigiore delle atmosfere metropolitane di Valentina D'Urbano, gli scandalosi poligoni amorosi delle Ferite originali e la prosa sul filo del rasoio di un thriller dei sentimenti. Un trio di personaggi complessati, crudi e sofferenti, scavati con la punta del pirografo in un blocco di bellezza e dolore. A questo punto potreste capire parte del mondo di Stefano Bonazzi: grafico e scrittore al suo secondo romanzo, con il piglio accattivante dei narratori di razza e tutta la vividezza della sua passione di fotografo. L'autore ferrarese dimostra di possedere occhio, mano, pancia. Un occhio che lacrima suo malgrado, una mano che trema se l'onda blu dell'ansia sale e ci assale, una pancia che riversa violentemente sulla pagina le viscere fumanti delle più umane fra le emozioni. Abbastanza, direi, per non abbandonarlo a questa nostra conoscenza preliminare. Per abbandonarglisi.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Afterhours – Quello che non c'è

mercoledì 23 gennaio 2019

I ♥ Telefilm: The Marvelous Mrs Maisel S02 | Una serie di sfortunati eventi S03

Quanto ci eri mancata, carissima Midge? Rieccoti qui, sempre in tiro e reduce dall'ennesimo trionfo annunciato, con un ritorno all'ovile finito sulla fiducia nel meglio della scorsa annata. L'ebrea della New York bene con all'improvviso un matrimonio in forse aveva scoperto un antidoto imbattibile alla crisi esistenziale post separazione: la stand up comedy. Di giorno commessa nel reparto profumi di un grande magazzino, di notte intrattenitrice nelle peggiori bettole, indossava il suo costume da supereroina – collana di perle, un abito da cocktail – e a raffica parlava e sparlava dei retroscena dell'Upper East Side. Nella seconda stagione qualcosa si muove. Si muove lei, fulmine abbagliante fra Parigi (lì la mamma insoddisfatta), la collina (lì i due mesi di villeggiatura estiva), cinque minuti di notorietà in tivù (lì la consacrazione dopo un tour scomodo e provante). E il cabaret, piuttosto, che fine ha fatto? Relegato in un angolo, se ne sente la mancanza nelle prime cinque puntate. La serie infatti ingrana in ritardo, ma cos'altro potremmo rimproverarle? Spazio alla relazione idilliaca fra i genitori (quella, sì, ci interessa senz'altro un po' meno), al nuovo flirt per Zachary Levy (gli si preferisce tuttavia la dolce persistenza di Joel, o perfino il carisma del pittore Rufus Sewell impegnato in un ruolo secondario) e a una professione che tempra le resistenze di Mrs. Maisel. La rivelazione sulla sua doppia vita saggia la solidità dei rapporti familiari, semina gelosie e dissapori, la mette davanti all'impossibilità di stare dietro a tutto. Nonostante gli spostamenti in automobile, le questioni di cuore e la spiccata dimensione corale facciano sentire fino a metà la mancanza del vero show, la serie dei coniugi Palladino si difende alla grande con la solita grande scrittura e con una Brosnahan di cui confermare il carisma. Che dialoghi, che colori, che verve. E quanto piacciono i riferimenti a The Twilight Zone nei salotti, il gossip su quei Kennedy dai pantaloni di seta, i primi processori a cui insegnare le canzoni per bambini nei Laboratori Bell? Carissima Midge, in questo piccolo mondo maschilista che censura il brio e considera i segreti dell'intimità tabù pruriginosi, mi ripeto, quanto ci eri mancata? (7,5)

Li ho conosciuti per la prima volta da bambino, con il film con Jim Carrey: da me amatissimo ai tempi, scopro che era stato stroncato dagli appassionati della saga letteraria. Li ho incontrati nuovamente, poi, tre anni fa: facce diverse e un diverso formato, ma gli stessi lutti consequenziali; le stesse disavventure architettate da un tutore machiavellico e vanaglorioso. Qualcosa, spiace, non funzionava bene e non ha funzionato poi. Una struttura ripetitiva per forza di cose, un andirivieni frustrante e una fedeltà esagerata verso l'universo del suo brillante creatore. Tredici romanzi, tre stagioni pienissime: il troppo stroppia, soprattutto proposto in binge watching. Dopo la stanchezza subentrata nella stagione intermedia – ancora più corposa, ancora più schematica della precedente –, posso dirmi felicissimo di non aver gettato la spugna. Il meglio, infatti, doveva ancora venire: riservato a sorpresa per un gran finale che scioglie tutti i nodi, svela alleanze e parentele, mostra il meglio di scenografi e sceneggiatori. Una montagna innevata, un sottomarino, un albergo che ospita una convention super segreta, un'isola non così deserta su cui ricominciare daccapo: ambienti circoscritti, il che significa meno meno spostamenti e soprattutto meno puntate. Ce ne vogliono appena sette, più asciutte e leggere del solito, per dire addio con un po' di commozione ai Baudelaire e a un Neil Patrick Harris immalinconito. Assieme a loro,  i cambi d'abito e le bizze della meravigliosa Lucy Punch, l'egocentrismo dell'amata-odiata Carmelita e tante novità: compagnie che si smantellano; fratelli, sorelle, trigemini e latitanti pronti a darsi appuntamento nei fasti della sesta puntata; la tenerezza della piccola Sunny, che si barcamena con allegria contagiosa fra l'alta cucina e i funghi tossici. Lemony Snicket aveva un piano preciso e carte vincenti, questa volta, per avere la meglio sul pericolo irritazione facile. Si intensificano i flashback, fino a toccare la generazione precedente, così come gli inseguimenti alle zuccheriere del mistero foriere di scismi e discordie. Non ho tenuto conto dei colpi di scena impossibili, che a sorpresa non guastano. In una chiusa intelligente e metacinematografica, che dice e non dice, accenna, inventa e lascia l'ultima parola alla freschezza del futuro. In un prodotto mai visto, contemporaneamente pieno di pro e di contro, che nel suo piccolo – con il senno di poi l'ardire del tutto appare infatti frainteso, sottovalutato perfino dal sottoscritto – unisce Burton e Anderson, l'umorismo beffardo alle fiabe per famiglie, per costruire un fortino di lenzuola che rattrista abbandonare. (7)

lunedì 21 gennaio 2019

Recensione: Un giorno di ordinario narcisismo, di Giacomo Festi

| Un giorno di ordinario narcisismo, di Giacomo Festi. Augh! Edizioni, € 13, pp. 240 |

Ci sono colleghi blogger di cui seguiresti i consigli a occhi chiusi. Quelli che ogni film, ogni romanzo, te lo fanno appuntare sulla lista della spesa senza neppure stare lì a sindacare: tanto si è sulla stessa lunghezza d'onda, tanto ci si è scoperti affini. Questo non è il caso del mio amico Giacomo Festi e di Recensioni ribelli: fra lui che stronca Chiamami col tuo nome e io che lo incorono miglior film dell'anno, fra lui che abbandona la serie TV di Saverio Costanzo a metà puntata e io che invece la trovo talmente perfetta da usarla come incentivo per recuperare i romanzi successivi, siamo cordialmente d'accordo sul fatto che non andremo quasi mai d'accordo. Comunque abbiamo fatto pace da un po'. Io che gli chiedo su Instagram cosa dice Paolo Fox del segno dell'ariete, lui che s'informa sull'andamento della mia campagna di crowdfounding. Io che a un certo punto lo ospito prima nella mia libreria, poi sul blog, per fortuna parlando non del critico cinematografico bensì dello scrittore. Benché giovanissimo ha infatti firmato già cinque romanzi e, spaziando a fantasia da un genere letterario all'altro, si è fatto strada con intelligenza fra le insidie dell'editoria indipendente. Sua ultima fatica e sua tappa nel filone umoristico – difficilissimo far ridere, ho sempre pensato, se non ti chiami Francesco Muzzopappa –, Un giorno di ordinario narcisismo è la cronaca tragicomica di una giornata storta che deve avere molto di personale. Il protagonista senza nome vive a R. (come Rovereto?), aspetta il proverbiale canto del cigno all'indomani di un esordio narrativo purtroppo passato in sordina e ogni mattina programma la sveglia alle dieci in punto. Né troppo presto né troppo tardi se, condannato a lavorare quando capita, non ha l'incentivo del posto fisso o una casa tutta sua. Condivide l'appartamento con il padre divorziato e, sulla scia di Holden Caulfield, ciondola per le strade della città in un andirivieni a vuoto tanto ozioso quanto mortificante. Il giorno no del titolo gli riserva svolte impreviste e sgradite sorprese.

Quando sei in mezzo alle rapide, puoi solo cercare di rimanere a galla.

Tutti fremono per il ritorno all'ovile di Joe Rainbow, alias l'Alvaro Soler trentino, pronto a salutare i concittadini dopo l'eliminazione a un talent e l'annuncio del disco. Si dà il caso sia un odiato compagno di scuola del protagonista, che compensa ai ritornelli smielati del suddetto cantante con nichilismo a iosa. Ma si dà il caso che a poco serva tenere il conto degli amici e dei nemici della voce narrante: grossomodo, infatti, ha imparato a odiare tutti. Chi potrebbe dargli torto, in fondo, davanti a questa carrellata di casi umani che in ordine sparso comprenderanno: un piccolo vicino di casa omofobo e fascista, le Sentinelle in piedi contro le famiglie arcobaleno, un kebabbaro rissoso, un impiastro che zitto zitto vorrebbe mettersi con la sua ex e un rocker con tutti i mezzi per trasformare il Centro Giovani in una copia del famigerato Bataclan? Nessun posto è al sicuro dal marasma in agguato, nemmeno le librerie, e mentre il mondo intero sembra architettare una congiura ai suoi danni lo scrittore in crisi si renderà conto che in giro c'è gente ben più iraconda di lui. Il peggio della provincia italiana, insomma, per rafforzare la misantropia di un personaggio che già di suo brilla per intransigenza. Un'intransigenza di quelle un po' fastidiose, a dirla tutta, che mi hanno reso la sua compagna non sempre piacevole. Il protagonista ha un'opinione per tutto e tutti, e gode così tanto nel risultare caustico e provocatorio da risultare antipatico a lungo andare. Maestro (per colpa degli altri) di nullafacenza e autocommiserazione, racconta qui le gioie e le noie dell'essere una pecora nera.

Semplicemente siamo troppi e non riusciamo ad accettare l'idea di essere solo dei piccoli e semplici pedoni in questa grande e scombinata scacchiera. È come quando si annega: ci si dimena perché si ha paura di affondare. Ma l'affondare è comune a tutti. Ogni corpo che abbia un peso superiore a quello del liquido in cui è immerso affonda, alla fine.

Ho condiviso con lui l'idealismo, la frustrazione e le lotte ai mulini a vento nelle pagine più toccanti e oneste: le invettive, in particolare, contro una società che ormai punta soltanto all'apparire – e l'editoria, purtroppo, ne è lo specchio nero. È su questo, però, che io e Giacomo torniamo a essere in disaccordo: sulla gestione di toni troppo rancorosi, troppi incattiviti, per divertire sinceramente. Ricordate il personaggio di Mia sorella è una foca monaca, uomo ugualmente anonimo e attaccabrighe, capace tuttavia di gesti di gentilezza che all'improvviso rubavano il cuore? La redenzione, se anticipata di qualche pagina, avrebbe giovato. A ruota libera, in piena sbornia, il romanzo punta alla sfrontatezza: peccato che i toni sopra le righe abbiano il difetto di renderlo qui e lì piuttosto monocorde. Perfino il politicamente scorretto, in oltre duecento pagine, smette di far presa: diventa norma, non più guizzo vitale. Spero che il suo protagonista, in seguito a cinque minuti di notorietà involontaria, smetta con il fumo e la birra a fiumi, passi finalmente la scopa nella sua stanza e si accorga, come ho fatto anch'io un giorno di questi, che se la vita è una merda è preferibile non andare controvento. Ci si becca solo i moscerini negli occhi e in mezzo ai denti, solo amarezza. Perché non provare con la gentilezza adesso? Perché non aprire daccapo il file Word che tanto ci spaventa? Magari domani, che come diceva qualcuno è un altro giorno.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Francesco Gabbani – Occidentali's Karma

venerdì 18 gennaio 2019

Recensione: Epiche, amiche e innamorate, di Chiara Bernocchi

| Epiche, amiche e innamorate, di Chiara Bernocchi. Bookabook, € 11, pp. 130 |

Il mio amore per il mito è nato ufficialmente dieci anni fa, il giorno in cui ho varcato il portone del Liceo Classico per la prima volta, ma in realtà non è del tutto esatto: l'ho nutrito, infatti, sin dall'infanzia. La videocassetta consumata di Hercules e le repliche dello sceneggiato dell'Odissea su Italia Uno hanno avuto un ruolo decisivo nella scelta di quel percorso umanistico – una scuola difficilissima, mi si diceva, e una carriera in forse all'università – che, a oggi, non ho ancora concluso. Ci ho ripensato in questo periodo per una congiunzione astrale di esami da dare a breve (Letteratura greca), ricorrenze malinconiche (il decennale dell'iscrizione al quarto ginnasio) e buone letture (altra chicca firmata Bookabook, altro esordio ragguardevole): alla fatica mista a soddisfazione delle versioni da tradurre, all'attaccamento crescente a un dizionario ormai rovinatissimo, ai segreti millenari di una lingua aspra ma incredibilmente romantica. Una delle poche, come ci ricordava la prof, ad avere il duale: il numero degli amanti. Mi sono approcciato con il vento a favore, dunque, al romanzo epistolare di Chiara Bernocchi: una serie di lettere firmate dalle eroine del mito, donne a volte inermi e altre battagliere per colpa dei dardi di Cupido, che si raccontano in prima persona. 

L'amore non è né una favola né una tragedia: è quel che sta nel mezzo.

Qualcosa di simile, forse ricorderete, l'aveva fatta anche Ovidio nelle Eroidi: prestare la voce alle fanciulle abbandonate, alle spose incattivite, in epistole indirizzate agli uomini colpevoli del loro disfacimento emotivo. La Bernocchi percorre una strada alternativa: una reinterpretazione al tempo della solidarietà femminile, del movimento #metoo, che rimoderna senza stravolgere. Eccezionalmente le eroine più famose figurano qui come mittente e destinatario: si confidano con altre compagne di sventura, si svelano pian piano, si raccontano fra loro. Non sono nascoste nell'ombra, non sono figure passive e, soprattutto, non sono affatto sprovvedute. Didone scrive ad Arianna: quanta infondatezza c'è nella favola dell'anima gemella e quanto giova all'autostima la solitudine? Psiche ha fatto a occhi chiusi di Amore la luce dei suoi occhi, al punto da accettare la condizione di prigioniera e la lontananza dalle sorelle; sull'isola della ninfa Calipso, al contrario, è eternamente giorno, ma questo non basta a trattenere Ulisse, in procinto di salpare alla volta dell'indimenticata Itaca. Da un lato e l'altro della barricata, forse preso vedove, le meravigliose Andromaca e Penelope condividono preoccupazioni per i rivali Ettore e Odisseo: che le amano, ma meno del loro onore da difendere; non a sufficienza per rinunciare ai loro folli voli. Dafne fugge Apollo, Eco insegue Narciso. Medea e Deianira, assassine a malincuore, si scambiano i retroscena dei rispettivi piani di vendetta e contro i compagni che hanno voltato loro le spalle sguainano coltelli affilati.

Non provo solo dolore e incredibilmente non sono sopraffatta dalla rabbia. Nostalgia credo che si possa definire quello che provo. Un tenero ricordo di quello che è stato e che non sarà più, misto a un po' di dispiacere per quello che avrei voluto che fosse ma che non sarà. Si può essere ugualmente nostalgici del passato e del futuro?

Nonostante l'ordine della raccolta mi abbia provocato un po' di disappunto – troppo spazio alla vicenda già nota della maga della Colchide a dispetto dei personaggi minori, troppa tragedia in una chiusa per cui al posto dell'editor avrei scelto un messaggio migliore –, le narratrici che si avvicendano si confermano grandi padrone di casa. L'affascinante gineceo di Chiara Bernocchi è animato dai sussurri di queste principesse ribelli e da una scrittura di nettare e ambrosia. Coltissima, bene attenta agli epiteti, ai patronimici e ai toponimi, l'autrice emoziona gli appassionati con una godibile ricercatezza: per via degli stimoli sopravvissuti perfino al tramonto dell'adolescenza, grazie una narrativa rétro il cui sogno è omaggiare rinnovando. La Grecia non è grande abbastanza per tenere separate in compartimenti stagni le amanti sedotte e abbandonate, le Immortali dal cuore spezzato, le speranze mal riposte. Le amiche del mito si invitano perciò alle reciproche nozze, ai banchetti luculliani, sulle scene del delitto, e invitano noi all'orgoglio e alla resilienza. 
Didone scende dal piedistallo, Arianna spezza il suo filo rosso, Psiche accende la luce, Calipso predispone venti benevoli, Penelope offre riparo alla mamma del piccolo Astianatte. Qualcuna si trasforma in una pianta di alloro per sfuggire a un paio di mani lunghe, qualcun'altra vola su un carro trainato dai serpenti verso un'espiazione impossibile.
Donne per cui le guerre scoppiano e donne per cui le guerre dovrebbero finire. Donne per cui gli aedi e i rapsodi dovrebbero rispolverare le cetre e l'endecasillabo, cantare ancora.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Mia Martini – Piccolo uomo

mercoledì 16 gennaio 2019

Mr. Ciak - And the Golden Globe goes to: Eighth Grade, The Old Man and the Gun, Crazy Rich Asians

Non ci sono fotografie dei miei problematici tredici anni. Odiavo le scuole medie, la superficialità dei miei compagni di classe, i brufoli e i capelli grassi che mi mortificavano allo specchio. Meglio il liceo, di cui conservo tracce e ricordi. Dei tre anni precedenti giusto una rabbia indistinta, solo l'oblio, almeno fino alla visione di Eighth Grade. Commedia indie con un posto d'eccezione nella stagione dei premi che, a sorpresa, fra autocritica e riflessione, è stata la mia capsula del tempo. E dire che mi aspettavo un'altra delusione dopo Lady Bird, sopravvalutato raccontato adolescenziale che purtroppo mi aveva suscitato lì per lì irritazione e dèjà vu: gli stessi, infatti, sono i toni agrodolci e altalenanti; ugualmente scostante potrebbe apparire la protagonista, una mitica Elsie Fisher. A un passo dal liceo vorrebbe soltanto una migliore amica e un fidanzato: a torto, spererebbe di conquistare l'una con i regali giusti, l'altro con i pompini perfetti spiegati dai tutorial su YouTube. Come qualsiasi adolescente ha un rapporto simbiotico con le cuffiette e i social, colleziona risposte sgarbate per l'adorabile papà single e davanti a una telecamera registra video motivazionali: peccato che né lei né i suoi (pochi) follower ci credano. Eccola a mensa, seduta in disparte, o con un sorriso neutro nel bel mezzo delle conversazioni altrui: una ragazza da parete che, giunta a un bivio, vorrebbe sentirsi disperatamente parte di qualcosa. Le ho voluto un bene grande e, nonostante i dieci anni e più di differenza, ho rivisto tanto di me in lei. Con un po' di paura, tanta frustrazione e, soprattutto, infinita tenerezza. Benché di generazioni lontane, ci accomunano quel sentirsi fuori posto che non conosce età; una percezione impietosa e onesta che non aiuta, no, a scorgere la bellezza dei nostri lineamenti sotto l'acne cistica o la scarsa popolarità. Cara Elsie, credimi, è presto per l'amarezza. Ma non abbastanza per imparare che l'esteriorità non è tutto, che ogni tanto sarebbe meglio giudicarsi con maggiore benevolenza, che alcuni genitori sbagliano eppure ti restano comunque accanto. Ci si sente a metà, durante la terza media. Né grandi né piccoli: dei pesci fuor d'acqua. Aiutano i ritmi di un'irresistibile colonna sonora elettro-pop. Aiutano giovani registi come il ventottenne Bo Burnham, capaci di rendere belli – da rivalutare dal nuovo – anche gli anni peggiori. E di restituirti all'acqua, all'abbraccio dei papà mentre bruciano per sempre i sogni e le speranze, all'amore per te stessa. (7,5)

Mentre su Netflix ho ceduto ai piani criminali della Casa di carta, al cinema ho trovato una storia vera che di rapine ben diverse parla. Siamo nei primi anni Ottanta e tre nonni eleganti, garbati e sorridenti tengono in scacco banche su banche senza né ostaggi né sangue sulle mani. La banda sul viale del tramonto, la chiamano, ma nessuno riesce ad acciuffarla: nemmeno Casey Affleck, detective in crisi per l'arrivo dei famigerati quaranta. Gli anziani, nonostante le gambe lente e l'apparecchio acustico, sono sempre un passo avanti. Li guida il sempre fascinosissimo Robert Redford, galantuomo in fuga dal pensionamento anticipato, che perde il pelo ma non il vizio: nonostante qualche oggettivo problema di ritmo si alternano con garbo i punti di vista di inseguitore e inseguito e, in questa godibilissima partita a guardie e ladri, saltano fuori nuove voci da spuntare sulla bucket list, gli appuntamenti nelle tavole calde con una radiosa Sissy Spacek, dialoghi da manuale. Com'è che si dice? Chi si ferma è perduto. Non si ferma di certo il buon Robert, capace di fare ancora ridere, sognare e innamorare. Di far colpo sicuro grazie alla regia rétro del poliedrico David Lowery, senza bisogno di intimarti obbedienza con una pistola puntata al cuore. The Old Man and the Gun, addio di una stella dalle scene cinematografiche, è un commiato nostalgico e sornione con dalla sua un trio di bravissimi e le arie da canaglia. Abito di buona foggia tagliato alla perfezione sul fisico sempre solido dell'ottantaduenne, si rivela una biografia picaresca e romantica: la leggenda di un'esistenza consacrata alla fuga, al sentimento e alla finzione. Come succede nel delinquere. Come succede nella settima arte. (7)

Sono una coppia di insegnanti attraenti e affiatati a New York. I loro tratti, la loro pelle, mostra però che, per quanto ben integrati, vengono da molto lontano. Tornare alle proprie origini, a Singapore, per un matrimonio orientale con tutti i crismi. E all'ombra dei fiori d'arancio, per forza di cose, conoscere la famiglia di lui – e le prime crisi. A che prezzo infatti hanno costruito quell'impero patrimoniale? Gli uomini di casa sono sempre assenti, i tradimenti e il bisogno di apparire non si quantificano, le nuore sono sottomesse alle mamme e le mamme sono sottomesse alle nonne. La rivoluzione per l'arrivo della straniera, ovviamente, prevederà sontuosi cambi d'abito e intensi faccia a faccia durante le partite a majong; un doveroso lieto fine, con tanto di intrecci da sciogliere in un sequel già annunciato, in cui ci si accorge di come l'usurpatrice ne abbia cambiato le percezioni battendoli al loro gioco. Ispirato al primo romanzo della trilogia di Kevin Kwan, Crazy Rich Asians ha spopolato al botteghino e si è fatto valere perfino ai Golden Globe. Qual è l'ingrediente segreto di una classica commedia di fine estate, con il pregio di due insoliti occhi a mandorla? Un cast di belli e bellissime, in cui è agguerrito il testa a tesa fra l'irresistibile Constance Wu e Michelle Yeoh, perfida ma con classe; la commistione tutta grattacieli e luccicori fra Il mio grosso grasso matrimonio greco e Orgoglio e pregiudizio. Il risultato? Una fiaba opulenta, dai risvolti finali non così scontati, che corrompe anche gli insospettabili con la leggerezza di cui c'è sempre bisogno e scorci di un Oriente che è un piacere per gli occhi. Se le due ore scorrono senza intoppi, tra compratori compulsivi pronti ad accaparrarsi già a fine visione accessori e oggetti d'arredo e cinici che pensano che la commedia non sia il mezzo adatto per parlare di disuguaglianze razziali, comunque poco male: viva la superficialità a fin di bene, viva le ventate di buonumore. Dopo Searching, riecco la rivincita di una minoranza che conquista il centro della scena affatto in punta di piedi. Rendendoci tutti pazzi, ma di loro. (6,5)

lunedì 14 gennaio 2019

Recensione: Storia del nuovo cognome, di Elena Ferrante

Storia del nuovo cognome, di Elena Ferrante. E/O, € 19,50, pp. 480 |

Dopo anni di lontananza, io che pecco talora di memoria corta e incostanza, ho inaugurato un nuovo anno di letture facendo ritorno al rione. Il passo finalmente sicuro, uno sguardo più abituato a cogliere la poesia delle piccole cose e a mo' di bussola, tanto di cappello allora alla spassionata fedeltà della sceneggiatura, la miniserie Rai del bravissimo Saverio Costanzo. Ho usato la trasposizione televisiva, con il senno di poi perfetta tanto nella resa visiva quanto nella puntualità dei gesti e delle situazioni, come ripasso generale. E durante questo inverno crudele che porta presso le città costiere la neve a fiocchi pesanti e altri malanni, io come tanti, fra frequenti indigestioni da cenone e raffreddori stagionali, ho scelto volutamente di ammalarmi – ma della febbre Elena Ferrante. Un contagio che in libreria avanza, incalza, martella, a tal punto da vincere i sistemi immunitari dei lettori riottosi. Un'influenza di quelle belle, bellissime, a cui è impossibile resistere rifuggendo la pazza folla: questa volta, tocca ribadirlo, i best-seller hanno ragione. All'indomani di una tesi che mi aveva guidato nella Napoli sismica del teatro post-eduardiano, fra contraddizioni dolenti e pastiere irresistibili, sono tornato alle origini con qualche consapevolezza aggiunta, tutti e quattro i romanzi già sul comodino e una maturata pazienza. Il sangue del Sud, l'accento pure. Nelle orecchie, Lila e Lenù che mi parlavano per tutto il tempo con la voce delle interpreti Gaia Girace e Margherita Mazzucco. Stesse inflessioni, stessi non-detti, stessa fierezza da ingoiare a forza sotto forma di bocconi quanto mai amarissimi. Non le ho lasciate, così, nell'estate di quattro anni fa, ma soltanto lo scorso dicembre: con i titoli di coda che le sorprendevano dal nulla proprio durante quel fatidico matrimonio, protagoniste di una consapevolezza che mortificava all'improvviso il candore speranzoso delle spose novelle.

«Non volevo che mi vedessi.»
«Gli altri ti possono vedere e io no?»
«Degli altri non m'importa, di te sì.»

Se moglie ad appena sedici anni, no, la tua storia non può mica finire lì: può soltanto cominciare. Con un nuovo cognome come da titolo – Carracci –, e nuove conseguenze imprevedibili sulle vite degli altri. Soprattutto su quella di Lenù, nemica adoratissima, che per sua fortuna può dedicarsi allo studio, non ai degradanti doveri del talamo coniugale; al successo professionale, non alla prole da educare. 
Queste cinquecento pagine scarse contengono i sei anni immediatamente successivi. 
All'una tocca accettare a malincuore le leggi non scritte del rione – gli schiaffoni, le logiche economiche, l'aggressività di quel degno erede di Don Achille che in casa getta via la maschera – e, riposta la solita superbia, si scopre che a poco servono il lusso della vasca da bagno, la gigantografia nel negozio a Piazza dei Martiri, i privilegi di scoprirsi la moglie di un munifico salumiere sempre con le mani in pasta, contro la paura e la tentazione della “smarginatura”. Lila si vergogna, si annoia, e per capriccio rovina ogni cosa – le relazioni, i pranzi e le cene, le vacanze al mare – quando non è lei l'anima della festa. 
Quanta verità c'era in quella frase, leitmotiv della loro lunga complicità: quello che fai tu, faccio io? Mentre la sua amica geniale si ferma alla terza elementare, Lenù – raisoneur intellettuale, osservatrice ai margini dell'azione, confidente per eccellenza – punta prima alla maturità a pieni voti, poi a Pisa, infine a Milano. Ci si allontana dal rione, infatti, soltanto per merito o per la leva obbligatoria. E lei ha scelto di brillare studiando per non diventare come le donne del quartiere: vittime dei padri padroni e dei fratelli, dei mariti, e perfino di una forza di gravità che inevitabilmente ne amplia i girovita e ne appesantisce i seni.

Anche se sei meglio di me, anche se sai più cose di me, non mi lasciare.

Via gli occhiali antiquati, via la cadenza campana, via l'imbarazzo dei brufoli. Via una notte, sul bagnasciuga, il fardello della verginità, e purtroppo con la persona sbagliata. Eternamente inadeguata, fuori posto, la narratrice è troppo intelligente per la provincia, troppo provinciale per l'università. Troppo dimessa e troppo fortunata per qualcuno come la signora Carracci, sciantosa e miserabile contemporaneamente. Crescere la costringere a involversi, a mostrarsi orgogliosa e sboccata – insomma, più Lila –, per non essere fagocitata in un giunga di pendolari rumorosi e letterati dalle mani lunghe. E Lila, allo stesso tempo, diventa più lei. Si alternano, si avvicendano, si inseguono. Agli amori dell'una corrisponde l'abbandono dell'altra, al rifulgere lo sfiorire. In principio per superarsi smaccatamente, competitive come lo erano sotto la guida della maestra Oliviero a scuola; qui per darsi forza. Anche a costo di rubarsi a vicenda sogni, libri e fidanzati, per poi fare a metà di tutto.

Com'è facile raccontare di me senza Lila: il tempo si acquieta e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni come valigie sul nastro di un aeroporto; li prendi, li metti sulla pagina ed è fatta. Più complicato è dire ciò che in quegli stessi anni accadde a lei. Il nastro allora rallenta, accelera, curva bruscamente, esce dai binari. Le valigie cadono, si aprono, il loro contenuto si sparpaglia di qua e di là. Oggetti suoi finiscono tra i miei […].

Rispetto al primo romanzo i nomi si calcificano nella memoria, non si corre a sbirciare lo schema riassuntivo in apertura in preda alla confusione. Si snelliscono i collegamenti, le parentele, le rivalità fra Carracci e Solara – Stefano e Marcello diventano soci del calzaturificio Cerullo – e il rione appare un microcosmo ormai familiare. 
Fa bene cambiare aria, però, e c'è il mare che guarisce ogni cosa: i ventri aridi, la nostalgia. Appiana i divari. Le amiche del cuore di Elena Ferrante, benché abbiano cuori enormi e un po' cattivi, si concedono una villeggiatura nella parte più emozionante dell'intero romanzo: la leggerezza che ogni estate dei diciotto anni si merita, le confidenze in una Ischia da viversi non più in solitaria, le onde che restituiscono a riva le apparizioni dell'amato Nino Sarratore e i segni premonitori della tempesta imminente. Lenù resta sotto l'ombrellone, impacciata nel costume intero che stringe impietoso sulla silhouette di cui si cruccia; Lila impara a nuotare. E nuota meglio di lei, forte e lontano: irraggiungibile? 
Storia del nuovo cognome è il tassello immancabile di una saga al femminile che cresce di volume in volume, un sì decisivo. Una scatola salvata alla furia dell'Arno per ricostruire coi brividi a fior di pelle gli amori e gli odi alterni; le sofferenze tenute segrete, i traguardi ostentati, e viceversa; le parole che non si sono mai dette. Quello che sono diventate quando, purtroppo o per fortuna, lontane. Nel cuore dell'azione, nei ventricoli della vita, nel sangue dei ricordi.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Nada – Senza un perché

venerdì 11 gennaio 2019

I ♥ Telefilm: You | Black Mirror: Bandersnatch

Una bella ragazza entra in una libreria: una di quelle piccole e polverose, che si vedono giusto in certi angoli di New York. Cerca il libro perfetto. E tu, sorridente e alla mano dietro il bancone, sai consigliarglielo al volo: siete chiaramente anime gemelle. Ancora più romantico, ancora più cinematografico, è il secondo incontro: lei, che beve un po' troppo per dimenticare gli amanti sbagliati e i padri deludenti, scivola sulle rotaie in metropolitana e batte la testa. Tu ti precipiti, e da bravo principe – nessuna calzamaglia azzurra, ma un look finto trasandato che fa invidia agli hipster veri – la salvi dal treno in corsa. L'amore, che ha bisogno di gesti galanti e cavalleria vecchio stile, inevitabilmente nasce. Abbastanza forte da vincere l'imbarazzo di quella prima volta in cui hai fatto cilecca a letto, i sospetti reciproci, le stranezze. Cieco, al punto da ignorare un piccolo dettaglio: niente, nemmeno il dardo di Cupido, è stato un caso. Le grandi opportunità hanno bisogno di una spinta, di forzature a fin di bene: della tua lei, infatti, conoscevi già le mosse, i post su Facebook, l'ambizione di diventare scrittrice e gli interni dell'appartamento da studentessa. Hai commesso un'effrazione nel suo privato, l'hai studiata e manipolata per mesi, e lei non se n'è accorta: ha occhi solo per te. Al punto da non notare quasi l'ex sparito dalla circolazione, gli avvertimenti di amiche tutt'altro che rassicuranti, il fatto che frequenti la stessa fiera letteraria in costume o lo stesso terapeuta. Il modus operandi di un tenero stalker innamorato che smuove mari e monti, ammazza a sangue freddo rivali e testimoni, al servizio di un lieto fine mai fuori moda. Il punto di vista è eccezionalmente il suo, il cattivo di turno, ed è una provocazione ardita nell'era del #metoo e del femminismo battagliero: oggettivare una donna, per di più una vittima, e lasciare la parola al suo subdolo carnefice raccontandone i misfatti e i segreti, però, con i toni di una commedia sexy. Rendendocelo addirittura simpatico, in un esercizio dialettico di gran lunga superiore alle note stonate del cast – Madre Natura è stata magnanima con le bellissime Elizabeth Lail e Shay Mitchell, meno la scuola di recitazione – o agli immancabili scivoloni di casa Lifetime: aiuta senz'altro la scelta dell'ottimo Penn Badgley per protagonista, già adorabile sfigato in Gossip Girl. A metà fra il serio e il faceto You è un thriller psicologico destinato a sorpresa a un finale shock. L'esempio di un mainstream che sa dividere e provocare il pubblico con leggerezza, di un guilty pleasure che ci rende letteralmente colpevoli – e complici – di un amore malato a cui non si resiste. (7)

Un adolescente della provincia londinese con un trauma da metabolizzare e un videogioco da brevettare, sogno nel cassetto tutt'altro che atipico negli abusati anni Ottanta dell'inguaribilmente nerd Ready Player One. Prove tecniche, tentativi frustranti e scongiuri non bastano, se l'asticella è troppo in alto per un programmatore alle prime armi: adattare un romanzo famigerato, fatto di labirinti senza via d'uscita e svolte pericolose, il cui autore era andato incontro ai mostri della follia. La storia potrebbe ripetersi, quando la scadenza – due settimane per consegnarlo ai piani alti – diventa un'ossessione. Niente di nuovo, diremmo leggendo il canovaccio di Bandersnatch: branca di Black Mirror, all'indomani della deludente quarta stagione, di cui tutti parlano dalla fine di dicembre. Il motivo? Del protagonista, il fragile Fionn Whiteahead di Dunkirk e The Children Act, puoi sceglie la marca di cereali, la musica in cuffia, la sorte ugualmente macabra di assassino o assassinato. Allucinogeni sì, allucinogeni no? Salvare il collega Will Poulter, oppure sacrificarlo con un salto giù dal cornicione? L'evento diretto da David Slade ha sviluppi diversi e diversi finali (cinque, per la precisione), da quelli tragici a quelli più trash – surreali lotte all'ultimo sangue, svariati cadaveri da occultare, strizzate d'occhio ai sempre affascinanti meccanismi metatelevisivi, toccanti rese dei conto in viaggi in treno in rewind. A scegliere siamo noi, sceneggiatori per un giorno: telecomando alla mano e, preferibilmente, tanta voglia di sperimentare un'altra faccia dello specchio nero di Charlie Brooker. Ma quanto possiamo realmente scegliere? Quanto possono scegliere i protagonisti, soprattutto, divisi fra il libero arbitrio e il sadismo di noi amanti del binge watching sfrenato? Peccato che la resa, questa volta, sia superiore all'idea stessa. Bandersnatch funziona più in pratica che in teoria: forma di intrattenimento interattivo tutt'altro che pionieristica, ma che domanda spettatori partecipi e volenterosi. Impossibile, altrimenti, farsi andar bene una storia inconcludente e pretestuosa che come episodio a sé purtroppo non appassionerebbe. Ci si aspettava un giocattolo tecnologico che fosse meno tale e più vicino ai fasti delle stagioni passate. Un appuntamento su Netflix che avesse contenuti, insomma, non soltanto la vaga euforia degli esperimenti mordi e fuggi. Chiamiamo le cose con il loro nome. Il tanto chiacchierato Bandersnatch, infatti, è nient'altro che aria fritta. Aria fritta molto divertente, inutile negarlo, purché non sia indice di quella quinta stagione attesa al varco con un po' di motivato scetticismo. (6)

mercoledì 9 gennaio 2019

Recensione: La segretaria, di Renée Knight

| La segretaria, di Renée Knight. Piemme, € 19,50, pp. 305 |

Leggi segretaria in cima a una copertina conturbante e il primo pensiero non è per la signora di mezza età che nella sala d'attesa del dentista ti fa firmare liberatorie o ti rivolge dal bancone sorrisi di convenienza. Uomo o donna che tu sia, infatti, non importa: penserai comunque a uno sguardo sornione incorniciato da un paio di occhiali non graduati, a una gonna al ginocchio con sotto calze velate e tacchi alti. Colpa del cinema noir, della commedia sexy degli anni Sessanta, che hanno fatto del ruolo di queste figure professionali – riservate, attente, onniscienti – un nostro fumoso sogno erotico. Purtroppo o per fortuna il secondo romanzo di Renée Knight non cade nel cliché. Anche se le confidenze troppo intime tra capo e impiegata – due donne di potere, in definitiva, come negli irresistibili Da una storia vera e Un piccolo favore si sarebbero prestate benissimo. Anche se, a conti fatti, la storia della segretaria bella e manipolatrice immaginata a scatola chiusa avrebbe avuto maggiore appeal sul sottoscritto, piuttosto annoiato invece dall'ultima lettura di dicembre.

Ho mentito “per” Mina così tante volte, capisci? Ma mai “a” lei.

All'inizio del romanzo Christine, mamma poco presente e moglie disposta a rinunciare facilmente al proprio matrimonio per un'ingrata ascesa, non sa di firmare un patto di sangue con la sua datrice di lavoro, Mina: donna, al contrario suo, benvoluta ed emancipata con la fama di essere la risposta femminile a Gordon Ramsey. I giornali parlano con reverenza dell'anziano padre Lord, dell'educazione in Svizzera, di una relazione glamour ma puramente di facciata con un attore di soap opera e, soprattutto, di un'etica professionale assai meno limpida del previsto. Erede di una catena di supermercati, presenza ricorrente sui rotocalchi e presto conduttrice di un programma culinario di successo, quella Mina sempre impegnata lascia impegni e corrispondenze da sbrogliare – colpe comprese – alla sua collaboratrice. Una presenza invisibile che per diciotto anni la assiste negli imbrogli grandi e piccoli senza batter ciglio, e insieme a lei impara ad apprezzare le camicette Armani, i pregi di una dizione perfetta, la vita pubblica rispetto a quella privata.

Io e Mina fiorimmo insieme. Lei naturalmente, come una specie dominante. Io, invece, come una pianta del sottobosco, che sbocciava alla sua ombra.

Finché un giorno tutto crolla sulla scia dello scandalo. L'insoddisfazione degli agricoltori trascina la Appleton's al completo in tribunale: la segretaria, servile ai limiti della spersonalizzazione e inconsapevole per tutto il tempo di ciò che accadeva sotto il suo naso, è la pedina più sacrificabile. A metà si parla di inchieste e scandali finanziari, di una burocrazia dagli ingranaggi mal oleati e d'intralcio alla giustizia. Temi tutt'altro che accattivanti, se si immaginava purtroppo qualcosa di diverso: un thriller psicologico, magari, che trattava di mobbing e rivincite fuori dalle aule di tribunale. Se un intreccio da dramma giudiziario non assicura né brividi né colpi di teatro, linearissimo nonostante descriva due decenni di taciti servigi, l'isolato punto di forza sta allora in personaggi talmente convincenti da valere una lettura altrimenti senza nerbo. Mancano i ritmi, manca il mistero. Se la protagonista appare sin da subito alla disperata ricerca di approvazione, infatti, l'altra è la classica donna di potere amichevole in teoria ma velenosa in pratica. A un passo dall'invidiata Villa Minerva si consuma così la placida vendetta di una professionista tranquilla e metodica anche nel crimine. Christine, spesso sull'orlo di una crisi di nervi, conosce a memoria password importanti e gli effetti proverbiali dell'ira dei miti: abituata com'è a un lavoro implacabile perché sempre uguale a se stesso, il quale richiede riserbo e spirito di osservazione in cambio di sparute soddisfazioni. Gli stessi compromessi, in fondo, richiede anche la lettura della Knight: una vicenda che si fatica a incasellare, benché non dispiaccia.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: The Hives – Nasty Secretary

lunedì 7 gennaio 2019

Blogversary | La crisi del settimo anno

Sette anni, parecchi.
Quelli della crisi, o così dicono. 
Il blog non perde un colpo nella sua programmazione settimanale, ho post su post per i giorni a venire, eppure è vero, non lo nascondo: la crisi, nell'aria, c'è. 
Quella di una piattaforma, Blogger, ormai in caduta libera. 
Quella verso i social, in particolare Instagram, che vorrebbero sostituire la frivolezza delle fotografie alla ricchezza della parola scritta, i Like opportunistici ai vostri commenti.
Su questa barca, mi accorgo nel classico post-bilancio d'inizio gennaio, siamo sempre meno. Un manipolo di superstiti che non troppo si cura delle testate confinanti che chiudono i battenti, dei colleghi in pausa di riflessione ormai a tempo indeterminato, delle visualizzazioni modeste o di interazioni non coinvolgenti quanto in passato. Lo scriveva già la mia amica Lisa, con cui, durante questa ricorrenza, mi trovo a condividere le riflessioni (sul divenire generazionale e una concorrenza altrove spietata), i dubbi (perché spendersi tanto se la scrittura è in crisi d'identità?), la nostalgia (quanti eravamo un tempo, e guardate adesso: cosa sono tutte queste case sfitte nel vicinato, con le assi alle finestre e i giardini con l'erba troppo alta?). Non si cede alle dirette o alle videorecensioni su Youtube, ai sorrisi in posa su un profilo privato che ospita le mie letture e poco altro (lo so, che noia), alla tentazione di fermarsi qui. All'anno di una crisi da far passare in fretta, allora, fra l'ultimo esame il 16 del mese e la laurea si spera ad aprile, i comodini e gli hard-disk che pesano già per tutto ciò che di bello c'è da recuperare, una piccola esperienza editoriale che ho la crescente paura si fermi ad appena novanta copie dal traguardo (se non lo avete fatto, date una chance al mio romanzo in forse).
A ben vedere, però, qualcosa resta: l'essenziale.
L'atmosfera da tavola calda che piace a me, se si incrociano ormai sempre le solite facce e una chiacchiera tira immancabilmente l'altra. E resto io, che ho il bisogno vitale di leggermi e farmi leggere e, a volte, tanto mi basta. Per il vecchio desiderio di condividere le pagine e i sogni, di scambiare occhiate e saluti, di parlare a voce alta se l'apatia mi schiaccia tutti i giorni in un angolo senza niente di interessante da aggiungere alle conversazioni altrui. Voi come me, scommetto. Voi con me. Mangiamo allora questa torta immaginaria in buona compagnia e, per favore, grazie, non lasciamoci mangiare.
Sette anni, parecchi.
Quelli della crisi, o così dicono. Ma, in fondo, un po' mentono. 

venerdì 4 gennaio 2019

Mr. Ciak: Suspiria | Bird Box | Un piccolo favore

Come riproporre un cult se non stravolgendone i connotati? Come bissare il successo di Chiamami col tuo nome se non cambiando pelle? Luca Guadagnino, atteso con ansia e po' di scetticismo al varco, sceglie di spiazzare appassionati e detrattori. Dopo le estati assolate in quel di Crema, si passa al rigore dell'autunno tedesco: luci fioche, piogge incessanti e, se nel pieno degli anni Settanta, sconvolgimenti che riguardano la rivoluzione sessuale, il terrorismo e i conti in sospeso con il Reich. Lo sbalzo di temperatura si avverte. Tocca indossare una sciarpa di lana e condividere con Dakota Johnson, americana in fuga dalla famiglia mennonita, i brividi di freddo e lo smarrimento. Non eravamo abbastanza preparati alle escursioni termiche di un microcosmo diverso da ciò che avevamo immaginato decifrando carte o recensioni. Non eravamo abbastanza preparati a questa operazioneche porta un titolo importante e il pregiudizio del remake, e al suo essere altro da sé. Dimenticate i colori pastello, le mezzepunte e le protagoniste sprovvedute: questa Susie, spavalda e desiderosa di primeggiare, rimpiazza presto le colleghe scomparse e pende dalle labbra della Swinton, magnetica Pina Bausch ai vertici di un'arcana congrega. A spadroneggiare è il pallore claustrofobico del grigio e, mentre nell'altra stanza i movimenti della nuova arrivata hanno effetti magici sulla fanciulla sventrata di cui tutti parleranno all'uscita dalla sala, riconosceremo come protagonista morale lo struggente psichiatra tanto tranchant nel diagnosticare l'isteria della paziente Moretz quanto incapace di elaborare la sparizione della moglie Jessica Harper, deportata in un campo di sterminio nel clou del Nazismo (paradossalmente a interpretare l'unico personaggio maschile è sempre la Swinton, trasformista da Oscar la cui espressività fa per tre). Nel grembo dell'accademia Markos riecheggiano i suoni bellissimi di Thom Yorke, sussurro fra i sussurri, e si sperimenta tutta la complessità dell'essere donne: ora complici, ora rivali, le usurpatrici bugiarde e le aspiranti stelle di Guadagnino si danno a un'insana competizione e a sacrifici disumani. Lì vigono una dieta ferrea, sonni brevi e tormentati, e le esistenze delle allieve ci appaiono fragili e incantevoli come quelle delle farfalle. Conturbante dall'inizio alla fine, discutibili punte kitsch a parte, Suspiria somiglia alle coreografie tribali e irrequiete che mostra; a quella danza contemporanea non per tutti, fatta di torsione dei polsi, piedi battuti, sospiri parlanti. Destinato a farsi amare o odiare, come le recenti fatiche di RefnAronofsky Aster insegnano, è un trip lungo e densissimo per coloro che sanno che l'intreccio non è tutto, che i guanti di sfida vanno raccolti, che credono nella fascinazione a scoppio ritardato. Poco sangue, nessun sobbalzo in poltrona e i temi su temi di chi troppo vuole e nulla stringe. O forse no? Le serpi della Markos ti ipnotizzano, ti avviluppano nelle loro spire e ti ingoiano. Hanno tradito lo spirito comunitario degli inizi, dedicandosi a corruzione, sadismo e balletto. Ma una buona madre non è soltanto severità, ma anche misericordia. Non è soltanto sangue a fiumi, ma anche fettine di pere dolcissime a colazione. Alzate le luci, per favore, questo cielo uggioso mi opprime. Alzate la voce, questi sussurri nel cuore della notte – riflessioni concitate sulla sete di potere e gli effetti deleteri degli “ismi”: sì, femminismo compreso – assillano. Il regista palermitano mi scontenta e va oltre. Anche a rischio che il passo sia più lungo della gamba. Per fortuna intervengono l'agilità felina delle danzatrici e il tocco dei migliori della classe con la signorilità per marchio di fabbrica. E questo passo, per quanto affrettato, per quanto folle sia, non troppo a sorpresa gli riesce: passaggio chiave in una coreografia di corpi, di morti, in cui bellezza e repulsione ballano gomito a gomito il loro sabba della fertilità. (7,5) 

Ho ripensato al romanzo La morte avrà i tuoi occhi lo scorso marzo, quando nel descrivere il mondo post-apocalittico del tesissimo A Quiet Place mi ero dato ai confronti con l'odissea di Josn Malerman. Se nell'esordio alla regia di John Krasinski si viveva infatti in un religioso silenzio, fra le pagine dell'autore americano vigeva la mortificazione di un senso alternativo: la vista. Una storia ben più originale su carta che trasposta – altro modello di riferimento, E venne il giorno – doveva farsi inevitabilmente film cavalcando le mode. Un intrattenimento funzionale e senza grandi pretese, già record sulla piattaforma streaming, di cui nessuno piangerà il mancato passaggio in sala. Fiori all'occhiello: Susan Bier, regista premio Oscar ben prima del buonismo successivo al #metoo, affatto ispirata lontana dalla sua impegnata Danimarca; un'ottima Sandra Bullock, insolita eroina colta in contropiede e in tarda età da una gravidanza indesiderata. La collaborazione, perdonate il gioco di parole, non regala niente di mai visto. Se la regia sprovvista di guizzi e la lunghezza ingiustificata denunciano un'attitudine spiccatamente telefilmica – vedasi la prima ora, soggiorno in una casa stipata di sopravvissuti all star al pari di episodio di The Walking Dead –, la seconda compensa con una palpabile tensione. Un viaggio della speranza lungo due giorni, sfidando le rapide e la cecità, in cui una mamma per caso – il machete in una mano, due bambini da proteggere nell'altra – sfida creature per fortuna mai svelate, pazzi all'ultimo stadio e la propria inadeguatezza. Bird Box non mostra niente, come nelle volontà iniziali del suo autore, e non procede alla cieca: fedele alla consolidata tradizione dei survival horror e alle energie di un'attrice che accetta il terrore, e la genitorialità, con consapevolezza crescente. In un giorno infrasettimanale seguite pure a occhi chiusi il canto degli uccelli, il moto delle onde, i suggerimenti di Netflix. (6,5)

Introdotte da una compilation di vezzose canzoni francesi, elegantissime con le loro gonne a campana o quegli smoking sorprendentemente sexy, Anna Kendrick e Blake Lively sono un'improbabile coppia al centro di un'amicizia tutt'altro che disinteressata: tanto imbranata e social la prima, quanto seducente e introversa la seconda, si conoscono a scuola accompagnando i figli piccoli e proseguono la conoscenza nella casa di Blake, dotata di una cucina da catalogo e dell'aitante Henry Golding per marito. Il piccolo favore del titolo si trasforma in un ingarbugliato mistero all'indomani della scomparsa della donna con tutto (da nascondere). Seguirne le tracce significa imparare a conoscerla, somigliarle nei modi e nel vestire: rimpiazzarla. La Kendrick, tra un'investigazione e l'altra, ruba candidamente alla collega villa e compagno, mentre l'assenza dell'altra comincia a farsi inquietante. Di cosa si tratterà: spiritismo, disturbo post-traumatico, oppure una congiura? Liberamente tratto dal romanzo di Darcey Bell e campione di incassi in patria, complice il traino di due splendide e autoironiche padrone di casa, la commedia nera dell'incostante Paul Feig cita espressamente il noir Les diaboliques, ma vorrebbe seguire piuttosto la scia di Big Little Lies: nomi risonanti, scenari lussuosi, sporchi segreti. Come da programma innumerevoli sono i cambi d'abito per la gioia delle spettatrici più glamour – e di cambi di punti di vista tanto repentini da risultare purtroppo inverosimili –, le infornate industriali di brownies e i morti ammazzati, nell'ennesima declinazione dell'ormai famosa complicità femminile. Il risultato, meno soddisfacente del previsto, è un film giocoso e intelligente i cui piani criminali sono sabotati tuttavia dal brutto finale. Poteva venire fuori l'ibrido innovativo lodato dalla critica americana, ma non lo permette una scrittura che va facendosi approssimativa né un'aria patinata con cui stentano a fare pendant le tinte fosche. Poco male. Resta infatti un cocktail rinfrescante, sorseggiato da due mattatrici affiatate e sempre in ghingheri. Un dissetante guilty pleasure che senza troppi rimpianti tale rimane, lì dove avrebbe potuto trasformarsi nello chick lit fra il rosa e il noir che ancora mancava all'appello. (6)