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venerdì 9 agosto 2019

Recensione: Norwegian Wood, di Haruki Murakami

| Norwegian Wood, di Haruki Murakami. Einaudi, € 13, pp. 380 |

È uno dei maggiori successi orientali di cui si abbia memoria. Acclamato alla stregua di un moderno classico, paragonato ora a Charles Dickens e ora a J.D. Salinger, era uno dei buoni propositi di quest’estate: uno dei tanti romanzi da leggere, uno dei tanti autori da scoprire dal nuovo. Non essendo la classica lettura da ombrellone né amando particolarmente i narratori giapponesi, l’ho affrontato con il timore reverenziale che riservo soltanto ai grandi scrittori. Qualcuno me ne parlava come del romanzo della vita. Qualcun altro, invece, lo trovava sopravvalutato e durante la lettura ammetteva di aver sentito nostalgia del Murakami più surreale. Opera di un autore già affermato, apprezzato soprattutto per i toni onirici e hard-boiled dei romanzi precedenti, ha diviso i lettori di ogni dove come soltanto i successi fanno.  E, a trent’anni dall’uscita, continua a farlo. Come l’ho recepito io? Pesante nelle tematiche, molto meno nella scrittura, il romanzo sorprende per un apprezzabilissimo senso dell’ironia e un’attenzione inaspettata per il calore del corpo umano, per le armonie segrete del sesso. Lontano dalla pudicizia che di solito si associa al Sol Levante, denso di riferimenti alla cultura occidentale, è una passeggiata vitale e gaudente nel cuore di una foresta incontaminata, nonostante il puntuale sollevarsi della nebbia suggerisca a ogni passo mestizia e smarrimento. L’autore lo scrisse di getto fra Atene e Roma, in un tour europeo durato appena tre mesi. Strutturato in un lungo flashback, con un protagonista ormai quarantenne che, galeotta la canzone giusta, rivive con la mente le sue storie d’amore giovanili, mi ha ricordato a tratti l’esuberante intellettualismo di Chiamami col tuo nome: riferimenti alti e bassi, citazioni frequenti, personaggi lontani per chilometri e cultura dai ventenni di oggi ma mossi da una malinconia che alla fine, lentamente, contagia.

A volte ho l’impressione di essere diventato il custode di un museo. Un museo vuoto, senza visitatori, a cui faccio la guardia solo per me.

La struttura è di quelle fragili ed essenziali, al punto che si fa fatica a individuarne il nucleo fondamentale: da copertina, il triangolo sentimentale fra Watanabe, Naoko e Midori. Lui, descritto nell’arco di tempo che va dai diciotto ai vent’anni, è lo studente spiantato e solitario di un collegio maschile: affezionato alla sua solitudine, studia teatro ma senza passione e, in compagnia dell’amico Nagasawa –  dongiovanni ricco e spietato, che tradisce platealmente la fidanzata Hatsumi –, rimorchia ragazze senza trasporto alcuno. Watanabe non sa godere dei piaceri della carnalità. Non sa amare. Sbarca il lunario vendendo dischi e, nel privato, si sbottona pochissimo. Attirato segretamente dallo squilibrio e dalla tristezza, nel caos della rivoluzione studentesca intrattiene una doppia relazione. Appare perlopiù epistolare quella con Naoko, la fidanzata storica del migliore amico morto suicida: ricoverata in una clinica paradisiaca all’ombra dei monti, dove si confondono medici e pazienti, la giovane fa i conti con violente allucinazioni auditive e una depressione dalle radici profonde. Il protagonista, suo unico contatto con il mondo esterno, la aspetta.

- Può darsi che io non guarisca mai. Mi aspetteresti lo stesso? Ce la faresti ad aspettarmi dieci anni, vent’anni?
- Tu hai troppa paura, - dissi. Del buio, dei brutti sogni, del potere dei morti. Quello che devi fare è dimenticarli, se riesci a dimenticarli ce la farai sicuramente a guarire.
- Se riesco, a dimenticare, - disse Naoko scuotendo un po’ la testa.

E nel mentre? Nel mentre c’è Midori, che è calda, vivissima, presente: una femminista sfrontata e irresistibile, con le gonne vertiginose, domande bizzarre sui condizionali inglesi e la masturbazione, una passione incrollabile per i cinema a luci rosse e per il cibo, che non rinuncia a mangiare di gusto perfino alla mensa dell’ospedale. Se la prima è perseguitata dal mal di vivere, l’altra fa i conti con l’ereditarietà della malattia: suo padre, un modesto libraio di provincia, sta morendo per un tumore al cervello, e la stessa tragedia ha colpito anni prima anche la madre. Il protagonista all’università studia Sofocle ed Euripide. Le tragedie dei drammaturghi greci – dolorose e ingarbugliate quanto o più di quelle che accadono ai comprimari – sono sempre risolte dall’intervento provvidenziale del deus ex machina. In attesa che un’entità misteriosa dissipi magari anche la cupezza dei suoi pensieri, Watanabe fa i conti con il senso di colpa dei superstiti e, come nella tradizione dei migliori romanzi di formazione, realizza che vivere, in fondo, significa andare avanti e dimenticare. Altrettanto crescere. A volte la morte divide, ma in Norwegian Wood eccezionalmente unisce. Il protagonista, allora, si dà a lunghi colloqui. Come l’acqua, prende la forma del recipiente che lo ospita e del suo interlocutore. Di domenica, dopo aver fatto il bucato, Watanabe va a zonzo senza bisogno di parole superflue e si nutre di dettagli impercettibili – un fermaglio a forma di farfalla, una lucciola intrappolata in un barattolo, un incendio spiato su un tetto –, storie di perfetti sconosciuti – la quarantenne Reiko, il mio personaggio preferito, un’insegnante di pianoforte con un mignolo che non le obbedisce e una scandalosa relazione omosessuale con una studentessa tredicenne che ha mandato all’aria il suo matrimonio –, baci dati o promessi qui e lì.

Diventerò adulto. Devo farlo. Finora ho sempre pensato che avrei voluto oscillare in eterno tra i diciassette e i diciott’anni, ma adesso non lo penso più. Non sono più un ragazzo. Comincio a sentire le responsabilità. Io non sono più quello che tu hai conosciuto. Ho vent’anni ormai. E devo pagare il prezzo per continuare a vivere.

Seguendolo nel suo cammino, impossibile nasconderlo, a tratti ho provato una certa insofferenza. Forse, un po’ di noia.  Sono un lettore semplice: mi piacciono storie con inizio, svolgimento e fine. Sono un lettore appassionato, a cui piacciono le scritture di cuore. Norwegian Wood è frammentario e ondivago: una reminescenza retta dalla stessa struttura ballerina dei flussi di coscienza. A tratti, è distaccato proprio come immaginavo. Ha troppe pagine; soprattutto troppi suicidi. Ma, a mente fredda, ho collegato la confusione di libri, dischi dei Beatles, biglietti del cinema, bottiglie di whisky e cicche di Marlboro come fossero puntini da unire. E in questo disegno astratto, un collage di intimità spaiate e voci problematiche, ho imparato a scorgere lo spaccato generazionale di un Giappone al passo coi tempi e il profilo di personaggi spesso sgradevoli ma comunque memorabili.  Nel finale, bellissimo, la lettura ha lasciato per fortuna un’eco significativa e l’ombra di un sorriso dolce-amaro. Come una canzone a me finora non nota del leggendario quartetto londinese, meno cantabile di altre perché senza un ritornello orecchiabile, che pagando pegno a Reiko chiediamo venga suonata ancora e ancora per commuoverci insieme sulle note di coloro che «capivano tutta la tristezza e la dolcezza di vivere». 
Sayonara.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Norwegian Wood

19 commenti:

  1. Sono davvero felice di leggere che ti è piaciuto! Approcciarsi a questo autore con Norwegian wood, non nascondo, è un'impresa. Nel mio caso, è stato Kafka sulla spiaggia a colpirmi. A dire il vero, a farmi innamorare di questo autore... Se Murakami ti ha lasciato qualcosa dentro, come dici, ti consiglio di non demordere; sono certa che saprà conquistarti con altre sue opere 😊😊

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    1. Passerò presto a Kafka sulla spiaggia, spero. :)

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  2. Mi attraggono non poco gli scrittori giapponesi; non ho letto chissà cosa di Murakami ma in casa ho KAFKA SULLA SPIAGGIA e prima o poi mi ci tufferò ^_^
    Faccio parte della schiera di coloro che hannpo sentito parlare strabene di Norwegian Wood...!

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    1. Non l'ho amato alla follia, no, ma una lettura da fare.

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  3. A me ha un po' deluso lo dico tranquillamente, ho trovato i protagonisti troppo indolenti, capisco che le differenze caratteriali e culturali dei giovani giapponesi vadano compresi e analizzati, ma a me mi ha tediato un bel po', ma d'altronde a me non piace nemmeno Il Giovane Holden, a cui il romanzo chiaramente si ispira.
    Non so se avrò mai la forza di leggere altro di Murakami.
    Alcune frasi del romanzo però le ho trovato bellissime e liriche, da un punto di vista delle scrittura del testo è delicato e bellissimo.

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    1. Il giovane Holden però l'ho trovato francamente illeggibile. Questo, invece, ha una scrittura così pulita che, che piaccia o meno, non pesa mai.

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  4. Di Murakami ho letto "1Q84" e mi è piaciuto attraversare con passo lieve il confine tra sogno e verità che, per lo scrittore, è sempre molto sottile. Nel romanzo che hai recensito, con travolgente passione, mi sembra di scorgere un lato malinconico e nostalgico come un'ancora che lo lega alla solida realtà. Mi piacerebbe leggerlo :)

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    1. Questo è un Murakami atipico, lontano dalle visioni e dalle stranezze degli altri romanzi.
      Ho scelto di partire da qui, attratto maggiormente dai toni realisti, e non ho fatto male. :)

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  5. Il film mi era sembrato un discreto mattonazzo, senza capo né coda, quindi non m'ha certo invogliato a recuperare il romanzo.
    Ma mi sa che era uno di quei libri che era meglio non portare al cinema...

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    1. Oggettivamente non succede niente, come trarne un film?
      Non lo vedrò mai... già la lettura non è stata statascorrevolissima!

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  6. Letto venti anni fa (come vola il tempo) e amato tantissimo. Forse dovrei valutare una rilettura. Lea

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    1. Potrebbe essere interessante. In fondo, anche il protagonista adulto racconta vicende di vent'anni prima. :)

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  7. Letto secoli fa, l'avevo adorato.

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    1. Io l'ho letto giusto in tempo, venticinquenne, quindi appena fuori target, però a tratti mi ci sono riconosciuto parecchio.
      Peccato che, da bravo terrone, amo stili più sanguigni e non la compostezza orientale. 😅

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  8. Di Murakami lessi solo 1Q84, da molti ritenuto uno dei suoi più brutti. Infatti non mi ha convinto, specie nella terza parte. Ma le prime due… mamma mia! Quando funziona, funziona.

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    1. Sono curioso, infatti, di conoscere un Murakami più articolato. Qui la trama latita.

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  9. Stessa delusione anche per me: troppi suicidi, uno stile davvero troppo piatto e un protagonista con cui ho faticato ad andare avanti. Insomma, il Murakami sbagliato con cui iniziare e con cui far partire il mio Lunedì Leggo...

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    1. Le quattro stelle sono più per l'impressione che è un romanzo che mi starà addosso che per il piacere della lettura, a tratti frustrante e ripetitiva. Spero di non aver fatto un errore di valutazione a priori. :)

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  10. Murakami mi manca non so perché ma ho paura sempre di annoiarmi anche se leggo solo pareri positivi..

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