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lunedì 30 settembre 2019

Recensione: L'Istituto, di Stephen King

| L’Istituto, di Stephen King. Sperling Kupfer, € 21,90, pp. 565 |

Parlarne male mi spezza il cuore. È come disonorare il padre e la madre nei dieci comandamenti. Significa dichiararsi amareggiati da un mentore che immaginavamo infallibile per definizione. Almeno a memoria, dai fasti di 22/11/'63 in poi, non credo ci sia stato un solo romanzo dei suoi che mi abbia deluso altrettanto. Salutato dai più come un grande ritorno alle origini, L’istituto non mi è piaciuto. Questione di punti di vista: per me il Re, infatti, non era mai andato via – quindi quale ritorno, e da dove? 
Le premesse erano delle migliori. Ancora i bambini protagonisti, ancora una storia di perdita dell’innocenza e infanzie violate: gli ingredienti segreti, insomma, dei suoi capolavori passati. Ma fra uno sviluppo che non brilla di luce propria e una lunghezza francamente inspiegabile, le analogie con L’incendiaria e Il talismano purtroppo finiscono qui. La trama è presto detta: Luke, dodicenne prodigio già pronto agli esami di ammissione al college, viene strappato alla famiglia – mamma e padre sono freddati nel cuore della notte – e rinchiuso in una prigione nelle foreste del Maine settentrionale. Il risveglio in quel posto, per dirla alla sua maniera, somiglia all’essere catapultati in una serie televisiva nel bel mezzo della terza stagione. Cosa si è perso? Perché quella cameretta perfettamente identica alla sua, ma senza finestre?

Fa’ crollare tutto, pensò. Come Sansone fece crollare il tempio di Dagon dopo che Dalila gli aveva fatto tagliare i capelli con l’inganno. Fa’ crollare questo posto, e schiacciali sotto le rovine. Schiacciali tutti.

A spiegargli le regole e i lati oscuri del soggiorno sono compagni di disavventura come gli sfrontati Kalisha e Nick e il precoce Avery, bambino dai talenti insospettabili. In quel pericoloso paese dei balocchi li hanno divisi fra telepatici e telecinetici. I cattivi spremono e potenziano i loro poteri. Le guardie, inoltre, scongiurano gli atti di ribellione con la televisione accesa, i distributori di alcolici e sigarette, i poster motivazionali – ma nell’Istituto è vietato leggere libri, guardare programmi informativi, accedere a determinate pagine web. Nella Prima Casa i bambini sono cavie da laboratorio; nella seconda, un posto senza ritorno, subiscono una vera e propria lobotomia a furia di film e messaggi subliminali; poi ci sono Gorky Park e l’ala dei forni crematori, di cui all’inizio poco è dato sapere al lettore.
Se la cosa più crudele dell’Istituto è l’impiego dei termometri rettali, se il protagonista la fa troppo facile a realizzare i suoi sogni d’evasione in una prigione in cui nessuno sembra mai prendere grandi accortezze verso i pazienti, qualcosa non quadra. Neanche quando, dopo 350 pagine, i toni diventano quelli di un racconto d’avventura vecchio stile – barche a remi, treni merci, le stelle per orientarsi – e il dramma di Luke si intreccia con l’esistenza di Tim, guardia notturna troppo qualificata per il suo ruolo. Allora, non lo nego, qualche piccola soddisfazione c’è: merito di un assedio da western che contrappone i villici del profondo Sud all’intelligence; di due non protagoniste d’eccezione – Maureen e Orphan Annie –, la prima donna delle pulizie sommersa dai debiti e l’altra clochard che farnetica di cospirazioni internazionali e uomini in nero.

Sanno che sta succedendo qualcosa di strano. Qualcosa di brutto. Non cosa di preciso: questo non vogliono saperlo. Perché dovrebbero? L’Istituto dà loro da mangiare, e in ogni caso chi crederebbe alle loro parole? Quanto a questo, c’è ancora un sacco di gente convinta che i tedeschi non abbiano ucciso tutti quegli ebrei. Si chiama negazionismo.

Perfino le strizzate d’occhio non mancano: ecco spuntare due gemelle dall’aria familiare, che ricordano proprio quelle di un classico dell’horror; ecco una citazione che ci riporta all’istante nella città fantasma di Salem’s Lot. Allora come mai non lo hai apprezzato, chiederete? Ho trovato furbe e forzatissime le connotazioni storico-politiche, che passano dalla tragedia della Shoah a quella dello schiavismo, fino ad andare a bacchettare il solito Donald Trump. I capitoli dedicati al punto di vista degli antagonisti, i soliti scienziati pazzi da blockbuster americano, annoiano. I territori sono gli stessi di Glass e La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, dunque non felicissimi, e i cenni ai mondi Marvel hanno trovato del tutto disinteressato un profano dei cinecomic come il sottoscritto. 
Nonostante le immancabili tinte crudeli, L’Istituto è un racconto per ragazzi di amicizie e primi amori, in cui la morale della favola – banalotta – è che l’unione fa la forza. L’autore non potrebbe sfornare meno di due titoli l’anno ma ragionarci sopra di più? Un adolescente di oggi, mi sono chiesto soprattutto, si sorbirebbe queste quasi 600 pagine affrontate stancamente anche da un fan come me? Probabilmente preferirebbe darsi allo streaming, al binge watching. Un tempo era Stranger Things a omaggiare Stephen King; ora succede l’esatto contrario. E in questa lunga puntata senza idee brillanti o colpi di scena – un compromesso alla moda per mostrarsi al passo coi tempi e parlare alle nuove generazioni –, ho sentito tanto la mancanza di Eleven quanto quella del mio Re.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Pink Floyd - Another Brick in the Wall

giovedì 26 settembre 2019

Recensione: Nel profondo, di Daisy Johnson

 
| Nel profondo, di Daisy Johnson. Fazi, € 18, pp. 274 |

Ha un nome da fiaba, Gretel, ma non vive nel fitto di un bosco. Almeno non più. Ha scelto una casa un po’ appartata, in collina, e una professione insolita quanto lei: lessicografa, in ufficio setaccia parole per compilare dizionari – quando da bambina, una vita prima, era stata invece solita inventarne di nuove di sana  pianta. Il suo hobby è chiamare tutti gli obitori del circondario: cerca disperatamente tracce di sua madre, infatti, creduta ormai morta. Ora che allo specchio inizia a somigliarle, i ricordi passano a domandarle gli interessi ed è più decisa che mai a sapere che fine abbia fatto la genitrice, responsabile un giorno di averla caricata sul primo autobus condannandola all'infinita trafila degli assistenti sociali. 
Il pensiero di quella madre folle e fragile, in lotta contro l’oblio dell’Alzheimer, le ispira una caccia al tesoro. Cos’è stato di lei, e dove trovarla? Come mai Marcus, loro amico per una stagione, a un certo punto sparì nel nulla? Vivevano accanto a un fiume dal nome inquietante – Isis –, su una chiatta ormeggiata a riva. Erano allergiche alla terra ferma e puntavano a un altrove vago, irraggiungibile.

I luoghi dove siamo nati ritornano. Si travestono da emicranie, mal di stomaco, insonnia. Sono la sensazione di cadere con cui a volte ci svegliamo, brancolando in cerca della luce, certi che tutto ciò che abbiamo costruito sia scomparso nella notte. I luoghi dove siamo nati ci diventano estranei. Non ci riconoscono più, anche se noi li riconosceremo per sempre. Ci sono cresciuti dentro, sono il nostro midollo. Se ci rovesciassero come un guanto, troverebbero delle mappe incise dietro la pelle. Servono proprio a ritrovare la strada di casa. Solo che dietro la mia pelle non ci sono canali, binari ferroviari e una barca, ma sempre e solo tu.

Quella regione aveva leggi tutte sue. Innumerevoli i morti, i furti, le stranezze inspiegabili. Inutile avvertire la polizia in caso d’emergenza. Perfino la lingua parlata da quelle parti era diversa. Un lessico spiccio e volgare, che alle orecchie di un nuovo arrivato sarebbe suonato ostico quanto un idioma straniero. Donna selvaggia e inquisitoria, dotata di una sensualità esplosiva che affascinava uomini, donne e belve feroci, Sarah costringeva anche la piccola Gretel a fuggire il mondo reale. E involontariamente, in un periodo indimenticabile, irretiva anche il giovane Marcus: scappato di casa, il forestiero era in realtà nato femmina – ai tempi si chiamava Margot – ed era stato costretto a peregrinare a causa dell’influenza sinistra della vicina di casa, Fiona, che sotto un trench rosso nascondeva il sesso maschile e doti da maga. Una prosa tanto particolare quanto faticosa ci presenta pian piano questi quattro personaggi femminili: gatti selvatici, sfuggenti e sostanzialmente malfidati, che vivono un intreccio dagli echi edipici immersi in una fauna pericolosissima.

Eravamo come degli alieni. Come gli ultimi sopravvissuti sulla terra. Se in qualche modo è vero che il linguaggio condiziona il nostro modo di pensare, non avrei mai potuto essere diversa da com’ero. E la lingua che avevo imparato fin da piccola, non la parlava nessun altro. Quindi sarei rimasta sempre emarginata, sola, a disagio con gli altri. Era la mia lingua a imporlo. La lingua che mi avevi insegnato tu.

Ci sono figlie che si prendono cura delle mamme. Ci sono uomini che si sentono donne. Ci sono donne che si sentono uomini. Abbondano le profezie, i ritorni all’ovile, le relazioni morbose. Ma la suddivisione del romanzo – articolato in tre diversi piani temporali; caratterizzato dall’assenza di discorsi diretti e da soggetti che spesso si confondono – me l’ha reso un garbuglio caotico e affascinante, benché a tratti inestricabile. Deluso, mi aspettavo una lettura bella e contorta nello stile di Favola di New York; l’esordio dell’eppur talentuosa Daisy Johnson, invece, è soltanto contorto, al punto che risulta difficile scorgere fra le righe il dipanarsi di una trama. 
Possono equilibri così malsicuri convivere con una scrittura ammaliante? Forse, ma nell’immergermi nella storia ho fatto la tipica resistenza dei bagnanti in spiaggia, quando l’acqua è troppo fretta. Troppo fredda anche l’autrice. Qualcosa di torbido, fatto sta, si muove sul fondo. Un vedo-non vedo che spaventa e alletta, ma nel finale confonde fino a innervosire. Era richiesta al lettore, probabilmente, una pazienza che non ho. Pescare, d’altronde, può essere un’attività frustrante e infruttuosa; non da tutti. Soprattutto in acque nerissime. Non sappiamo mai se tireremo a galla una carpa, una vecchia scarpa, oppure un mostro marino degno del cinema di Guillermo Del Toro. Strano ma vero, strano vero, Nel profondo – con me – è rimasto in superficie.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Evanescence – Going Under 

lunedì 23 settembre 2019

I ♥ Telefilm: Undone | Marianne | Élite S02

Nel primo autunno a corto di BoJack Horseman – a quando, Netflix, la sesta stagione? –, gli sceneggiatori Kate Purdy e Raphael Bob-Waksberg hanno unito le forze per una nuova serie animata. Lontani dai retroscena di Holliwoo, con Amazon a produrre, passano al tema fin troppo abusato dei viaggi nel tempo; dall’animazione tradizionale alla tecnica del rotoscope, già sdoganata da Richard Linklater. Inutile dire, non ci si aspettava semplicemente un bell’esordio: carico di aspettative, alla luce dell’entusiasmo letto in rete, confidavo in una delle serie dell’anno. Così non è stato, senza grandi rimpianti, e spiego subito il perché. Undone racconta del tracollo psicologico di Alma all’indomani di un incidente stradale: risvegliatasi dal coma, la maestra d’asilo scopre di poter parlare con il padre – scienziato morto in circostanze misteriose – e di essere in grado di cambiare il corso degli eventi. Ma la protagonista, interpretata dall’ottima Rosa Salazar, ha una nonna schizofrenica, cicatrici sui polsi, medicinali che a un certo punto sceglie di non prendere. La sua è una missione degna di un supereroe, o un’avvisaglia della malattia mentale? Nel frattempo la sorella sta per convolare a nozze, la mamma iperprotettiva per scoperchiare un vaso di Pandora colmo di rancore verso il compagno defunto – un insopportabile Bob Odenkirk – e il dolcissimo fidanzato Sam, come lei reduce da un’infanzia difficile, tenta di assecondarla nonostante il dubbio che stia delirando.  Vicina all’estetica della coppia Kaufman-Gondry, ma anche al romanticismo del nostro Valerio Mieli, la prima stagione di Undone è tanto brillante dal punto di vista umano quanto derivativa sotto l’aspetto fantascientifico. Le si riconoscono un’animazione all’avanguardia, la solita grande scrittura – qui non lineare –, quei personaggi adorabili e dolenti che funzionano soprattutto nelle situazioni di tutti i giorni, lontani dallo sperimentalismo della trama. Paradossalmente, è proprio la componente sci-fi – per quanto vicina al cinema che piace a me, quello minimalista del Sundance – a non far gridare al miracolo davanti a questa ricerca proustiana a metà fra l’irrestistibile Fleabag e il dimenticato Maniac. Per alcuni imperdibile, dal poco che si è visto appare sicuramente una visione stimolante. Ma, per il momento, con lo stesso senso d’irrisolto del titolo. (7)

Benvenuti a Elden, sinistra ma bellissima città portuale sulle coste francesi. L’unica attrazione turistica, all’inizio, era il vecchio faro. Ma dopo la fama raggiunta da una delle sue abitanti, l’attenzione si è spostata al mondo dei libri: quegli scenari sono stati d’ispirazione alle creazioni dell’amata-odiata Emma, scrittrice horror di fama mondiale di ritorno all’ovile in seguito a un evento preoccupante: l’antagonista della sua storia, una strega in cerca di vendetta, sembra essere sbucata fuori dalle pagine per ricattarla tirando in ballo la famiglia, gli ex compagni di scuola, un lutto passato. La colpa di Emma: aver messo un punto fermo alla saga di Lizzie Lark, quando il mostro – Marianne, sposa di Satana condannata ai tempi dell’Inquisizione – non voleva ancora essere dimenticata. In un villaggio in cui male e mare fanno rima, quattro amici d’infanzia si danno appuntamento per riabbracciare la ragazza e aiutarla. Ma lei, tipino sarcastico e scontroso dotata della bellezza rockettara di Victoire DuBois, è un buco nero che porta con sé sfortune e tragedie. Fra vecchi amori e nuovi incubi, la serie d’oltralpe non si lascia sfuggire elementi di sicuro raccapriccio: voci mostruose o cantilenanti, figure nell’ombra, risate di bambini spettrali, cani rabbiosi e denti strappati, anche se a ispirare l’inquietudine maggiore è la performance di una strepitosa Mireille Herbstmeyer. Non mancano gli inserti ironici, garantiti da un detective un po’ sopra le righe, né l’effetto nostalgia quando si entra in territori kinghiani: lo spunto è quello di un Misery in chiave soprannaturale, infatti, ma la rimpatriata ricorda proprio quella dei Perdenti di It. Tanto l’ultimo film di Muschietti è fallimentare nella componente orrorifica, però, quanto questo Marianne è riuscito. La serie, cosa rara, fa genuinamente paura. Una paura generata dagli innumerevoli jumpscare alla James Wan, ma anche dal fascino macabro delle tematiche e delle ambientazioni. Di grande atmosfera, piena di citazioni letterarie e sobbalzi, è consigliata a chi come me ha apprezzato l’ultimo Laugier. Un carrozzone del terrore sì ammiccante e già visto, ma comunque invidiabile per cura e gestione della suspance: perfetto per entrare nel mood di Halloween. (7+)

Erano giovani, carini e bugiardi. Erano, a mani basse, il guilty pleasure dello scorso anno. Sfacciatamente trash, un po’ Gossip Girl e un po’ Le regole del delitto perfetto, Elite mi aveva divertito da morire con il suo vortice di intrighi adolescenziali, sangue e sesso spinto. Chi aveva ucciso Marina? Era il grande dubbio della prima stagione. Quest’anno l’interrogativo cambia: cos’è successo al povero Samuel, l’outsider sulla bocca di tutti per via della sua borsa di studio e della parentela con l’accusato? Le variazioni sul tema sono minime: i nuovi ingressi sono un’arrampicatrice sociale, con una mamma pagata per fare le pulizie fra i corridoi della scuola privata; una presunta vincitrice della lotteria, in realtà coinvolta in un traffico di stupefacenti; il fratellastro della subdola Lola, ovviamente legato a lei da un’attrazione incestuosa alla Cruel Intentions. Scompaiono i volti più noti – Jaime Lorente e Miguel Herràn, forse impegnati sul set della Casa di carta – e la sorpresa è tutta per l’evoluzione del personaggio di Guzmàn, il fratello della ragazza assassinata, al centro di un cammino di vendetta e redenzione. Per fortuna sempre incensurati e recidivi, i giovani spagnoli sono meno divertenti e coinvolgenti che in passato, ma più maturi. La seconda stagione ha un andamento maggiormente lineare e conserva, per far presa garantita sui buoni amanti del trash, la sua natura di mancata soap opera. Innumerevoli le relazioni proibite, le coppie che ora scoppiano o si consolidano, le amicizie storiche messe in pericolo dal sospetto. Le tinte torbide, eppure, in teoria sono quelle di una moderna tragedia shakespeariana. Si parla nemmeno troppo fra le righe di quanto logorino la corruzione, il senso di colpa, il potere. Ma ci si distrae, se in un prodotto leggerissimo, alla maniera dei ricchi: fste grandi e rumorose, alcol a fiumi, cocaina sniffata nei bagni di lusso. Il non detto li rende tutti spensierati, ma anche complici e assassini. Il non detto ci renderà tutti curiosi, davanti all'idea di un rinnovo già annunciato. (6,5)

venerdì 20 settembre 2019

Recensione: The Chain, di Adrian McKinty

| The Chain, di Adrian McKinty. Longanesi, € 19,50, pp. 345 |

Se c’è una cosa che poco tollero, in fatto di storie o persone, è il pressappochismo. E il best-seller sulla bocca di tutti, The Chain, purtroppo ne cade spesso vittima. Metto la frase forte così, in apertura, come una dichiarazione d’intenti. Diciamolo subito, infatti: preceduto da uno straordinario battage pubblicitario, recensito sulla quarta di copertina da autori d’eccezione – da Stephen King a Don Winslow, sembravano tutti dell’idea che fosse un moderno capolavoro della suspance –, il primo romanzo di Adrian McKinty giunto in Italia  non si è affatto rivelato all’altezza delle aspettative iniziali. Dalla sua, eppure, l’autore aveva una nota biografica di tutto rispetto e uno spunto accattivante: cosa saresti disposto a fare se tuo figlio venisse rapito e, per salvarlo, un boia anonimo ti costringesse a rapire un altro bambino diventando l’ennesimo anello di una catena di morte e ricatti? Rachel, mamma fresca di divorzio e di chemioterapia, è la sfortunata protagonista al centro dell’incubo. Qualcuno alla fermata dell’autobus ha preso Kylie, tredici anni, e mette alla prova la genitrice single dall’altro lato della cornetta.

È vertiginoso il numero di profili che possono essere letti da chiunque. George Orwell si sbagliava, pensa. Nel futuro non sarà lo Stato a schedare tutti esercitando una sorveglianza pervasiva; saremo noi stessi. Faremo il lavoro dello Stato postando continuamente la nostra posizione, i nostri interessi, cibi e ristoranti preferiti, idee politiche e hobby su Facebook, Twitter, Instagram  e altri social. Saremo la polizia segreta di noi stessi.

In giornata deve: convincere la banca a un prestito di venticinquemila dollari; procurarsi un’arma da fuoco; individuare una casa sfitta per rinchiuderci la bambina innocente necessaria per lo scambio di persona. Succedono, a questo punto, coincidenze degne di un film d’azione di serie B, non di un romanzo ben costruito: perché, come se niente fosse, la protagonista ottiene la seconda ipoteca sulla casa – quando gli aguzzini più in là pretenderanno altro contante potrà comunque contare sul cognato Pete, reduce di guerra tossicodipendente e senza lavoro, con un’impensabile ricchezza economica sul conto corrente; come se si trattasse del provolone in offerta alla Coop, in seguito, Rachel acquista un’arma sotto banco – non una semplice pistola, bensì un fucile a pompa; la villa sulla spiaggia dei benestanti vicini, inoltre, si rivelerà per sua fortuna avere una serratura risibile e un sistema d’allarme da verificare con una semplice chiamata al numero verde. Seguono tentativi di ribellione, messaggi in codice, localizzazioni da intelligence; il tutto destinato a chiudersi a carte scoperte, all’insegna della pura coincidenza, in un finale a metà strada fra Indovina chi viene a cena e Rambo. La forza delle donne, uno dice. O le forzature di una certa narrativa americana, piuttosto, fatta di approssimazioni, dimenticanze, azzardi.

Ogni cosa viene fatta per la Catena. La Catena non può interrompersi. E non può perdere un solo anello.  

Cinematografico nel migliore e peggiore senso del termine, già opzionato dalla Paramount per una trasposizione, The Chain ha una scrittura che rende impossibile non divorarlo nell’arco di un paio di pomeriggi e le contromosse di ogni americanata degna di tale storpiatura. C’è fretta nel trattare il tumore al seno di lei e la dipendenza da stupefacenti del cognato, problemi inseriti per aggiungere ulteriore patetismo all'intreccio a discapito di chi ne ha davvero sofferto. C’è fretta, stranamente, anche nell’adattamento italiano: perfino a una lettura disattenta, come sottolineato anche sul blog di Silvia, risultano difficili da ignorare nomi invertiti per sbaglio ed errori evitabili – “ski mask”, tradotto alla lettera “maschera da sci”, indicherebbe in realtà un comune “passamontagna”. In ogni caso, scorrevolezza a parte, la conoscenza di McKinty risulterebbe deludente anche se non fossi troppo puntiglioso in fatto di thriller e casi editoriali. The Chain mi ha ricordato titoli come Ore di terrore e Utente sconosciuto: tascabili da cestone, letti e apprezzati all’epoca, forse meglio riusciti ma meno fortunati. Non gli si perdona l’accumulo di tragedie personali, presto abbandonate a loro stesse; quel gusto caciarone che in teoria non dovrebbe confarsi a una vicenda ispirata alla cronaca nera americana, bensì a un innocuo blockbuster. 
La Catena, si legge, è un meccanismo che si autoregola: fatto il proprio lavoro, è possibile uscirne a mani pulite. Ma l’autore qui e lì riporta macchie inequivocabili, invece, che lo sbugiardano in fretta e lo portano a essere segnato sulla lista nera: quella dei famigerati best-seller che non escono col buco. Il gioco appena cominciato per me finisce qui. Dalla giostra, spezzata la catena, grazie tante, preferirei scendere.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Fleetwood Mac – The Chain 

mercoledì 18 settembre 2019

Recensione: Un dolore così dolce, di David Nicholls

| Un dolore così dolce, di David Nicholls. Neri Pozza, € 18, pp. 383 |

Ci sono  estati che vorresti non finissero mai: quelle delle grandi svolte. 
Pensa alla liberazione dopo l'esame di maturità, per esempio, con davanti a te due mesi – non abbastanza, insomma – per decidere quel che sarà dopo il liceo. 
Alla laurea, ancora, con una corona d’alloro secca per metà sull’armadio e l’incertezza più totale verso un futuro faticoso da mettere a fuoco. 
Pur essendo un tipo più adatto all'inverno, anch’io quest’anno l’ho sperato: poteva questa bella stagione prolungarsi fino al termine dell’incertezza? Vivo infatti il primo settembre senza esami da fare, completamente libero e altrettanto sperduto. Ho compilato in questi giorni  il primo curriculum – mandato dappertutto: mi terrorizza la prospettiva di un autunno con le mani in mano – e le prime messe a disposizione, inoltrate qui e lì in attesa di un bando di concorso che mi si nega, di una graduatoria che finora non m’include. Vorrei mettere sotto il materasso i primi guadagni in cerca d’indipendenza, o forse, amara verità, mi accontento e basta; nei giorni storti, quando l’umore è basso, mi butto via. Mi ha raccolto la mano provvidenziale di David Nicholls, scrittore dal tempismo perfetto, e fra una pagina e l’altra mi ha fatto conoscere il suo nuovo protagonista. Presentatevi pure, ha detto: Charlie ti somiglia tanto, e giacché mal comune è mezzo gaudio, vedrai, a tratti vi supporterete a vicenda. A poco è servito dichiarare il mio scetticismo – un Charlie uguale a me lo conoscevo già, quello di Noi siamo infinito –, dal momento che l’autore di Un giorno ci aveva ormai presentati. E sì, la somiglianza c'era. 

La noia era la nostra condizione naturale, però la solitudine era tabù [...] Costa fatica non sembrare soli quando lo si è, o sembrare felici quando si è infelici. È come reggere una sedia in equilibrio su una mano sola: quando non ce la facevo più prendevo la bicicletta e mi allontanavo dalla città. 

Sedici anni, votato alla discrezione, il protagonista è un adolescente che sugli annuari non spicca. Seduto a bordo pista, guarda il mondo con occhi grandi così e cerca di rubare ricordi in ogni angolo; di immagazzinarli con un battito di ciglia. È il ballo di fine anno – ghiaccio secco, camicie firmate a penna, qualche chiazza di vomito per un bicchiere di troppo – ma lui preferisce estraniarsi. Cosa c’è da festeggiare se gli esami sono andati malissimo, il college è fuori discussione e l’unica soluzione per arricchirsi è fare la cresta sui gratta e vinci? David Nicholls me l’ha reso subito affezionato descrivendolo mentre scorrazza in bicicletta per le strade di una città industriale – lì le vie hanno nomi di vecchi poeti, peccato però che la periferia disconosca qualsiasi lirismo – o, come facevo io stesso dopo la separazione dei miei, mentre  tentenna sul pianerottolo di casa. Dall’altra parte dell’uscio c’è un padre depresso, inconsolabile quanto il mio dopo il trasferimento di mamma, al centro però di un doppio dramma: jazzista fallito, fa i conti con una bancarotta economica e sentimentale. 
Conosco il desiderio di evitarne lo sguardo. Ricordo le cene a base di spinacine e la fine infelice di frutta e verdura, destinate puntualmente a marcire nel frigo due uomini soli. Ho presente la tentazione di mascherare la paura del futuro, evitando il trauma di un ennesimo cambiamento, con la scusa che toccasse restare fisso all’ovile per fare da ago della bilancia. L’unico modo di conoscere l’anima gemella, a dispetto dell’apatia, è fare come nella canzone di Tenco: innamorarsi in mancanza d’altro da fare. È casualmente che Charlie si stende in un prato degno del Decameron. È casualmente che la travolgente Fran – una di quelle bellezze che saresti tentato all’istante di immortalare in un ritratto – inciampa sull’intruso mentre prova con una compagnia di attori amatoriali. Metteranno in scena Romeo e Giulietta, in quegli anni portato al cinema anche da Luhrmann. La proposta è di quelle che non si rifiutano: accettare il ruolo di Benvolio per condividere con l’intrigante sconosciuta – e con Alex, Helen, George, Lucy – passeggiate sull’erba, prove estenuanti, feste alcoliche e, se tutto fila liscio, pomiciate spinte. Charlie accetta.

Ma le storie d’amore sono noiose. L’amore è una cosa normale solo per chi non lo vive, e il primo amore è spesso goffo e ghiandolare. Shakespeare doveva saperlo: prendete il testo della storia d’amore più famosa del mondo e provate a stringere fra pollice e indice le pagine dove gli innamorati sono davvero felici, non il crescendo che precede l’amore o il conflitto che ne consegue, il lasso di tempo in cui l’amore è condiviso e sereno. Si tratta di una manciata di pagine, il breve interludio fra anelito e disperazione. 

Adatto a un pubblico più giovanile, Un dolore così dolce ha unico difetto oggettivo: a colpo d’occhio è la somma matematica dei successi passati e, pur essendo vicinissimo al sottovalutato Il sostituto, include i rimpianti di Emma e Dexter, le famiglie disfunzionali di Noi, l’effetto nostalgia delle Domande di Brian. Ma dove trovare, d’altra parte, la stessa brutale onestà nel trattare una perdita della verginità che ha davvero del tragicomico? Quei dialoghi brillanti, da sceneggiatore navigato, che con il filtro dell’autoironia colgano sottili analogie fra le vicissitudini dei protagonisti e quelle degli amanti di Verona? 
La lettura di Un dolore così dolce ha significato sbirciare in una palla di vetro per scoprire con il dono della preveggenza, a vent’anni di distanza, cosa sarebbe stato del colpo di fulmine con Fran. E un po’, quindi, anche di me. Se Charlie avesse trovato il suo posto nel mondo, infatti, ci sarebbero state buone speranze anche per il sottoscritto. E se Charlie rideva – una risata simulata, da palcoscenico – ridevo anch’io, mentre da recitata la contentezza diventava pian piano reale. E se Charlie diventava più sé stesso fingendo di essere qualcun altro, prendevo esempio e pendevo obbediente dalle labbra del Bardo: colui che talora presta al protagonista in crisi i pensieri e le parole, diventando suo consigliere personale; un modo di essere. Scorrono le pagine, e assieme corrono gli anni Novanta. Quelli delle promesse solenni, dei giuramenti fra amici che impongono di non perdersi mai di vista. Ma il mese dopo ci si eviterà già in centro, per imbarazzo o antipatia: cosa dirsi, infatti, come rapportarsi, con il sopraggiungere di settembre?

A volte ci penso, sai. Penso a come mi sentivo, e non voglio fare la sentimentale o roba del genere, ma per me il primo amore è come una canzone, una stupida canzoncina, la senti e pensi, non voglio sentire più nient’altro, qui c’è già tutto, questa è la melodia più bella che sia mai stata scritta. Poi cresci e non lo metti più quel disco, ora sei più tosta, e smaliziata, e hai gusti più raffinati… Ma quando la senti per radio, be’, è ancora una bella canzone. 

I negozi di dischi stanno già iniziando a chiudere. La crisi finanziaria miete le vittime iniziali. I cellulari, costosi relitti senza i miracoli di WhatsApp, mettono spesso nei pasticci per l’impossibilità di comunicare in tempo reale ritardi o fraintendimenti. La storia d’amore di Charlie ha lo spirito gaudente di alcune estati scacciapensieri e, nell’epilogo, infonde il magone di un’alba sulla spiaggia o di una brutta notizia alla radio che, dal nulla, interrompe un ritornello di Madonna. E rivela, purtroppo, che anche le principesse muoiono.
Il primo amore non si scorda mai, giurano. L’ultimo Nicholls chissà. Un giorno potrebbe essere dolce perfino dimenticarlo e riscoprirlo, proprio come accade con quell’amica avvicinata con un misto d’imbarazzo ed euforia alla rimpatriata a cui non volevamo  nemmeno presentarci – meglio non scomodarlo, il vespaio dei sedici anni.  Per fortuna, in pace con noi stessi, alla fine abbiamo detto sì.
Il mio voto: ★★★★
Il consiglio musicale: The Verve – Bittersweet Symphony

lunedì 16 settembre 2019

Recensione: Per chi è la notte, di Aldo Simeone

| Per chi è la notte, di Aldo Simeone. Fazi Editore, € 16, pp. 280 |

Alcune estati, alcune guerre, non finiscono mai. È l’impressione che deve aver Francesco, dodici anni, vivendo immerso nella natura della Garfagnana e all’ombra del secondo conflitto mondiale. Fra i monti, in mezzo agli alberi, le notizie dal fronte arrivano smorzate. Mussolini è stato arrestato. Significa forse che la guerra è finita? Mentre i soldati tedeschi invadono le piazze del paese e le case, il protagonista sogna di costruire un fortino sull’albero e di sconfiggere una paura inconfessabile. Quella verso il famigerato Bosco delle Sorti. Un dedalo infido e pericoloso, in cui rovi e sentieri sembrano muoversi da sé come succede alle scale di Hogwarts: anche lì, inoltre, sembrerebbe esserci lo zampino del paranormale. La nonna di Francesco, tenera dispensatrice di leggende folkloristiche, gli ha parlato della presenza degli streghi. Spiriti senza pace, con una candela fra le dita scheletriche, che in cerca di una via d’uscita fagocitano tutti i malcapitati: la conta delle vittime comprenderebbe anche il capofamiglia, considerato però un disertore dal resto della comunità. Che suo padre sia rimasto davvero prigioniero? Francesco rispetta rigorosamente il coprifuoco e guarda a quel confine con un misto di ansia e speranza: varcarlo significherebbe lasciarci le penne, e soprattutto crescere. Se in una storia di formazione vecchio stile, con più di qualche debito dichiarato verso i bambini di Stephen King, il nostro piccolo eroe non potrà che avere due compagni d’avventura per fronteggiare le proprie paure: da un lato Secondo, piantagrane manesco e bellicoso che vorrebbe raggiungere il fratello maggiore in battaglia diventando l’ennesimo soldato fanfarone; dall’altro lo sfuggente Tommaso, accolto in segreto nella canonica di Don Dante – che sia un comunista allora o, peggio, un ebreo?

«Non è mica possibile». «Cosa?».
«Smettere di avere paura». «Sì, invece. Si sceglie anche quello».
«Si sceglie tutto per te?». Mi sorrise. 

Erano anni disperati: per sfamarsi si uccidevano cani e gatti e nei pozzi scoperti potevano essere rinvenuti resti umani, sangue a secchiate. Erano anni, di conseguenza, in cui cercare la magia dappertutto: davanti allo sfacelo dello Stivale, meglio fantasticare di case stregate, fate, orchi e caproni demoniaci; meglio concentrarsi su uno scontro parallelo che opponeva forze umane e forze soprannaturali alla resa dei conti fra nazifascisti e partigiani. L’esordiente Aldo Simeone, con una scrittura emozionata ed evocativa, punta tutto sulla suggestione delle atmosfere e sulla caratterizzazione dei protagonisti. 
Nato nella notte di San Giovanni, allergico all’incenso e per di più mancino, il cagionevole Francesco scambia la sua attrazione per l’ignoto per una propensione al male, quando calarsi dalle grondaie, violare le regole e inciampare in misteri e morti ammazzati è soltanto un diritto dei suoi spericolati dodici anni. Gli fa da spalla Tommaso, che parla già come un adulto e lo invita a osare con i mignoli intrecciati stretti: dopo tanto indugiare, violeranno insieme la soglia che li separa dalla radura incontaminata e dal diventare uomini?

Ogni spettro è un ostinarsi affannoso nell’impossibile, è un atto mancato che si ripete non per risolverlo o riscattarlo, ma per ripetere il proprio errore. Dalla morte ci si salva morendo, dalla colpa accettando la colpa. Questo, probabilmente, era il male degli streghi: non volersi rassegnare, continuare una guerra già persa in partenza, accanirsi in quell’unica direzione. Per la prima volta, ne provai pietà.

Qualcosa non torna, purtroppo, in un finale a corto di colpi di scena e aperto a un brusco flashforward. Fatti di lungaggini e ripetizioni, fra ritorni, fughe e ricerche continue, gli angosciosi ultimi capitoli colgono il protagonista troppo impegnato a infangarsi le scarpe nella scorribanda definitiva per partecipare alla vita dei personaggi secondari. Le cose, perciò, hanno il difetto di accadere fuori scena: quando Francesco non c’è. Ma se non tutto torna, se non tutto si spiega, è perché così domanda in fondo la ricca tradizione del realismo magico. A metà fra Il buio oltre la siepe e Io non ho paura, confinante anche coi toni dell’ultimo Fabio Bartolomei giunto in libreria, Per chi è la notte è un amaro compendio di generi ed esistenze. 
Una rievocazione color seppia, inquieta e malinconica, che guarda tanto alle ferrovie dei romanzi del Re quanto ai sacrifici di sangue dei nostri patrioti sconfitti. Alla storia di un dodicenne coraggioso, se ne affianca quindi un’altra: quella con la lettera maiuscola. Stringiamo le dita, intanto, sperando che almeno una delle due si concluda lietamente.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Marlene Kuntz + Skin – Bella ciao


sabato 14 settembre 2019

Mr. Ciak: Il primo re, Il vizio della speranza, Ricordi? e altro Made in Italy

Ci sono film in cui è impossibile separare le prodezze del comporto tecnico da una sceneggiatura che poco cattura, poco esalta. È il caso del Primo re, chiacchierato ritorno al cinema di Matteo Rovere, già finito sotto silenzio nonostante una serie Sky in produzione. Si parla delle origini di Roma. E lo si fa in protolatino, conferendo un fascino arcano a ciascun dialogo fra i bravissimi Alessio Lapice e Alessandro Borghi. I fratelli-nemici Romolo e Remo, dalla magistrale sequenza d’apertura in poi, tenteranno di ricongiungersi nonostante la tragedia annidata in un finale noto. Lontani dall’epica del latino d’età imperiale, i protagonisti sono tanto gloriosi quanto basici e si scorgono rare sfumature nei banchi di nebbia, nei corpi a corpi splatter, nelle notti perenni: il grosso, appunto, lo fa una lingua che suona magica sulle loro labbra, anche se di magie non può farne. Almeno per convincere uno spettatore come me, sensibile alle regie ardite ma anche alla noia diffusa del cinema d’azione. Godibile il minimo, per quanto all’avanguardia, Il primo re è il solito viaggio dell’eroe, ma raccontato secondo stilemi che non hanno né grandi imprese, né antagonisti memorabili. Apprezzabile, purché come prima pietra di un’impresa maggiore. (6)

Siamo in una Campania da terzo mondo. Nascosta sotto un cappuccio, con un molosso al seguito, la protagonista gestisce gli affari di una trafficante di neonati in una landa di extracomunitari e prostitute. Fino a quando non si scopre incinta. In lei, così, si risveglia il desiderio di fare la differenza. Come può portare a termine il travaglio? Come può mettere al mondo un innocente in una folla disumana, fatta eccezione per un giostraio dal cuore d'oro e una ragazzina zoppa? Prendete la violenza morale di Dogman e aggiungeteci i palpiti di Roma. Questo presepe laico ha la crudezza del documentario, infatti, ma sorprende per l’accuratezza delle scenografie e la grazia di una regia ispiratissima, capace di rintracciare la poesia anche nel totale squallore. Pina Turco regge il film con la tempra delle interpreti navigate: le rese dei conti con la spregevole datrice di lavoro, il giro in giostra alla Truffaut e le raccomandazioni al nascituro, per altro, le hanno dato man forte nello strapparmi lacrime di rabbia e gratitudine. Peccato non averlo visto in sala: il ritorno di De Angelis sarebbe finito nel meglio della scorsa annata. Mi ha fatto un male cane, ma gliene sono riconoscente: ci vizia con un altro spaccato indimenticabile. Regalando speranze al cinema italiano, e alle vite prigioniere dei forse. (8)

Passando da Venezia, Valerio Mieli è tornato con un’altra coppia di protagonisti memorabili e una storia d’amore ancora meno incasellabile di Dieci inverni. Quale sarebbe il risultato se Malick potesse mettere mano ai capitoli della nostra convivenza, montandoli in un flusso di coscienza dei suoi? Incantevole e sperimentale, Mieli porta al cinema quella che Freud chiamerebbe libera associazione. Sorretto da una partitura minima, il suo film è fatto proprio della caotica poesia dei ricordi: quelli che affiorano all’improvviso, disordinatamente, e accostano senza un disegno le tessere di una relazione a un crocevia. Il malinconico Marinelli e l’adorabile Cariddi fanno l’errore di bruciare le tappe. Lei è forse pronta a rinunciare alla sua allegria per lui? Lui, invece, è pronto a tinteggiare la casa – la stessa dell’infanzia – per lei? Il melodramma del regista è della stessa materia ingannevole di cui è fatta la memoria: ci attingiamo per conoscerci meglio; ci attingiamo, si spera, per ritrovarci. Lui e lei si rubano il meglio. Si gettano addosso il peggio. Ne escono svuotati, sfitti. Ma cambiati. In amore ci si influenza e ci si limita, ci si perdona in nome della nostalgia: di per sé, il sentimento del passato. Se una relazione, al contrario, è il futuro, la nostalgia sarà abbastanza per costituirne le fondamenta? Lo è senz’altro per realizzare un film imperfetto – troppo allungato, quel finale da orchestra sinfonica – ma unico nel suo genere. (7,5)

Avere in mano le sorti degli equilibri internazionali e non poterlo dire a nessuno. È il dramma di un’agile Paola Cortellesi, costretta a mentire a famiglia e amici pur di salvaguardarli: sebbene su carta sia una dipendente del ministero, in realtà è un’agente segreto. Come non dire che è passata a prendere in ritardo la bambina perché inseguiva criminali in Marocco? Costretta all’anonimato, osa durante una rimpatriata fra compagni del liceo: ognuno ha subito un torto, ognuno si è fatto un nemico, e allora perché non vendicarli attingendo alle sue risorse? A Milani, regista degli altrettanto gradevoli come Come un gatto in tangenziale e Scusate se esisto, ha fatto bene il successo precedente. Potendo contare su un budget maggiore, questa volta realizza una commedia più ricca e curata, con frequenti cambi di location – nel finale si punta anche a Siviglia – e un cast popolosissimo, fra comprimari e cameo. Lo spunto è di quelli paradossali, con tanto d’incursioni alla buona nella spy story, ma risulta credibile grazie alla performance di una Cortellesi all’altezza di ogni travestimento. Serve forse essere una spia, però, per combattere la maleducazione del prossimo? Divertente con garbo, Ma cosa ci dice il cervello è un intrattenimento meno incisivo del precedente ma comunque godibile; un’avventura che parte dall’assurdo, e si rivela poi una lodevole lezione di civiltà. (6,5)

Siamo all’inizio degli anni Novanta. È un'estate euforica, quella dei mondiali di calcio. Siamo a Roma: città rumorosa e dispersiva, splendida  e orribile insieme, in cui ovunque ci sono feste esclusive; conversazioni altezzose; nomi altisonanti, reali o inventati. Tre aspiranti sceneggiatori – un siciliano, un toscano, una romana – sono indagati per la morte di un produttore, Giancarlo Giannini, precipitato con la macchina nel Tevere. Sembra l’imitazione del peggiore Sorrentino. Ma, amaramente, siamo invece al cospetto dell’ultimo film di Paolo Virzì: accolto nel migliore dei casi con freddezza, nel peggiore con stroncature spietate, è di ritorno dalla traversata americana di Ella & John. Da bravo illuso, da bravo fan, ho preferito non dare troppo credito alle stroncature: ho fatto male. Storia mal recitata di giovinezze ambiziose, carriere bruciate e grandi speranze, Notti magiche saccheggia i salotti della Grande bellezza e i triangoli del cinema di Truffaut. Il risultato è inqualificabile, non all’altezza delle citazioni e inutilmente ridondante, con un miscuglio di generi incomprensibile. Un giallo stinto, che nelle sue notti non trova magia. (4,5)

Un altro film che parla di film. Un’altra Roma di parvenu e donne fatali. Richelmy, scrittore dalle sfumature imprevedibili, accetta che il villain di un esilarante Barbareschi – accanto a lui, le pericolose Bellè e Gerini: quest’ultima con una scena di nudo già iconica – realizza la trasposizione del suo esordio: il risultato è disastroso. Come salvare un film maledetto se non con tanta pessima pubblicità? L’ingegnosa strategia, ahimè, non ha riguardato questo DolceRoma, passato a torto in sordina. Volutamente esagerato e meta inematografico, rompe la quarta parte e spazia fra i generi: un po’ commedia nera, un po’ noir, mescola verità e finzione, realtà e aspettative. Venirne a capo, insieme a un bel cast, è uno spasso. L’ottimo Resinaro s’ispira  alla regie forsennate di Ritchie e Boyle, e la sfrontatezza dell’impresa fa del film un videoclip psichedelico – non bello, ma fighissimo – visto di rado. Questa Roma dolcissima e metropolitana, di luci al neon e rapimenti inventati, per fortuna sa come non risultare stucchevole. Ma punge, a tratti, come un’ape che a torto sembrava amichevole, quando invece difendeva il proverbiale posto al sole. (7)

Cos’hanno in comune Gassman e Bentivoglio, sesso a parte? Tanto cafone il primo quanto snob il secondo, s’innamorano nonostante le differenze. Ma come conciliare le famiglie, all’oscuro della sessualità dei genitori? Si va insieme in villeggiatura, e sarà la catastrofe annunciata. Il problema sono i figli – su tutti, una straordinaria Trinca: nevrotica e abbandonata – o i protagonisti stessi, opposti destinati ad attrarsi solo per un po’? Riuscitissima commedia dei caratteri, Croce e delizia diverte facilmente con le contrapposizioni, i cliché, il conflitto ideologico e generazionale. Lo fa con più emozione del previsto, schierando in campo alcuni dei migliori attori di casa nostra – raramente, eppure, si sono prestati in passato alla commedia brillante – e riproponendo il sodalizio Godano-Steigerwaltz, già superiore alle aspettative in Moglie e marito. Per rovinare tutto una famiglia media ha forse bisogno dello shock di un outing fuori tempo massimo? No, lo fa naturalmente. Evviva i film che sanno raccontarlo senza pretese e con uno sguardo alle unioni civili. Evviva Simone Godano, che al secondo film ci delizia davvero. (7)

Lui è un aspirante cantautore. Lei è una hippy di ritorno in patria. Lui segue lei a Roma, mettendo i suoi sogni in pausa, e si reinventa intanto autore frustrato di jingle televisivi. Patiranno l’imborghesimento e la città, amandosi, odiandosi e riprendendosi. Ci sono di mezzo le ambizioni di La La Land, da premettere qui all’amore; una gelosia che ispira tanghi alla Moulin Rouge nelle balere di borgata; campi e controcampi, nel finale, che ricordano gli sguardi sui tetti di Across the universe. Se Michele Riondino, convincente anche dal punto di vista vocale, fa sempre una discreta figura, lo stesso non può dirsi purtroppo di una Laura Chiatti antipaticissima e dalla dizione robotica. E il regista Marco Danieli, invece, passato dall’impegno di La ragazza del mondo al musical in salsa italiana? Trainato interamente dalle canzoni sempiterne di Battisti, Un’avventura è un esperimento singolare. Ma, a dispetto dell’idea apprezzabile e della validità del comparto tecnico, risulta goffo e didascalico soprattutto nella parte musicale: imperdonabile, soprattutto, l’amatorialità del montaggio sonoro. Si canta (molto), si balla (poco), si sguazza in un mare di nostalgia (a tratti). Come in ogni avventura, memorabile o meno, degna di questo nome. (5,5)

mercoledì 11 settembre 2019

Recensione [Strega 2019]: La straniera, di Claudia Durastanti

| La straniera, di Claudia Durastanti. La nave di Teseo, € 18, pp. 285 |

Hello, stranger. Erano queste le parole con cui i comprimari, negli episodi di Beverly Hills 90210 – cult degli anni Novanta da me conosciuto soltanto di sfuggita –, accoglievano ogni volta il ritorno in scena del compianto Luke Perry. Era il personaggio più sfuggente e avventuroso della serie, un vero rubacuori. Era il personaggio più amato dalle adolescenti. Sarà per questo che l’autrice, all’epoca liceale sospesa fra mondi e culture agli antipodi, è diventata una straniera: soprattutto agli occhi di sé stessa. Claudia Durastanti – finalista al premio Strega, giornalista, traduttrice: un curriculum lunghissimo, e all’anagrafe trent’anni o poco più – apre per noi le cerniere della sua valigia, sempre carica per un volo dell’ultimo minuto, e le porte di una casa di cui un po’ va fiera, un po’ si vergogna. Se in cerca delle proprie radici, meglio partire da dove tutto è iniziato: due genitori strampalati usciti da una commedia di Boris Vian, eternamente litigiosi ma d’accordo su un fatto fondamentale: comunque sia andata, si sono salvati la vita. La madre, cresciuta come una monella di strada, rimase sorda da piccola: la colpa fu presumibilmente di una meningite fulminante. Il padre, sordo sin dalla nascita, era un uomo bizzoso e bellissimo: un piantagrane irresponsabile che trascinava i figli a vedere i film vietati ai minori e, qualche volta, fingeva di rapirli per attirare invano le attenzioni della ex. 
Rifiutano tutt’oggi di imparare il linguaggio dei segni e preferiscono parlare a voce alta, compensando ai fraintendimenti con i gesti tipici del Sud.

Ma quando penso alle somiglianze tra i miei genitori nei pomeriggi malinconici e rabbiosi della loro adolescenza, entrambi isolati, valuto la possibilità che l’incontro tra due persone non abbia a che fare con la predestinazione quanto con una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’uno dell’altra, e si scopre che c’era un’intelligenza primitiva che governava i nostri corpi e rilasciava particelle elementari nell’aria ancora prima di incontrarsi, in modo che queste attraversassero città, pareti di cemento e membrane di pelle per entrare in contatto con sostanze simili e sviluppare una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo: i miei genitori si sono incontrati per i riverberi simili a quelli di una foresta prima di un incendio, non perché era scritto; il loro futuro non era impresso nella filigrana di una Bibbia o di un vecchio oroscopo, era solo una vibrazione particolare nell’aria, un allarme invisibile che invitava alla sopravvivenza.

Fanno nascere la secondogenita a Brooklyn, ma presto la costringono alla ritirata in Basilicata: una regione poco conosciuta al pari del mio Molise – di grotte di tufo, trivelle instancabili, tramonti iniettati di sangue – con poche strade d’asfalto sbeccato e troppi campi incolti. Pregi e difetti, questi, di una famiglia allargata, scombinata, che abbina lunghe trasferte a un’esistenza per il resto modestissima; cantanti neomelodici da storpiare in italoamericano e tagliatelle al ragù; vignette di Topolino e manifesti della Beat Generation, da leggere di nascosto in soffitta dopo aver marinato di nuovo la scuola. Claudia ci racconta i suoi parenti, e allora incanta e diverte; i suoi viaggi innumerevoli – non soltanto quegli Stati Uniti sorprendentemente all’altezza del sogno americano, ma anche l’India e l’Inghilterra: con un’irrinunciabile attitudine punk e le cuffiette calcate nelle orecchie, l’autrice è interessata ai luoghi clou della controcultura, cimiteri, cinema d’essai, parchi di skater –; la fine lenta e amara della relazione con il ragazzo del liceo, i primi lavori da freelance, le avvertenze dell’oroscopo per i nati sotto il segno dei gemelli.  
Come ha vissuto il crollo delle Torri Gemelle, gli attentati dell’Isis, la Brexit e l’ascesa di Donald Trump un’eterna passeggera? Quali sono le letture, i film e le serie TV che l’hanno accompagnata? Quando alzare o abbassare la voce, perché mai impuntarsi, in una famiglia che faceva letteralmente orecchie da mercante davanti alle sue rimostranze?

La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato.

Le risposte sono state pronunciate in confessione tutte d’un fiato e racchiuse qui, in un best-seller dall’irresistibile copertina rosso fuoco. Equilibrista provetta com’è – fra mondi diversi, vuoti e pieni, rumori e silenzi – la Durastanti brilla per una delle scritture più espressive e originali incontrate quest’anno. Quanto è straordinaria la sua prosa, quant’è potente: al punto che, ammirato, ho finito di leggere il romanzo in pochi giorni. Con il senno di poi, grosso errore. All’inizio autobiografia pittoresca nello stile della Più amata, da metà in poi assume toni più vicini alla saggistica – ho ripensato all’Invenzione occasionale; a Parla, mia paura. La narrazione si frantuma e s’assottiglia. Si sparpaglia. D’un tratto diventano troppe le citazioni, troppe le digressioni, troppe le riflessioni. I capitoli sembrano articoli giornalistici a sé. E il rischio corso è stato quello di distrarsi, di perdersi per sempre, in una prosa che ha il pregio e il difetto delle canzoni ben musicate: concentrati sulla bellezza della melodia, non si presta attenzione al messaggio finale. Il mio consiglio per non guastarselo è quello di non fare come me, ma di piluccarlo poco alla volta, di leggerlo pianissimo. Figlia di genitori sordi, Claudia Durastanti dev’essersi abituata sin dall’infanzia a usare le parole perfette anche per raggiungere loro. A padroneggiare i segreti delle figure retoriche e dell’ironia anche per conto di mamma e papà, che nella loro routine fuori sincrono purtroppo ignoravano metafore e battute salaci. Da bambina, costretta sul divano, la protagonista seguiva Sanremo soltanto per i testi. Poco più grande, invece, avrebbe conosciuto Bob Dylan prima sui libri e poi attraverso i dischi – il Nobel per la letteratura, quindi, non l’ha mai stupita.

Possiamo fallire una storia d’amore, il rapporto con una madre. Ma quando una città ci respinge, quando non riusciamo a entrare nei suoi meccanismi più profondi e siamo sempre dall’altra parte del vetro, subentra una sensazione frustrata di merito, che può farsi malattia. Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo; il resto del tempo, è solo il sinonimo di una mutilazione, è un colpo di pistola che ci siamo sparati da soli.

Tutt’altro che restia alla magia sguaiata del dialetto, abituata a parlare forte e chiaro per farsi comprendere, l'autrice cresce ben consapevole del potere della lingua e orgogliosissima nel profondo. Non è soltanto il frutto acerbo di un’infanzia a tinte dickensiane. Non è semplicemente la ragazza delle borse di studio, l’elemosinante delle graduatorie da far scorrere. La sua questione privata, in libreria, diventa il pretesto per un gioco circense di infinita bravura, anche se qui e lì i nodi dell’albero genealogico, i sentieri della mappa topografica e il punto della situazione si perdono di vista. Ma bugiarda inguaribile per sua stessa ammissione, Claudia forse voleva semplicemente accontentare la mamma – che preferisce le storie reali ai racconti di fantasia, e ingenuamente è portata a  prendere tutto per vero. Restarci straniera, per preparare, così, la prossima fuga lontano dalla normalità.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Iggy Pop – Passenger

lunedì 9 settembre 2019

Recensione: Il signor Diavolo, di Pupi Avati

| Il signor Diavolo, di Pupi Avati. Guanda Editore, € 16, pp. 202 |

Ridevano le finestre del suo più grande successo. Un giallo di culto negli anni Settanta – fra i suoi estimatori si ricordano Quentin Tarantino e Eli Roth –, ambientato sullo sfondo della campagna emiliana e nel mondo dell’arte sacra. Recuperato in tempi recenti, ho scoperto un film invecchiato malamente ma un intreccio accattivante: al di là delle immagini ormai slavate e di un cast di sconosciuti non sempre all’altezza, si ricordano i paesaggi – inconsueti perché luminosissimi, lontani dalla trafficata Torino di Dario Argento – e la sofferenza sul viso di un San Sebastiano da restaurare. Chiamato a dare nuovo lustro all’affresco e a rivangare la sorte di un pittore morto di follia, era un giovane di città: curioso come il gatto del proverbio, in una matassa di donne fatali e concittadini omertosi, rischiava di lasciarci lo zampino. Nel frattempo l’instancabile regista, ottantenne, non si è fermato. Dalle commedie in costume ai drammi familiari, dal grande schermo al piccolo, è una presenza costante del nostro cinema. Ma i fan dell’horror reclamavano da un po’ il suo ritorno ai fasti splatter. In sala da qualche settimana, Il signor Diavolo aveva messo già alla prova le inquietudini dei lettori. Prima romanzo, poi film, omaggiava a tratti il famoso predecessore ma trasferiva il mistero in Veneto, all’epoca del dopoguerra: per deformazione professionale, prevedibilmente, ho preferito dare la precedenza al volume Guanda.

Il parroco di Lio Piccolo non c’era quasi mai, così per la prima comunione ci preparò il suo sagrestano. Lo faceva la sera quando era già buio. Lui sapeva tutto del diavolo, anzi ci aveva insegnato a chiamarlo il signor Diavolo perché diceva che le persone cattive bisogna trattarle bene.

Roma è in macerie, la stazione Termini è in fase di costruzione. In un appartamento semivuoto, con Nilla Pizzi impegnata a struggersi in un ritornello alla radio, l’inquieto Furio fa i conti con i morsi dell’abbandono: fervente cattolico, è impensierito dai debiti – ha preso in gestione una tabaccheria fallimentare – e dalla vergogna che lo lega a Laura, l’ex moglie. Per il viaggio di nozze, da innamorati, avevano pensato a Venezia. Ci andrà, adesso, ma in completa solitudine: così detta un incarico ministeriale che nessuno sembra volere. Inetto, assuefatto alla disistima dei colleghi, parte per Lio Piccolo per conto della Democrazia Cristiana: il suo compito, salvare il buon nome della cristianità attraverso un ispezione. Il caso è già chiuso: il piccolo Carlo, affranto per la morte dell’amico Paolino, avrebbe ucciso a pietrate Emilio – un forestiero di nobile famiglia, grosso e tonto, con una dentatura bestiale e uno scandalo nel passato. Il movente: una possessione demoniaca. Quella che dovrebbe essere la fine di Emilio è l’inizio della storia di Furio. Ci sono dettagli stridenti, incongruenze, dilemmi etici e morali; perfino il medico legale e l’addetto agli esami balistici, davanti a un cadavere con qualcosa di strano, alzano bandiera bianca.  L’ispettore dall’ego infranto legge gli incartamenti e prende il primo treno. Non è pronto al sopraggiungere dei ricordi d’infanzia. Non è pronto alle nebbie perenni, a esondazioni che disturbano la pace dei cadaveri, alla forza oscura dei riti rurali.

Fisso quella brodaglia lucida e ferma e all’improvviso so perché quella grande pozza è lì davanti a me. Non c’è nessuna ragione per farsi venire un’idea così. Però sono certo che qui, ancora all’asciutto, dove mi sono fermato, sul limite di questa pozza, finisce la prima parte della mia vita. […] Dall’altra parte c’è un viaggio che probabilmente la maggior parte dei miei colleghi ha rifiutato di fare accampando le scuse più fantasiose. Dall’altra parte c’è la mia morte.

Splendidamente reso, il paese è un microcosmo invalicabile su misura di questi ragazzini isolati e macilenti, incattiviti dal conflitto armato e dall’analfabetismo. Squallida e respingente, tanto lontana dal glamour del Festival ospitato lì in questi giorni, la laguna – poco più che una brodaglia nera, di pantegane e infezione – culla il lettore in una fiaba sacrilega fino all’annegamento. Lo stile di Avati, anche scrittore sorprendente, è elegante e visivo: aperto a digressioni e approfondimenti psicologici, indugia nell’ambiguità dei conflitti – politica e religione, raziocinio e superstizione, scienza e fede – e svela le agghiaccianti crudeltà dell’universo contadino, legato a doppio nodo a pettegolezzi di malaugurio e credenze ancestrali. Il clima è uggioso, come in ogni ghost story che si rispetti. La luce elettrica, che proprio in quel periodo prendeva lentamente piede, si nega lasciando le case al buio. Peccato che la ricerca pericolosa e disperata di un protagonista difficile da amare, convincente soprattutto nelle fragilità, sia destinata a un epilogo frettoloso e inappagante: unica concessione all’horror a buon mercato; unica vera sbavatura imperdonabile. 
In attesa di scoprire il film – anche in questo caso la trasposizione cinematografica è destinata a rimanere inferiore? –, scesi a patti con il finale, Il signor Diavolo suggestiona e spaventa. Romanzo gotico di quelli che difficilmente trovano spazio sugli scaffali, rigoroso e vecchio stile: mica un incubo da “ridere”.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Cherry Glazer – Tip Toe Through The Tulips