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venerdì 18 aprile 2025

Gli snobbati: Here | Diamanti | Giurato numero 2 | The Last Showgirl | Babygirl

Quando torno nella mia città, passo spesso davanti alla casa in cui siamo stati uniti. Immagino i mobili, il colore delle pareti, la famiglia che ci vive adesso. I nostri fantasmi si aggirano ancora lì, in un varco spazio-temporale. Here è perfetto per i malinconici come me, che, a colpo d'occhio, riescono a vedere passato, presente, futuro. Il tempo non esiste. Come un colibrì, vola veloce ma per rimanere sempre immobile. A trent'anni dal trionfo di Forrest Gump, Zemeckis riunisce il cast del suo capolavoro per raccontare la storia di una famiglia immortalata in un salotto – e, purtroppo, fa flop. La macchina da presa, come nelle sitcom, non si schioda da lì. A dare dinamismo c'è un montaggio alternato che, pur con qualche innegabile inceppo, segue sei linee temporali mostrando le grandi glaciazioni, la scoperta dell'America, le guerre, il Black Lives Matter, la pandemia. Come cambiano la società, l'educazione dei figli, i rapporti? Hanks e Wright fanno da perno a un magico meccanismo di cui lo spettatore stesso, infine, si scopre parte. Insieme ai protagonisti ho pianto i miei morti, le mie separazioni, i miei addii. Vero, struggente, dolcissimo, Here mi ha riconciliato coi nostri fantasmi e fatto desiderare un territorio neutrale, un porto franco, dove riguardarlo un giorno con i miei affetti sparsi. Cerco casa nelle vetrine delle agenzie immobiliari. Da qualche parte c'è. E ci siamo, ancora, noi. (8)

Dopo l'ultimo passo falso arrivato su Netflix, Ferzan Ozpetek torna in sala. Il successo di pubblico è assicurato, anche se la giuria dei David di Donatello – dove il film ha misteriosamente ricevuto soltanto poche candidature – non deve avere apprezzato quanto gli spettatori paganti. Questa volta, il regista italo-turco ha un cast di diciotto primedonne e una storia metacinematografica per omaggiare il mondo invisibile dei costumisti. Piccole e operose come formiche, le protagoniste lavorano a testa bassa per le sorelle Canova seguendo le direttive di una premiata scenografa. I personaggi sono tanti. I temi troppi (violenza sulle donne, depressione, elaborazione del lutto, empowerment femminile). Se le grandi Ranieri, Trinca e Scalera reggono la scena alla maniera delle vere dive, le altre devono sgomitare un po' – ma Cucciari e Venier, padrone come in TV, qui e lì sorprendono. Ozpetek cita Sirk, Ozon e purtroppo, immancabilmente, anche sé stesso. Come sempre, eccede in sottotrame amorose da fotoromanzo e straborda, ma fa tutto parte del suo famoso fascino: prendere o lasciare. Quest'anno prendo, sì, anche se a Diamanti avrebbe giovato la dimensione della miniserie in streaming. Melodrammatico e difettoso, appassionato e nazional-popolare, resta comunque il film più riuscito dai tempi di Mine Vaganti. (7)

La verità coincide sempre con la giustizia? A novantaquattro anni, l'inossidabile Clint Eastwood scrive e dirige un legal drama dai ritmi implacabili per portare alla luce, ancora una volta, le crepe del sistema giudiziario statunitense. Un giovane giurato, presto papà, è chiamato a esprimersi sul destino di un uomo accusato di omicidio. Peccato che conosca il colpevole: in realtà, è lui stesso. Ma ci sono giurie scisse, avvocati distratti, giudici troppo desiderosi di tirare in fretta le redini. E nella foga di giungere a un verdetto, di bollare un chiacchierato colpevole come tale, ecco l'aprirsi di una falla. La nostra giustizia, al confronto, è poi così infallibile? Classico, ambiguo, solidissimo, il sottovalutato Giurato numero 2 parte da un femminicidio per poi costruire un caso di coscienza lacerante che, a carte scoperte, si muove nei territori di Fedora Dostoevskij e, per tutto il tempo, ti fa domandare: “Al posto del protagonista”, un tormentato Nicholas Hoult schiacciato tra l'incudine e il martello, “cosa farei?” Se fosse l'ultimo Eastwood come da qualche parte ormai si mormora, sarebbe un congedo da maestro: è il suo miglior film dai fasti lontani di Gran Torino. (7,5)

Cosa succede a un'icona sexy quando le luci dei riflettori si spengono e tocca riporre i lustrini di scena? Pamela Anderson, come Demi Moore prima di lei, si mette metaforicamente a nudo con un ruolo autobiografico e scritto su misura. Ingenua, vulnerabile, sciantosa, è la ballerina di uno spettacolo di burlesque destinato a chiudere presto i battenti. Sempre pronta a difendere a spada tratta quel suo microcosmo a un passo dall'oblio, soprattutto nelle discussioni con una figlia giustamente rancorosa, ci guida in una commedia dolce-amara firmata dalla promettente nipote d'arte Gia Coppola: autentica, onesta, malinconica quanto la protagonista. La scrittura certamente non brilla, ma sa affidarsi agli occhi lucidi e ai sorrisi di scena di un'interprete che quest'anno avrebbe nominato una candidatura all'Oscar più di altre colleghe. In scena: un altro “viale del tramonto”. Anche se si ha l'impressione che a cinquantasette anni, finalmente senza make-up e senza cliché, per Pamela questo sia soltanto un nuovo inizio. (7)

Non è un thriller erotico. Non è una commedia sexy. Il terzo lungometraggio di Halina Reijn è tutto e la sconfessione di tutto. Annunciato come il film scandalo dello scorso Festival di Venezia, dove ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, non ha niente di provocante. È un bel film? Confuso, non saprei proprio dirlo. Le scene di intimità non mostrano mai i corpi nudi dei protagonisti e i giochi di ruolo tra Nicole Kidman e Harris Dickinson sono inscenati in squallide camere d'albergo piene di risatine imbarazzate - volutamente? Ma, a quasi sessant'anni, Nicole si mette ancora in gioco con un ruolo che la vuole autoironica, svestita e con sprezzo del ridicolo: gli Oscar, però, l'hanno snobbata. Fuori posto in una famiglia perfetta, non all'altezza di un ufficio in cui le è richiesto di essere l'incarnazione di una femminilità combattiva e vincente, sorprende per la sua profonda onestà in una seduta psicoanalitica a proposito della naturale scompostezza dei corpi e dei desideri. Tutti sono goffi. Gli orgasmi non sono pigolii ammiccanti, ma ruggiti spaventosi. E la perdizione morale è l'ultima frontiera per ritrovarsi, in un pamphlet interessante e pasticciato - volutamente? - che ci rivela l'umanità dietro il proibito. (6)

martedì 8 aprile 2025

Recensione: Ava Anna Ada, di Ali Millar

| Ava Anna Ada, di Ali Millar. Sur, € 19, pp. 310 |

Cosa succederebbe se Yorgos Lanthimos dirigesse Saltburn, ma in chiave saffica e apocalittica? Lei, Anna, è una influencer con una ricca rete di follower e un lussuoso faro ristrutturato per casa. L'altra, Ava, è una prostituta adolescente, all'occorrenza anche babysitter. Si incontrano in circostanze scioccanti: Anna sta prendendo a calci il cadavere del suo cane, morto di overdose. Ava la raggiunge, nel suo impermeabile giallo, e il riconoscimento è immediato: quella ragazzina è la copia sputata di Ada, la figlia della protagonista. Ma mentre Ada si è lasciata morire di anoressia, Ava ha fame di tutto. Ha inizio un ménage fatto di collezioni macabre e sadomasochismo, di morsi sul seno e spine sotto pelle, mentre la natura minaccia di prendere il sopravvento: quell'estate elettrica preannuncia realmente tsunami?

Il tempo è una cosa da caderci dentro e attraversarlo, se uno sa come si fa.

Tre personaggi femminili sui generis, tre nomi palindromi, tre maschere che si divertono ad alternarsi e confonderci in un gioco delle parti senza inibizioni né regole. Si può far rivivere chi non c'è più? Nell'esordio di Ali Millar — imperdibile per i fan della letteratura weird di Schweblin, Awad, Rouopenian — tutti, perfino il fratellino minore che fantastica di avere una cerniera per cambiare pelle, vorrebbero essere la compianta Ada. Sullo sfondo della Punta, un non-luogo sospeso tra Inghilterra e Scozia, il romanzo è inscenato in una società distopica in cui le persone sono schedate sulla base del loro Valore: l'apparenza, allora come oggi, conta più di tutto.

La prima volta che io e Leo siamo usciti dopo la nascita di Adam, mi sono resto conto che me ne stavo seduta in mezzo a un pub dondolandolo leggermente, abituata com'ero a cullarlo per farlo addormentare. Una serie di minuscole follie: è questo che significa amare con quell'intensità. Che significava.

Popoloso di donne splendide e crudeli, nonché intriso di un umorismo nerissimo, Ava Anna Ada è una psichedelia sull'elaborazione del lutto, i lati oscuri della maternità e i misteri del piacere, a cui l'autrice scozzese conferisce l'andamento liquido delle onde e una sensorialità sorprendente. Morboso, oscuro, caleidoscopico, mostra la stessa scena da prospettive diverse e fa un uso brillante della prima persona plurale. Il Noi, così, è sintomatico del legame inscindibile tra le protagoniste — dove finisce l'una, dove inizia l'altra? Ma anche il punto di vista degli Dei, a volte annoiati, altre crudeli, davanti allo spettacolo catastrofico della nostra scompostezza. Quest'anno, scommetto, non leggerete niente di simile.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Abracadabra

lunedì 31 marzo 2025

Recensione: Gotico salentino, di Marina Pierri

Gotico salentino, di Marina Pierri. Einaudi, € 17, 50, pp. 240 | 

Cosa ci fanno Mary Shelley, Shirley Jackson e una giornalista in crisi creativa nella stessa casa infestata? Con una lingua onomatopeica e barocca, capace all'occorrenza di coloriture dialettali sorprendentemente divertenti, ce lo spiega Marina Pierri: come la sua protagonista, una salentina trapiantata a Milano, qui alle prese con il suo romanzo d'esordio. Di ritorno all'ovile dopo la morte del padre, Filomena Quarta, quarant'anni, non ha né soldi né un marito né un lavoro. Aspirante scrittrice, albergatrice apprendista, medium presunta, vorrebbe trasformare la residenza di famiglia in un B&B: peccato che il suggestivo casolare, ormai abbandonato a sé stesso in un intrico di pini marittimi e gramigna, sia considerato vittima della “malumbra”. I compaesani superstiziosi si segnano, e non hanno tutti i torti. Le finestre, infatti, si spalancano all'improvviso; i muri strillano sotto il trapano dei manovali; i corridoi vibrano di nenie inquietanti e il bosco ama confondere i viandanti.

Non devo avere timore di me stessa, né di questo luogo. È la ma famiglia ed è la mia storia. Ho letto abbastanza racconti del terrore per sapere come funziona.

Sardonica e sfrontata, Filomena si fa coraggio ospitando Alba, l'esilarante migliore amica non binaria, e Antonio, un tenero agricoltore in fuga dal cliché del maschio meridionale. Con loro, come già preannunciato, gli spettri delle autrici di Frakenstein e L'incubo di Hill House: chi meglio di loro potrebbe giudicare il manoscritto di Filomena e, soprattutto, fare i conti con le apparizioni agghiaccianti di una suora in cerca di vendetta? La resa dei conti, immancabilmente, avverrà la notte di Halloween. Erudita, brillante, citazionista, Pierri si rifà ai capostipiti del gotico senza prendersi troppo sul serio e confeziona un gioco metaletterario assolutamente delizioso, in cui Dimora Quarta diventa un rifugio per diseredati — noi, la generazione dei “se” — e una cassa di risonanza per l'orrore delle violenze di genere. L'amorevole Mary, curiosamente dipendente dai reel di Instagram, ricorda l'amore tossico con Shelley, gli aborti, i giorni della vedovanza a Lerici; Shirley, invece, anestetizza con l'alcol l'astio verso un marito editor che la considerava in primis una casalinga, poi un'autrice.

Scrivere non è un mestiere per vigliacchi.

Loro e altre donne senza voce, così, tornano sotto forma di fantasime per invadere le nostre stanze e le nostre coscienze. Il rombare della loro rabbia, mista però a una tenerezza disarmante, sormonterà per intensità il lugubre cigolio di qualsivoglia porta. Sullo sfondo: una Puglia autentica e lontana dal mare; la stessa in cui si è trasferita mia madre all'indomani di una separazione che, per anni, mi ha voluto rancoroso verso una regione che da qualche estate a questa parte, infine, ospita le mie vacanze. Gotico salentino è un prontuario per famiglie infestate perfetto anche per chi, come me, troppo pavido per elaborare, a lungo ha nutrito un'ingiustificata paura verso i propri fantasmi.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Doechii – Anxiety

martedì 25 marzo 2025

Le serie TV di marzo: Adolescence | Il gattopardo | Paradise | Storia della mia famiglia

La polizia fa irruzione in una casa dei sobborghi inglesi. Cercano il responsabile di un omicidio. Ha tredici anni. L'ultima miniserie Netflix, già destinata a rimanere tra le più memorabili di un anno ricco, non è tratta da una storia vera, ma potrebbe. I quattro episodi, girati in quattro piani sequenza, seguono senza stacchi una terribile presa di coscienza. Gli straordinari attori protagonisti — Stephen Graham, anche sceneggiatore, e l'esordiente Owen Cooper — recitano in apnea. La macchina da presa si muove, invisibile, in un'elaborata coreografia che passa dalla sala interrogatori alle classi di una scuola media, da un teso faccia a faccia con una psicologa a un cinquantesimo compleanno da dimenticare. Si parla di cyberbullismo, revenge porn, violenza di genere. Ancora, dell'incomunicabilità tra genitori e figli. Ma mentre spezza il cuore seguire la routine della famiglia del carnefice, in lotta per la normalità, atterriscono i primi piani del piccolo Jamie: ora serafico, ora inquietante, ha una sessualità oscura e ricordi in cui serpeggia il disagio di un bambino che non voleva giocare a calcio né tirare di boxe, ma soltanto disegnare. Dolorosissima, Adolescence è un miracolo di tecnica destinato a seminare più domande che risposte. Conosciamo i nostri figli? Siamo certi che, nelle loro camerette, siano al sicuro dal mondo? E il mondo, è al sicuro da loro? (8,5)

Quando Il Gattopardo uscì, fu un flop. Non soltanto il romanzo, rifiutato da molti editori, ma anche il film, ormai un classico. Bisognerebbe essere più clementi con l'ultimo adattamento di Tomasi di Lampedusa. Vittima di inutili paragoni, è una coproduzione con tutti i pregi e i difetti del caso. Si avvicendano ben tre registi in sei episodi; i membri del cast perdono talora l'accento siciliano, che ricordano di sfoggiare soltanto nei momenti più convincenti (Lancaster, Delon e Cardinale – ricordiamolo – erano doppiati). Con la stessa cura impiegata nel favoloso comparto tecnico, Il Gattopardo avrebbe potuto essere un trionfo. Invece si accontenta di essere un solido period drama, a tratti vittima della disattenzione, che nella seconda parte sa trovare una sua direzione. Più ci si affranca dal romanzo e più acquisiscono spessore i personaggi. Il principe del superbo Rossi Stuart assistente con amarezza al tramonto dell'aristocrazia; questa volta, però, c'è speranza nella generazione successiva. Se Porcaroli si rivela la vera protagonista, nei panni di una Concetta finalmente al centro della scena, perfino la Angelica della magnetica Cassel stupisce: consapevole della sua bellezza, fa dell'erotismo un mezzo di ascesa per lo scialbo Nanni. È realmente tutto perduto per i nobili — nobili d'animo compresi? Doveva cambiare tutto perché nulla cambiasse. E la miniserie, sospesa tra omaggio e innovazione, fa sua la lezione. (7)

Chi ha ucciso il presidente degli Stati Uniti? Ambientata in una idilliaca cittadina americana, Paradise parte come un giallo politico. Ma niente è come sembra. Sin dal primo episodio si rivela un mix al cardiopalma, in cui la tensione è alta e la critica sociale semplice ma di impatto. Un po' thriller catastrofico, un po' dramma post-apocalittico, un po' distopia, è una serie solidissima, fieramente vecchio stile e piena zeppa di colpi di scena. Non c'è un singolo episodio che non riservi un twist finale. Non c'è un singolo personaggio senza ombre. Scrivono gli autori di This Is Us: i flashback abbondano, così come i monologhi pieni di enfasi. Ancora una volta, il protagonista è Sterling K. Brown: i muscoli guizzanti e il cuore d'oro. Con lui Nicholson, cattiva degna dei migliori Bond, e Marsden, nel miglior ruolo della sua carriera alle prese con un presidente tragico e sbruffone. Non si contano i segreti. Le stanze del potere vibrano di rivelazioni. Dietro questa utopia all'apparenza perfetta, senza armi né sbavature, si nasconde un prodotto di grande intrattenimento che, dopo Baker e Corbet, smantella nuovamente il sogno americano. Il paradiso è un truman show per pochi privilegiati; una farsa da sabotare con un colpo alla Die Hard. (7,5)

Fausto, papà single e malato terminale a poco più di trent'anni, si domanda cosa resterà della sua famiglia — allargata, disfunzionale, napoletana — quando non ci sarà più. Attraverso una serie di lunghi messaggi vocali, li educherà all'elaborazione del lutto e alla convivenza. Morirà già nel primo episodio, ma non andrà mai realmente via. Il rischio? Quello di plasmarli involontariamente a sua immagine e somiglianza. Possiamo diventare quello che qualcun altro ha decretato, seppure a fin di bene, per noi? Benché diriga il solitamente valido Claudio Cupellini, Storia della mia famiglia ha la foggia dozzinale di una serie Rai — ma di quelle ben riuscite e realizzate con innegabile cuore. Televisiva ma sobria, sorprendentemente in equilibrio tra comicità e tragedia soprattutto nell'ottima prima metà, è un family drama sulla scia di This is us e Parenthood. Insomma, a dispetto della piega giudiziaria del finale — a chi saranno affidati i bambini, contesi nel frattempo da una madre mentalmente instabile? —, le si vuole bene. Il merito spetta tutto al cast, trainato dal sempre più bravo Eduardo Scarpetta e impreziosito da Vanessa Scalera, mattatrice straordinaria nei panni kitsch di una giovane nonna sopra le righe. (7)

martedì 18 marzo 2025

Recensione: Katie, di Michael McDowell

| Katie, di Michael McDowell. Neri Pozza, € 14,90, pp. 440 |

È divertentissimo, sanguinoso, improbabile. Fino all'ultima pagina, è stato un chiodo fisso: la mia nuova ossessione. Ambientato nella New York ottocentesca di Edith Warthon, fa il verso al romanzo d'appendice. Prima di smembrarlo, pezzo per pezzo, con una ascia affilata. Katie, piccolo e implacabile dietro la copertina d'altri tempi, è un gotico che confermerà ai fan il talento di Michael McDowell: scomparso ventisei anni anni fa e a lungo considerato dalla critica un autore di serie B, gode finalmente di un successo tardivo grazie a Neri Pozza. Lo leggo qui e ora per la prima volta. Da adolescente, quando guardavo vecchi slasher e consumavo soltanto romanzi di Stephen King, ne avrei amato alla follia la crudezza. Adesso, pur stordendo un po' il naso davanti alle svolte più rocambolesche della trama, mi sono goduto comunque la corsa a perdifiato su queste montagne russe: accanto a me, sedeva una cattiva di rara perfidia, a metà tra la Pearl di Mia Goth e la serial killer Lizzie Borden.

Ho giurato a me stessa di vederli tutti e tre morti. Mi trasformerò in un segugio, li braccherò nelle loro tane, li farò impiccare, e quella notte dormirò ai piedi della loro forca. Il tanfo di decomposizione dei loro cadaveri sarà un balsamo per me.

Cresciuta in una famiglia rozza, stolida e avara, Katie Slape è l'artefice di omicidio aberranti ai danni di uomini, donne, bambini, animali. Dotata di misteriose capacità premonitorie e attratta dalle ricchezze al pari di una gazza ladra, si appropria del patrimonio di Philo Drax: una ragazza virtuosa ma sfortunata, ingiustamente accusata della morte del nonno. Per ironia della sorte, le due si troveranno a vivere a poche strade di distanza l'una dall'altra. Sullo sfondo di una città sapientemente rievocata tra spiritismo e cabaret alla moda, investimenti fallimentari a Wall Street e lucidascarpe in ogni dove, McDowell annoda le mille trame — senza nessuna paura di sporcarsi le mani — di una favola nera sognante e terribile, dove le eroine vivono sciagure indicibili, pur mantenendo incorrotti i loro valori, e gli antagonisti vengono sempre puniti dalla sorte. Miete più vittime una lama, infatti, o il karma? Divertito e onnisciente, l'autore americano mette il suo sapere nella costruzione di un contesto storico credibile in ogni dettaglio, con un occhio di riguardo alla condizione femminile: Philo, all'inizio idealista, scoprirà presto i mezzi coi quali le sue coinquiline sopravvivono alla crisi economica. È possibile smaliziarsi senza mai perdere la dignità e, nel frattempo, trovate perfino un marito facoltoso? Il resto, che ovviamente non vi svelo, è intrattenimento impagabile e purissimo. Astenersi i deboli di cuore. Il martello di Katie non lascia superstiti, né fa sconti.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Meghan Trainor – Criminals

lunedì 10 marzo 2025

Dal Festival di Venezia allo streaming: M - Il figlio del secolo | Dieci Capodanni | Disclaimer

Il 2025 è appena iniziato, eppure sembrerebbe di aver già trovato la serie più rappresentativa di quest'anno, e di tanti anni a questa parte. Specchio nero dei tempi che corrono, M è il figlio del secolo, ma, soprattutto, il padre di una mostruosa progenie ancora tra noi. Ispirandosi a Scurati, Joe Wright mette in scena la banalità del male, e le sue origini, come avrebbe fatto Shakespeare. Accuratissima ma mai didascalica, la serie Sky lascia sedere in cattedra Mussolini in persona. Seduttivo e ributtante, carismatico e insicuro, il Duce di un incredibile Marinelli appare tutto e il contrario di tutto. A metà tra un personaggio slapstick e il sanguinario Macbeth, ci guida fino al delitto Matteotti, in una Roma fuligginosa come Birmingham: con lui Russo, sorprendente partner in crime, e Chichiarelli, fiammeggiante femme fatale. Se il cast è di soli fuoriclasse, la regia è arte futurista. Wright coreografa i voltafaccia, la violenza delle camicie nere, gli assalti come se fossero parte di un musical. La Storia non è la solita storia. M osa con l'ironia della tragicommedia per mostrare l'avanzata di un tiranno con poche idee e molti consiglieri, abilissimo nel tradire tutti — soprattutto sé stesso — quando il vento soffiava contrario. Perseguitato dai presagi e dal senso di colpa, Mussolini si svela nel pubblico e nel privato. E muove un atto d'accusa che nauseerà lo spettatore. L'indignazione non va a lui, ma a noi stessi, inebetiti davanti al suo predominio; complici. Il male peggiore è di chi lo compie o di chi, con le opere e le omissioni, lo nutre? (9)

Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Succede proprio così, come nella canzone di Antonello Venditti, anche ad Ana e Oscar. Si conoscono alla vigilia di Capodanno del 2015, appena trentenni, e si inseguono per dieci anni. Lei intraprendente ristoratrice, lui medico nevrotico, non si ameranno con fedeltà per tutto il tempo. A volte in coppia, altre separatamente, animano con l'assoluta imprevedibilità dei loro sentimenti la serie del premiato Rodrigo Sarogoyen. Presentata in anteprima al Festival Venezia e imperdibile per tutti gli appassionati del cinema di Linklater e Kechiche, resterà tra le più struggenti dell'anno. Se la struttura narrativa ricorda l'iconico One Day, il resto sembra frutto di una magica improvvisazione. Gli attori rivelzione Iria del Rio e Francesco Carril, intimi e intensissimi, sono al centro di dialoghi lunghi interi piani sequenza e di scene di sesso così dettagliate da sembrare reali. Nel passaggio dai trenta ai quarant'anni, cambieranno lavoro, partner, città; vivranno lutti, nascite, perfino la pandemia; guadagneranno un fascino inaspettato, mentre i capelli si tingono inevitabilmente di grigio. Torneranno insieme, stavolta per sempre, in vista del faccia a faccia finale? Sicuramente, al termine di questo splendido tranche de vie che un po' appartiene anche a noi, non si scorderanno mai. (8)

Una documentarista rischia di perdere sia famiglia che reputazione quando un’ombra dal passato minaccia di rendere un suo segreto di dominio pubblico. A sbugiardarla è un romanzo autopubblicato, in cui si racconta la passione di un’estate lontana finita poi in tragedia. Ci si può fidare, però, di un narratore bugiardo? E di una donna spinta al limite? La regia di Alfonso Cuaròn, la fotografia di Emmanuel Lubezki, il cast all stars capitanato da Cate Blanchett. Possibile che, dopo l’anteprima al Festival di Venezia, si sia parlato tanto poco di Disclaimer? Scarsamente pubblicizzata, è un thriller sull’illusorietà delle relazioni e sul potere della scrittura, a tratti erotico e a tratti agghiacciante; una storia di vendette, servite rigorosamente fredde, dove il vedovo Kevin Kline è talmente magnetico da giganteggiare sul resto del pur sempre ottimo cast. Tratto dal romanzo di Renée Knight, bestseller da supermercato coinvolgente ma dozzinale nello stile, l’adattamento Apple trova l’autorialità che mancava alla controparte letteraria. Peccato che la patina eccessiva della confezione, la ridondanza delle voci off e l’esagerato manierismo della regia rendano il tutto troppo lezioso, anche a discapito dell'efficace colpo di scena in agguato. Questo asserragliamento da Oscar avrebbe meritato comunque maggiore attenzione. (7)

martedì 25 febbraio 2025

And the Oscar goes to: The Brutalist | A Real Pain | Flow | The Girl with the Needle

Qual è il prezzo del sogno americano? Recentemente se l'era chiesto Anora, commedia amara in cui il risveglio dalla favola somigliava a un pianto. La domanda riecheggia anche in The Brutalist, un film con la solennità di un cinema che non c'è più. Ambientato in quarant'anni, diviso in due capitoli con tanto di intervallo al centro, è un'epopea degna di Philip Roth. Corbet, classe 1988, sceneggia dal nuovo l'odissea di un architetto ungherese al soldo del filantropo Guy Pierce. Finalmente riunitosi alla moglie Felicity Jones, sopravvissuta ai campi di concentramento, vivrà una parabola oscura dopo un viaggio tra i bianchi marmi di Carrara. Mentre il suo capolavoro si eleva, infatti, la sua vita sprofonda in un abisso di vergogna. È un genio o un parassita? Sulle spalle nervose di Adrien Brody, a lungo a digiuno di ruoli memorabili, poggia il peso immane di una struttura grigia e austera, con corridoi angusti e soffitti altissimi. Il simbolismo del progetto sarà spiegato in un finale, purtroppo, troppo didascalico. The Brutalist, per il resto, è una morality play degna di Scorsese, Coppola, Anderson, in cui lo spirito di onnipotenza del committente e l'ossessione dell'architetto si scontreranno con l'impossibilità di cambiare le proprie origini. L'innesto, giacché forzato, non fiorirà. (8)

Dopo la morte dell'affezionata nonna, miracolosamente sopravvissuta ai campi di sterminio, due cugini americani dai caratteri agli antipodi volano insieme fino a Varsavia, Polonia, con lo scopo di omaggiarla. Jesse Eisenberg, per un po' pupillo di Woody Allen, scrive, dirige e interpreta una classica commedia indie dai toni dolce-amari, ritagliando per sé il classico personaggio del newyorkese nevrotico, privilegiato, ipocondriaco. Il ruolo migliore? In un atto generosissimo, lo regala all'amico e collega Kieran Culkin: già in odore di Oscar, nonostante un personaggio cucito addosso, veste qui i panni trasandati di una sorta di Zach Galifianakis votato all'ipersensibilità e agli eccessi. Affascinante e imprevedibile negli sbalzi d'umore, Culkin è il bellissimo cuore emozionale di un film on the road assai poco memorabile per approccio e scrittura — il pensiero corre ai cult Ogni cosa è illuminata o Little Miss Sunshine: A Real Pain è ben lontano dalla loro iconicità —, ma con il pregio di sapere riflettere con un sorriso a fior di labbra di colpa, memoria, elaborazione. Quanto pesa il fardello di essere immigrati di terza generazioni, magari non all'altezza dei sacrifici dei propri antenati? Quanto pesa, soprattutto, questa leggerezza? (6)

Il film animato più bello dell'anno (scorso) arriva dalla sconosciuta Lettonia. Meritatamente candidato a due Oscar, è il diretto rivale di Il robot selvaggio. I due film, favole ambientaliste in cui gli animali imparano per forza di cose a collaborare, hanno a ben vedere più di qualche punto in comune. Ma mentre il film DreamWorks si perde in una seconda parte inutilmente roboante, questo film è un esempio perfetto di tecnica e delicatezza. Sensibile, minimalista, sperimentale, racconta l'odissea di un gatto nero all'indomani di un inspiegabile diluvio. Come un novello Noè, il gatto vincerà la diffidenza per radunare una piccola arca con un labrador, un lemure, un capibara: con loro anche un misterioso airone, che li guida – e giudica – come un dio imperscrutabile. In mancanza di dialoghi, parlano l'espressività dei protagonisti e i rumori d'ambiente, in un gioiello d'immagini e suoni che ha il nitore del documentario. I 90 minuti di durata sembrano forse troppi per uno spunto che si sarebbe prestato meglio al mediometraggio; la morale si perde di vista nel lirismo dell'epilogo. Eppure la visione di Flow angoscia, incanta e stupisce, portandoci alla deriva in un mondo in cui a mancare, per una volta, è l'animale più infestante: l'uomo. (7,5)

Irresistibili atmosfere da fiaba nera. Una fotografia ispirata al meglio del cinema espressionista. Una donna sessualmente repressa, sempre a un passo da un abisso di oscurità. Non sto parlando del sopravvalutato Nosferatu, bensì del danese The Girl with the Needle, in lizza per il Miglior Film Straniero. Ambientato nella Copenhagen del dopoguerra, sceglie un claustrofobico bianco e nero – accompagnato al 4:3, immancabile in questi angosciosi film di nicchia – per rievocare una spaventosa catena di infanticidi realmente accaduti. Indeciso tra il dramma sociale e l'horror, sin troppo manierato per strappare veri brividi, racconta comunque con solidità la vicenda di un'operaia sedotta dal suo datore di lavoro. Rimasta incinta, con un marito invalido appena tornato dal fronte, affiderà il nascituro a una donna misteriosa. Più simile del previsto al film della nostra Maura Delpero, che in definitiva avrebbe meritato un posto in cinquina ben più dell'algido ibrido di Von Horn, non è tanto la storia di una efferata serial killer, quanto uno spaccato su un gruppo di donne mute e abbandonate, private della facoltà di scegliere, qui costrette a commettere l'indicibile pur di assaporare in extremis un briciolo di libertà. Per non essere le vittime della Storia, infatti, tocca forse diventare le carnefici? (7)

venerdì 21 febbraio 2025

Recensione: I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead

| I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead. Mondadori, € 13,50, pp. 216 |

A lungo ho avuto il timore di leggerlo. Troppo impegnato l'autore, vincitore di ben due Pulitzer a distanza di pochi anni. Troppo drammatico il tema, tra discriminazioni e violenze sullo sfondo di una America non così lontana. I ragazzi della Nickel è un romanzo che disattende le aspettative. E, per fortuna, è la cosa più bella che possa fare. È possibile rendere luminosissima un'orribile vicenda realmente accaduta? Ai piedi di un riformatorio, in tempi recenti, fu rinvenuto un cimitero di morti mai reclamati. Le ossa appartenevano agli studenti – anzi, ai prigionieri – di un istituto della Florida: negli anni Sessanta del Novecento, laggiù, lo schiavismo era un incubo ancora reale.

Era una follia scappare ed era una follia non scappare. Come poteva un ragazzo guardare oltre il confine della proprietà, vedere quel mondo vivo e libero e non pensare di evadere? Per decidere del proprio futuro, una volta tanto. Sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità

Colson Whitehead modifica i nomi, non lo sconcerto, e affida la narrazione a un protagonista che fa la differenza. Dotato di un ottimismo incrollabile, fragile ma resiliente, Elwood è un faro di speranza in una storia nerissima. Studioso, occhialuto, profondamente legato alla nonna materna, è cresciuto con le foto degli attivisti sulle pagine di Life e con i discorsi di Martin Luther King, ascoltati al posto del peccaminoso Elvis. Destinato a studi brillanti, si scontrerà con l'imprevedibilità del destino a causa di un crimine mai commesso. La reclusione nella Nickel Academy, un campo di lavoro nascosto dietro la facciata di scuola rispettabile, cambierà tutto. Non servono cancellate né filo spinato: in un inferno gestito da alcuni dei fondatori del Ku Klux Klan, infatti, nessuno osa scappare. Diviso tra rivalsa e sottomissione, Elwood rispetta a denti stretti le regole e riga dritto, a differenza del più scapestrato Turner: un piccolo truffatore già finito dentro due volte.

Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.

Spesso, tuttavia, sarà impossibile volgere lo sguardo altrove. Il suo spiccato senso della giustizia metterà il protagonista nei guai. E allora, nei meandri di una fabbrica del dolore che si fa magistralmente emblema di tutto il marcio che c'è, sperimenterà addosso le vendetta dei sorveglianti, con un rumoroso ventilatore industriale a coprire le urla. Caratterizzato da una sorprendente delicatezza, nonostante i supplizi a cui sono condannati i suoi ragazzi, Whitehead firma un'opera con il respiro dei classici più intramontabili – di quelli con orfani sfortunati, amicizie salvifiche, fughe mirabolanti. Il lessico, preso in prestito dai romanzi d'avventura. La formazione di Elwood deforma le ossa e disegna sulla schiena una mappa di cicatrici ritorte. Il titanismo non è nel parare le scudisciate, ma nella capacità di abbattere con una risata i muri della segregazione, nelle nobiltà d'animo, nella gentilezza. A volte, come in questo caso, diventa perfino contagioso. Soltanto imparando da Elwood – vincendo il cinismo, ispessendoci la pelle – è possibile sopportare con prontezza di spirito un ribaltamento finale magnifico e agghiacciante insieme, che altrimenti avrebbe fatto più male delle cinghiate del sovrintendente Spencer.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Alex Somers – Stare

giovedì 13 febbraio 2025

And the Oscar goes to: Emilia Pérez | Conclave | Maria | Nosferatu

Il fu Manitas Del Monte. È l'epitaffio che Emilia potrebbe leggere sulla tomba della sua vita passata. Prima narcotrafficante, poi benefattrice. Prima uomo, poi donna, in un film — travolto, francamente, dalle più sterili polemiche — con una tesi reazionaria: cambiare il corpo, e l'anima, per cambiare il mondo. Proprio come la sua eroina tragica, il film è un mutaforma; un anfibio splendido e kitsch come il primo Luhrmann. Senza pretese di verosimiglianza, Jacques Audiard — francese che filma il Messico con un cast americano — sceglie un cinema di innesti, dove la dimensione del musical sottolinea la natura farsesca del tutto, ma le performance del cast garantiscono grande trasporto emotivo. Se le candidature di Gascón segnano già un primato, gli occhi sono puntati su Gomez e Saldana: la prima, benché goffa con lo spagnolo, abbandona l'etichetta di icona Disney con un ruolo conturbante; l'altra, favorita agli Oscar, è un'avvocata con un numero iconico in cui, ballando, sbugiarda la classe politica. Fiaba di colpa e sorellanza, sempre in bilico tra il musical e il thriller, Emilia Pérez trascina in una spirale ipnotica in cui la musica, per fortuna, è più prepotente della violenza. Può un film su una persona a metà farci completamente suoi? Bingo. Tutto può succedere, nell'opera pop in cui i ritornelli cantano di vaginoplastica, i mitra emettono sonorità tribali e i boss, in pectore, sono regine. (8)

Un famoso proverbio dice: morto un papa, se ne fa un altro. Chi, se potesse, non vorrebbe spiare i retroscena blindatissimi delle elezioni del nostro pontefice? Le macchinazioni, i segreti, le ambizioni covate dai numerosi cardinali in lizza per il soglio più ambito al mondo? Il regista Edward Berger ci apre eccezionalmente le porte del conclave, ispirandosi al best-seller di Robert Harris. L'impianto è quello di un giallo alla Agatha Christie. Ci sono gruppo di uomini con tutto da nascondere, la claustrofobia di un ambiente precluso, un sospetto strisciante. L'ultimo papa, rinvenuto misteriosamente morto nel suo letto, è stato forse assassinato? Indaga un Ralph Fiennes in crisi mistica, mentre battagliano il favorito Tucci, il machiavellico Lithgow, il cinico Castellitto; un piccolo ruolo spetta finanche a suor Isabella Rossellini, unica donna in un ambiente maschilista. Elegante, scenografico, serrato, Conclave – plurinominato ai premi – è ben più blando e semplicistico del previsto. Doveva farmi ragionare un'uscita in sala senza polemiche. Meno caustico di quanto si legga, con rivelazioni che indignano ma non troppo, ha un unico colpo di testa: il twist conclusivo. Peccato che, benché significativo, appaia una concessione al politicamente corretto retorica e un po' forzata in un film che, per il resto, è più classico che non si può. Nonostante sbancherà, non è fumata bianca. (6)

Dopo Jackie e Spencer, Larraìn chiude la sua trilogia con un altro ritratto di signora. Maria: la donna prima della Callas. Ma anche quella che, fragile e volitiva, voleva disperatamente tornare a incarnare quel mito indimenticato. Benché il corpo, ormai prosciugato dai lassativi, protestasse. Benché la sua voce, prima venduta al miglior offerente e poi messa a tacere, l'avesse tradita quanto Onassis. Il cileno realizza un flusso di coscienza vorticoso e febbrile, narrativamente frammentario ma formalmente impeccabile. Strutturato in lunghi colloqui come il film sulla First Lady, onirico come quello su Lady Diana, si posiziona a metà. Elegante e asimmetrico, racconta la vita pubblica, quella privata e, soprattutto, quella immaginata. Messi in scena in una Parigi autunnale di rara malinconia – un'unica nomination, Miglior fotografia –, gli ultimi giorni del soprano ne fanno un'eroina tragica degna delle arie che intonava. Nella sua testa si agitava un teatro inarrestabile, popolato di pulsioni irrazionali e vecchi fantasmi. Si può chiudere la porta al passato, se implica escludere anche la musica? Soltanto una diva poteva interpretare una diva. Jolie, scandalosamente snobbata ma in stato di grazia, ne adotta gli accessori e i costumi, il desiderio di adulazione e i vezzi. Per l'autista Favino c'è sempre un pianoforte da spostare; per la cuoca Rohrwacher, invece, una prova a cui assistere. Visse d'arte, Maria; visse d'amore. Morì in solitudine, forse. Ma a modo suo. (7,5)

Da grandi film derivano grandi responsabilità. Avrebbe dovuto saperlo bene Robert Eggers, presto salutato come nuovo paladino dell'horror d'autore. Troppo presto, mi domando con il senno di poi? Verrebbe da chiederselo, infatti, davanti a Nosferatu: la sua opera più ambiziosa, ma, per forza di cose, la più derivativa. Quella che maggiormente avrebbe avuto bisogno di uno sguardo personale, di un immaginario nuovo, di una rinfrescata nella forma e nel contenuto. La trama è la solita: un agente immobiliare viaggia fino al Transilvania, assoldato da un conte misterioso; peccato che quest'ultimo sia un vampiro centenario ossessionato dalla fidanzata del protagonista, una fragile sposina tacciata d'isteria. Oscuro ed elegante come il genere comanda, impeccabile nelle scenografie e nei costumi – meritatissimi gli eventuali premi tecnici –, è un sogno gotico che non diventa mai un incubo. Più fedele del previsto al materiale di partenza, rilegge la storia in una vaga chiave psico-sessuale e regala al conte Bill Skarsgård un paio di baffoni subito da ridere. Lily Rose Depp, insopportabile e sgraziata, si agita, sbava e si dimena in un perenne overacting; convincente soltanto Nicholas Hoult, in missione di salvataggio insieme agli abbozzati Willem Dafoe e Aaron Taylor-Johnson. L'ultimo Nosferatu è antiquato, non retrò. Tedioso, esangue, senza linfa da succhiare. Eggers, questa volta sei stato solo la copia di mille riassunti di un plagio di Stoker. (5)

mercoledì 5 febbraio 2025

Recensione: Avete presente l'amore?, di Dolly Alderton

| Avete presente l'amore?, di Dolly Alderton. Rizzoli, € 18, pp. 370 |

A quindici anni ho visto 500 giorni insieme. Ricordo distintamente la gioia e la rabbia, lo schermo spaccato in due da un indimenticabile split screen: la realtà contro le aspettative, lui contro lei. Ho ripensato spessissimo all'anti-commedia romantica di Marc Webb — e ad Ahia, l'album dei Pinguini Tattici Nucleari consumato in pandemia —, mentre leggevo della rottura tra Andy e Jen. Dopo quattro anni di relazione, appena rientrati da un viaggio nella città dell'amore, si lasciano: anzi lei, rigorosa assicuratrice, lascia lui, comico che non fa ridere. Mi aspettavo una lettura brillante, leggera, divertente. A sorpresa, ho trovato un manuale bellissimo sulla scienza del crepacuore in cui finalmente è svelato il supremo tabù: anche gli uomini piangono. Possibile che la disamina più profonda sulla vulnerabilità maschile sia opera di una donna?

Non lasci andare qualcuno tutto in una volta. Dici addio nell'arco di una vita intera. Magari puoi non pensare a lei per dieci anni, poi senti una canzone che te la ricorda o finisci in un posto dove una volta siete stati insieme, ed ecco che qualcosa che avevi completamente dimenticato riaffiora in superficie. E dici un altro addio. Devi essere pronto a lasciarla andare un migliaio di volte.

Credibilissima, l'inglese Dolly Alderton fa di Andy l'archetipo del trentacinquenne medio: spaventato dalla calvizie e dalla solitudine, si rifugia nelle chat e rinuncia ai carboidrati, si strugge con Bon Iver e sperimenta la convivenza con coinquilini sconosciuti. La gente si lascia in continuazione, lo consolano. Ma queste parole, intanto, arrivano da coetanei troppo impegnati per fare un salto al pub. Quand'è successo di trovarsi in un'età più vicina ai cinquanta che ai venti? Com'è possibile guarire se tutto, perfino un profumo o una fantasia masturbatoria, ci ricorda lei? Questa storia, però, appartiene anche a Jen. Siamo sicuri, infatti, che nel film Zoey Deschanel fosse una stronza senza cuore? Pur non tradendo mai il punto di vista di Andy, fallito nel lavoro e nell'amore, Alderton ricorda anche le difficoltà dell'essere donna oggi: l'orologio biologico, le pressioni sociali, l'angoscia di trovarsi in un vicolo cielo se senza figli né anello al dito.

Qualche volta è piacevole non essere una cosa che cerca disperatamente di essere una persona.

Mentre si accumulano gli episodi esilaranti — la notte in una casa galleggiante, la convivenza con un vecchio complottista, la frequentazione con una ragazza della generazione Z che giudica tutto “cringe” —, Andy prende nota. Spera che, prima o poi, possa condividere ogni dettaglio con la sua Jen, nel frattempo bloccata su Instagram. E che, magari, la sua alienazione, le sue lagnanze, il suo dolore possano ispirare uno spettacolo più convincente dei suoi sketch triti. Se pensate che l'arte imiti la vita e che autocommiserarsi sia un diritto inalienabile del maschio, troverete un po' di voi tra queste pagine. I coniugi di Storia di un matrimonio scrivevano una lettera dove il lutto rimava con la celebrazione del passato. Dolly Alderton, destinata a restare una sorpresa delle sorprese letterarie del 2025, ne fa un irresistibile spettacolo di stand-up.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Pinguini Tattici Nucleari – Islanda

martedì 28 gennaio 2025

Recensione in anteprima: Splendeva l'innocenza, di Roberto Camurri

| Splendeva l'innocenza, di Roberto Camurri. NN Editore, € 17, pp. 192 |

Ci sono romanzi in grado di immortalare un momento, un'estate, come foto Polaroid. Lo scrivevo dell'ultimo Veronesi: un amarcord semplice e difficilissimo sul confine che separa l'infanzia dall'adolescenza. Quando accade, invece, di scoprirsi adulti? Crescere significa sopravvivere nel quarto romanzo di Roberto Camurri: scoperto otto anni, torna in libreria con il suo lavoro più memorabile, dopo i racconti dell'esordio e le sfumature horror dell'esperimento precedente. Alle prese con i sogni e le paure della meglio gioventù, firma un inno generazionale che sembra uscito da un ritornello degli 883. Questa volta non siamo a Fabbrico, ma a Monterosso, dove ho speso qualche giorno proprio al principio dell'anno nuovo. In questo borgo delle Cinque Terre stretto tra il mare e la montagna, il tempo sembra fermo. Soprattutto per Luca. Proprietario di un bar appartenuto ai genitori, si rifugia tra le braccia di una ragazza che ogni notte gli si intrufola in casa come una vampira. Presto compirà quarant'anni. Quando diventerà un adulto responsabile?

Le altre persone sparite, solo loro due, quella panchina e il profumo di lei, uno strano aroma di mele e vaniglia. Luca avrebbe voluto rimanere in silenzio, toccarla, baciarla. Restare su quella panchina per sempre.

Mente l'amico Pietro si è già sposato, c'è qualcun altro che gli dà da pensare: Alessio, mingherlino ma titanico, ha un animo vagabondo e sempre scarsa voglia di rincasare. Quale affinità lo inchioda al devoto Luca; quale colpa? Ormai magistrale nel ritrarre questi microcosmi sospesi e sonnolenti, sensibilissimo nella trattazione di una mascolinità spoglia di qualsiasi machismo, Camurri ci sussurra di genitori che invecchiano, ideali che scolorano, amicizie che durano. E mentre la natura minaccia alluvioni, preannunciando in anticipo il climax dell'epilogo, l'autore si barrica nell'eterno presente della giovinezza tramontata. Scritto a cavallo tra due linee temporali, Splendeva l'innocenza splende — letteralmente — nei suoi lunghi flashback. Il 2001 non è in bianco e nero. Coloratissimo, pieno di bandiere rosse e arcobaleno, ci mostra protagonisti socialmente impegnati, politicamente schierati, che all'indomani del diploma sognavano un altro mondo possibile. In una Genova a ferro e fuoco, in quei giorni, si teneva il G8.

Perché la nostalgia ha rotto il cazzo.

Nel caos delle manifestazioni, Camurri isola abilmente immagini di bellezza e devastazione. E con poche precise pennellate cristallizza la fiducia, la rabbia, il volto di un primo amore di nome Valentina. Che fine ha fatto quella novella partigiana che sognava soltanto di dire: «Io c'ero»? Tra attese in stazione, abbracci goffi e sigarette di troppo, Luca e gli altri si librano in una bollaoltre i confini del mondo. Quando scoppierà, le conseguenze faranno un male cane. Pervaso di una nostalgia balorda, questo Camurri sa di fumo e lacrimogeni. Il vento lo spettina, gli schizzi del mare lo raggiungono finanche in strada. È allerta meteo: l'alta marea ha trascinato a riva resti sparsi, ricordi. Speriamo che, quando le acque si ritireranno, avranno clemenza per le fantasticherie dei ventenni che furono. Dove finiscono le speranze? E le onde?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: 833 - Rotta per casa di Dio