Cosa succederebbe se Yorgos Lanthimos dirigesse Saltburn, ma in chiave saffica e apocalittica? Lei, Anna, è una influencer con una ricca rete di follower e un lussuoso faro ristrutturato per casa. L'altra, Ava, è una prostituta adolescente, all'occorrenza anche babysitter. Si incontrano in circostanze scioccanti: Anna sta prendendo a calci il cadavere del suo cane, morto di overdose. Ava la raggiunge, nel suo impermeabile giallo, e il riconoscimento è immediato: quella ragazzina è la copia sputata di Ada, la figlia della protagonista. Ma mentre Ada si è lasciata morire di anoressia, Ava ha fame di tutto. Ha inizio un ménage fatto di collezioni macabre e sadomasochismo, di morsi sul seno e spine sotto pelle, mentre la natura minaccia di prendere il sopravvento: quell'estate elettrica preannuncia realmente tsunami?
Il tempo è una cosa da caderci dentro e attraversarlo, se uno sa come si fa.
Tre personaggi femminili sui generis, tre nomi palindromi, tre maschere che si divertono ad alternarsi e confonderci in un gioco delle parti senza inibizioni né regole. Si può far rivivere chi non c'è più? Nell'esordio di Ali Millar — imperdibile per i fan della letteratura weird di Schweblin, Awad, Rouopenian — tutti, perfino il fratellino minore che fantastica di avere una cerniera per cambiare pelle, vorrebbero essere la compianta Ada. Sullo sfondo della Punta, un non-luogo sospeso tra Inghilterra e Scozia, il romanzo è inscenato in una società distopica in cui le persone sono schedate sulla base del loro Valore: l'apparenza, allora come oggi, conta più di tutto.
La prima volta che io e Leo siamo usciti dopo la nascita di Adam, mi sono resto conto che me ne stavo seduta in mezzo a un pub dondolandolo leggermente, abituata com'ero a cullarlo per farlo addormentare. Una serie di minuscole follie: è questo che significa amare con quell'intensità. Che significava.
Popoloso di donne splendide e crudeli, nonché intriso di un umorismo nerissimo, Ava Anna Ada è una psichedelia sull'elaborazione del lutto, i lati oscuri della maternità e i misteri del piacere, a cui l'autrice scozzese conferisce l'andamento liquido delle onde e una sensorialità sorprendente. Morboso, oscuro, caleidoscopico, mostra la stessa scena da prospettive diverse e fa un uso brillante della prima persona plurale. Il Noi, così, è sintomatico del legame inscindibile tra le protagoniste — dove finisce l'una, dove inizia l'altra? Ma anche il punto di vista degli Dei, a volte annoiati, altre crudeli, davanti allo spettacolo catastrofico della nostra scompostezza. Quest'anno, scommetto, non leggerete niente di simile.
Cosa ci fanno Mary Shelley, Shirley Jackson e una giornalista in crisi creativa nella stessa casa infestata? Con una lingua onomatopeica e barocca, capace all'occorrenza di coloriture dialettali sorprendentemente divertenti, ce lo spiega Marina Pierri: come la sua protagonista, una salentina trapiantata a Milano, qui alle prese con il suo romanzo d'esordio. Di ritorno all'ovile dopo la morte del padre, Filomena Quarta, quarant'anni, non ha né soldi né un marito né un lavoro. Aspirante scrittrice, albergatrice apprendista, medium presunta, vorrebbe trasformare la residenza di famiglia in un B&B: peccato che il suggestivo casolare, ormai abbandonato a sé stesso in un intrico di pini marittimi e gramigna, sia considerato vittima della “malumbra”. I compaesani superstiziosi si segnano, e non hanno tutti i torti. Le finestre, infatti, si spalancano all'improvviso; i muri strillano sotto il trapano dei manovali; i corridoi vibrano di nenie inquietanti e il bosco ama confondere i viandanti.
Non devo avere timore di me stessa, né di questo luogo. È la ma famiglia ed è la mia storia. Ho letto abbastanza racconti del terrore per sapere come funziona.
Sardonica e sfrontata, Filomena si fa coraggio ospitando Alba, l'esilarante migliore amica non binaria, e Antonio, un tenero agricoltore in fuga dal cliché del maschio meridionale. Con loro, come già preannunciato, gli spettri delle autrici di Frakenstein e L'incubo di Hill House: chi meglio di loro potrebbe giudicare il manoscritto di Filomena e, soprattutto, fare i conti con le apparizioni agghiaccianti di una suora in cerca di vendetta? La resa dei conti, immancabilmente, avverrà la notte di Halloween. Erudita, brillante, citazionista, Pierri si rifà ai capostipiti del gotico senza prendersi troppo sul serio e confeziona un gioco metaletterario assolutamente delizioso, in cui Dimora Quarta diventa un rifugio per diseredati — noi, la generazione dei “se” — e una cassa di risonanza per l'orrore delle violenze di genere. L'amorevole Mary, curiosamente dipendente dai reel di Instagram, ricorda l'amore tossico con Shelley, gli aborti, i giorni della vedovanza a Lerici; Shirley, invece, anestetizza con l'alcol l'astio verso un marito editor che la considerava in primis una casalinga, poi un'autrice.
Scrivere non è un mestiere per vigliacchi.
Loro e altre donne senza voce, così, tornano sotto forma di fantasime per invadere le nostre stanze e le nostre coscienze. Il rombare della loro rabbia, mista però a una tenerezza disarmante, sormonterà per intensità il lugubre cigolio di qualsivoglia porta. Sullo sfondo: una Puglia autentica e lontana dal mare; la stessa in cui si è trasferita mia madre all'indomani di una separazione che, per anni, mi ha voluto rancoroso verso una regione che da qualche estate a questa parte, infine, ospita le mie vacanze. Gotico salentino è un prontuario per famiglie infestate perfetto anche per chi, come me, troppo pavido per elaborare, a lungo ha nutrito un'ingiustificata paura verso i propri fantasmi.
È divertentissimo, sanguinoso, improbabile. Fino all'ultima pagina, è stato un chiodo fisso: la mia nuova ossessione. Ambientato nella New York ottocentesca di Edith Warthon, fa il verso al romanzo d'appendice. Prima di smembrarlo, pezzo per pezzo, con una ascia affilata. Katie, piccolo e implacabile dietro la copertina d'altri tempi, è un gotico che confermerà ai fan il talento di Michael McDowell: scomparso ventisei anni anni fa e a lungo considerato dalla critica un autore di serie B, gode finalmente di un successo tardivo grazie a Neri Pozza. Lo leggo qui e ora per la prima volta. Da adolescente, quando guardavo vecchi slasher e consumavo soltanto romanzi di Stephen King, ne avrei amato alla follia la crudezza. Adesso, pur stordendo un po' il naso davanti alle svolte più rocambolesche della trama, mi sono goduto comunque la corsa a perdifiato su queste montagne russe: accanto a me, sedeva una cattiva di rara perfidia, a metà tra la Pearl di Mia Goth e la serial killer Lizzie Borden.
Ho giurato a me stessa di vederli tutti e tre morti. Mi trasformerò in un segugio, li braccherò nelle loro tane, li farò impiccare, e quella notte dormirò ai piedi della loro forca. Il tanfo di decomposizione dei loro cadaveri sarà un balsamo per me.
Cresciuta in una famiglia rozza, stolida e avara, Katie Slape è l'artefice di omicidio aberranti ai danni di uomini, donne, bambini, animali. Dotata di misteriose capacità premonitorie e attratta dalle ricchezze al pari di una gazza ladra, si appropria del patrimonio di Philo Drax: una ragazza virtuosa ma sfortunata, ingiustamente accusata della morte del nonno. Per ironia della sorte, le due si troveranno a vivere a poche strade di distanza l'una dall'altra. Sullo sfondo di una città sapientemente rievocata tra spiritismo e cabaret alla moda, investimenti fallimentari a Wall Street e lucidascarpe in ogni dove, McDowell annoda le mille trame — senza nessuna paura di sporcarsi le mani — di una favola nera sognante e terribile, dove le eroine vivono sciagure indicibili, pur mantenendo incorrotti i loro valori, e gli antagonisti vengono sempre puniti dalla sorte. Miete più vittime una lama, infatti, o il karma? Divertito e onnisciente, l'autore americano mette il suo sapere nella costruzione di un contesto storico credibile in ogni dettaglio, con un occhio di riguardo alla condizione femminile: Philo, all'inizio idealista, scoprirà presto i mezzi coi quali le sue coinquiline sopravvivono alla crisi economica. È possibile smaliziarsi senza mai perdere la dignità e, nel frattempo, trovate perfino un marito facoltoso? Il resto, che ovviamente non vi svelo, è intrattenimento impagabile e purissimo. Astenersi i deboli di cuore. Il martello di Katie non lascia superstiti, né fa sconti.
Il 2025 è appena iniziato, eppure sembrerebbe di aver già trovato la serie più rappresentativa di quest'anno, e di tanti anni a questa parte. Specchio nero dei tempi che corrono, M è il figlio del secolo, ma, soprattutto, il padre di una mostruosa progenie ancora tra noi. Ispirandosi a Scurati, Joe Wright mette in scena la banalità del male, e le sue origini, come avrebbe fatto Shakespeare. Accuratissima ma mai didascalica, la serie Sky lascia sedere in cattedra Mussolini in persona. Seduttivo e ributtante, carismatico e insicuro, il Duce di un incredibile Marinelli appare tutto e il contrario di tutto. A metà tra un personaggio slapstick e il sanguinario Macbeth, ci guida fino al delitto Matteotti, in una Roma fuligginosa come Birmingham: con lui Russo, sorprendente partner in crime, e Chichiarelli, fiammeggiante femme fatale. Se il cast è di soli fuoriclasse, la regia è arte futurista. Wright coreografa i voltafaccia, la violenza delle camicie nere, gli assalti come se fossero parte di un musical. La Storia non è la solita storia. M osa con l'ironia della tragicommedia per mostrare l'avanzata di un tiranno con poche idee e molti consiglieri, abilissimo nel tradire tutti — soprattutto sé stesso — quando il vento soffiava contrario. Perseguitato dai presagi e dal senso di colpa, Mussolini si svela nel pubblico e nel privato. E muove un atto d'accusa che nauseerà lo spettatore. L'indignazione non va a lui, ma a noi stessi, inebetiti davanti al suo predominio; complici. Il male peggiore è di chi lo compie o di chi, con le opere e le omissioni, lo nutre? (9)
A lungo ho avuto il timore di leggerlo. Troppo impegnato l'autore, vincitore di ben due Pulitzer a distanza di pochi anni. Troppo drammatico il tema, tra discriminazioni e violenze sullo sfondo di una America non così lontana. I ragazzi della Nickel è un romanzo che disattende le aspettative. E, per fortuna, è la cosa più bella che possa fare. È possibile rendere luminosissima un'orribile vicenda realmente accaduta? Ai piedi di un riformatorio, in tempi recenti, fu rinvenuto un cimitero di morti mai reclamati. Le ossa appartenevano agli studenti – anzi, ai prigionieri – di un istituto della Florida: negli anni Sessanta del Novecento, laggiù, lo schiavismo era un incubo ancora reale.
Era una follia scappare ed era una follia non scappare. Come poteva un ragazzo guardare oltre il confine della proprietà, vedere quel mondo vivo e libero e non pensare di evadere? Per decidere del proprio futuro, una volta tanto. Sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità
Colson Whitehead modifica i nomi, non lo sconcerto, e affida la narrazione a un protagonista che fa la differenza. Dotato di un ottimismo incrollabile, fragile ma resiliente, Elwood è un faro di speranza in una storia nerissima. Studioso, occhialuto, profondamente legato alla nonna materna, è cresciuto con le foto degli attivisti sulle pagine di Life e con i discorsi di Martin Luther King, ascoltati al posto del peccaminoso Elvis. Destinato a studi brillanti, si scontrerà con l'imprevedibilità del destino a causa di un crimine mai commesso. La reclusione nella Nickel Academy, un campo di lavoro nascosto dietro la facciata di scuola rispettabile, cambierà tutto. Non servono cancellate né filo spinato: in un inferno gestito da alcuni dei fondatori del Ku Klux Klan, infatti, nessuno osa scappare. Diviso tra rivalsa e sottomissione, Elwood rispetta a denti stretti le regole e riga dritto, a differenza del più scapestrato Turner: un piccolo truffatore già finito dentro due volte.
Dobbiamo
credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo
importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere
le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di
importanza.
Spesso, tuttavia, sarà impossibile volgere lo sguardo altrove. Il suo spiccato senso della giustizia metterà il protagonista nei guai. E allora, nei meandri di una fabbrica del dolore che si fa magistralmente emblema di tutto il marcio che c'è, sperimenterà addosso le vendetta dei sorveglianti, con un rumoroso ventilatore industriale a coprire le urla. Caratterizzato da una sorprendente delicatezza, nonostante i supplizi a cui sono condannati i suoi ragazzi, Whitehead firma un'opera con il respiro dei classici più intramontabili – di quelli con orfani sfortunati, amicizie salvifiche, fughe mirabolanti. Il lessico, preso in prestito dai romanzi d'avventura. La formazione di Elwood deforma le ossa e disegna sulla schiena una mappa di cicatrici ritorte. Il titanismo non è nel parare le scudisciate, ma nella capacità di abbattere con una risata i muri della segregazione, nelle nobiltà d'animo, nella gentilezza. A volte, come in questo caso, diventa perfino contagioso. Soltanto imparando da Elwood – vincendo il cinismo, ispessendoci la pelle – è possibile sopportare con prontezza di spirito un ribaltamento finale magnifico e agghiacciante insieme, che altrimenti avrebbe fatto più male delle cinghiate del sovrintendente Spencer.
A quindici anni ho visto 500 giorni insieme. Ricordo distintamente la gioia e la rabbia, lo schermo spaccato in due da un indimenticabile split screen: la realtà contro le aspettative, lui contro lei. Ho ripensato spessissimo all'anti-commedia romantica di Marc Webb — e ad Ahia, l'album dei Pinguini Tattici Nucleari consumato in pandemia —, mentre leggevo della rottura tra Andy e Jen. Dopo quattro anni di relazione, appena rientrati da un viaggio nella città dell'amore, si lasciano: anzi lei, rigorosa assicuratrice, lascia lui, comico che non fa ridere. Mi aspettavo una lettura brillante, leggera, divertente. A sorpresa, ho trovato un manuale bellissimo sulla scienza del crepacuore in cui finalmente è svelato il supremo tabù: anche gli uomini piangono. Possibile che la disamina più profonda sulla vulnerabilità maschile sia opera di una donna?
Non lasci andare qualcuno tutto in una volta. Dici addio nell'arco di una vita intera. Magari puoi non pensare a lei per dieci anni, poi senti una canzone che te la ricorda o finisci in un posto dove una volta siete stati insieme, ed ecco che qualcosa che avevi completamente dimenticato riaffiora in superficie. E dici un altro addio. Devi essere pronto a lasciarla andare un migliaio di volte.
Credibilissima, l'inglese Dolly Alderton fa di Andy l'archetipo del trentacinquenne medio: spaventato dalla calvizie e dalla solitudine, si rifugia nelle chat e rinuncia ai carboidrati, si strugge con Bon Iver e sperimenta la convivenza con coinquilini sconosciuti. La gente si lascia in continuazione, lo consolano. Ma queste parole, intanto, arrivano da coetanei troppo impegnati per fare un salto al pub. Quand'è successo di trovarsi in un'età più vicina ai cinquanta che ai venti? Com'è possibile guarire se tutto, perfino un profumo o una fantasia masturbatoria, ci ricorda lei? Questa storia, però, appartiene anche a Jen. Siamo sicuri, infatti, che nel film Zoey Deschanel fosse una stronza senza cuore? Pur non tradendo mai il punto di vista di Andy, fallito nel lavoro e nell'amore, Alderton ricorda anche le difficoltà dell'essere donna oggi: l'orologio biologico, le pressioni sociali, l'angoscia di trovarsi in un vicolo cielo se senza figli né anello al dito.
Qualche volta è piacevole non essere una cosa che cerca disperatamente di essere una persona.
Mentre si accumulano gli episodi esilaranti — la notte in una casa galleggiante, la convivenza con un vecchio complottista, la frequentazione con una ragazza della generazione Z che giudica tutto “cringe” —, Andy prende nota. Spera che, prima o poi, possa condividere ogni dettaglio con la sua Jen, nel frattempo bloccata su Instagram. E che, magari, la sua alienazione, le sue lagnanze, il suo dolore possano ispirare uno spettacolo più convincente dei suoi sketch triti. Se pensate che l'arte imiti la vita e che autocommiserarsi sia un diritto inalienabile del maschio, troverete un po' di voi tra queste pagine. I coniugi di Storia di un matrimonio scrivevano una lettera dove il lutto rimava con la celebrazione del passato. Dolly Alderton, destinata a restare una sorpresa delle sorprese letterarie del 2025, ne fa un irresistibile spettacolo di stand-up.
Ci sono romanzi in grado di immortalare un momento, un'estate, come foto Polaroid. Lo scrivevo dell'ultimo Veronesi: un amarcord semplice e difficilissimo sul confine che separa l'infanzia dall'adolescenza. Quando accade, invece, di scoprirsi adulti? Crescere significa sopravvivere nel quarto romanzo di Roberto Camurri: scoperto otto anni, torna in libreria con il suo lavoro più memorabile, dopo i racconti dell'esordio e le sfumature horror dell'esperimento precedente. Alle prese con i sogni e le paure della meglio gioventù, firma un inno generazionale che sembra uscito da un ritornello degli 883. Questa volta non siamo a Fabbrico, ma a Monterosso, dove ho speso qualche giorno proprio al principio dell'anno nuovo. In questo borgo delle Cinque Terre stretto tra il mare e la montagna, il tempo sembra fermo. Soprattutto per Luca. Proprietario di un bar appartenuto ai genitori, si rifugia tra le braccia di una ragazza che ogni notte gli si intrufola in casa come una vampira. Presto compirà quarant'anni. Quando diventerà un adulto responsabile?
Le altre persone sparite, solo loro due, quella panchina e il profumo di lei, uno strano aroma di mele e vaniglia. Luca avrebbe voluto rimanere in silenzio, toccarla, baciarla. Restare su quella panchina per sempre.
Mente l'amico Pietro si è già sposato, c'è qualcun altro che gli dà da pensare: Alessio, mingherlino ma titanico, ha un animo vagabondo e sempre scarsa voglia di rincasare. Quale affinità lo inchioda al devoto Luca; quale colpa? Ormai magistrale nel ritrarre questi microcosmi sospesi e sonnolenti, sensibilissimo nella trattazione di una mascolinità spoglia di qualsiasi machismo, Camurri ci sussurra di genitori che invecchiano, ideali che scolorano, amicizie che durano. E mentre la natura minaccia alluvioni, preannunciando in anticipo il climax dell'epilogo, l'autore si barrica nell'eterno presente della giovinezza tramontata. Scritto a cavallo tra due linee temporali, Splendeva l'innocenza splende — letteralmente — nei suoi lunghi flashback. Il 2001 non è in bianco e nero. Coloratissimo, pieno di bandiere rosse e arcobaleno, ci mostra protagonisti socialmente impegnati, politicamente schierati, che all'indomani del diploma sognavano un altro mondo possibile. In una Genova a ferro e fuoco, in quei giorni, si teneva il G8.
Perché la nostalgia ha rotto il cazzo.
Nel caos delle manifestazioni, Camurri isola abilmente immagini di bellezza e devastazione. E con poche precise pennellate cristallizza la fiducia, la rabbia, il volto di un primo amore di nome Valentina. Che fine ha fatto quella novella partigiana che sognava soltanto di dire: «Io c'ero»? Tra attese in stazione, abbracci goffi e sigarette di troppo, Luca e gli altri si librano in una bollaoltre i confini del mondo. Quando scoppierà, le conseguenze faranno un male cane. Pervaso di una nostalgia balorda, questo Camurri sa di fumo e lacrimogeni. Il vento lo spettina, gli schizzi del mare lo raggiungono finanche in strada. È allerta meteo: l'alta marea ha trascinato a riva resti sparsi, ricordi. Speriamo che, quando le acque si ritireranno, avranno clemenza per le fantasticherie dei ventenni che furono. Dove finiscono le speranze? E le onde?