Pagine

venerdì 30 novembre 2018

Mr. Ciak: The Wife, Widows, The Children Act, The Guilty, Ritorno al bosco dei 100 acri

A Stoccolma, in una camera di lusso, si consumano i retroscena del Nobel. La premiazione e le domande della stampa hanno risvegliato rancori nel mezzo dei festeggiamenti. I contendenti sono due coniugi già in là con gli anni: lui, con il pallino dei grassi saturi e delle belle donne, scrittore vanaglorioso che sin da ragazzo si sognava Philip Roth; lei, prima allieva prediletta e in seguito moglie trofeo, donna che in segreto ha sempre mosso i fili del suo successo. Non serviva il sopraggiungere di flashback quanto mai superflui per illuminarci sulle bugie e i ruoli di potere della coppia: un matrimonio nato da un tradimento, che di tradimenti a lungo ha vissuto, in cui un'ereditiera desiderosa di indispettire la ricca famiglia aveva regalato l'anima e il corpo – soprattutto, il proprio talento – a uno scrittore ora da pulire, ora da imboccare, ora da perdonare. L'uno ha le idee, l'altra lo stile. Tutti i meriti, anche agli occhi del figlio (d'arte) Max Irons, spettano però all'istrione Jonathan Pryce. L'occhialuto biografo Christian Slater, al contrario, fiuta qualcosa nei gesti di una Glenn Close in odore di nomination: i sorrisi tirati, gli occhi bassi, il tormento delle mani e un animo che ribolle per quel desiderio di rivalsa svegliatosi all'improvviso. Si può voltare pagina a settant'anni? Si può trovare nella totale disfatta la voglia di fare l'amore o di saltare sul letto per celebrare un immeritato trionfo? Storia di rinascita affatto sorprendente in questi tempi di ritorno al femminismo, la lenta rimonta di The Wife ricorda troppo Big Eyes: palcoscenico austero ed elegante su cui non va in scena niente che meriti il bis. Classico dramma di attori in cui la scontata bravura della protagonista si rivela un'arma a doppio taglio. È infatti la stessa donna del titolo, a suon di dialoghi teatrali e di segnanti primi pianti, a mettere in ombra l'intero film. (6)

Se sei un criminale in una Chicago che non perdona, nemmeno un'onorata carriera nel malaffare può salvarti. La vita di quattro ladri si conclude in una retata che non lascia scampo. Ognuno aveva debiti, un'idea per cambiare vita, una moglie. Questa è la storia di tre delle quattro vedove: donne agli antipodi – un'ereditiera affranta con ridicolo cagnetto bianco al seguito, una giovane maltrattata che si reinventa escort, una mamma latinoamericana con un negozio pignorato – che, sotto l'egida di una Viola Davis tanto bad-ass quanto svogliata, collaborano per riscattarsi. Mentre in città si fanno lo sgambetto gli aspiranti sindaci – Farrell appoggiato dall'arcigno Duvall, l'altro dal tirapiedi Kaluuya –, le protagoniste lavorano a far della propria inadeguatezza un'arma a doppio taglio. E secondo lo stesso principio, in un cast di premi Oscar, a sorprendere sono le attrici all'apparenza fuori posto: Michelle Rodriguez, per la prima volta in un film d'autore, e un'irresistibile Elizabeth Debicki. Peccato che i pregi, le cose da scrivere, finiscano presto con un film che resterà la peggiore delusione dell'anno. Widows su carta non ispirava, infatti, ma recensioni positive e grandi nomi lasciavano intuire il colpo di teatro: Steve McQueen, reduce dai fasti del potente e arraffone 12 anni schiavo, non poteva riadattare una soap degli anni Ottanta senza metterci del genio; non poteva cedere all'heist movie come un qualsiasi Soderbergh e giocare ancora l'irritante carta del politicamente corretto con un cast all women (o quasi), all black (o quasi), con tanto di stucchevole cenno al braccio violento (e razzista) della legge. Non ne faccio mistero, di Widows mi hanno infastidito le scenografie da rivista patinata, la scrittura televisiva della Flynn, colpi di scena che insultano l'intelligenza di chi si aspettava un'americanata sì, ma di classe. Freddo e poco coinvolgente, in equilibrio precario fra il noir e il melodramma, il regista del chiacchierato Shame finisce questa volta per lasciare a bocca asciutta per il desiderio di accontentare tutti in una seriosa varazione sul tema del dimenticato Ocean's 8. Torna e fa cilecca. Con la morte nel cuore per questo colpo clamorosamente fallito, noi fan ci vestiamo già a lutto. (5,5)

I sorrisi ai neonati sul treno ci dicono che non ha avuto figli. Parte lesa in un matrimonio senza sesso, continuamente sul piede di guerra, il giudice Emma Thompson ha un'aria rispettabile, un guardaroba severo, ma piccoli dettagli ne rivelano l'altruismo e l'istinto materno. Esperta in autentici casi di coscienza, chiama a deporre la famiglia di un adolescente morente: in quanto testimone di Geova, il ragazzo rifiuta la trasfusione. Avvincente e umano, The Children Act è nella prima parte un dramma giudiziario convenzionale ma solidissimo. La seconda, più incerta ma senz'altro toccante, segue invece il dipanarsi di un candido colpo di fulmine, di una subitanea affinità elettiva, il cui significato si evince più in pratica che in teoria. La protagonista, infatti, va al capezzale di Fionn Whitehead: per lui, intelligente e sfacciato, canta e recita Yates. Il giovane – senza più famiglia, senza più Dio – si affida anima e corpo alla donna, che ligia al dovere non vuole tuttavia portarsi il lavoro a casa. È già troppo tardi: in seguito a un imprinting misterioso e immediato, lei gli è entrata sin nel sangue. Se l'ultima mezz'ora non basta ad approfondire debitamente il rapporto tra il malato ribelle e il giudice – “My Lady”, come la chiama Whitehead venerandola per tutto il tempo –, ambiguità e svolte annunciate sono appianate dal monologo finale di un'attrice forse al suo meglio che, piangendo in abito da sera, si confessa all'infedele Tucci. Ci sono ballate che vanno cantate: al diavolo le scalette predefinite. Ci sono storie che vanno raccontate anche se, grandi interpreti a parte, sortiranno maggiore clamore nei romanzi di Ian McEwan. Ci sono casi straordinari – giudiziari e non solo – davanti ai quali perfino la legge solleva bandiera bianca. Abbandonandosi a un ritornello, lasciando andare chi aveva le smania di farsi libero martire. (7)

C'è qualcosa di marcio in Danimarca. C'è qualcosa di bello però in un cinema che quel marcio sa raccontarcelo con l'acume e la sensibilità che lusingherebbero anche il buon Shakespeare. Vedasi i nervi a fiori di pelle per Il sospetto di Thomas Vinterberg o, ancora, le lacrime per la scabrosa Susan Bier di Second Chance. Alla completezza dei gialli europei mancava un tassello. L'ho scoperto per caso – non sapendo del successo al Festival di Torino né che avrebbe rappresentato la Danimarca agli Oscar –, in un'appassionante chiamata lunga un film. Il telefono squilla. Siamo in una stazione di polizia e, in seguito a una bruciante retrocessione, al pronto intervento troviamo un bravissimo Jakob Cedergren. L'agente paga il fio per i propri metodi poco ortodossi, per la tendenza a far di tutto un caso personale. Alla cornetta lo aspettano gli sbadigli per qualche tentata rapina, incidenti stradali da poco, giornalisti incuriositi da uno scandalo che l'ha reso protagonista. Fino a quando non intercetta una chiamata diversa: quella di una donna – e della sua bambina in lacrime, intanto a casa con il fratellino neonato – rapita dall'ex marito. Lo spettatore è messo al corrente di ogni trillo, vibrazione o messaggio in segreteria. L'azione vera, un'ordinaria storia di violenza domestica, si consuma però fuori dalle scene. Come in Locke, la sceneggiatura si crea da sé, alla cornetta, e sempre alla cornetta prende vita un piccolo giallo dalla grande emotività. Grazie alla regia attenta e a un interprete dagli occhi empatici, The Guilty è un esperimento che funziona alla perfezione: tutti sono colpevoli di qualcosa, tutti vogliono confessare per alleggerirsi l'anima e tutti, a fine visione, vorranno comporre un numero dal nuovo (questa volta della persona giusta). La solidarietà, così, scatta tanto verso le vittime quanto verso un assassino feroce. Non lasciatevi scoraggiare dall'interlocutore sconosciuto; dal pesante accento straniero. Prendete all'istante questa chiamata. E in certe notti vi sentirete più al sicuro, meno soli. (7,5)

C'era una volta un bambino che sperava di non diventare grande. Gli facevano compagnia gli amici animali – un orso, una tigre, un asino e un canguro –, con cui dividere fantastiche avventure in una radura ai confini della realtà. Il bambino mentiva, alla fine è cresciuto: diventando un uomo segnato dalle esplosioni della Seconda guerra mondiale, un marito assente, un padre poco amorevole. I suoi compagni d'infanzia, inevitabilmente, sono stati dimenticati in nome delle responsabilità. C'era una volta la Disney, storica fabbrica dei sogni, che voleva parlare a grandi e piccini. Continua a farlo tutt'oggi, sì, non inventandosi più niente dal nuovo: i cartoni che prendono vita abbondano, sequel e reboot spettano anche alle vecchie fiabe. Anche il bambino di Winnie the Pooh, dunque, cresce per ragioni di copione. Ha il volto del sempre in parte Ewan McGregor e veste gli abiti di un noiosissimo impiegato che ha rinnegato il passato. L'orso ghiotto di miele si smarrisce a Londra e si mette sulle tracce di lui, a cui spetta il compito di riportarlo dove tutto ha avuto inizio. Favola bucolica nello spirito delle Cronache di Narnia, Ritorno al bosco dei 100 acri racconta pochissimo che non sapessimo già. Chi come me si si aspettava i segreti struggenti di Neverland e Saving Mr. Banks, autentici backstage sulle difficoltà del processo creativo e sull'urgenza della scrittura, probabilmente avrebbe dovuto prima dare un'occhiata al biopic su Alan Milne. Ode spensierata alla leggerezza, agli affetti, al ritorno ai buoni sentimenti, la commedia per famiglie del capace Marc Forster è piuttosto una classica riflessione generazionale che colpisce più gli occhi che il cuore e che qui e lì attinge alla comicità slapstick del meglio riuscito Paddington. Malinconico andirivieni fatto di ritorni alla base e morali risapute, senza buone idee all'interno ma con quel pizzico di magia che sotto Natale non guasta. (6,5)

6 commenti:

  1. Bella carrellata di film, alcuni dei quali vorrei vedere, come The children act e widows, anche se quest ultimo... peccato nn sia all'altezza delle aspettative :/

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Mai visto un simile spreco di talento, e mi ferisce a morte ammetterlo.

      Elimina
  2. Mi solleva vedere che non sono l'unica ad aver patito Widows. Mi ci sono annoiata, mi sono irritata, ho trovato eccessiva la regia e sciapa la sceneggiatura, le standing ovation lette qua e là mi facevano preoccupare.

    In attesa di scoprire The Gulty, il resto è un "carino" generale, con qualche buona idea, qualche bravo attore ma niente di così memorabile.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ah, felicissimo anch'io di non essere il solo. Pensavo di aver visto il film sbagliato: troppo carico, troppo affollato, troppo striminzito. Nell'era del #metoo ci si accontenta di film così didascalici, ma davvero?

      Elimina
  3. Tra questi l'unico su cui avrei puntato qualcosa era Widows e... me l'hai bocciato. Mannaggia. :)
    Io comunque ci credo ancora, visto che nei confronti della povera Gillian Flynn sei inspiegabilmente spietato...

    Di The Wife mi sa che posso fare a meno, già non avendo amato troppo Big Eyes.

    The Children Act sarà anche bello, ma mi fa sbadigliare al solo veder la locandina. XD

    Ritorno al bosco dei 100 acri mi sa tanto di quei film natalizi che specie sotto Natale a me guastano, eccome!

    A 'sto giro non mi resta che puntare quindi su The Guilty, che non conoscevo ma promette bene...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non parliamo di McQueen. La delusione brucia ancora purtroppo.
      Il recupero di The Guilty, invece, è doveroso!

      Elimina