Pagine

lunedì 30 gennaio 2017

Recensione: Le otto montagne, di Paolo Cognetti

Tu sei quello che va e viene, io sono quello che resta. Come sempre, no?

Titolo: Le otto montagne
Autore: Paolo Cognetti
Editore: Einaudi
Numero di pagine: 199 pagine
Prezzo: € 18,50
Sinossi: Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po' scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l'orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia. Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo "chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l'accesso" ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E li, ad aspettarlo, c'è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche. Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, "la cosa più simile a un'educazione che abbia ricevuto da lui". Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito più vero: "Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino". Un'eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.
                                         La recensione
Ci guardavamo per un secondo. Tutto qui. Non se ne accorgeva nessuno, né succedeva di nuovo nel corso della serata, e io non ero sicuro di interpretare bene il significato di quel saluto. Poteva voler dire: mi ricordo di te, mi manchi. Oppure: sono passati due anni ma sembra una vita, non ti pare?”
Sono nato su un'isola. Ho avuto la fortuna di viaggiare un po', con la scuola, e ho visto in minima parte quello che c'è fuori – Londra, Barcellona e la Grecia, a bordo di un autobus che s'inclinava pericolosamente nelle curve a gomito –, pur conoscendo poco dell'Italia. Non mi sono mai spinto più a nord di Ravenna. Sono del sud. Un topo di città. Un tipo da mare che però odia la spiaggia. La natura non si fida di me, io non mi fido della natura. Mi spaventa, quasi. Perché sono stato un ragazzino grasso e impacciato, che cascava anche da seduto. Perché studio in Abruzzo, vedo il Gran Sasso imbiancato arrivando in treno e so che, per DNA, siamo piccoli e frangibili. Non sono mai stato in montagna, e delle montagne so soltanto che sono quelle rocce alte e appuntite, con le cime innevate, che mi si parano all'orizzonte mentre viaggio per le strade di certe città. Quando ero più piccolo, ha provato a farmi cambiare idea Mauro Corona: uno scrittore avventuroso, che la natura la ama e la racconta da sempre, ma che con me, purtroppo, aveva fatto fatica. 
Una sera di gennaio, però, mi sono ritrovato a leggere un romanzo che la natura ce l'ha perfino nel titolo. A detta dell'autore, una storia di due amici e una montagna. Così tanta la voglia di scoprire il fortunato Paolo Cognetti, però, da vincere perfino le vertigini e l'insofferenza verso la vita all'aria aperta. L'autore – uno di quelli che piacciono a me, che scrive come parla e parla come mangia – presta la sua voce a Pietro: un bambino con due genitori che si sono conosciuti sulle Dolomiti, un appartamento al centro dell'irrespirabile Milano, una serie di estati tutte uguali. Quando le scuole chiudono, mamma (assistente sociale) e papà (operaio) vanno in ferie e alloggiano a Grana, tra le loro amate montagne. Non si somigliano, Pietro e suo padre: così chiusi da non riuscire a trovare punti in comune, se non le esplorazioni e l'arrampicata. Assicurati dalla stessa imbracatura, legati stretti, possono provare finalmente un illusorio senso di familiarità. La montagna regala a Pietro qualche attimo felice con il genitore, malinconico cronico con la testa altrove, e un migliore amico di nome Bruno. Un coetaneo che se ne sta sempre lì, con le mucche e il gregge, cresciuto a pane e romanzi d'avventura, come se a separarlo dalla valle ci fosse una barriera. Si vedranno ogni estate per trent'anni. Non si daranno mai appuntamento e di rado si parleranno da un telefono a gettoni. 
Ogni volta, si incontreranno quasi per caso: come se, lassù, ci si potesse incrociare come tra dirimpettai. Le otto montagne racconta la spensieratezza dell'infanzia, le frenesie dell'adolescenza e, infine, le eredità che ci riportano a casa. Il rivedersi tanti, troppi, anni dopo e il contarsi i capelli grigi in testa, parlando di seppellire padri, costruire casupole, perdere un amore. Prende spunto, nelle sue riflessioni esistenziali, da una leggenda nepaliana. Soprattutto, si intuisce nei ringraziamenti, dalla gioventù dello stesso Cognetti: figlio degli anni Ottanta, uomo concreto e dall'indole nomade, che viene dalla Lombardia e dal racconto breve. Nel suo ultimo lavoro, il primo firmato con Einaudi, ho trovato i ragazzi e le ragazze di quella generazione; il fare pragmatico e i viaggi per trovare sé stessi; il settentrione e quelle parole setacciate, centellinate, coltivate con parsimonia. A me, in teoria, Paolo Cognetti non dovrebbe piacere: non qui, almeno. Non vi nascondo che, a tratti, con la guida di un protagonista errabondo e introverso, rischiavo di restare indietro di qualche passo. Però c'è che Bruno, un personaggio indimenticabile come pochi, compare in scena e ti emoziona. Perché lui, che eppure scuoia gli animali a mani nude, spala letame da mattina a sera, ha dita nodose e comportamenti da misantropo, è artefice di una poesia tutta sua. E c'è che Le otto montagne è un romanzo intensissimo, commovente, dove gli stati d'animo seguono i bollettini metereologici e i bambini vengono al mondo in ottobre, ché l'amore si fa quando i campi riposano. Ti scalda in questo inverno che non ha pietà. E lo sa la testa, e lo sa la pancia.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran - Castle On The Hill

venerdì 27 gennaio 2017

Mr. Ciak - And the Oscar Goes to: La La Land

Sognavo La La Land da un'estate, un autunno e un altro po'. Da quando ha aperto un festival nel clamore generale e qualche mese dopo, sulla scia degli applausi del pubblico pagante e dei kleenex stropicciati nascosti in tasca, è arrivato agli Oscar diventando un evento. Quattordici candidature complessive e quanta voglia, quella volta a fine agosto, di macinare chilometri e chilometri all'insegna di Venezia. Partire e andare, vederlo e tornare. Qualche chilometro l'ho fatto comunque anche per potermi sedere dove dicevo io, in una sala neanche particolarmente affollata, il primo giorno di programmazione. Ho espatriato, sperando ne valesse la pena. E accoccolato in poltrona, poco prima dell'inizio, mi sono chiesto: e metti che non è bello come hai letto? L'ho temuto, davvero. Per quella mezz'ora in macchina, il parcheggio fuori mano e un multisala trovato tra mille incertezze. Per mio padre che mi accompagnava in uno dei suoi rari giorni liberi. Lo stesso, d'altronde, aveva fatto suo padre con lui ai tempi di Un americano a Parigi e Sette spose per sette fratelli, riproposti in disordine nei cinema parrocchiali, quarant'anni fa. In famiglia, il musical ci ha sempre affascinato. Io l'ho scoperto con Moulin Rouge, una videocassetta pescata in un cestone del centro commerciale, e da allora l'ho identificato con l'armonia e con queste nostre piccole trasferte in auto. Pur essendo pigro; attirato più dai film di nicchia che dai fuochi d'artificio; intonato sì, ma con imperdonabili lacune anche in fatto di Macarena. Un'avvertenza, perciò. Questa è l'ennesima lode sperticata che leggerete. Se la ripetitività non vi giova, anzi, vi fa antipatia, passate con buona pace oltre. Vanno di moda la misantropia e il cinismo. Il rifiutarsi di salire sul carro vincente e, per partito preso, negarsi i fasti di La La Land. Chi non l'ha visto, in questi giorni, scriverà su Facebook che è noioso e sopravvalutato. Un cinema leggerissimo, glamour, colorato. E non va mica bene. Si sottindende che la commedia musicale, così come il jazz e i sentimenti, sia cosa fuori stagione. Ci si sbaglia. Il "mio" Miglior Film è quello popolare, che rivedrei subito daccapo. La festa a cui sono invitati gli appassionati e i passanti occasionali. Chi il piano sequenza non sa neppure cosa sia - lasciano a bocca aperta quelli di Chazelle, tra tip tap colti d'un fiato e ingorghi stradali che fanno tutta un'altra musica - e al Cinemascope, allo scintillio del Technicolor, non ci bada; in compenso, però, ama svanire nella magia di una storia e rimuginarci sopra sulla strada del ritorno. Quella di La La Land è elementare: un'aspirante attrice conosce un aspirante pianista. Lei prepara i caffè, lavorando alla stesura di un monologo che si preannuncia un fiasco; lui strimpella canzoni di Natale, piangendo la chiusura dei cinema d'essai e dei locali jazz. Come coniugare vita pubblica e vita privata? Al successo, premettere sempre l'amore? Ryan Gosling, bello e talentuoso in egual misura, ha imparato a suonare il pianoforte durante le riprese. Fischietta ritornelli che non scaccerai più dai pensieri, calza senza difetto le scarpe da ballo. Indispensabile e burbero principe azzurro, si muove alla spalle di un'inarrivabile Emma Stone. Interprete, al contrario del protagonista di Blue Valentine, che a volte mi piace e a volte no. Con quegli occhi grandi, con quel sorriso che le increspa tutto il viso, spesso esagera. Ma qui gli occhi passano da ridenti a colmi di lacrime in un attimo. Sul viso le scorrono tutte le espressioni, le smorfie, la meraviglia di questo mondo. Bellissima in blu, verde, giallo. Bravissima con i piedi ballerini e il falsetto, su uno scenario dai colori pastello. Soprattutto, con addosso una felpa col cappuccio lilla e alle spalle un anonimo sfondo nero. Quando canta con un filo di voce e un gruzzolo di speranze tutte rotte e, così facendo, compone un epitaffio per chi le ha lasciato in eredità questa stessa fame, questa stessa follia. Potrebbe mettercisi di mezzo la vita. A gamba tesa, disarmonica e scordinata com'è. Mia e Sebastian, amanti che hanno paura di perdersi e di svendersi, riusciranno a stare al passo? Le quattro stagioni dell'amore si affastellano su una panchina. Quel finale, etereo ma realistico, struggente, è un colpo al petto. Chazelle ammicca al passato – dalle sciantose di Grease ai tramonti di West Side Story, dalle giravolte di Cantando sotto la pioggia ai voli impossibili di Moulin Rouge - e nelle sue numerose strizzate d'occhio, in seno alle costellazioni, scrive la storia di due sognatori sopraffatti da una giungla d'asfalto. A proposito delle occasioni perse e ritrovate, di certi amori che sono stelle fisse o forse semplici meteore, del sogno di una zia parigina che fece un tuffo nella Senna e ne morì. Ci si prende per mano, si scappa. Il tunnel, per fortuna, sbuca su un dipinto di Monet in cui il tempo si è fermato. La La Land è quella bolla di sapone. Una campana di vetro, una dimensione dell'anima. Una fiaba postmoderna, acre, incastonata nella miracolosa cornice di un “se”. Il cinema che unisce e perdura. Quello con la lettera maiuscola. (9)

mercoledì 25 gennaio 2017

Recensione: Il cuoco, di Harry Kressing

Titolo: Il cuoco
Autore: Harry Kressing
Editore: E/O – Gli intramontabili
Numero di pagine: 254
Prezzo: € 16,00
Sinossi: Dalla notte in cui Conrad arriva a Cobb, niente sarà più lo stesso per gli abitanti della tranquilla cittadina ai piedi del misterioso castello di Prominence. Altissimo, cadaverico, tutto vestito di nero, di lui non si sa quasi nulla. Appena qualche accenno a un passato aristocratico cancellato da un tracollo economico, notizie di amici fra i maggiori notabili della lontana città, e infine la sua professione: cuoco. Appena arrivato prende subito servizio presso la ricca famiglia degli Hill, una delle più antiche del posto, portando con se le ricette migliori (e i coltelli più affilati) per conquistare la loro fiducia. Ma da dove viene? Qual è il suo piano? E perché non si separa mai dal suo coltello preferito? I suoi piatti soddisfano i gusti più esigenti, su questo niente da dire, ma c'è qualcosa di sinistro in lui, di sulfureo. Le sue pietanze non sono solo buone, sono irresistibili. Anzi, di più: sembrano in grado di piegare la volontà anche dei meno golosi. In breve l'intera cittadina verrà soggiogata dalle sue diaboliche arti culinarie, a partire dalle famiglie più importanti, gli Hill e i Vale, dalle cui sorti dipende il destino del maniero di Prominence e dell'intera vallata... Sta per succedere qualcosa nella cittadina di Cobb, qualcosa che i suoi abitanti ricorderanno per molto, molto tempo.
                                         La recensione
Uno sguardo agli ingredienti: un cuoco dai piani imperscrutabili; una città all'ombra di un castello disabitato; due famiglie rivali; tre rampolli malleabili. Comprimari, sale e pepe quanto bastano. Da servire al sangue. Tempo di lettura: due giorni.
Se fosse una ricetta, il romanzo di Harry Kressing – scomparso ventisette anni fa, con una bibliografia rada e più di qualche mistero alle spalle – sarebbe una di quelle semplici e stuzzicanti, da consumare all'impiedi. Breve e affascinante, ha un ripieno che fa gola – ai golosi, agli appassionati di letteratura gotica – e il più promettente degli inizi. Già classico a detta dei cultori del genere, salvato dalla provvidenziale ristampa E/O da un destino di bancarelle da spulciare e pagine ingiallite, racconta con stile elegante ed ironico l'arrivo di Conrad in quel di Cobb. Un borgo fuori dal tempo, in cui nessuno ha dimenticato i livori tra gli Hill e i Vale. A diverse generazioni da un'accesa faida, i casati vivono vicini e in armonia. Non abbastanza, però, per unire in matrimonio i loro primogeniti. Senza nozze, per preciso volere di un lontano parente, è impossibile mettere piede nel castello di Prominence. Conrad, imponente e di nero vestito, prende servizio presso gli Hill: ha toni sornioni, coltelli affilati, ricette sorprendenti. Mangia e beve a sazietà, facendo a gara con i più voraci del paese. Rabbonisce cani e gatti rabbiosi con un libro di cucina illustrato che pensa solo ai loro bisogni. Prende i suoi padroni per la gola. Prepara cibi deliziosi, che saziano e, insieme, fanno bene alla linea. Chi è in sovrappeso dimagrisce a vista d'occhio, così, e una ragazza a un passo dall'obesità riesce a indossare l'abito bianco; chi è cagionevole per natura, al contrario, mette qualche chilo sul girovita e acquisisce guance rosse come mele. Qual è la volontà dell'ultimo arrivato, che svecchia un'aristocrazia in decadenza, fa scoccare la scintilla, permette l'ingresso delle élite in quei saloni principeschi ma polverosi? Cosa escogita nell'oscurità di una cameretta stipata di volumi preziosi e gingilli? Il cuoco è un intrattenimento sottile, intrigante, in cui servi e padroni si scambiano gradualmente il posto. A confine fra l'horror e la commedia nera, fra lo splatter di Sweeney Tood e il grottesco della Signora Ammazzatutti, porta un paio di guanti immacolati e un oggetto contundente sotto il cappotto. La prima parte è piacevole, scorrevolissima; la seconda, purtroppo, assai meno. E reduce dalla lettura di un romanzo altrettanto difettoso, similmente deludente nel suo concludersi, ho finito per caricare il buon Kressing di colpe non sono sue. Non lo sconsiglio, ma non mi ha preso. Complici la stanchezza e il momento sbagliato – provato da trame che partono ad arte e si perdono strada facendo -, a tratti mi ha annoiato. 250 pagine, poche di per sé, mi sono parse troppe per sviluppare un soggetto, forse, più adatto a un racconto. L'allampanato Conrad diverte e ammalia – piacerebbe ad Hannibal Lecter, ma anche ai temibili giudici dei programmi gastronomici di ogni dove -, ma non condivide con noi il suo passato e, nella cronaca del suo intelligente colpo di stato, c'è poco o niente per cui meravigliarsi. Il romanzo cuoce a fuoco lento, con prodotti di prima qualità che sfrigolano sotto il coperchio. Ma la meticolosa mise en place, l'attesa che mette l'acquolina in bocca, il profumo ingannevole, non valgono forse il mordi e fuggi: scomodo, e con un ingrediente segreto che non digerisci.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Helena Bonham Carter – The worst pies in London (Sweeney Todd)

lunedì 23 gennaio 2017

Mr. Ciak: Indivisibili, Animali fantastici e dove trovarli, Collateral Beauty, Assassin's Creed, Un bacio

Daisy e Viola sono gemelle. Ma, siamesi, di quelle destinate a spartirsi per sempre l'esistenza. Oppure no? Un medico dice che è possibile separarsi, anche se il pensiero spaventa. Cantano a comunioni e matrimoni, vengono portate in processione come se potessero far miracoli, permettono ai parenti di vivere degli introiti che la loro particolarità comporta. Identiche ma diverse nel carattere, si scontrano: una sogna l'America e l'altra recita l'atto di dolore al mattino, una cerca di distinguersi indossando smalti aggressivi e l'altra si adegua bonariamente, una vuole la libertà e l'altra non lo sa. Ad allontanare Daisy e Viola, cose grandi e piccole: la voglia di sperimentare il sesso, un gelato in centro da non spartire più in due, i piedi puntati contro l'avidità dei parenti. Siamo indissolubili, indivisibili, cantano in coro le protagoniste dell'ultimo film di Edoardo De Angelis. Un dramma girato in napoletano, a cui la colonna sonora neomelodica e il dialetto conferiscono alla ribellione inaspettata poesia. Presentato a Venezia, Indivisibili è un film che mi era passato di mente: dimenticato, sembrava tenersi ai margini di quella nuova gioventù del cinema italiano scoperta lo scorso anno. Mi ha preso alla sprovvista e, a sorpresa, messo sottosopra. Potente, tenero, struggente. Il tassello che ancora mancava e che, nell'indecisione, avrei presentato agli Oscar: perché alcuni casi di coscienza, certi dilemmi, arrivano alla meta in qualsiasi lingua si esprimano. Quanta rabbia, allora, verso quei genitori che se ne approfittano. Quanta angoscia in un epilogo che un po' ti tiene a galla e un po' ti porta giù, dove le vie di fuga si fanno disperate. Indivisibili ha ravvicinati primi piani che colgono i pensieri a voce bassa di due esordienti, Angela e Marianna Fontana, sorprendentemente spontanee. Una regia schiacciante, che contrappone il fascino kitsch di Sorrentino – i figuranti pittoreschi che popolano yacht e parate, la colonna sonora invadente, la decadenza segreta delle città di mare – all'asciuttezza di Mustang. Una lacrima silenziosa, non prevista, che ti scende sulla guancia quando senti pigolare Janis Joplin: prima piano, poi più forte. E un soliloquio che forse si farà duetto, nella sua onestà, completa l'identità di un gioiellino che, oltre a condivide un cuore in due, ne lascia uno spigolo generoso anche per te. (7,5)

Peggio dei detrattori, mi faceva notare un'amica scrittrice, sono i fan. Intransigenti, scettici, spietati. Quando l'arrivo di Animali fantastici era nell'aria, mi sono accorto di essere uno di loro. Come chi è cresciuto tra le pagine della Rowling, non mi lasciavo incantare dalle premesse. Chi ne sentiva la necessità? A parlarvi, una persona incostante di natura, che ha amato infinitamente Harry Potter su carta ma non sempre sul grande schermo. A novembre, perciò, ho mancato Animali fantastici senza dispiacermene. La storia, che si svilupperà in altri quattro film, segue le disavventure di Newt Scamander: timido zoologo che, nella New York degli anni '30, trasporta una ventiquattrore piena di mostri e meraviglie. La valigetta, scambiata per sbaglio, libera per strada i suoi animali – che fantastici, complice una computer grafica ad hoc, lo sono per davvero. A seminare panico e distruzione, il pasticcio dello zoologo o gli emissari del malvagio Grindelwald? Animali fantastici mi ha sorpreso pian piano. Godibilissimo, affascinante, adulto, con un indimenticabile leitmotiv che solletica i ricordi e personaggi da approfondire meglio. Se la trama serba infatti divertenti scene a Central Park, locali charleston e un duplice colpo di scena finale, i protagonisti – timidi, spesso sulle loro – costituiscono un simpatico quartetto, in cui spiccano al momento le smorfie di troppo di Redmayne e la bellezza di Alison Sudol. A caccia di misteri e bestie, il film di Yates ha un forte fascino retrò e cenni a sufficienza alla serie originale – Silente in cattedra, una romantica sorella Lestrange che non vediamo l'ora di conoscere – per rabbonirci. Meno entusiasmo, invece, per un finale parzialmente conclusivo che ci lascia con l'immagine di una New York digitalizzata, distrutta, presa di peso dalle produzioni Marvel. Il resto è una valigia che, se fa difetto nel chiudersi, è per via di incantesimi e divertimento in quantità. E, per la barba di Merlino, chi si aspettava un bagaglio così carico? (7)

Un pubblicitario perde la figlia e, per un soffio, anche il posto di lavoro. Scrive lettere a Morte, Tempo, Amore. E un giorno, in un parco, quelle tre entità gli rispondono di persona. Collateral Beauty aveva, dalla sua, uno spunto affascinante, un cast stellare e un trailer furbissimo. Il dramma natalizio di David Frankel è stato demolito all'unisono; ma il pubblico pagante, in sala, lo premiava. L'ho visto con una segreta speranza: che l'intransigenza della critica ufficiale – quella per cui i melodrammi dai buoni sentimenti sono il male nel mondo – fosse dettata dal pregiudizio. Collateral Beauty, purtroppo, è alquanto indifendibile. Irrispettoso, retorico, sconclusionato. Perché quella trama che vi ho riassunto, sdolcinata ma emozionante, è uno specchietto per le allodole. Perché il padre in lutto interpretato dal solito Smith – qui in fase: ricicliamo pure i pianti imparati con Muccino – ha un punto di vista inefficace, che si perde tra i comportamenti egoisti e avidi dei comprimari. Alcuni dei più grandi attori su piazza, in ruoli marginali e detestabili, accentuano così le voragini di una sceneggiatura che gioca a carte scoperte e, nei suoi ordinari atti di fede, fa acqua. Si salvano in extremis la delicata Naomie Harris, in odore di nomination per Moonlight, e il parziale colpo di scena legato al suo personaggio. Il resto, indeciso tra generi e toni, scandito da bruttissime frasi ad effetto e attimi che non sanno come emozionare, è un mappazzone affollato e insapore, che ambisce invano a imporsi come un moderno Canto di Natale e a raggiungere il cuore. Si resta distanti, involontariamente divertiti: pronti a fargli le pulci. E, se le lacrime arrivano, non sono che per la rara strage di talenti e idee a cui abbiamo assistito.  (5)

Pur non essendo tipo da videogiochi, cresco in una famiglia che colleziona console sin dagli anni Novanta. La fama di Assassin's Creed, non particolarmente amato dai miei ma famoso per le trame ambiziose e una serie di romanzi, è giunta fino a me. Giunto fino a me anche il film, una sera in cui non decidevo io cosa guardare. Con una splendida coppia riunita dal regista del faticoso ma ineccepibile Macbeth e viaggi nel tempo che sono sempre i benvenuti, non mi sono lamentato. Assassin's Creed, però, è una visione sconclusionata, indolore, deludentissima. Tanta azione – un'azione artificiale e coreografica, che poco coinvolge – e dialoghi scarsi a inframmezzare le panoramiche a volo d'aquila, i salti nel vuoto, i muscoli glabri del protagonistia Tu quoque, Fassbender? Spiace constatare che uno dei miei attori preferiti, qui, sia un pesce fuor d'acqua: per fortuna l'ho già trovato straordinario in The Light Between Oceans, quest'anno, quindi fingerò di dimenticare la partecipazione a un blockbuster che, con a bordo uno che non sbaglia mai, prometteva bene. Con lui, un'avvilita Cotillard e la sua pessima doppiatrice. Cosa ci fa un cast così in un film scritto male e di fretta, con effetti speciali che hanno più carattere dei suoi stessi eroi e cerchi che si chiudono senza neanche aprirsi? I videogiochi somigliano sempre di più ai film, ed è un complimento. I film, però, somigliano sempre di più ai videogiochi – divertimento mordi e fuggi, precipitosi e vuoti -, e che tristezza che mettono. (4,5)

Blu scrive lettere aperte alla sé del futuro. Lorenzo anima la vita con inseriti musical che fanno il verso a Glee. Antonio, talentuoso cestista, ha una stanza vuota per metà. Hanno sedici anni, frequentano una scuola di provincia, sono nel mirino del bullo. Si fanno scudo contro l'intolleranza, le prepotenze, le occhiate storte: funzionano meglio insieme. Un bacio, scritto e diretto da Ivan Cotroneo – suo l'adorabile La kryptonite nella borsa -, è una commedia adolescenziale che lo scorso anno ha avuto una discreta fortuna. Bene accolto nei licei, mirato a sensibilizzare un pubblico giovanissimo, è pulito, pensato come un contenitore di temi contemporanei – cyberbullismo, omofobia, violenza nelle scuole –, semplice e televisivo per natura. Modello di riferimento: Noi siamo infinito. Un trio eterogeneo tra gelosie e complicità, la musica, personaggi fragilissimi. Ma piacciono più i riferimenti a Chbosky che a Moccia, parlare di simili problematiche non è mai fiato sprecato e, cosa importante, ci si emoziona: per le famiglie straordinariamente tolleranti; per un finale shock in cui tutto precipita. Cos'è Un bacio? Un film adatto alle scuole, al Giffoni e dintorni, con una bella scrittura, qualche trovata stilistica audace – ma non sempre portata a buon fine -, tre talenti acerbi. Spiace dirlo, ma funziona poco Rimau Grillo Ritzberger: troppo stereotipato, antipatico e sopra le righe per essere il cuore del film. Sorprendenti, invece, Pazzagli – un piccolo Kim Rossi Stuart - e la Romani. Cos'è, ancora, Un bacio? Un gesto troppo candido e troppo istintivo, per chiamare a sé qualsiasi vergogna. (6,5)

venerdì 20 gennaio 2017

Recensione a basso costo: Se chiudo gli occhi, di Simona Sparaco

Si parla troppo delle proprie emozioni, di comportamenti giusti o sbagliati, e nessuno più racconta la storia che c'è dietro. Ma sono le storie a dirci chi siamo e da dove veniamo. Sono le fiabe che ci curano.

Titolo: Se chiudo gli occhi
Autrice: Simona Sparaco
Editore: Giunti
Numero di pagine: 272
Prezzo: € 6,90
Sinossi: Viola nella vita ha imparato molto bene una cosa: a nascondersi. Abiti di una taglia sempre troppo grande, un lavoro che non le dà alcuna soddisfazione e ben lontano dalle sue passioni di bambina, un bravo ragazzo come marito, con cui però, forse, l'amore non c'è mai stato. Poi un giorno, mentre sta sviluppando rullini di gente infelice al centro commerciale, si fa largo tra la folla un uomo alto e dinoccolato, ancora bello nonostante l'età: è suo padre, l'artista famoso, l'irregolare, l'eterno bambino. È tornato, è venuto a cercarla per proporle un viaggio nelle Marche, la loro terra d'origine, e per dirle una cosa molto importante. Ma come fidarsi un'altra volta dell'uomo che l'ha abbandonata? Come credere di nuovo a una delle sue funamboliche storie? La tentazione è troppo forte e Viola accetta. Un segreto custodito per anni condurrà padre e figlia alle pendici dei Sibillini dove Viola sarà travolta da una nuova forza e una nuova luce, proprio come il cielo di quei posti. È un viaggio magico se il prezzo della felicità è abbandonarsi con gli occhi chiusi al potere della vita e all'amore che è pronto ad accoglierci.

                                             La recensione
L'abbandono non prevede rappresaglia: al nemico che leva in alto le mani non puoi sparare al cuore. 
Viola ha ventinove anni e ha già dimenticato come si fa a brillare. Madre di una bambina che le fa mille domande, moglie insoddisfatta di un uomo falciato dalla crisi economica, ha messo in fermo il suo sogno – vivere scrivendo – e lavora in un negozio in cui si stampano fotografie in fretta e a poco prezzo. Sbircia la felicità e le vacanze degli altri, pensa al passato. Finché un giorno non le compare davanti Oliviero: l'artista celebrato, l'uomo che prende e va. Suo padre. Non si vedono da quattro anni e lui, invecchiato ma affascinante, le chiede come se nulla fosso di seguirlo in un viaggio in macchina verso i luoghi della sua infanzia. Quelle Marche che, all'ombra dei monti Sibillini, custodiscono leggende popolari e memorie. Lei, all'inizio recalcitrante, lo segue. Perché quando un padre chiama e ti dice che ha bisogno di te, alla fine non può fare altro che perderti appresso a lui. Quasi un anno fa, a Sessione invernale appena conclusa, scoprivo Simona Sparaco con la sua ultima fatica, Equazione di un amore
Lo immaginavo romantico e tutt'altro che adatto a me e, invece, mi lasciavo sorprendere da una storia tra Roma e l'estremo oriente che parafrasava i sentimenti con il linguaggio delle scienze esatte e descriveva un personaggio maschile, Giacomo, similissimo a me. Rileggendola, ho capito che Simona Sparaco – candidata al premio Strega per il controverso Nessuno sa di noi, già in whishlist – mi piace. Forte, moderna, dall'animo poetico. Se chiudo gli occhi, però, non si è rivelato una lettura memorabile o particolarmente emozionante. In rete dicono che sia forse il meno riuscito dell'autrice romana, e allora posso tirare un sospiro di sollievo. In meno di trecento pagine, parlare del difficile rapporto tra una figlia amareggiata e un padre avventuroso. Rendere la profonda incomunicabilità, darci stralci di tenerissime conversazioni passate, rievocare con toni delicati la storia di un amore mai dimenticato. Gli uomini della Sparaco, fatto sta, mi somigliano molto. Questo Oliviero dipinge in bianco e nero e nasconde gli oggetti a cui è affezionato nel cuore delle proprie sculture. Nel suo studio, quando Viola era piccola, c'era solo uno schizzo a colori: l'immagine di una donna dai capelli rossi, Pauline, amata e persa trent'anni prima. Ma una gravidanza inaspettata, i doveri verso la famiglia, avevano avuto la meglio. In una baita sulla neve, la protagonista scopre che Oliviero ha sempre avuto il cuore altrove e che c'è un fondo di verità nelle fiabe della buonanotte che lui raccontava. Lo accompagna, fiduciosa nel potere delle seconde chance, e si prende il tempo per farsi un esame di coscienza. Cosa le manca davvero? 
Così il resoconto di quell'invidiabile colpo di fulmine, la scoperta di un'eredita fantastica, cambieranno la percezione che Viola ha del mondo, degli affetti, di se stessa. Se chiudo gli occhi è ben scritto e, pur nella sua brevità, affronta tanti temi: troppi. Ho letto d'un fiato le prime cento pagine, mentre ho fatto fatica con le restanti. Mi hanno toccato gli alti e bassi di questo contrastato rapporto padre-figlia, meno il contorno di boscaioli filosofi e magia. Non amo la natura – semplicemente, non sono tipo da passeggiate ad alta quota e scampagnate, quindi le alchimie tra uomo e ambiente tendono ad annoiarmi un po' – e gli innesti di realismo magico non mi incantano. Inoltre, con il senno di poi, appaiono numerose le somiglianze con quell'Equazione di un amore letto prima, ma apparso soltanto l'anno dopo in libreria. E' un romanzo dai colori autunnali e dai richiami seducenti, questo, che mi ha preso meno del previsto. Il pizzico di delusione, però, il senso passeggero di già letto, non mi impediscono di consigliarlo a chi apprezza le piccole saghe familiari, le gioie semplici, i richiami alla mitologia greca e a Madre Natura. Se chiudeste gli occhi, potreste trovarci qualcosa che vi piace. Io, dubbioso, qui e lì li ho aperti e ho sbirciato. E lo scetticismo e la magia, si sa, litigano. Al pari di un genitore e una figlia ai ferri corti.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Tiziano Ferro & Carmen Consoli – Il Conforto

mercoledì 18 gennaio 2017

I ♥ Telefilm: Una serie di sfortunati eventi [come la recensirebbe Lemony Snicket]

Tredici anni fa, non ancora decenne, l'esimio blogger che scrive scopriva una pellicola spiacevole e melanconica assai. Narrava la storia degli orfani Baudelaire, straordinariamente brillanti e tremendamente sciagurati insieme, sopravvissuti all'incendio della loro magione. Dolo o accidente, si domandava il grazioso cherubino – dotato, al tempo, di un adorabile doppio mento e di un paio di occhialini tondeggianti che gli conferivano fascino estremo? Egli seguiva con il fiato in gola il peregrinare di quelle anime miserevoli: Violet, dalle fluenti chiome ramate e dalle scaltre trovate; Klaus, a cui l'infante spettatore invidiava lo sconfinato sapere encicolpedico; infine Sunny, tenera bimba dai denti adamantini e dall'idioma inintellegibile. Chiusa proverbialmente una porta, per quel trio di protagonisti dickensiani si dischiudeva un portone: padrone di casa, ahiloro, un lestofante di attore dotato di velleità artistiche e brama di possesso. Oltre ad essere stato maledetto da un'espressione arcigna, i capelli scarmigliati e la figura allampanata, il Conte Olaf portava in spalla un'altra croce: di lì a poco, le scolaresche delle nuove generazioni – vessate da allarmi meningite, risvoltini, Benji e Fede – lo avrebbero confuso con il quasi omonimo pupazzo di neve di Frozen. Al danno, ordunque, si sarebbe sommata la beffa. Chi può biasimarlo se l'indignazione verso l'inedia, Madre Natura e Let it go lo portarono a macchiarsi di atti nefandi? Chi possiamo incolpare per il mesto andazzo di quello script pazzo? Una serie di sfortunati eventi, visto e rivisto presso il cinematografo, raccoglieva in un'ora e mezza tre di tredici romanzi. Il blogger di cui sopra ridacchiava sommessamente davanti ai lazzi funambolici dell'istrione Jim Carrey, al pensiero stupendo di una Emily Browning cresciuta e all'amara consapevolezza di come la trasposizione facesse un ignominioso ma piacevole taglia e cuci. Cresciuto in altezza e beltà, il blogger aspettava che Lemony Snicket e i suoi orfani avessero di che rallegrarsi, finalmente, con una gioia chiamata Netflix. Otto episodi, una seconda stagione confermata ancora prima di cominciare, la generosa benedizione di un romanzo trasposto ogni due puntate. Restavano la piromania, il cordoglio, i figuranti bislacchi e l'infruttuoso errare da un tutore all'altro: perseguitati com'erano da simboli massonici, disdette e scellerate compagnie teatrali. Una sigla cacofonica invitava a distogliere lo sguardo, a preferire la compagnia della concorrenza. L'impavido blogger, tuttavia, già una volta non aveva abbandonato la sala per rifugiarsi in quella limitrofa, in cui proiettavano qualcosa di ben più gradevole. Non aveva riposto i volumi presi in biblioteca – purtroppo letti senza un criterio preciso – quando il narratore gli aveva consigliato di passare al deviante sfarfallio di Stephenie Meyer. Una serie di sfortunati eventi conserva anche in pillole l'ironia antifrastica, i toni foschi e le violenze ributtanti ai danni di collezionisti di serpenti, linguiste agorafobiche, carpentieri sodomiti in segherie da incubo. Ci sono i colori pastello di Wes Anderson, che esplora il lato oscuro e i siti in cui lo si accusa sovente di contribuire al diabete mellito. I travestimenti di un adorato Neil Patrick Harris, che dimostra di non fare faville soltano nelle feste mascherate con pargoli e marito cordinati al seguito. Il narratore onnisciente, gli usi spropositati di avverbi modali, sprazzi di abusi di minore e di pazienza. Per questione di eccessiva fedeltà filologica, infatti, Una serie di sfortunati eventi ribadisce per sei dei suoi otto episodi l'assodato, con sporadiche aggiunte di retroscena inediti e comprimari ignoti – il banchiere credulone, gli esilaranti scagnozzi del Conte, quelli che hanno tutta l'aria di essere agenti segreti. Per le troppe visioni del film di Brad Silberling, fallace ma memorabile, il blogger avrebbe però dedicato meno spazio a vicende note a menadito, da cui Una serie di sfortunati eventi – nuovo ma, per questa stagione almeno, non abbastanza – si distacca giusto in conclusione. C'è la magia delle fiabe politicamente scorrette e, presto, sopraggiungono l'ovvia ripetitività e una specie di diletto. Quello percepito da spettatori che si compiacciono di essere nei loro principeschi baldacchini, con i tigrati europei ai piedi e un piatto di spaghetti alla puttanesca da piluccare lì accanto, mentre intanto i Baudelaire si struggono e arrancano. Piaghe purulente, gotta e meteorismo a chiunque non digerisca alici, capperi e olive, o si dichiari troppo fragile di cuore per romanzi d'appendice similmente pietosi e rocamboleschi. (7)

lunedì 16 gennaio 2017

Recensione: Fato e furia, di Lauren Groff

Tragedia, commedia. Tutta questione di punti di vista.

Titolo: Fato e furia
Autrice: Lauren Groff
Editore: Bompiani
Numero di pagine: 459
Prezzo: € 19,00
Sinossi: Per alcuni la vita è sogno. Lotto e Mathilde, il ragazzo d’oro e la principessa di ghiaccio, si conoscono alla fine dell’università e si sposano subito: giovani, bellissimi e innamorati, si avviano verso un destino di felicità. Lotto depone senza troppo dolore le ambizioni da attore per diventare celebre come autore teatrale, e Mathilde si rivela la moglie ideale, la musa silenziosa: lui ama le luci della ribalta e lei sceglie il riparo delle quinte, lui è fiducioso e aperto verso le persone e il futuro, lei è più oscura e sfuggente. Ventiquattro anni di matrimonio per una coppia perfetta, quella che vedono - o credono di vedere - tutti da fuori: ma basta cambiare punto di vista e la maschera cade. Il fato cala senza pietà; e Mathilde è la furia che libera un carico di rivelazioni. Con la sua scrittura intensa e luminosa Lauren Groff è riuscita a dare grande respiro narrativo a quella che si può leggere come una pièce teatrale, una tragedia animata da due personaggi folgoranti: perché ogni storia ha due facce, e la chiave di un matrimonio non è la verità, ma il segreto.
                                            La recensione
A un certo punto, sul finire di dicembre, sapevo di dovere leggere Fato e furia ma non sapevo perché. A un certo punto l'ho preso in prestito, l'ho letto e, a tratti, sentito quasi di amarlo: neanche di questa inspiegabile attrazione per una storia pretenziosa, di questa cotta per personaggi antipatici come pochi, conosco tuttavia le ragioni. Il romanzo di Lauren Groff, che su Instagram veniva fotografato fra le mani di Barack Obama, Brie Larson e Florence Welch, è infatti tra quelli più facili da odiare che da apprezzare. Ha anni riassunti in un paragrafo e conversazioni sviscerate in un intero capitolo; si rivela inutilmente intricato nel finale, dopo un'impeccabile prima parte; ha scene di sesso brusche, che fanno a pugni con la comune idea di erotismo, e rarissimi livori per essere, almeno su carta, un dramma matrimoniale a un passo dalle nozze d'argento. Il sesso senza amore. La crisi senza litigi. Lui vanesio, misogino; lei impassibile e passivo-aggressiva. 
L'autrice parte da lontano. Dalla Florida in cui, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, cresce coccolatissimo il nostro Lotto: figlio di una sirena del circo in aspettativa e di un imprenditore locale, arricchitosi imbottigliando acqua; fratello maggiore della precoce Rachel; adolescente brufoloso ma affascinante che fa strage di cuori e, nel periodo speso in un collegio in New Hampshire, svolazza di fiore in fiore, dagli uomini alle donne. Naturalmente melodrammatico, snello e dotato di una voce stentorea, sgomita per diventare attore ma non riesce; con il sopraggiungere della mezza età capirà, ben consigliato, che il suo destino è scrivere. A ventidue anni, mentre si pavoneggia a una festa, scorge dall'altra parte della stanza una ragazza che non si è mai portato a letto. La scena di un film: la folla si apre, lui le chiede di sposarla, lei per scherzo dice sì. Poco dopo sono marito e moglie per davvero. Lo saranno nella buona e nella cattiva sorte. Finché dura. Acquistano una cagnetta e la ribattezzano Dio. Sono pieni di falsi amici, tagliano entrambi i ponti con le loro famiglie. La loro storia è colta e chirurgica. Sgradevole all'occorrenza, ma magnetica sempre. Tra le righe, tra parentesi quadre, il commento in pluralis maiestatis di una narratrice onnipotente. Fato e furia si perde e si ritrova: salta di festa in festa, di forma in forma – romanzo, ma anche pièce teatrale e abbozzo di opera lirica all'occorrenza. 
Ti distrae e ti schiocca all'improvviso le dita in faccia, se vuole gli occhi a sé. Mi aspettavo accuse, recriminatorie e rimpianti come in un moderno Revolutionary Road: invece la Groff racconta un connubio solidissimo; perfetto a una prima occhiata. Ci lavora su quando è notte, inosservata, Mathilde: una compagna mite, una custode impassibile. Ma anche vendicativa, incapace di dimenticare. Una sottile Lady Macbeth che nell'amore, nel loro, vuole crederci con tutta l'anima. Algida e distante, sembra una diva di Hitchcock: la donna che visse due volte – sotto falso nome, sottratta a un passato pieno di porte chiuse e proposte indecenti. Lauren Groff mette a disagio: ambigua, sfacciatamente talentuosa. Di che genere è il suo ultimo romanzo? Ricorda il King meno indagato di La storia di Lisey – si parla, infatti, delle grandi donne all'ombra di grandi uomini -, le doppie verità del telefilm The Affair, le bionde imprevedibili dell'Amore bugiardo. A chi lo consiglierei, se mi è piaciuto subito ma, banalizzandolo, non è che una soap opera scritta ad arte? Cosa c'è al di là della maschera? Cosa si nasconde in quei loro cuori glaciali? Soprattutto, qual è il segreto di un matrimonio felice? Lotto e Mathilde, la sua sposa fedele e silenziosa, sorridono: sembrano svelarsi, ma poi dissimulano tacendo i trucchi del mestiere. Si confermano maliziosi, sudoli e narcisisti. Sfuggenti, all'interno di un romanzo che sfuggente lo è altrettanto, ma irresistibili: per gli spazi bianchi, per il non detto soffocato in un cuscino, per il dubbio che persiste. Per legittima difesa. A proposito di una furia (quella di lei) che plasma come creta il fato (quello di lui).
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – Stand By Me

sabato 14 gennaio 2017

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Hell or High Water, Zootropolis, Sing, Oceania

Golden Globe 2017
Miglior film drammatico, Migliore attore non protagonista, Miglior sceneggiatura
Nell'America rurale di McCarthy e Landsdale, due fratelli si ritrovano per parlare di affari di famiglia all'indomani della scomparsa della madre. Disperati, si danno alla vita criminale. Rapina una banca, scappa, sbarazzati dell'auto e ricicla la refurtiva: poi ripeti. Funzionano meglio di una catena di montaggio, gli Howard, nonostante appaiano litigiosi e male in arnese. Sulle loro tracce, un ranger in là con gli anni che dilata e centellina l'inseguimento dei rapinatori, incapace di arrendersi all'immobilismo della pensione imminente. Hell or High Water è un western moderno, asciutto, solido, che usa la lentezza iniziale un po' per approfondire l'amore-odio tra lo scapestrato Tanner e il pensieroso Toby, il cui rapporto è fatto di abbracci lunghi e falsi spintoni, e un po' per indagare le rughe di un vecchio segugio con la battuta e la pistola sempre pronte. Se Jeff Bridges è prevedibilmente in parte, se Ben Foster è bravissimo ma stento ogni volta a riconoscerlo, sorprendono uno scarmigliato Chris Pine – di solito, più bello che ispirato – e la colonna sonora indie-folk, tutt'uno con le corse e le praterie sterminate. Hell or High Water ricorda i Coen, che di per sé non amo; è sceneggiato da Taylor Sheridan, che anche in Sicario mi aveva colpito ma non troppo. Nominatissimo ai Gotham Awards e outsider ai Golden Globe, dotato di medie da capogiro, mi è parso un film buono, ma senza superlativi assoluti: onesto, ma forse non all'altezza delle lodi sperticate. Qualche difetto imprecisato nella sceneggiatura. Qualcuno, invece, nella regia: dirige il sottovalutato David Mackenzie – suoi splendidi film indie come Perfect Sense -, ma il regista, scozzese nel profondo Texas, non si sente del tutto a casa. Gli manca il guizzo, lo stile. Compensano le interpretazioni sentite, le nobili intenzioni, stivali a punta e camicie di flanella, sulla strada tutta curve di un epilogo improrogabile. (6,5)

Miglior film d'animazione
Judy esce indenne dalla scuola di polizia. Contro tutti i pronostici. Delicata e gracilina, non sembrava tagliata per acciuffare criminali, eppure ce l'ha fatta: distintivo appuntato sulla camicia ben stirata, si trasferisce nella grande città. I genitori lontani, una stanzetta cadente e vicini litigiosi. La sveglia suona presto, al mattino, ma lei è sorridente e volenterosa. A riempirla d'amarezza, però, la scoperta che in commissariato nessuno le mostri il rispetto dovuto. Perché è femmina. Perché è un coniglio alle prese con una professione da animali di grossa taglia. Siamo in un film Disney. Siamo, come in Sing, in una realtà alternativa in cui il regno animale vive nei nostri centri abitati, gestisce i nostri luoghi di potere; dell'uomo, lì, non c'è traccia alcuna. Dell'uomo e dell'intolleranza. Vietato mangiarsi a vicenda, rispettando i gradi della catena alimentare; vietata la prepotenza ai danni di cuccioli e pacifici erbivori. Ma tra il dire e il fare, si sa... Zootropolis è uno dei gialli più accattivanti dello scorso anno. La sottovalutata Judy, infatti, fa coppia con un disincantato truffatore – una volpe che, anziché combattere il cliché, l'ha abbracciato in pieno per legittima difesa – per un'indagine sulla sparizione di numerosi mammiferi, protagonisti di ingarbugliati misteri e inspiegabili raptus. Ci sono gli inseguimenti e i colpi di scena, i cenni a Breaking Bad, la scena topica in cui la poliziotta anticonformista viene sollevata dal caso, i testimoni chiave. Il tutto, in un cartone animato che non dimentica i colori e la magia, i lazzi comici – mamma mia quante risate, con la motorizzazione gestita da un branco di bradipi in vena di freddure – e una morale onnicomprensiva. Zootropolis, metafora quanto mai attuale del mobbing e del sessismo, avvince e fa pensare. Agli stereotipi che ci rendono prigionieri, e perciò risulta particolarmente triste la scelta di assegnare il classico accento napoletano a un ladruncolo da poco, nell'edizione nostrana; al fatto che, se come Judy sei graziosa e donna, ieri e oggi, potrebbero dirti che esistono porte che ti sono state precluse. (7,5)

Miglior film d'animazione, Miglior canzone originale
Un impresario non si arrende a dichiarare bancarotta. Tocca reinventarsi per non soccombere alla crisi. Come attirare aristi e avventori, se non con una gara a premi? Peccato che la cifra in palio, modestissima, venga ingigantita dalle bizze di una segretaria poco affidabile. Allora, attirati dal lauto compenso, fanno la fila alla sua porta cantanti e ballerini, pronti a stupirlo con i loro spettacolari cavalli di battaglia. Una mamma a tempo pieno, decisa a scollarsi dal nido; un jazzista che scimmiotta l'inarrivabile Sinatra; una scatenata chitarrista, con un fidanzato traditore e una certa avversione per la musica mainstream; un'adolescente frenata dall'ansia da palcoscenico;  un ragazzo che ha il difetto di essere gentile e intonatissimo, in una famiglia dedita al malaffare. Sembra un po' School of rock, un po' Pitch Perfect. E Sing, con l'allegria del primo e la dimensione corale del secondo, è esattamente così. Ma siamo in un mondo popolato esclusivamente da animali, che come noi fischiettano le hit del momento e puntano in alto. Siamo, soprattutto, nell'ultimo cartone dei produttori di Cattivissimo me. Il risultato è un musical irresistibile, moderno e colorato, con la colonna sonora più orecchiabile dell'anno scorso – senza dimenticarsi, però, di Sing Street e The Get Down –, doppiatori d'eccezione e bizzarri personaggi che si cimentano con brani che legano le generazioni. Le canzoni, tiriamo pure un sospiro di sollievo, non sono state adattate in italiano. E l'animazione aggiunge groove e guizzi, anziché togliere. Rendendo la solita ma irrinunciabile commedia musicale qualcosa di diverso, con autentici animali da palcoscenico - sorprendono, a tal proposito, le doti vocali del promettente Taron Egerton e della Johansson – e fragorosi acuti, che fan venire giù il teatro. (7)

Miglior film d'animazione, Miglior canzone originale
Moana – ribattezzata infelicemente Vaiana, per paura che i nostri infanti, googlandola, si imbattassero nelle grazie della più famosa Pozzi – è un'isolana ribelle con un rapporto d'eccezione con l'acqua. Purtroppo c'è un'antica maledizione a tarparle le ali e sgonfiarle le vele, impedendole la navigazione in alto mare: partita in compagnia di un semidio tatuato e vanesio, l'adolescente dovrà scongiurare la morte della natura e restituire all'oceano il suo cuore sottratto. O una cosa simile. Sarò impopolare, infatti, ma tant'è. Le avventure dell'ennesima eroina femminista dell'ennesimo cartone Disney, immancabile sotto Natale, annoiano più dell'ultimo Terrence Malick. Le canzoni, già di per sé poco orecchiabili, sono state oggetto di un raffazzonato adattamento italiano; l'animazione tenta di coinvolgere i nostalgi come il sottoscritto con strizzate d'occhio a Hercules, ma non riesce, perché bella e senz'anima; il lieto fine, scontatissimo, non arriva abbastanza presto. Ma, a parlarvi, c'è uno che i film d'animazione di solito li evita senza farne un mistero e, qualche anno fa, non si era fatto incantare né dalla poesia troppo infantile di Inside Out, né dalle scopiazzature dell'indigesto Arlo. Il mio personaggio preferito, pensate un po', il galletto strabico che consente qualche raro sorriso qui e lì. Il resto, nel mio caso, se lo portano via le onde e il vento non appena si distoglie lo sguardo. (5)

giovedì 12 gennaio 2017

Recensione: Il Nido, di Cynthia D'Aprix Sweeney

Non è compito tuo essere lo specchio di qualcun altro.

Titolo: Il Nido
Autrice: Cynthia D'Aprix Sweeney
Editore: Frassinelli
Numero di pagina: 372
Prezzo: € 19,00
Sinossi: Aveva deciso di creare un fondo per i suoi figli. «Niente di importante», aveva più volte ripetuto, «un piccolo nido, un investimento prudente, di cui potrete godere col tempo, senza sfruttarlo.» Ex genio messo in ginocchio dalla crisi del 2008, Leo è il maggiore dei quattro fratelli Plumb, babyboomers abbondantemente adulti secondo l'anagrafe e altrettanto sprovveduti nella realtà di ogni giorno, con le loro vite irrisolte e sempre in attesa del «Nido», l'eredità che il padre ha accantonato per loro, e che i fratelli hanno in buona parte già dilapidato prima di entrarne in possesso. Ed è proprio quando i soldi sembrano finalmente a portata di mano che tutto precipita: al matrimonio del cugino, nel tentativo di sedurre una cameriera diciannovenne, Leo carica la ragazza in macchina e finisce per provocare un disastroso incidente. Qualche tempo dopo, in uno di quei mesi di ottobre che a New York sembrano già inverno, Melody, Beatrice e Jack sono pronti ad accogliere il fratello appena uscito dal centro di riabilitazione. Ma è lui che preferirebbe evitare di vederli. Perché dovrebbe spiegare come – per riparare i danni dell'incidente – si è giocato anche la loro parte di eredità. E così intorno al «Nido», e a causa sua, i fratelli Plumb intesseranno una ragnatela di equivoci e inganni, segreti e bugie e tradimenti, nella quale loro stessi finiranno intrappolati. Trascinante, commovente, divertente e dissacrante, Il Nidoè un concentrato di personaggi unici, un brillante riassunto delle ultime puntate della nostra Storia, un ironico bilancio generazionale e, in conclusione, una nuova dimostrazione della massima di Tolstoj: «tutte le famiglie felici si assomigliano. Ma ogni famiglia infelice, è infelice a modo suo».
                                            La recensione
Quando la più giovane di loro spegnerà la quarantesima candelina, i fratelli Plumb, figli di un previdente self made man e di una mamma svampita e disinteressata, erediteranno un'autentica fortuna. Il “nido” è un fondo fiduciario che ha resistitito agli sbalzi d'umore di Wall Street e alle grane della recessione. Cresciuto nel tempo, sembra abbastanza accogliente, su carta, per contenerere l'ego dei quattro e assicurare loro una solida tranquillità economica. Nessuno può metterci mano prima del giorno pattuito, ma una clausola contempla gli imprevisti. In caso di emergenze, per questioni di vita o di morte, la cifra può essere intaccata. Cosa c'è di peggio, in fondo, dell'incidente di Leo Plumb? Il maggiore del quartetto, alla guida sotto stupefacenti e con le braghe calate, è stato coinvolto in un drammatico testacoda insieme all'amante di turno dopo avere abbandonato in tutta fretta un banchetto di nozze. Impossibile salvare il suo matrimonio, ma qualcosa si può fare per mettere a tacere i pettegolezzi: una bustarella qui, una lì, e le modalità dell'incidente non trapelano sui giornali. Il fondo fiduciario gli ha salvato la reputazione come un deus ex machina. Cosa sarà, adesso, dei progetti a lungo termine dei fratelli restanti, che dovranno spartirsi in parti uguali il poco che resta? 
New York è costosissima, come costosissimi sono gli investimenti in cui qualcuno di loro si è imbarcato, pensando di scartare presto il regalo di papà. C'è chi ha ipotecato la casa al mare, chi ha legato la prestigiosa educazione delle figlie alla propria porzione di eredità, chi si è indebitato fino al collo. Scomparsa la rete di sicurezza e con il conto in rosso, toccherà reinventarsi in meno di quattrocento pagine. Il nido, best-seller in patria, è una commedia sofisticata sull'arte di arrangiarsi e i piani B. Sapeste quanto era bello, mesi fa, quando me ne è arrivata in anteprima una bozza. Il romanzo, leggermente diverso da quello che troverete in libreria, era chiuso in una scatola turchese, con in calce il celebre incipit di Tolstoj. Sembrava un pacco regalo e, dietro, c'erano le attenzioni di chi l'ha preso a cuore e ne ha curato nel dettaglio la pubblicazione. So che l'équipe Frassinelli ha amato molto l'esordio di Cynthia D'Aprix Sweeney e, purtroppo, vorrei potere dire altrettanto. La lettura del Nido, invece, non mi ha entusiasmato. I lunghi periodi della D'Aprix Sweeney e la descrizione di quei quartieri elitari, consacrati al prestigio e al cinismo, mi hanno lasciato indifferente. 
Romanzo corale diviso in tre parti – di cui l'ultima è stata quella che ho preferito -, racconta le gioie e i dolori dei Plumb: facoltosi, ma solo di facciata. Jack, antiquario omosessuale, si è sposato in segretezza con il compagno, un avvocato retto e corretto che durante l'avvento dell'Aids l'ha tratto in salvo da una vita promiscua; Bea, frustrata autrice di racconti, non riesce a scrivere il romanzo che tutti aspettano e che lei, senza ispirazione, non ha mai ultimato; Melody, la più giovane, è mamma a tempo pieno di due gemelle adolescenti e prima la scelta del college, poi l'outing di una delle figlie, le regaleranno nuovi grattacapi; e poi c'è il fuggitivo e affascinante Leo, motore della trama e bugiardo patologico, che spezza cuori e semina i suoi fiori della discordia a destra e a manca. Un quartetto di personaggi oziosi e alto-borghesi a cui mi sono affezionato tardi. L'antipatia, tra investimenti azzardati e disastrosi bilanci, all'inizio ha avuto la meglio. Lontanissimi da me, mi hanno reso difficile identificarmi e far mie le loro vicende. Funzionano nelle rare scene d'insieme, riuniti alla stessa tavola: quando il “nido”, da nome in codice di un ambito fondo d'emergenza, diventa sinonimo d'affetto. E, meglio di loro, funzionano i personaggi estranei al loro antico albero genealogico: Stephanie, editor che ha offerto all'inaffidabile Leo il divano e l'amore; Matilda, esotica cameriera con il sogno della musica, che si risveglia dall'incidente in apertura con un moncherino al posto del piede; Tommy, vedovo ed ex pompiere, che ha recuperato sotto le macerie delle Torri Gemelle una scultura di Rodin di inestimabile valore. Perdere un cospicuo patrimonio per una letterale sbandata? Anche i ricchi piangono, dice il proverbio. Ma delle ordinarie disgrazie dei danarosi e sarcastici Plumb, qui colti nell'atto di rimboccarsi le maniche, volendo si può sorridere spesso e di cuore. Il nido, tra le righe, resta un cadeau alle famiglie felici, a quelle infelici, alle nostre. Ma Anna Karenina e i suoi ridenti centoquarant'anni hanno ragione: quanto è vero che ogni famiglia infelice è infelice modo suo. 
I Plumb, a modo loro, lo sono forse fin troppo.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Sam Smith – Money On My Mind 

lunedì 9 gennaio 2017

Recensione: I nostri cuori chimici, di Krystal Sutherland

«Tu sei decisamente stramba, Grace Town.» «Lo so.»
«A me non importa.» «Lo so.»

Titolo: I nostri cuori chimici
Autrice: Krystal Sutherland
Editore: Rizzoli
Prezzo: € 17,00
Numero di pagine: 335
Sinossi: Henry Page ha 17 anni e non si è mai innamorato. Paradossalmente, la colpa è del suo inguaribile romanticismo: Henry è da sempre così aggrappato al sogno del Grande Amore da non aver lasciato spazio alle cotte che da anni elettrizzano le vite dei suoi amici. Non è una scena da film nemmeno il primo incontro con Grace Town: Grace cammina con il bastone, porta vestiti da ragazzo troppo grandi per lei, ha sempre lo sguardo basso. Complice il giornale della scuola, Henry se la ritrova vicina di scrivania, e presto precipita nella rete gravitazionale di Grace, che più conosce, e più diventa un mistero. Grace ha ovviamente qualcosa di spezzato e questo non fa che attirare Henry, convinto di poterle ridonare quel sorriso che fino a pochi mesi prima la accompagnava ovunque. Ma forse il Grande Amore è più amaro di quanto i romantici credano. 
                                            La recensione
Dopo la conoscenza preliminare con lo stile di Elizabeth Strout e Philip Roth, cercavo distrazione con una storia semplice e carina – aggettivi da prima elementare, forse, ma non chiedevo altro. La prima lettura dell'anno, e di un romanzo in pubblicazione di cui potrò parlarvi solo all'indomani della data di uscita, mi aveva tutt'altro che entusiasmato. Dovevo riprendermi da una delusione che sapeva di noia, allora, a colpi di copertine coloratissime, sentimenti giovani e trame confortanti ma scontate. Alla ricerca della delicatezza, a sorpresa, mi sono imbattuto in un romanzo young adult che mi ha dato invece da penare. E che, nel profondo dei suoi moti adolescenziali, è molto meglio del previsto. Uno di quelli che non incrociavo da molto tempo, con frasi da incorniciare, gag moderne e verità universali. Mi vergogno quasi, sapete, a emozionarmi così tanto appresso a romanzi leggeri e sbarazzini. Hai l'età ancora per poco, tu, e ci caschi con tutte le scarpe? I nostri cuori chimici, però, ha fatto il bello e il cattivo tempo a suo piacimento. Quando succede, vinto lo scetticismo, sono dichiaratamente e allegramente fuori di me. L'esordio della Sutherland – andate su Instagram e vedete quant'è carina: sono cotto – racconta una specie di storia d'amore: purtroppo, a senso unico. Henry Page, diciassette anni, preserva la verginità in attesa dell'amore con la lettera maiuscola: dinoccolato e brillante, crede nel prossimo e nell'anima gemella. Ha due imbarazzanti genitori innamorati come il primo giorno; una sorella maggiore, a metà tra una scienziata e un'incensurata criminale; uno scantinato arredato di tutto punto, in cui passa i pomeriggi con gli amici Murray (australiano trapiantato nella provincia americana, che fa folli conquiste conciato come Crocodile Dundee) e Lola (storica ex che, dopo un tragico bacio con il protagonista, si è dichiarata lesbica). Henry, miope e dolce per natura, ha la sindrome del crocerossino. Apprezza le cose rotte, pensando di poterle rimettere in sesto, e l'arte kintsukoroi. Possiamo riempire le ferite di chi ci circonda con una colata di oro liquido, come fanno in Giappone coi vasi scheggiati? 
Ci prova con Grace Town, «un rebus avvolto in un mistero all'interno di un enigma». Scherzano sulla comicità di Liam Neeson; visitano una stazione abbadonata e, da una pozza, pescano un pesciolino di nome Ricky Martin; escono insieme dopo una solenne presentazione con Power Point; riempiono la chat di discussioni che spaziano dalla mancata conoscenza della saga di Harry Potter («Che razza di infanzia hai avuto? I tuoi erano forse nazisti?») alle insolite canzoni dei Pixies e degli Strokes. I nostri cuori chimici è uno di quei romanzi che parlano di me, alla mia maniera. Si può essere gelosi di un mucchio d'ossa? Si può competere con un ricordo? Tocca proteggerci dalle persone come Grace. Nel finale, ci annienteranno. Anche se non sono di quelle protagoniste femminili enigmatiche e fatali, che con un'occhiata tutto possono. Anche se qualche bacetto lo ricambiano, ma poi hanno lo sguardo basso e altrove. 
Qui e lì – nei nomi e cognomi ripetuti, nelle liste per punti, nei figuranti troppo adorabili e ipercaratterizzati per essere veri – è forte il debito verso John Green e Rainbow Rowell. L'autrice, che ha comunque spaziosi margini di miglioramento, stupisce con un umorismo nerissimo, passatempi nerd e sconfinata tenerezza. Strazia quando meno te lo aspetti. L'ultima arrivata a scuola si concia come la serial killer Aileen Wuornos, zoppica aggrappata a un bastone, porta colonia da uomo e passeggia per cimiteri desolati. Impossibile odiarla, anche se farà male al mio alter-ego. Difficile definirla irrisolta, anche se terrà a lungo i suoi misteri e i suoi dolori per sé. Henry si annulla, quasi, per parlarci di lei: alticcia, con una scarsa igiene personale, attratta dall'oblio. Non sta per morire e non è una creatura d'altri mondi: semplicemente, non potrà mai amare quel ragazzo romantico e fiducioso quanto lui farà con lei. Fa parte di quella sparuta categorie di ragazze che vedremo nude, se la fortuna ci assiste, ma non senza armature. Grace Town tratta Henry come un piacevole compagno di viaggio in attesa di farsi polvere. Il narratore è l'altro di un triangolo impossibile: non quello che vorrebbe. Colui che va amato, come in Neruda, «tra l'ombra e l'anima». Questo romanzo dice che non è vero che nessuno si salva da solo. Grace è promessa al passato, a un terzo incomodo, e fa spallucce se la chimica dei loro cuori le rivela che inviare ordini restrittivi alla felicità non cambia lo status quo. Starà meglio, un giorno. Perché la scienza dice che l'amore, così come il dolore, passa. Abbastanza, qualcosa come settant'anni dopo, per scegliere di dividere la tomba con un Henry che fa pensieri macabri e teme l'abbandono? A travolgermi, il fatto che questi Nostri cuori chimici, per il resto, battano assai normalmente. Lui ama lei. E lei non può fare altrettanto; non fino in fondo. Un terzo d'amore è sufficiente? Una parte della ragazza è infatti promessa al mal di vivere, un'altra a chi non c'è. E se hai diciassette anni e (500) giorni insieme, a occhio, è il tuo film preferito, non c'è niente di più struggente.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Smiths – Please, Please, Please, Let Me Get What I Want