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Trilogia di New York, di Paul Auster. Einaudi, € , pp. 314 |
Prima
o poi dovevo conoscerle di persona. Le storie del prolifico Paul
Auster, l’ebbrezza del viaggio in solitaria. In periodo di fermo,
per di più, come rinunciare all’opportunità di un volo diretto a New York? Per l’occasione mi avrebbe fatto da guida lo
scrittore americano secondo soltanto a Woody Allen nel raccontare le leggende della Grande Mela. Ma a tradimento
sono stato lasciato a me stesso in una città straniera, chiamato a
districarmi tra indizi fumosi e parole sibilline: lo ammetto, mai avuto grande senso dell’orientamento. Soprattutto per venire
a capo di romanzi come questi: ambiziosi e ostici, dalle curiose
atmosfere lynchiane, dove tutti parlano per enigmi e sembrano avere
fini imperscrutabili. Nonostante ne riconosca il genio,
semplicemente, il postmodernismo non fa per me.
Trilogia di New York mi è parso un gioco di specchi funambolico e sottile, ma piuttosto fine a sé stesso. E Paul Auster un narratore magistrale, dalle capacità retoriche incontrovertibili, seppure alle prese con del materiale oscuro e fumoso. Come reagite voi davanti a storie del genere? Rispondete al richiamo dell’irrisolto con la fascinazione o con l’irritazione? Alla fine di una lettura ben più faticosa di ciò che le sue sole trecento pagine suggerivano, me lo sono chiesto e richiesto contorcendomi senza pace tra le lenzuola. Se parlano di New York come della città che non dorme, in fondo, un motivo c’è. Vittime come me dell’insonnia – e dell’ossessione, dell’ambizione e della gelosia – anche i protagonisti di questi tre racconti non riescono a chiudere occhio. Inappaganti se letti separatamente, ma connessi in maniera meno coerente del previsto, in comune hanno il tema della ricerca e qualche dettaglio: oggetti e nomi, che di volta in volta assumono però nuovi ruoli e significati.
Trilogia di New York mi è parso un gioco di specchi funambolico e sottile, ma piuttosto fine a sé stesso. E Paul Auster un narratore magistrale, dalle capacità retoriche incontrovertibili, seppure alle prese con del materiale oscuro e fumoso. Come reagite voi davanti a storie del genere? Rispondete al richiamo dell’irrisolto con la fascinazione o con l’irritazione? Alla fine di una lettura ben più faticosa di ciò che le sue sole trecento pagine suggerivano, me lo sono chiesto e richiesto contorcendomi senza pace tra le lenzuola. Se parlano di New York come della città che non dorme, in fondo, un motivo c’è. Vittime come me dell’insonnia – e dell’ossessione, dell’ambizione e della gelosia – anche i protagonisti di questi tre racconti non riescono a chiudere occhio. Inappaganti se letti separatamente, ma connessi in maniera meno coerente del previsto, in comune hanno il tema della ricerca e qualche dettaglio: oggetti e nomi, che di volta in volta assumono però nuovi ruoli e significati.
Scrivere
è un mestiere per solitari. Ti prosciuga. In un certo senso, lo
scrittore non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non
c’è veramente.
Nel
primo racconto, bellissimo, uno scrittore di gialli riceve una
telefonata: scambiato per un investigatore privato, fa luce per sfida
sulle vicende della famiglia Stillman. Lo aspetta il
delirio – a cavallo tra linguistica, teologia e narratologia – di
un professore in cerca dell’idioma di Dio. Si rievocano il mito
della torre di Babele e la gestazione del Don Quisciotte, e Paul
Auster compare genialmente anche come attante.
Nel
secondo, noir ambientato negli anni Quaranta, un detective è
incaricato di spiare un tale dalla finestra del terzo piano. L’uomo
sotto sospetto, però, non fa altro che scrivere o leggere il
classico di Thoureau. Il lavoro dell’osservatore è ossessivo e
solitario; gli lascia troppo tempo per stare in compagnia del
peggiore degli avversari: sé stesso. Se tutti i personaggi hanno nomi di colori – Blue, White, Black, Brown –, è
alto il rischio che le identità si mescolino in una tavolozza tanto
confusa quanto imprevedibile.
Nel
terzo, infine, un critico dalle aspirazioni frustrate è
chiamato a giudicare la produzione manoscritta del migliore amico
scomparso. Nel garantirgli la fama postuma, il
protagonista si addentrerà a tal punto nella vita dell’altro da
rubargli la moglie, il figlio, la madre. Peccato che
l’intreccio si concentri soprattutto sul lavoro filologico e
redazionale del critico, finendo per ricordarmi le noie della mia tesi di laurea.
New
York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e
per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e
quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi
perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni
volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel
consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che
vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi
altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto
interiore.
Trilogia
di New York parla di taxi gialli lanciati all’inseguimento;
travestimenti ed equivoci da vaudeville; saltimbanchi, accattoni e
musicisti. Con il sole e con la neve, con la luce e col buio.
All’ombra transitoria di un simbolo che ormai non c’è più: le
Torri Gemelle.
È un libro sui libri. È un libro sul desiderio comune di scomparire, scivolando dietro il drappo della finzione. È tante altre cose che non ho colto fino in fondo. So dirvi cosa non è però: non un cosiddetto page turner, né una lettura d’evasione. Mi ha trovato smarrito e impreparato, e forse lo sarei stato sempre: con le vicende sospese, infatti, ho un problema. Preferisco quelle organiche e coerenti, senza vuoti da riempire. Tutte le altre mi affascinano moltissimo all’inizio, e dopo un po’ mi stancano. Qui sono andato in visibilio per Città di vetro, ho faticato con Fantasmi, sono arrivato già insofferente alla Stanza chiusa.
È un libro sui libri. È un libro sul desiderio comune di scomparire, scivolando dietro il drappo della finzione. È tante altre cose che non ho colto fino in fondo. So dirvi cosa non è però: non un cosiddetto page turner, né una lettura d’evasione. Mi ha trovato smarrito e impreparato, e forse lo sarei stato sempre: con le vicende sospese, infatti, ho un problema. Preferisco quelle organiche e coerenti, senza vuoti da riempire. Tutte le altre mi affascinano moltissimo all’inizio, e dopo un po’ mi stancano. Qui sono andato in visibilio per Città di vetro, ho faticato con Fantasmi, sono arrivato già insofferente alla Stanza chiusa.
Nonostante
tutto, resta il desiderio di riprovarci con Auster: un talento simile
va scandagliato meglio alla prossima occasione. E la folle tentazione
di andare a New York, quando tutto sarà finito, per cercare di
risolvere in prima persona un giallo che qui non trova risoluzione.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Frank Sinatra – Strangers In the Night