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lunedì 31 agosto 2020

Recensione: Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli

|Tutto chiede salvezza, di Daniele Mencarelli. Mondadori, € 19, pp. 193 |

A volte la mia testa è un brutto posto dove soggiornare. Dentro, proprio sotto questa zazzera di capelli rossiccia sfuggita al mio controllo, sento una polveriera. Basterebbe una scintilla per scoppiare in mille pezzi. Materia cerebrale dappertutto, pugni chiusi, denti serrati. Le mezzelune delle lune impresse sulla pelle tenera dei palmi e la mascella che, a ogni risveglio, scricchiola puntualmente di malessere. Perché a volte anche il corpo fa male di conseguenza, sta male: quando mi dico che non è giornata – anzi, non è vita – e mi trovo a rimpiangere la stasi della quarantena, quegli arresti domiciliari che mi ero fatto stare comodi. Per telefono lo nascondo. Devo proteggere mia madre. Ma a me, invece, chi mi protegge? Nella speranza di stare meglio, ho letto nel buio della mia mente e in quella di Daniele Mencarelli. Per venire a capo di certi pensieri di rabbia e sconforto; per ridimensionarli, senza il bisogno di una diagnosi.

Magari lo spiego male, ma lì ho capito che la scrittura non è un gioco, ‘na noia come me l’avevano sempre insegnata, ho capito a che serve veramente e che è l’unico mezzo che può racconta’ quello che vedo, che m’esplode dentro.
Nel torrido giugno del 1994, anno della mia nascita nonché dei mondiali di calcio, l’autore  viene sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio. Gli amici sono all’oscuro di tutto. Per una settimana Daniele semplicemente sparisce, ricoverato in mezzo ai reietti. A differenza degli altri degenti, lui ha vent’anni, una famiglia comprensiva, il tempo e la speranza di una pronta guarigione. Ma esiste forse una cura alla malinconia di cui si ammala ogni autunno per poi fiorire nuovamente in primavera? Hanno parlato di bipolarismo, di disturbo borderline, di depressione. È colpa della serotonina, che pare che in lui scarseggi. Stanco di star male, Daniele – studente di Giurisprudenza in pausa dagli studi, che intanto installa climatizzatori – ha cercato soluzioni tanto nelle droghe pesanti quanto nella terapia, con mezzi illeciti e leciti. Tutto pur di riuscire ad accettare la vita così com’è: fragile e imprevedibile, talora ingiusta. Perché siamo nati per morire? Dotato del forte sentire tipico delle anime belle, tenero e disperato, cerca salvezza negli antidepressivi e nella poesia. Plateale sia nella disperazione che nella gioia, con il TSO scoprirà la ricchezza dell’ascolto e della condivisione. Fortemente provato nel momento del ricovero, a sorpresa, lo sarà ancora di più in quello delle dimissioni.

Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?
Mario è un maestro in pensione ghiotto di mele cotte, imbabolato a guardare gli uccellini alla finestra. Alessandro è un manovale in stato catatonico. Giorgio è un grande gigante gentile, con le braccia percorse dalle cicatrici dell’autolesionismo, che di notte desidera soltanto che qualcuno gli stringa la mano. Madonnina prega e se la fa nel pannolone. Gianluca, sboccato e a corto d’amore, è una ragazza prigioniera in un corpo maschile. 
Sono questi i compagni d’avventura di Daniele Mencarelli. Sono i buoni, quelli meno pericolosi. Dall’altra parte del corridoio, invece, si levano le urla strazianti dei casi gravi: fanno venir voglia di coprirsi anche col caldo, alla ricerca vana di protezione. Dietro le sbarre e durante i viavai estenuanti i protagonisti sognano un ghiacciolo, una relazione peccaminosa, una nave da crociera sulla quale esibirsi come star d’eccezione. Mentre i medici si appisolano vergognosamente o confondo un paziente con l’altro, tra i matti – per sfidare l’insonnia comune a tutti – si sviluppa un dolcissimo senso di fratellanza. Parlano la stessa lingua dell’autore. La libertà è con loro, o fuori da lì?

Io credo che gli artisti, come certi matti, abbiano dentro di sé il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. È la bellezza la scintilla di tutto. Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che ha cambiato tutto.
Il vincitore del premio Strega Giovani ribalta prigionia e libertà, malattia e sanità. I folli sono i veri saggi? Qual è il discrimine tra la malattia mentale e una personalità sopra le righe? Guarire, se si può, significa uniformarsi agli altri? Per gusto personale, avrei preferito una cronaca più asciutta e immediata, meno didascalica. A tratti, non che sia un difetto, mi è sembrata la tipica lettura che un insegnante di religione o filosofia assegnerebbe ai suoi studenti per le vacanze. Commovente, delicato e soprattutto mai pesante, proprio come mi si assicurava, allevia però gli animi con una galleria di personaggi variopinti e con la simpatia contagiosa dell’accento romanesco. Ventisei anni di distanza dagli avvenimenti rievocati, inoltre, hanno permesso alla scrittura di filtrare i disagi grandi e piccoli – il magna dell’inquietudine di Daniele – per farne poesia. 
Tutto chiede salvezza è stato il romanzo giusto nel mio momento sbagliato. E sì, me ne ha data di salvezza, insieme alla speranza che tutto passerà; che perfino questa frustrazione che provo un giorno potrà tornarmi utile. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Samuele Bersani – En e Xanax

giovedì 27 agosto 2020

Recensione in anteprima: Un uomo a pezzi, di Francesco Muzzopappa

| Un uomo a pezzi, di Francesco Muzzopappa. Fazi, € 15, pp. 142 |

Arriva oggi in libreria l’ultima fatica di Francesco Muzzopappa. Scoperto qualche anno fa e da allora frequentato assiduamente, è riuscito a farmi sorridere in giorni in cui per risollevarmi l’umore sarebbe servita una gru. Nel segno dell’immediatezza e della sincerità, scegliendo una dimensione più intimista del solito, questa volta lascia da parte gli intrecci romanzeschi per mettersi in ballo in prima persona. Il risultato è una lettura personale, leggera, scacciapensieri, che diverte senza mai scadere nel triviale grazie a sketch su sketch: a volte riuscitissimi, altre meno. È un Muzzopappa a pezzi, in pillole: anzi, a puntate, perché i racconti che compongono questo libro dalla copertina pastello somigliano un po’ agli episodi di una sit-com. Come vive un pugliese trapiantato a Milano, per di più nell’ambiente radical chic della pubblicità? Com’è la convivenza con Carmen, libraia “Biancaneve” con il malaugurato pallino del cibo salutare? Tutto diventa aneddoto.

Quando tutti i ragazzi della mia età cominciavano a prendere confidenza con gli indumenti intimi del sesso opposto, io facevo selezione musicale. Quella radio era scalcagnata: non era insonorizzata, non aveva il riscaldamento e quando mi capitava di parlare al microfono vedevo la condensa del mio fiato spalmarsi sul vetro che separava la sala speaker dalla sala regia. Quello, per me, era il senso stesso dell’amore: dedicare il tuo tempo migliore a chi fa di tutto per mostrarti solo i suoi difetti.
I mercatini dell’usato, le mailing list, i ristoranti a chilometro zero, i tagli di capelli, i concorsi pubblici, una gioventù oscura schiacciata nel guscio di un busto ortopedico. Alcuni racconti, di stampo decisamente social, mi hanno fatto pensare ai modi di Matteo Bussola: non li ho preferiti.
Un uomo a pezzi trova infatti la sua dimensione perfetta nella rievocazione di un’infanzia anni Ottanta; di un amarcord caratterizzato da bottiglie di sugo fatto in casa, primi sospiri appresso alle forme procaci della bella Lamù, incontenibile euforia davanti all’arrivo delle giostre assemblate in onore del Santo Patrono.

Sapevo che L’incantevole Creamy era, forse, irraggiungibile, ma non quanto Lamù. Lamù io non avrei mai potuto averla. Lamù era inarrivabile, letteralmente di un altro pianeta. Ma Creamy non era un ripiego, anzi. La amavo sul serio anche se lei non ne era, ovviamente, al corrente. In verità da piccolo ho avuto migliaia di ragazze, quasi tutte inconsapevoli del fatto che le amassi. Molte di loro erano vere, altre disegnate, ma a me non importava. Il sentimento, quando è forte e autentico, basta per entrambi. Che l’altra partecipasse non era richiesto, anzi, a volte mi avrebbe anche dato fastidio.
Ho un problema con l’autofiction. Anche in questo caso, perciò, ho finito per preferire comunque le prove narrative precedenti. Ma è stata una buona occasione per conoscere meglio Francesco: dopo quattro romanzi umoristici, non era forse arrivata l’ora di capire meglio l’uomo dietro il personaggio? Nato sotto il segno dello scorpione, bonario e di sanissimi principi, l’autore mi somiglia un bel po’ nel look – campiamo col peggio di Zara e H&M –, abitudini alimentari – caffè al mattino e abbondante olio di palma nel resto della giornata –, negli inattesi attimi di malinconia in cui il famigerato sarcasmo se ne va a dormire. Dice di tramare vendette sotterranee. Di nutrire tra sé e sé una certa perfidia. Ma a ben vedere è come le friselle della sua terra: sembra tutto d’un pezzo, ma non lo è. Questa lettura è l’equivalente di una chiacchierata informale. Prima o poi, speriamo di farcela di persona! 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Francesco Gabbani – Viceversa

martedì 25 agosto 2020

Recensione: Qualcuno ti guarda, di Lisa Jewell

| Qualcuno ti guarda, di Lisa Jewell. Neri Pozza, € 19, pp. 381 |

Ci sono quei romanzi che pretendono di essere bevuti d’un fiato, a dispetto della mole – parliamo di oltre trecento pagine – e di un blocco del lettore che mi ha voluto piuttosto inattivo nel mese corrente. Il secondo romanzo che leggo di Lisa Jewell si intitola Qualcuno di guarda, è un thriller, ma puoi tranquillamente trovarlo sotto il nome di page turner. Grazie ai capitoli lampo e a un cast di personaggi adorabilmente squilibrati, infatti, risulta talmente scorrevole e intrigante da lasciarsi terminare nell’arco di due pomeriggi in spiaggia. Voliamo in Inghilterra, a Bristol. Il quartiere è di quelli residenziali, da serie TV, con le solite villette a schiera perfettamente allineate e un boschetto alle spalle. Ma in una di queste case al di sopra di ogni sospetto è accaduto qualcosa di terribile. Ci sono una porta accostata, una finestra rotta, una nappina rossa che galleggia in un lago di sangue in cucina: chi è morto? Il romanzo è un nastro che si avvolge su sé stesso e, in lunghi flashback intervallati dagli interrogatori della polizia, procede a ritroso. Non soltanto non conosciamo il colpevole, ma nemmeno la vittima. Comunque andrà, poco ma sicuro, ci sarà lo zampino di Tom Fitzwilliam: un superpreside per cui tutti impazziscono – letteralmente –, con una criniera di capelli brizzolati, un po’ di pancetta e un sorriso senza età. Gli uomini vorrebbero essere suoi amici. Le donne sue amanti. Sì, studentesse comprese.

Ma che cosa succede a un amore che credevi impossibile, una volta che è tuo per sempre? In che cosa si trasforma? Peccato che non ci sia una parola per dirlo, perché è una cosa che meriterebbe una definizione. Il problema di quando ottieni ciò che volevi è che ti resta un gran vuoto dentro e l’unico modo per colmarlo è desiderare, fantasticare e sognare qualcos’altro. Forse c’era proprio questo alla base dell’improvvisa e inaspettata infatuazione di Joey per Tom Fitzwilliam. Era arrivato nell’esatto momento in cui Joey aveva sentito il bisogno di colmare quel vuoto.
Ambito, vagheggiato, sospirato, spiato, Tom non è il protagonista bensì l’oggetto del desiderio. A parlarne, in cerca della sua approvazione o dei peggiori scheletri nell’armadio, sono i personaggi che gli orbitano attorno: Joey, neosposa impulsiva e irresponsabile, tornata dall’ultima vacanza con la fede al dito; Jenna, studentessa con in casa una mamma paranoica e instabile, convinta che ci sia qualcosa di torbido tra il preside e la sua migliore amica; infine Freddie, il figlio brillante e introverso di Fitzwilliam, che all’ombra di un genitore troppo ingombrante, con l’inseparabile binocolo alla mano, spia invidioso e infastidito uno sciamare adorante di vicine, colleghe, adolescenti, ombre dal passato. Intriso di un voyeurismo che da Hitchcock in poi mi trova sempre e comunque affascinato, Qualcuno ti guarda ha il limite di interessare più per le relazioni segrete tra i personaggi che per i suoi scarsi misteri.

Così, anche se sono convinto che mio padre sia un brav’uomo, contemporaneamente temo che invece sia molto cattivo. In fondo preferirei saperlo, sapere se davvero ha fatto qualcosa di brutto, per decidere una volta per tutte che cosa pensare di lui. Perché è tremendo avere due pareri, due sentimenti contrastanti nello stesso tempo. Preferirei averne un solo.
Nonostante l’aura dark della copertina, che in unione con l’editore di pregio suggerisce un contenuto sofisticato, è un romanzo dallo stile lieve – quasi da commedia nera – che pur parlando di pulsioni oscure, coni d’ombra e ossessioni perverse non appare mai davvero spaventoso. Anzi, qualche sfumatura maliziosa di troppo – soprattutto nella resa del focoso ed enigmatico preside –, mi ha fatto sospettare un passato da autrice rosa per la scrittrice. Scritto senza grande impegno, il suo ritorno in libreria si affronta senza grande impegno: nella tradizione dei romanzi da ombrellone che confidano al lettore scelleratezze, perversioni, manie, ma con una verve femminile – ho pensato nei toni a Piccole grandi bugiee Tanti piccoli fuochi – che genera più una divertita curiosità che inquietudine. Senza rancore, ma da un’autrice al suo sedicesimo romanzo, dopo lo struggente Ellie all’improvviso, sarebbe stato lecito aspettarsi più di un semplice tappabuchi. 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Avicii – Addicted to You

giovedì 20 agosto 2020

Recensione: Il colibrì, di Sandro Veronesi

| Il colibrì, di Sandro Veronesi. La nave di Teseo, € 20, pp. 366 |

Se dovessi fare un tatuaggio – il secondo, perché ho già un paio di minuscole virgolette sul polso destro –, sarebbe un colibrì. Ho scoperto che con la sua perseveranza, con il suo volo breve e convulso, potrebbe essere il mio animale guida: perfino stare fermo, infatti, gli costa ben settanta battiti d’ala al secondo. Perché faticare così tanto per starsene immobili? Perché sono condannato a fare altrettanto anch’io, mi domando, che più mi affanno e più ho la sensazione di zampettare sul posto; di volare in tondo, in gabbia? Il romanzo vincitore dell’ultimo premio Strega, amato e odiato come accade soltanto ai best-seller, è stato sapientemente costruito su questa metafora. Il risultato è una prova stilistica altissima, sorretta da un personaggio destinato a restare nel novero dei miei preferiti. Lungi da me salire per partito preso sul carro del vincitore: non si tratta di un romanzo senza sbavature – le ultime cinquanta pagine in particolare prendono una piega new age non all’altezza della bellezza del resto –, e per di più inizialmente non ispirava. Nonostante la sua aura un po’ spocchiosa, un giorno mi ha chiamato e basta. Mi ha parlato. Mi sentivo frustrato come un colibrì, sì: già stanco in partenza.

Tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d'ala al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci a fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all'indietro. Ed ecco perché starti vicino è così bello. E però, quello che a te viene naturale, agli altri riesce difficilissimo. E però, la tendenza al cambiamento, fa parte dall'istinto umano, e tu non la concepisci. E però, soprattutto, questo stare sempre fermo, facendo tutta quella fatica, a volte non è la cura, è la ferita. Ed ecco perché starti vicino è impossibile.
Minuto e sfortunato, l’ottico Marco Carrera è al centro di una biografia immaginifica che mescola realismo e fatalità, coincidenze e incidenti di percorso. Figlio dei facoltosi Probo e Letizia – entrambi estinti –, fratello dei problematici Giacomo e Irene – quest’ultima, forse, morta suicida –, Marco si è visto protagonista di una crescita miracolosa in gioventù e della successiva, amara stagnazione. Prima il divorzio con un hostess vendicativa; poi la strana patologia dell’unica figlia, convinta di avere un filo legato alla schiena; infine l’amore impossibile perché puramente spirituale con Luisa, conosciuta durante una vacanza in Maremma e rivista in estate… Possibile che capitino tutte a lui? Sfortunato in amore, e di conseguenza fortunatissimo al gioco – dal poker al tennis –, Marco scampa ad incidenti aerei come in Final Destination e campa, incolume ma braccato dalle disdette altrui, nel proverbiale occhio del ciclone. La tragedia ha un disegno nitido o si accanisce a caso? Se perseguitato, può forse restarsene quieto? D’altri tempi, sentimentale e credulone, il protagonista disprezza platealmente il sesso e il denaro e si crogiola in una fantomatica vocazione eroica: peccato che si renda parte così, sempre affiancato dalla poco convincente nipote Miraijin, di un’utopia ambientalista che lascia in conclusione un vago disappunto.

Quante persone sono seppellite dentro di noi?

Sandro Veronesi ce lo racconta con la stessa voce narrante che accompagnerebbe una commedia francese. Trasognato e onnisciente, ironico – senza essere né sarcastico né cinico: c’è differenza, spiega –, mi ha sorpreso per il talento affabulatorio degno dei cantastorie di una volta e per l’abilità con cui non si perde, mai. Né nei periodi a volte lunghissimi. Né negli innumerevoli salti temporali. Né nei misfatti grandi e piccoli, rinfrescati grazie a un senso dell’umorismo che gli ho invidiato. Mi ha messo voglia di scrivere lunghe, ottocentesche, caste lettere d’amore; di montare un’amaca nel clou di una bisca clandestina; di approfondire la conoscenza degli anime di Tezuka e delle poesie di Manganelli; di catalogare gli oggetti d’arredo, i plastici e la collezione di Urania di chi non c’è più – provando a rintracciare, magari, la storia nascosta dietro i pochi pezzi mancanti.

Luisa Luisa Luisa Luisa Luisa ti prego sei appena nata non morire anche tu e anche se sono scappato aspettami perdonami abbracciami baciami non è finita la lettera è solo finito il foglio.
Benché immobile, Marco Carrera vive un’esistenza sobria e densa, caratterizzata da svolte contorte e avventurose; talora finanche da sbalzi eccezionali. Ma il suo perseverare – anzi, il nostro – implica anche l’ottuso sottrarsi ai cambiamenti esterni: lo riassume un verbo greco, emmeno, che grazie alla saggezza degli antichi riassume un mondo di contraddizioni insanabili in un’unica parola. Come funziona in ambito lavorativo, l’impiego dei sogni ci verrà forse a cercare? Come funziona in materia d’amore, la persona giusta ci aspetterà pazientemente adeguandosi al nostro non passo? L’aria aperta, eppure, ci tenta. Ma a volte minaccerà fulmini e sette, cieli temporaleschi. Questo romanzo è il senso della vita spiegato da un uccellino in equilibrio malsicuro su un filo del telefono. Erroneamente potrebbe somigliare qui e lì a una specie di lunga via crucis. Invece è un volo che mi ha rubato il fiato.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Levante – Tikibombom

martedì 4 agosto 2020

Recensione: Storia della bambina perduta, di Elena Ferrante

| Storia della bambina perduta, di Elena Ferrante. Edizioni E/O, pp. 451, € 19,50 |

Ho rimandato questo momento finché ho potuto. L’addio a Lila e Lenù, per me già indimenticabili. Avevo paura che avrei provato una nostalgia incontenibile. Invece, a fine lettura, mi ha sorpreso una specie di senso di sollievo. Uscito dalle spire del rione, finalmente tornavo a respirare. È stata una lettura verso cui ho nutrito un rapporto conflittuale. Una bella storia che non necessariamente è una storia bella. Ma piuttosto un capitolo conclusivo lungo, denso, cupo e luttuoso, che si classifica come il più difficile dei quattro e come l’immancabile riconferma del genio di Elena Ferrante: un’autrice nient’affatto consolatoria, amante dei finali che non finiscono mai per davvero.
Le avevamo lasciate negli anni della rivoluzione studentesca e sessuale, davanti all’ennesima scelta avventata di una insopportabile Lenù: dare a Nino Sarratore, il famigerato lupo che perde il pelo ma non il vizio, una seconda opportunità. Mandato all’aria il matrimonio con Pietro, madre di Dede ed Elsa e autrice di due testi accolti con un discreto successo di critica, Lenù viene riacciuffata in viaggio mentre insegne il lavoro e l’amore. Divisa tra Genova, Firenze e Torino, confusa da una relazione annichilente, torna infine a Napoli con la coda tra le gambe. È il richiamo di una sirena.

Ah, che città, diceva a mia figlia zia Lina, che città splendida e significativa: qua si sono parlate tutte le lingua, Imma, qua s’è costruito di tutto s’è scassato di tutto, qua la gente non si fida di nessuna chiacchiera ed è assai chiacchierona, qua c’è il Vesuvio che ti ricorda ogni giorno che la più grande impresa degli uomini potenti, l’opera più splendida, il fuoco, e il terremoto, e la cenere  e il mare in pochi secondi te la riducono a niente.
Nonostante il suo appartamento vista mare, viene inesorabilmente attratta dalla vicinanza col rione: il luogo delle origini dove nel frattempo Lila – brillante autodidatta – si è imposta come diretta concorrente dei fratelli Solara. Immersa nel vecchio quartiere, Lenù racimola nuove idee per un nuovo libro: una denuncia alla maleducazione, alle siringhe nei giardinetti, agli omicidi consumati nel buio del tunnel, al mal di vivere, allo strapotere di Michele e Marcello. Vicine come non accadeva dall’infanzia, sulla soglia dei quaranta, le due amiche saranno coinvolte in una spirale di tradimenti, tornaconti e vendetta. Due sono le possibilità: o essere risucchiate dal cuore paludoso del rione, o bonificarlo. 
Nella prima parte – un’introduzione lunga duecento pagine –, le due amiche condivideranno lo stesso condominio e una gravidanza coordinata. A separare le loro piccole Tina e Imma, così come Dede, Elsa e Rino – il primogenito di Lila da salvare dalla droga –, c’è soltanto una rampa di scale. Le dinamiche sentimentali tra i reciproci figli, coetanei, saranno imprevedibili. Confidenti, arbitre, burattinaie, compagne di disavventura, le protagoniste rischiano di stancare un po’ in una seconda metà sì carica di eventi, uscite di scena e metamorfosi – penso ad Alfonso, che abbraccia la sua controparte femminile e diventa l’alter-ego di Lila –, ma frettolosa: si passa dagli attentati delle brigate rosse agli scandali politici a Montecitorio, fino a citare il crollo delle Torri Gemelle; si accenna perfino al cambiamento repentino in una città in divenire, ormai multietnica, dove si percepiscono nuovi traffici, nuovi profumi, nuove lingue. Più che rievocati, infatti, qui gli avvenimenti vengono riassunti en passant attraverso salti ed ellissi.

Voler bene scorre insieme al voler male, e io non riesco, non riesco a condensarmi intorno a nessuna buona volontà. La Oliviero ha sempre avuto ragione, sono cattiva. Non so mantenere in vita nemmeno l’amicizia. Tu sei gentile, Lenù, con me hai avuto molta pazienza. Ma stasera l’ho capito in modo definitivo: c’è sempre un solvente che opera piano, con un calore dolce, e disfa tutto, anche quando il terremoto non c’è. Perciò, per favore, se ti offendo, se ti dico cose brutte, tu tappati le orecchie, non lo voglio fare e invece lo faccio. Per favore, per favore, non mi lasciare adesso, se no cado giù.
Storia della bambina perduta è un mistero sin dal titolo. Un viaggio sinistro sulle tracce di Lila, nella città in cui parrebbe splendere sempre il sole. Ricordate l’incipit dell’Amica geniale? Lila si era allontanata da casa, era volontariamente scomparsa, e un’anziana Lenù si metteva a scrivere di lei. Ma cercare di dare un contorno alla smarginatura di Lila, tentare di metterla per iscritto arginandola, non significa forse – ancora una volta – tradirla? A malapena scolarizzata, circondata da nembi tempestosi che contribuiscono a conferirle un’istantanea aura leggendaria, la bruna perseguitata dalla tragedia regala a Elena Ferrante alcune delle sue pagine più straordinarie: nei capitoli immaginifici e deliranti dedicati al devasto del terremoto dell’Irpinia, gli unici in cui Lila parla in maniera sibillina del suo curioso estraniarsi, ad esempio sembra portare il caos psicologico che cova dentro all’infuori di sé. Distruggendo il paesaggio con le sue ripercussioni apocalittiche. Cosa cerca in biblioteca, cosa scrive china sul portatile, e perché quell’improvvisa fascinazione verso la storia di Napoli? Guida d’eccezione, Lila ci conduce in uno spaventoso labirinto di Minosse, in cui le cose e le persone a volte ricompaiono a piacimento, per magia o per dispetto. Una città dal passato miserabile e glorioso che si morde la coda, tormentata dai fantasmi degli antichi rivoluzionari e da una putredine ben nascosta sotto la sua monumentalità. E lei finisce per diventarne, così, parte integrante. Uno spiritello vestito di stracci e fuliggine, che nella chiusa – per me perfetta: amara ma non disperata – ci farà salire un brivido freddo lungo la spina dorsale perseguitandoci in un’altra regione, in un’altra esistenza, in un’altra lettura.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli - L'ultimo bacio