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lunedì 30 agosto 2021

Recensione: Sorelle, di Daisy Johnson


| Sorelle, di Daisy Johnson. Fazi, € 17, pp. 200 |

Classe 1990, l'inglese Daisy Johnson vanta primati storici e paragoni illustri. È stata la più giovane finalista al Man Booker Prize e, stando ai commenti della stampa internazionale, il suo stile la renderebbe l'anello di congiunzione tra Shirley Jackson e Stephen King. Davanti a un curriculum come questo, ci ero già cascato con l'esordio. Ma Nel profondo tragedia di mostri e incesti, tanto affascinante quanto nebulosa – non mi aveva convinto affetto. Avrei cambiato idea con Sorelle, incentrato questa volta sul legame viscerale e inquietante tra consanguinee?

Mia sorella è un buco nero. Mia sorella è un tornado. Mia sorella è il capolinea mia sorella è la porta chiusa a chiave mia sorella uno sparo nel buio. Mia sorella mi sta aspettando.

Luglio e Settembre sono nate a soli dieci mesi di distanza. Si completano le frasi a vicenda, mangiano dallo stesso piatto, dormono su un unico cuscino. Perdono la verginità all'unisono. Benché diciassettenni, non sembrano voler abbandonare le sicurezze dell'infanzia. Rifugiate in un microcosmo di fiocchi colorati, giochi proibiti e segreti da svelare, tagliano deliberatamente fuori il resto del mondo: perfino la madre Sheela, scrittrice gravemente depressa, che si limita a essere una custode discreta e a immortalarle talora nei propri libri illustrati. Il romanzo prende avvio con un trasferimento repentino. Dopo essersi lasciate Oxford alle spalle, si stabiliscono nella casa di una zia paterna: un relitto fatiscente, eretto nell'impervia brughiera, occupato da ragni, falene e piante urticanti. Pian piano il lettore si renderà conto della differenza che passa tra le due adolescenti. Mentre Luglio è romantica e fedele, Settembre è dispotica e prevaricatrice. Sottopone continuamente la sorella a crudeli prove di coraggio, a insostenibili riti di iniziazione. Cosa le ha portate a rifugiarsi laggiù? Quella casa che scricchiola nella notte è forse infestata? O il problema sono proprio le due sorelle, con i loro non detti, con i loro traumi da elaborare? Tutte le spiegazioni trovano posto, per fortuna, nelle ultime trenta pagine: meritevoli, anche se prevedibili, stringono il cuore in una morsa d'angoscia.

La Casa ha i muri portanti. Ecco cosa portano: l'infinita tristezza di mamma, gli scatti d'ira di Settembre, la mia muta incapacità di fare tutto quello che gli altri mi chiedono di fare, le stagioni, la morte dei piccoli animali nella macchia qui intorno, ogni parola d'amore o di rabbia che ci diciamo l'un l'altra.

Abbracciando le immagini del genere body horror, Daisy Johnson parla di bullismo e revenge porn, d'identità e malattia mentale. A lasciare dubbi sono le centottanta pagine precedenti; i capitoli brevi e frammentari, simili a schegge fuggevoli o poco più; la mancanza di discorsi diretti; una scrittura lisergica ed evanescente, tutta lazzi e frasi a effetto, che ben presto finisce per annoiare. Si ha l'impressione di conoscere la storia a menadito. Luglio e Settembre, nomi bislacchi e atteggiamenti sibillini a parte, non hanno niente di nuovo da condividere e si muovono stancamente in un immaginario orrorifico già fitto di affinità elettive, parentele mortifere, simmetrie inquietanti. A Halloween si vestono come le gemelline di Shining e, a zonzo, chiedono dolcetto o scherzetto. Nella routine di tutti i giorni scelgono l'isolamento e gli outfit delle protagoniste di Abbiamo sempre vissuto nel castello. E somigliano un po' perfino alle italiane Sorelle Soffici, sottovalutatissimo romanzo di Pierpaolo Vettori uscito ormai dieci anni fa, o a alle protagoniste di uno dei romanzi più memorabili dell'anno, Il valore affettivo, che similmente scandagliava il sangue e i panni sporchi. Confermo a malincuore l'impressione iniziale: Daisy Johnson non fa per me e non la leggerò oltre. Troppo abbozzate le sue trame, troppo evanescente il suo stile. Gira terribilmente a vuoto. Se avete apprezzato il romanzo precedente, andate pure a trovare Luglio e Settembre nel cuore della brughiera. Se, come me, lo avevate già mal sopportato di vostro, sappiate che qui non cambierete idea: leggete i titoli da me citati piuttosto, prendete appunti, e andate a giocare a rimpiattino con altri disagi, con altre sorelle.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Sergio Endrigo - La casa

mercoledì 25 agosto 2021

Recensione: Cattedrale, di Raymond Carver


| Cattedrale, di Raymond Carver. Einaudi, € 20, pp. 226 |

Non mi piacciono i racconti. Qualche mio vecchio post cominciava così: con un'ammissione di colpa. Di lì a qualche mese, con gli autori giusti al momento giusto, avrei cambiato idea. I racconti, infatti, mi hanno tenuto compagnia negli andirivieni in treno durante le supplenze. Belli e vari, spesso sorprendenti, si prestavano alle letture sul breve tratto: ogni ripartenza diventava una storia nuova. Dopo quest'epifania potevo forse lasciarmi sfuggire il capolavoro del padre del racconto breve, per di più in una versione Supercoralli dal prezzo concorrenziale? Ho conosciuto Raymond Carver in vacanza. Dal canto mio, amavo già gli stili minimalisti, le storie di vita vissuta, le narrazioni caratterizzate più dai non detti che da fatti eclatanti. Sono un estimatore di quel cinema indie in cui succede poco o niente, ma è tutto bellissimo; del cantautorato americano. In libreria stravedo per Haruf, Williams, Strout. Perché allora con Cattedrale, la prima pietra da cui gli autori citati hanno senz'altro preso le mosse, non è stato l'amore sperato? Costituita da dodici racconti sciolti, la raccolta racconta con pacato disincanto un Paese di crisi economiche, vizi e divorzi, ciambelle e champagne, sogni inossidabili.

I sogni, be', sono le cose da cui ci si risveglia.

Un uomo e sua moglie vanno a cena da uno strampalato collega di lavoro con un singolare animale domestico e un calco di denti per soprammobile: nel protagonista nasce un desiderio di famiglia che non avrebbe dovuto concretizzare. Una coppia cerca di riaccendere la scintilla nella casa di un amico comune: l'amore sarebbe tale anche altrove? Una donna fa fronte alla disoccupazione del consorte e al frigo in panne. Su un treno per Strasburgo, un uomo medita sul pessimo rapporto con il figlio: meglio saltare quella fermata? Un bambino viene investito nel giorno del suo compleanno ma il pasticciere, all'oscuro, insiste con la torta da consegnare. Tra incubi e tradimenti, un gruppo di venditori di vitamine sperimenta l'alienazione. Un orecchio tappato diventa sintomo dell'incomunicabilità coniugale. In una clinica di disintossicazione in pieno inverno vengono inoltrate telefonate a carico di fidanzate o ex. Una donna con una pistola in borsa attacca bottone con due sconosciuti in attesa al binario. Abbandonato dalla moglie, un papà single conosce un'affabile tata. Due albergatori accolgono una famiglia zeppa di debiti. Un cieco, vedovo di fresco, domanda delucidazioni al marito di un'amica sulle fattezze di una cattedrale.

M'è appena venuta in mente una cosa. Ma tu ce l'ha un'idea di cos'è una cattedrale? Cioè, di che aspetto ha? Capisci? Se qualcuno ti dice “cattedrale”, hai un'idea di che cosa sta parlando? Per esempio, la sai la differenza che passa tra quella e una chiesa battista?

Malinconici e sospesi alla maniera dei dipinti di Hopper, fatti di sguardi smarriti e luoghi sfitti, i racconti non brillano mai per immediatezza. Ma bruciano a fuoco lentissimo e, piano, lasciano apprezzare quella scrittura fredda e severa, pudica e senza apparenti guizzi, frutto di una scarnificazione sudata. La maggior parte di essi, purtroppo, mi ha lasciato indifferente. Carver avrebbe potuto limare ancora, fare un'ulteriore cernita? A cinque, invece, ripenso con emozione. Ricorderò le penne di uno struzzo, un cottage n presto, un telefono che squilla e squilla su un lutto inconfessabile, una magica Mary Poppins della porta accanto e, soprattutto, l'edificio che dà il nome alla raccolta. Annunciata da un documentario sul medioevo alla TV, spiegata prima in teoria e poi in pratica, descritta e soltanto infine disegnata, la cattedrale mostra come a volte le parole non arrivino dappertutto. Allora tocca stringere le mani di uno sconosciuto, impugnare insieme una matita e disegnare portali, guglie e rosoni. Per riscoprire, all'unisono, nel buio, la luce del mondo.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Bob Dylan – Mr. Tambourine Man

martedì 17 agosto 2021

Recensione: La figlia oscura, di Elena Ferrante

 
| La figlia oscura, di Elena Ferrante. E/O, € 9,90, pp. 145 |

Leda è un'altra Lenù. Insegnante, quarantasette anni, da ragazza si è lasciata alle spalle le proprie origini per andare a studiare a Firenze. Ormai realizzata, ha un'aria sofisticata che spinge gli altri a trattarla con deferenza. In vacanza da sola sulla costa ionica, si ripara dal sole battente all'ombra di una pineta e spia con curiosità i rituali dei turisti. L'arrivo di una famiglia napoletana – grassa, invadente, rumorosa – provoca in lei un ribollire di sentimenti confusi e le ispira un flusso di pensieri che la riporta alla giovinezza, alla città che si è lasciata alle spalle pur di realizzarsi. In mezzo agli invasori spicca, per avvenenza e decoro, Nina: una giovane mamma all'apparenza perfetta, che al pari di Leda nasconde tuttavia dolorosi punti di rottura. Mentre la giovane si prodiga in mille moine pur di intrattenere la figlia – i loro giochi ruotano intorno a una bambola, cruciale ai fini della vicenda –, tra lei e la protagonista nasce una fascinazione reciproca; un'attrazione sottile e inspiegabile, dai significati incerti, destinata a cambiarle entrambe.

Certe volte scappare serve a non morire.

Recuperato in previsione dell'arrivo a Venezia dell'omonimo film di Maggie Gyllenhaal, La figlia oscura contiene una Elena Ferrante in pillole amarissime. Sempre riconoscibile, ma questa volta misteriosa, erotica e perturbante come il cinema di François Ozon, l'autrice della leggendaria tetralogia è un fiume in piena. Mai inutilmente accomodante, scandaglia il cuore femminile con la brutale coerenza di chi, ormai, ha stretto confidenza con i propri scheletri nell'armadio. Finestra in frantumi sulle contraddizioni, le insicurezze e le fragilità delle donne, il romanzo parla con toni foschi e simbologie orrorifiche di maternità, identità e abbandono. Ci si può realizzare come esseri umani ed essere al contempo genitori esemplari? Divorata dai sensi di colpa per lo scarso attaccamento alle figlie, che proseguono gli studi a Toronto ospiti del padre, Leda si scopre ipnotizzata dalle premure di Nina e vittima di quel particolare scombussolamento interiore chiamato “frantumaglia”.

Perché hai lasciato le tue figlie?”. Ci pensai, cercai una risposta che potesse aiutarla. “Le amavo troppo e mi pareva che l’amore per loro mi impedisse di diventare me stessa”.

Agli antipodi, in realtà, le due donne sono due facce della stessa medaglia. Nina è la donna che Leda avrebbe voluto essere; Leda è la donna che Nina vorrebbe diventare. Sedute ai lati opposti della spiaggia, si plasmano reciprocamente in un muto dialogo intergenarazionale. Stordente, forse troppo vicino alla brevità del racconto per concedere risposte nette, il romanzo è una vacanza su un mare che sembra un acquitrino. La luce del faro illumina a sprazzi la solitudine di Leda. Affisso sui pali della luce, un volantino annuncia la sparizione di una bambola – una pupattola con le gote di plastica, pochi fili biondicci per capelli e una stupida bocca semiaperta: sul fondo della pancia un gorgogliare di vecchi vermi – e lo struggimento della piccola proprietaria. Cos’è stato di lei, motore di tensioni impensabili? Signora Ferrante, è forse insieme a quelle perdute e mai ritrovate nella cantina di Don Achille?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Patty Pravo – La bambola

sabato 14 agosto 2021

Recensione: L'acqua del lago non è mai dolce, di Giulia Caminito

| L’acqua del lago non è mai dolce, di Giulia Caminito. Bompiani, € 18, pp. 304 |

Quando i best-seller dividono, può capitarmi di leggerli più per curiosità – da che parte della barricata mi schiererò? – che per interesse verso la trama. Sono pronto a lasciarmi sorprendere. È accaduto così con il terzo romanzo della giovane Giulia Caminito, reduce dal successo al premio Strega e dal trantran dei lettori. Qualcuno scommetteva in una folgorazione totale; qualcun altro, invece, mi metteva bene in guardia da pesantezza e lungaggini. L'acqua del lago non è mai dolce è un romanzo difficile per stile e protagonisti, e difficile è stato il nostro rapporto: un amore-odio cresciuto di pagina in pagina, che all'inizio mi ha elettrizzato e all'ultimo mi ha stancato.

Io vorrei dire che tutti mentiamo sulla nostra famiglia, è quello il covo delle nostre più ardite bugie, dove nascondiamo la nostra identità, ci inventiamo favole, proteggiamo ingiustizie, facciamo incetta di luoghi comuni e ci barrichiamo dietro alle grida, le urla, i misteri; ma non è questo che dico, lo guardo e ribatto: Raccontami un’altra storia.

La storia, nel migliore stile dei romanzi di formazione, segue la crescita di Gaia. Si tratta di un'educazione sentimentale dura e rigorosa, ambientata nel peggio della provincia romana: un luogo di piscine mai finite, luna park decadenti e giardini pieni di siringhe in cui la protagonista cresce insieme ai genitori derelitti e a una nidiata di fratelli maschi. Sono i primi Duemila, ma sembrano gli anni Settanta: la povertà è alle stelle, in casa si consumano litigi e rivoluzioni, in salotto non ci sono né il modem né TV. Dopo un'infanzia di abiti smessi e libri di seconda mano, spesa in un lugubre scantinato di venti metri, Gaia si sposta nelle palazzine popolari ad Anguillara. La seguiamo lungo tre stadi della sua esistenza, descritti in un eterno tempo presente: prima le medie, poi il liceo classico, infine la facoltà di filosofia. Spronata da Antonia, indimenticabile mamma, coraggio cocciuta e battagliera come Anna Magnani, Gaia tenta di superare l'imbarazzo per le proprie origini mimetizzandosi tra la borghesia.

La casa che la attende ora è una famiglia, una ferita pulsante, un ascesso scoppiato, un bisturi che ha diviso lembi di pelle.

Tralasciando Antonia, gli altri personaggi non suscitano empatia: gli amici e i fidanzati della protagonista risultano intercambiabili, definiti soltanto dal nome di battesimo, e Gaia resta impressa per l'esagerazione dei suoi gesti. Bulla, vandala, piromane, assassina mancata, tenta la strada delle antieroine indomabili – penso a Lila – ma risulta sgradevole e inverosimile: non un corpo di carne e ossa, ma una semplice voce. All'inizio mi ha irretito, grazie a uno stile denso e barocco, ma complice un prosieguo ridondante ho finito per trovare la scrittura – per quanto bella – ingombrante, pretenziosa. Senza quelle metafore ardite, senza quel periodare ellittico e studiatissimo, mi sarei più soffermato sui drammi dei personaggi – a me, purtroppo, estranei – che sulla confezione? I confronti sono sorti spontaneamente. L'acqua del lago non è mai dolce ha i viavai di Di Pietrantonio, le amicizie tossiche di Avallone e D'Urbano, le arrampicate sociali di Ferrante, e ciò che di nuovo aggiunge – penso, ad esempio, alla vaga denuncia contro i mali dell'eternit o al tema del suicidio – è affrontato con approssimazione. A restare, nel bene e nel male, uno stile che ricorda proprio il fascino del lago di Bracciano: denso, tetro e limaccioso, ma anche stagnante. Qualcuno, tuttavia, sul fondo scorgerà il baluginare di un presepe sommerso; un po' di luce.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Alessandra Amoroso – Immobile

martedì 10 agosto 2021

Recensione: Una vita come tante, di Hanya Yanagihara


| Una vita come tante, di Hanya Yanagihara. Sellerio, € 22, pp. 1091 |

Hey Jude, don't make it bad, take a sad song and make it better. Da qualche giorno, mi scopro spesso a canticchiare la canzone dei Beatles. Stonature e tutto, la dedico al protagonista di questo romanzo e, un po', anche a me stesso. Quando ho iniziato a leggere Una vita come tante – impresa lunga oltre mille pagine – avevo bisogno di un brano triste che facesse pendant con il mio stato d'animo. E di una storia in cui smarrirmi. Pazientemente, senza l'ansia di fingermi spensierato o di aggiornare il blog, mi sono preso del tempo per me e per la mia malinconia. Anziché fuggirla, l'ho assecondata. Fino a quel momento i romanzi più lievi mi infastidivano tanto quanto le hit estive alla radio, e allora ho scelto una vita difficile: la terapia d'urto. Qualcuno mi ha avvisato: leggere un romanzo così disperato sarebbe stato controproducente. Ma vi ho riposto piena fiducia, invece, e ho pregato affinché il mio cuore fosse maltrattato, ma con garbo. Cercavo la catarsi. E ringrazio per il fatto di averla trovata, sì, insieme all'armonia segreta che smussa perfino gli spigoli dei pentagrammi più tristi. Avrei voluto che il ritornello di questa proseguisse all'infinito.

Quando sei fatto come me, devi accontentarti di quello che ti arriva.

Hey Jude, refrain, don't carry the world upon your shoulders. A reggerlo, il mondo, per fortuna ci sono gli amici di sempre. JB, artista di origini haitiane, è specializzato nei ritratti delle persone care: travolto dal successo, rischia di perdersi tra lussi e droghe. Malcolm, architetto di buona famiglia, lavora in uno studio che sta anestetizzando lentamente la sua fantasia. Willem è il classico attore che sbarca il lunario come cameriere: il talento, e soprattutto una nobiltà d'animo commovente, gli spianano la strada verso Hollywood. Né le lunghe sedute di trucco né i viaggi di lavoro distolgono quest'ultimo dal prendersi cura di quel migliore amico e coinquilino che fa letteralmente da centro gravitazionale. Jude porta le maniche lunghe anche in estate, è affetto da una misteriosa zoppia che a volte lo costringe a muoversi in sedia a rotelle, è reduce da un'infanzia da orfano di cui non fa volentieri menzione. Jude sa cantare e preparare dolci, ha mille talenti inespressi, e in tribunale fa faville come avvocato, al punto da guadagnarsi un mentore: Harold, insegnante di rara dolcezza, chiamato talora a raccontarci i protagonisti in prima persona. Jude è un enigma, spesso affascinante, spesso frustrante. Perché crede di non meritarsi nient'altro che il disprezzo? Perché, succube del passato, coltiva una solitudine siderale a dispetto dei molti che gli offrono solidarietà, sesso, vie di fuga? Mitizzato, alla stregua di un personaggio di Hardy o Dickens, non anela alla libertà: non la conosce. Si limita a passare da un aguzzino a un altro, a schivare il contatto fisico, a immaginare lo scherno nascosto dietro un innocuo complimento. Saprebbe meritarselo, l'amore vero? Nonostante tutto, vivrà una delle relazioni più romantiche e sorprendenti di cui serbi memoria.

L’unico segreto dell’amicizia, credo, è trovare persone migliori di te – non più furbe o più vincenti, ma più gentili, più generose, e più comprensive –, apprezzarle per ciò che possono insegnarti, cercare di ascoltarle quando ti dicono qualcosa su di te, bella o brutta che sia, e fidarti di loro, che è la parte più difficile di tutte. Ma anche la più importante.

Quanta violenza nel suo passato. Quanta incertezza nel suo futuro. E l'autrice non ci risparmia i dettagli più sordidi, infelici e rocamboleschi, al punto che – non a torto – qualcuno ha reputato eccessivo l'accanimento verso Jude e irrealistico il suo bagaglio esperienziale. Per me, tuttavia, c'è un malinteso alla base: questo romanzo, tragico senza mai diventare pessimista, non è stato pensato come uno spaccato contemporaneo. Anzi: nonostante l'iconica ambientazione newyorchese, i personaggi vivono in una città sospesa nel tempo, senza traccia di lotte politiche, razzismo o omofobia. Lontani dal divenire storico, creano una storia parallela altrettanto importante, in cui – proprio come sull'Isola che non c'è – non esiste null'altro a parte loro. Sono moltissime le pagine strazianti, in quarant'anni di amicizia, ma ho speso le migliori lacrime soprattutto per le cose belle: non per le brutture. Per la dedizione, la pazienza e la generosità dei personaggi secondari. Per la sessualità, che si fa fluida pur di uniformarsi alla solidità di certi attaccamenti. Per la continua capacità di stupirsi e per l'invidiabile senso di appartenenza. Per chi smette di bere caffè, taglia via la crosta dei toast, bacia con gli occhi chiusi e costringe il protagonista ad amarsi un po'. E a bere, mangiare, smettere di tagliarsi, anche a costo di piantonarlo, portarlo in spalla, afferrarlo per i capelli mentre se ne va alla deriva. La vita è un diritto o un dovere?

A quel punto gli tornava in mente l’affermazione di Harold seconda la quale la vita trovava sempre il modo di ricompensarti per quello che ti toglieva, e si rendeva conto di quanto fosse vera, anche se a volte gli sembrava che la vita non si fosse limitata a ricompensarlo, ma avesse deciso di farlo nel modo più sontuoso, come se cercasse disperatamente il suo perdono e lo ricoprisse di ogni ricchezza, offrendogli tutto ciò che esisteva di più bello e desiderabile nella speranza che superasse il proprio risentimento e le consentisse di accompagnarlo negli anni a venire.

Egoisticamente ho provato il desiderio di non arrivare mai all'ultima pagina. Di allungare ulteriormente i tormenti di Jude, pur di essere ancora parte della routine del gruppo, come accade al cospetto delle sitcom più longeve. Con stile pieno e limpidissimo, Hanya Yanagihara firma una moderna Bohème in grado di comunicare un senso di invincibilità accanto alla precarietà diffusa. In questi appartamenti dai mattoni rossi, con le classiche scale antincendio arrugginite sulla facciata, c'è sempre una festa o una cena. Tra ricadute e accidenti, benché defilati, io e Jude ci siamo goduti i brindisi, le preghiere e le risate: è stato confortante lasciarsi cullare fino al sonno da queste voci, senza mai sentirsi tagliati fuori. La vita come tante di Jude St. Francis, in realtà, è una vita come nessuna, raccontata per di più in un romanzo come pochi. Perché, in definitiva, appare infinitamente tribolata? Semmai il contrario: è fortunata. È raro, infatti, che la vita ci ricompensi per tutto ciò che ci ha tolto. E questa volta mi sono soffermato non su ciò che sottrae, ma su ciò che di miracoloso regala. Hey Jude, ti devo piangere, ti devo abbracciare, ti devo elaborare, ti devo perdonare. Non sei mai stato una canzone triste, ma come avresti potuto saperlo? Non hai mai conosciuto i Beatles, o la tenerezza.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Hey Jude

giovedì 5 agosto 2021

Recensione: La nostra furiosa amicizia, di Rufi Thorpe

| La nostra furiosa amicizia, di Rufi Thorpe. Bollati Boringhieri, € 17, pp. 344 |

Siamo in un quartiere di Los Angeles dove tutto, all'apparenza, è in ordine. Ma agli adolescenti, figli di genitori viziosi o obnubilati dall'alcol, pascolano lungo la costa come bestiole braccate e senza padrone. Qui, al liceo, si incontrano Bunny e Michael: giovani vicini di casa uniti ben più che dalle proprietà confinanti. Lei, mite e accondiscendente per natura, è un bellissimo scherzo della natura che scoraggia i ragazzi ma fa gola, al contrario, agli allenatori sportivi: alta quasi due metri, ha un papà-manager privo di scrupoli, una mamma la cui morte è avvolta dal pettegolezzo e una forza inusitata – a questo allude il titolo originale, da tradurre letteralmente con La regina del knockout. In una frazione di secondo spruzzata di sangue, quella brava ragazza potrebbe trasformarsi in carnefice per difendere il migliore amico. Cosa sarebbe disposta a fare, infatti, pur di proteggere Michael dalle malelingue? Lui, sfacciatamente gay, porta l'eyeliner in classe ed è reduce da un'infanzia dickensiana: separato dalla sorella, affidata nel frattempo alla madre fresca di galera, spreca il suo potenziale accademico e rimorchia di nascosto uomini più grandi su Craiglist. Sentendosi un reietto, reputa impossibile essere amato da un coetaneo. Mentre Michael è maestro dell'inazione, Bunny al contrario vibra di una sconcertante volontà di potenza.

Perché volevamo essere visti così disperatamente? Io la vedevo. Bunny mi riempiva gli occhi. Ma non era abbastanza e questo non mi feriva più. Neanche il modo in cui lei amava me era abbastanza. Forse l’amore non sarebbe mai stato abbastanza. 

Formazione inquieta e pericolosissima, popolata da personaggi spesso indimenticabili, La nostra furiosa amica è un romanzo Young Adult a tinte crime che sorprende sin dalla prima pagina: in esergo, infatti, leggiamo citazioni tratte da Hannah Arendt e RuPaul. Come si possono conciliare una filosofa tedesca e un'icona della TV americana, celebre per la sua sfida tra drag queen? Con uno stile folle e immaginifico, cruento ma pieno di poesia, la bravissima Rufi Thorpe passa dalle riflessioni ossessive sul bene e sul male, sulla predestinazione e sul perdono, alle maratone di reality show che in poltrona mettono finalmente il cuore in pace. Nel corso della lettura, Bunny deve imparare a essere donna e fuori posto – a scuola, purtroppo, è solita scusarsi con tutti per lo spazio che occupa. Michael, invece, a essere uomo e omosessuale. 

Eppure non potevo smettere di stare dalla sua parte. Avrei continuato ad amarla, anche se mi inorridiva. Avrei continuato ad amarla perché era mia.

Sullo sfondo, la cartolina paradisiaca di un luogo lontano da ogni luccichio: una America alla Bret Easton Ellis, dipinta tra tragedia greca e MTV generation, erosa nel profondo dalle dipendenze, dalla violenza domestica, dal bullismo, dall'omofobia. E, perfino, dall'omicidio. Questa polveriera, che nei sogni incendiari del protagonista maschile brucia spietatamente fino alle fondamenta, è connessa a doppio nodo alle scelte di due amici combattuti tra idealismo e ferocia, incanto e repulsione. Sul lungo tratto, le decisioni prese d'istinto minacceranno di unirli e dividerli al tempo stesso. A cosa serviranno le promesse, i “per sempre”, se ci si mette di mezzo la vita? Ce lo ricorderà un epilogo struggente. Anche se pesti, ammaccati e guasti, anche se spinti alle corde dall'incessante divenire del mondo adolescenziale, Bunny e Michael sono elefanti in un negozio di cristalli orgogliosi della distruzione che seminano tutt'intorno.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Video Games